Tornato dall’ottimo, ed
impagabile, giro nel Baltico, eccoci che si ritorna ad alcune certezze e a
molti amori. Banana è da sempre una costante, e qui, pur nella sua brevità,
rimane all’altezza delle mie aspettative. Che invece sorpassa, seppur di poco, la
Taylor di Angel, e invece di molto e con merito lo strano libro di Jennifer
Egan (leggetelo).
Banana Yoshimoto “Andromeda Heights. Il Regno volume 1” Feltrinelli
euro 11
[A: 12/02/2015– I:
23/02/2015 – T: 14/02/2015] - &&&
[tit. or.: Ōkoku.
Sono 1. Andromeda Heights;
ling. or.: giapponese; pagine: 100; anno 2002]
Banana Yoshimoto “Il dolore, le ombre, la magia. Il Regno volume 2” Feltrinelli
s.p. (regalo di Ale)
[A: 25/12/2014– I:
15/02/2015 – T: 16/02/2015] - &&&
[tit. or.: Ōkoku.
Sono 2. Itami, ushinawareta mono no kage, soshite mahō; ling. or.: giapponese; pagine: 100;
anno 2004]
Non
posso che tramare insieme questi due libri dell’esimia Banana, sia perché sono
legati tra loro, sia perché sono entrati nella mia libreria anche loro in modo
congiunto. Ale, sapendo la mia passione per le delicate atmosfere della ormai
cinquantenne giapponese mi ha regalato il secondo volume della quadrilogia “il
Regno”. E come potevo io, prima di intraprendere la lettura del secondo, non
comperare e leggere il primo? Idea ovviamente vincente, che gran parte delle
atmosfere del dolore e della magia avrebbero avuto poco senso senza conoscere
gli antefatti descritti in Andromeda. Complessivamente, mi sembra che l’idea
della scrittrice sia quella di imbastire una saga sul corretto rapporto tra
uomini, e tra uomini e natura, in armonia e senza prevaricazioni. Ci introduce
quindi nella saga della giovane Shizukuishi (che non si capisce perché la
quarta di copertina si ostini a chiamare Yoshie), e nei drammi della sua
inurbazione, dopo una giovinezza vissuta (felicemente anche se duramente) in
montagna. Per agnizioni e rimandi scopriamo quindi la storia della sua vita.
Prima di tutto l’assenza di genitori: non si sa se siano esistiti, e che
funzione hanno avuto (oltre alla procreazione). È presente invece la nonna, di
cui, tuttavia, non abbiamo molte notizie dirette, se non che ha un feeling
speciale con le piante e con la preparazione di tè curativi. Le due vivono
fuori di rotte trafficate (in campagna, ai piedi di un qualche monte), ma
vengono visitate, spesso e con successo, da tutte le persone che hanno bisogno
di cure. La nonna li guarda, li ascolta, e poi prepara una mescolanza sapiente
delle sue erbe. Mai direttamente, ma nel corso di questi due primi volumi,
vediamo come la gente si ristori dalla nonna, o ne prenda i medicamenti
dell’anima. E quanto affaristi senza scrupoli tentino di appropriarsi del suo
commercio, di coinvolgerlo in contesti industriali. Ma le piante non
resisterebbero a colture intensive, o a mono culture. La vita in campagna è
faticosa, senza distrazioni, alzarsi presto, andare alla ricerca delle erbe, la
loro coltura, ricevere la gente, andare a letto stanchi ma appagati. Niente
televisione (e vedremo che ha un senso). Niente richieste ai “malati”: daranno
quello che possono, commisurato alla riuscita delle tisane. La “sinistrosa –
ambientalista” Banana introduce così il concetto di armonia con il creato. Non
abbiamo bisogno di accumulare denaro, ma solo di essere ricompensati il giusto
per quello che facciamo, e per avere il sostentamento per continuare a farlo.
Non ci sono negozi, lì in campagna, sono così vicini e clienti che portano alle
due “maghe delle erbe” quanto serve loro per vivere. Tuttavia l’opera dell’uomo
interviene a modificare il quadro della natura. Cambi di colture e
disboscamenti fanno depauperare la montagna. La nonna cerca di mantenere i suoi
cactus per continuare colture e cure. Non ci riesce. Deve così considerare un
cambio di vita. E radicale: decide di andare a vivere con un coetaneo cui
corrispondeva via mail. In tutt’altri luoghi, trasferendosi con lui a Malta,
dove coltiva i suoi cactus mentre lui insegna inglese a giapponesi in transito.
Shizu decide allora di trasferirsi in città (Tokyo?) dove affitta un
appartamento, ci si installa con i suoi cactus, e cerca di capire come vivere
in città. Con i rapporti mutati, con la differenza di essere immediatamente a
contatto con le persone (e di continuo). Ci vorrà tempo e spazi aperti per
affrontare questa nuova vita. Diventa amica dei gestori di una “izakaya” (un
ristorante informale) dove trascorre la maggior parte del tempo. E che la
indirizzano verso il sensitivo Kaede. Un ipovedente che, al contatto di persone
e oggetti “vede” passati e presenti, rilasciando magie alle persone che vanno a
consultarlo (descrive situazioni, ritrova oggetti, suggerisce comportamenti).
La nostra entra subito in sintonia con Kaede, e ne diventa la fedele
assistente. La sua natura è sempre quella di essere complementare a qualcuno
che ha un dono. Mai in prima persona, ma aiutando a compiere le diverse
attività. L’unica particolarità di Shizu è la capacità di “sentire l’odore”
delle persone. Per questo sente il buon odore di Kaede, anche se non è l’odore
dell’amore, ma dell’ammirazione e dell’amicizia. E sente l’odore di
Shin’ichirō, l’uomo che cura i cactus al giardino botanico, un odore pulito,
forse vicino a quello dell’amore. E con lui comincia una “storia clandestina”
come dice lei, che lui è sposato (infelicemente), e loro si incontrano in cui
“lonely hostel” che abbiamo visto in Giappone (ricordi Ale?). E l’odore cattivo
dei nuovi vicini di casa, che porteranno tanti guasti nella sua vita. Infatti,
dopo ubriacature e liti, si massacrano a vicenda, riducendo in cenere il loro
appartamento e quello di Shizu. Fortuna che molti suoi cactus li aveva
trasferiti da Kaede. Ma altri non si salvano. Piccole riflessioni, allora,
sulla vita e sulle sue complicazioni. Intanto Kaede decide di trasferirsi
temporaneamente a Firenze con il suo amante – manager Kataoka (meglio vivere
all’estero per due gay timidi, forse?), lasciando così il suo appartamento alla
ormai senza casa Shizu. Da questi antefatti, prende il via il secondo libro,
che è sempre più una riflessione della nostra eroina che una racconto di
“avvenimenti”. Con una crasi della pur eccellente traduzione di Gala Maria
Follaco, il dolore del titolo viene privato della “perdita di ombra e magia”,
unendo i tre termini solo da virgole. Certo, il dolore è il filo rosso di tutta
l’opera. Dolore per le perdite, per il modo di vivere degli uomini, per la
mancanza di rapporti. Mancanza che la nostra Shizu ci mostra in modo palese e
duro nel suo rapporto con la televisione. Mentre nel primo, come detto, questa
non c’era, ora lei ne vince una in una lotteria. Ed una volta accesa non riesce
più a staccarsene, come una droga che ne taglia i ponti con il resto
dell’umanità. Una bella descrizione, che faccio mia proprio per la mia mancanza
di apparecchi TV, e che con una difficoltà infinta alla fine riesce a superare.
Ma solo dopo una lunga mail della nonna da Malta, ed una foto della Venere di
Malta (statuina piccola e delicata del Museo Archeologico). Che Shizu
convincerà a visitare anche a Kaede e Kataoka (unitamente ai bellissimi e da me
sempre ricordati dipinti di Caravaggio nella cattedrale di San Giovanni a La
Valletta), facendo in modo che “i suoi amori” all’estero si conoscano e
ribadiscano la sua centralità per loro. Si perdono le ombre, anche. Ad esempio
nel rapporto con Shin, che questi (senza dirglielo) finalmente riesce ad
approdare al divorzio. E a continuare su di un piano uguale ma diverso il suo
rapporto con Shizu. Forse anche la magia si attenua, anche se l’amore per i
suoi cactus rimane sempre, come rimane sempre la sua capacità di creare tisane
e beveraggi per le persone a lei care, e per farle entrare in sintonia. Come
detto, un secondo volume in cui è tutto un susseguirsi di sue riflessioni, e
dove le azioni sono ridotte al minimo. Qualche accenno alla vita maltese della
nonna, i rimpianti (ma neanche tanto profondi) per non sapere nulla del suo
passato familiare, un ritorno veloce di Kataoka, dove, finalmente, loro due
riescono ad instaurare un rapporto non conflittuale, mostrando e rivelando
vicendevolmente i lati migliori di loro stessi. Le passeggiate per le strade
piene di negozi, che inducono riflessioni sulle diversità tra città e campagna,
dove, forse un po’ idilliacamente, Shizu pensa alla felicità di camminare tra
la gente e di avere con loro “rapporti e scambi”. Come la descrizione, breve ma
intensa, del vecchio pescatore e della sua capacità di riversare verso gli
altri le sue conoscenze in fatto di pesci e del modo di cucinarli. E riprendere
questo rapporto nel finale, con il vecchio ormai andato, ma con nipote che
riprende la tradizione, e riprende il discorso con Shizu mentre questa si
preparare ad organizzarsi una cena con oden, udon, wasabi, sashimi, e chikuwabu
(vedi in coda per la descrizione della cena). Certo la nonna continuerà a stare
a Malta (ma forse nei volumi successivi Shizu l’andrà a trovare?). Mentre Kaede
e Kataoka tornano a Tokyo e riprenderanno il modo di vivere, aiutati dalla
crescente assistenza di Shizu. E forse Shizu e Shin troveranno il modo di
finalizzare il loro rapporto e il rapporto che hanno con le piante. Ma
soprattutto Shizu comincia a cambiare dalla chiusura del mondo in campagna alle
aperture del mondo cittadino. Con la speranza di riuscire a creare nuovi modi
di stare. Vedremo. Per ora continua il modo delicato di scrivere di Banana, a
volte forse etereo. E pur tuttavia delicato, e capace di far uscire delle
piccole frasi che suonano e risuonano. Non sono libri che stravolgono la vita,
ma con umiltà portano acqua al loro mulino. A me danno materie di riflessioni.
E non è poco.
“La montagna ci ha sempre donato qualcosa,
eppure gli uomini non hanno sempre accolto quei doni con umiltà.” (vol. 1, 30)
“Finora mi ero sempre sentito solo e triste,
ma con te so che posso continuare a vivere.” (vol. 1, 69)
“Se decido di farlo vuol dire che lo posso
fare. Rinunciare significherebbe essere schiavo del tempo. Se si sta con le
mani in mano quando si desidera qualcosa, si rischia di non ottenerla più…”
(vol. 1, 83)
“Tutti prima o poi invecchieremo, nuove
generazioni nasceranno e il tempo farà il suo corso: esserne consapevoli, in
fondo, non è poi così male.” (vol. 2, 29)
“Amare significa sentire che ogni istante è
irripetibile” (vol. 2, 40)
“So molto bene quanto gli esseri umani
possono essere fragili, e capita a tutti, almeno una volta nella vita, di
vivere momenti particolari e ritrovarsi aggrappati a qualcosa.” (vol. 2, 58)
“Ogni volta che finisce qualcosa, comincia
qualcos’altro. Siamo solo noi a scegliere se vederlo o non vederlo.” (vol. 2,
87)
Queste
le indicazioni per la rilassante cena di Shizu. Il chikuwabu è uno degli
ingredienti per la versione tokyoita degli oden (piatto composto di una zuppa
con vari ingredienti, come uova, radici, alghe, verdure; si consuma, molto
caldo, prevalentemente in inverno), con un impasto simile a quello degli udon
(pasta lunga di farina di frumento di formato piuttosto spesso), a cui si
conferisce una forma cilindrica, prima di cuocerlo a vapore. I sashimi, invece,
sono fettine di pesce crudo che si consumano con un intingolo a base di salsa
di soia e wasabi (vegetale della famiglia del ravanello da cui si ricava una
pasta di colore verde e dal gusto molto piccante).
Elizabeth Taylor “Angel”
Beat euro 9
[A: 04/01/2014– I: 13/02/2015 – T: 19/02/2015] - &&&&
[tit. or.: Angel; ling. or.: inglese; pagine: 300;
anno 1957]
No,
non è l’attrice dagli occhi bellissimi, ma una bravissima scrittrice inglese
del Novecento molto amata in patria, casualmente omonima, e sfortunatamente
ormai morta da quaranta anni. Non la conoscevo, e devo dire sempre grazie alla
fucina delle cure con i libri se mi fa scoprire nuovi autori, nuovi libri di
vecchi autori, ma anche libri che non mi piacciono di autori nuovi o vecchi.
Ogni lettura porta sempre con sé qualcosa (e d’altra parte, come non potrebbe
essere così, dal momento che ogni viaggio porta con sé qualcosa, e chi legge è
un viaggiatore, come sostiene Ale). Ma torniamo alla Taylor. Non fu una
scrittrice prolifica (si citano una decina di titoli) e fu anche molto
riservata (una sua amica incaricata di scriverne la biografia rinunciò dicendo
che non c’erano avvenimenti tali da poter sostenere il peso di un libro).
Amata, ed anche qui lo riporto, anche per alcuni suoi libri per l’infanzia.
Venendo a questo libro, è una lunga carrellata della storia della vita di
Angelica Deverell, detta appunto Angel. La vediamo adolescente che non riesce
ad interagire con i suoi coetanei, immaginandosi una vita altra, piena di
ricchezza e signorilità, lei che vive in una sperduta campagna inglese, che non
ha conosciuto il padre, e con la madre titolare di un negozio di alimentari.
Angel si sente diversa, sente che ha un mondo di “lustrini, begli abiti e
grandi signore aristocratiche” dentro di sé. E per sfuggire la sua triste vita,
decide di scrivere, di mettere sulla carta questo suo mondo sensazionale. Qui
scatta la cifra forte della su vita, la sua arroganza infinita, per cui è certa
di scrivere i migliori romanzi che possano essere pubblicati. Romanzi
sensazionali, ambientati in quel mondo dorato di aristocrazia e fasti di cui
lei ha solo immaginazione, ma che ben si attaglia al primo decennio del secolo
scorso, epoca in cui parte la vicenda. Trova anche un editore, che gli rimarrà
amico per tutta la vita, che nonostante i pareri contrari della sua casa
editrice, decide di pubblicarla. Proprio quel suo mondo fantastico, in un mondo
che invece sta declinando, le porta quel successo cui lei era sicura di
arrivare. Ma ci sarà sempre una crasi fra il suo mondo, la sua vita, ed il
resto dell’umanità. La scrittura le porta fama, e soldi, e benessere. Ma i
critici considereranno i suoi lavori come assurdi e illeggibili (sottofondo:
come fare tanti soldi pubblicando romanzi di genere…). Ed anche la sua vita
sarà sempre destinata all’isolamento ed alla delusione. Si compera una prima
villetta, dove relega la madre a ruolo di governante, ruolo che porterà la
genitrice ben presto verso la tomba. C’è Nora, una giovane che si infatua dei
suoi libri, e che prenderà il posto della madre, rimanendo con lei per tutta la
vita (quasi presa da un affetto lesbico, anche se mai rivelato). Angel in un
primo tempo accetta Nora solo perché sorella di uno scapestrato pittore di cui
lei si è invaghita. Non solo, ma Angel ha deciso che lo ama, e, con una serie
di trovate strane, riuscirà anche a farsi amare e sposare da lui. Siamo nel
momento alto, i soldi sono ancora tanti, e lei compera la grande tenuta di
“Paradise House”, il sogno della sua infanzia.
Da qui comincerà la china, di cui lei, nel suo incosciente isolamento
interno, per cui legge la realtà solo per quello che si accorda con il suo
volere, non si accorgerà mai. Il marito la tradisce, ma lei non se ne accorge.
Scoppia la guerra, e lui parte per il fronte, da cui tornerà senza una gamba,
sempre più depresso, tanto da morire poco dopo annegato in un laghetto della
tenuta. Ma Angel non si accorgerà di nulla, e lo porterà sempre in palma di
mano, ripetendo a tutti quanto sia stata bella ed intensa la sua storia
d’amore. La guerra porta anche ad un repentino calo delle vendite, e della sua
ricchezza, nonostante gli sforzi di Nora di gestire al meglio il poco che entra.
Tutti invecchiano, l’editore va in pensione, i suoi libri cadono nell’oblio e
la vita a Paradise House si trascina piena di stenti. Senza che lei se ne abbia
cura. Ed isolata nel suo mondo dorato, morirà accudita dalla sola Nora, l’unica
che sempre le rimarrà vicino. Isolata sempre e comunque, perché gli altri
saranno incapaci di conformarsi alla sua visione non realistica della vita. Una
figura che ha del grottesco, con punte di patetico e fondi di grande tragicità.
Il tutto reso dalla Taylor con una scrittura che ti tiene sempre lì sulla
pagina, che non stanca, che ti porta a vedere contemporaneamente queste due
facce: la sua realtà e quella di chi gli sta vicino. Ci sono anche alcuni
momenti, direi intensamente personali, quando Angel pensa alla sua scrittura, e
la confronta con i critici, con accenti che la Taylor avrà senz’altro sentito
durante anche la sua, di scrittura. Ma il libro è bello, dolente, e letto con
piacere ti da un balsamo per curare le ferite di quando si pensa troppo a sé
stessi, incuranti di quanto succede nel mondo.
Jennifer Egan “Il tempo è un bastardo” Minimum Fax euro 18
[A: 04/01/2014– I:
01/03/2015 – T: 04/03/2015] - &&&&&
[tit. or.: A Visit from the Goon Squad; ling. or.: inglese; pagine: 391; anno 2010]
Mi
incuriosì per le citazioni libropeutiche, e per aver vinto il Premio Pulitzer
nel 2011. Tanto che decisi di comperarlo senza aspettare edizioni economiche o
sconti. Un piccolo inciso sul Pulitzer, che è eminentemente un premio
giornalistico, ma che, come sottoprodotto, ha anche dei premi che variano dalla
letteratura all’arte ed alla musica; e nella narrativa viene assegnato ad
un'opera di un autore statunitense, che tratti in preferenza della vita
americana. Chiuso l’inciso veniamo ora al libro, che una volta chiuso, vorrei tornare
ad aprire, vorrei tornare ad immergermi nella vita di Benny, di Sasha, di
Dolly, e di tutti i personaggi (anche di Lincoln, perché no) di cui la fertile
mente di Jennifer Egan ha popolato questo spazio. Un libro magistrale, forse
non semplicissimo (pieno di nomi, di rimandi, ed anche di musica, con citazioni
neanche tanto scontate). Ma sicuramente un libro che non mi si scollava di
dosso. Che inizia tra l’altro con una difficile traduzione del titolo. In
italiano ci si rifà al tempo chiamandolo bastardo, come in spagnolo, dove lo si
chiama canaglia. Mentre in francese si ceca di svelare un po’ di più
chiedendosi nel titolo che cosa abbiamo fatto dei nostri sogni. In inglese,
dicevo, è più complicato. Si parla di una visita di una “Goon Squad”, termine
ha origine nella metà degli anni '90, dove indica gruppi di teppistelli che
venivano assoldati per intimidire, e presto passato ad indicare, nel lato
violento, una banda criminale, e nel lato “leggero” un accolita di teppisti. La
Egan lo usa per indicare il nocciolo duro da cui si dipartono le storie, una
specie di band rock degli anni ’70 in quel di San Francisco, con il suo
bassista-manager Bennie (e quanto c’è in lui del grande Bill Laswell?), il suo
chitarrista-fenomeno Scotty, il batterista Bosco e le groupie (Jocelyn, Rhea e
Alice). Il bello, ed il difficile, della storia è che non seguiamo la band in
un percorso temporale sincrono, ma ci vengono sfornati 13 capitoli, che possono
quasi leggersi come tredici racconti (ognuno ha un suo sviluppo interno ed una
sua coesione), ma che sono legati perché nei racconti entrano ed escono i
personaggi della band, ma anche quelli a loro legati, in una specie di
Girotondo alla Schnitzler, che, andando su e giù nel tempo, dai mitici anni ’70
a qualche anno del prossimo futuro (ma forse del nostro presente) cerca di
sviluppare il tema che ad un certo punto dice uno dei personaggi: come siamo
passati da A a B? cioè “com’è successo che da rockstar io sia diventato un
ciccione che nessuno s’incula?”. Da qui capite il riferimento del titolo
francese. Uno degli assi portanti, che parte dalla band di cui sopra, sarà
Bennie, pieno di idee verso la nuova musica che, partendo dal rock puro degli
anni ’70 passa per le propaggini estreme, tra canzoni d’impegno e suoni duri
(forse heavy metal, forse altro). E per le sue capacità di talent e di manager.
L’incontro che farà maturare Bennie è con il divo rock Lou, emblema di tutto il
meglio ed il peggio delle star. Sempre pieno di soldi e droga, con famiglie che
costruisce e sfascia. E con le storie, cui cambierà la vita, con Jocelyn e,
forse, con Rhea. E mentre si imbastiscono i primi tradimenti all’odore di fumo
pesante (con Bennie che non si dichiara ad Alice, così che lei si mette con
Scotty), per riscattare la sua incapacità di suonare e di amare, Bennie fonda
una casa discografica, che avrà un enorme successo nel lanciare nuovi talenti.
Qui si inserisce il secondo volano della storia, Sasha, che dopo una gioventù
sbandata, trova il suo posto come segretaria di Bennie, raddrizzando le storie
che a lui cominciano ad andare storte. Anche se di Sasha sappiamo di più, per
una lunga seduta di analisi, in cui scopriamo la sua pulsione cleptomane, ed il
breve amore per il giovane e belloccio Alex. Bennie, fatta fortuna, con la
moglie Stephanie si sposta nelle zone “in” di New York, dove Stephanie verrà a
poco a poco risucchiata e corrotta dallo star system, e dai nuovi ricchi
repubblicani. Mentre tentava ancora di avere una sua strada come giornalista al
servizio di Dolly, portandosi appresso il fratello giornalista e fuori di
testa, che viene condannato a 5 anni per tentato stupro al Central Park di
un’attricetta che sta intervistando. La vita di Bennie va a rotoli quando si
rifiuta di cedere al mercato (mitica la scena in cui al consiglio
d’amministrazione che vuole portare la casa discografica verso facili successi
porta a colazione della merda, dicendo “Volete vendere merda? Allora mangiate
merda!”), e viene licenziato. Stephanie lo lascia, rifacendosi una vita con gli
alimenti, perché nel frattempo lascia anche Dolly, la cui agenzia di promoter
va a rotoli per un party sbagliato. Sasha sparisce e la troviamo anni dopo,
sposata con Drew, un chirurgo dai buoni sentimenti, vivere ai margini di un
deserto con la brillante figlia Alison, maniaca di Power Point (e molto bello è
il capitolo fatto tutto a slide) ed il secondo figlio quasi autistico Lincoln,
che cerca nei dischi le pause di silenzio (e ne fa una disamina acuta e
coinvolgente analizzando David Bowie ed i Led Zeppelin, i Police e Jimi
Hendrix). Dolly cerca di risalire la china facendo la promoter per un generale
sudamericano in odore di massacri civili, coinvolgendo in un servizio
fotografico l’attricetta dello stupro al Central Park. Ma anche questo andrà a
rotoli, e lei si ritirerà in campagna a fare torte artigianali. Bennie tocca il
fondo, poi trova nuovo sprint in un nuovo matrimonio, e nell’idea (vincente) di
lanciare un concerto live del vecchio Scotty, rimasto sempre nell’ombra, ma
sempre fedele a sé stesso. Anche se ormai imbolsito (come da citazione di cui
sopra). E per il lancio usa come elemento di spinta Lulu, la figlia di Dolly
che riesce a convincere Scotty a salire sul palco, e Alex (l’amore di Sasha
sempre di cui sopra), anche lui sposato e con figlio piccolo. Ad un certo punto
c’è anche una riunione di (quasi) tutti a casa di Lou, per assisterne gli
ultimi istanti di vita. Con gli echi di chi ricordava la stessa casa, trenta
anni prima, piena di tutti altri fermenti ed altri suoni. Io ho ricostruito la
storia lineare perché mi piaceva fare così, ma come detto, la scrittrice riesce
a farne una storia che va su e giù nel tempo, durante la quale siamo noi a
dover ricostruire i pezzi saltati o accennati. Perché invece lei, nella sua
circolarità, inizia con la mini-storia di Sasha e Alex, e finisce con Benny e
Alex che vanno alla vecchia casa di Sasha, senza sapere della di lei nuova
vita. Succede anche molto altro che tralascio per brevità e curiosità.
Ribadendo il piacere della lettura, gli stimoli cultural-musicali che propone.
E ritornando alla domanda su come abbiamo fatto, anche noi, a passare da
quell’A che eravamo al nostro B attuale. Domandandoci anche com’è che, dentro,
spesso, non ci sentiamo diversi, anche se tutto intorno a noi ci dice il
contrario. Una bella lettura assolutamente da consigliare (e non preoccupatevi
di ricostruire le storie come fa il vostro amico maniaco ma godetevele e
rimanete sempre su quella domanda). Buona lettura.
Sebbene
siamo quasi alla fine del mese, non posso comunque esimermi dal solito allegato
della seconda settima. E per combinazione dei casi si parlerà di mangiare, e
con uno scrittore caro ai luoghi nordici appena visitati. Leggetene, vi
consiglio.
Siamo
tutti ormai sulla via dei ritorni. Da Europe, da Americhe, da Afriche. E ritorna
anche chi no si è mosso. Per i miei amici agostani, un augurio di buon
compleanno (sia a quelli che hanno già festeggiato, si a chi festeggerà tra
breve). Per altri, forse, ci saranno anche nuove partenze.Aspettatevi delle sorprese, amici miei.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
AGOSTO 2015
Beh, credo sia un bell’argomento
da affrontare ad Agosto, anche se rovesciato. In genere, si tende a mangiare di
più, ad ingrassare, in questo mese feriale. Ma qui si parla invece di non
mangiare per tutta una serie di ragione che analizzeremo con calma.
Fame
Knut Hamsun Fame
In quei giorni in cui vi
aggirate, affamati, per una strana città che nessuno abbandona prima che abbia asciato il segno su di lui; quando vi
domandate, per la forza dell’abitudine, che cosa potete aspettarvi di quel
giorno; quando vi accorgete di non avere una sola corona in tasca, allora è il
momento di ricorrere a Fame di Knut Hamsun. Questo romanzo vi darà tanta
energia che riuscirete a vedere tutto nei minimi dettagli e con grande
chiarezza, e non avrete alcun dubbio sul fatto che l’appetito del corpo deve
essere soddisfatto, ma che la nobiltà dell’animo è oltremodo più importante Se
solo poteste sedervi e scrivere un trattato di filosofia, un articolo in tre
parti da vendere al giornale per, diciamo, dieci corone; se solo vi sedeste a
scriverlo su una panchina, al sole, allora avreste i soldi per un pasto decente.
Oppure, in alternativa, potreste impegnare giacca e gilet, per una corona e
cinquanta Øre. Ricordatevi però di non lasciare la matita in tasca, come fa l’anonimo
eroe del romanzo di Hamsun, perché allora non riuscireste mai a scrivere il
saggio, che non solo vi farebbe guadagnare dei soldi, ma aiuterebbe i giovani della
città a vivere in modo migliore. Ovviamente, però, la giacca l’avete solo
impegnata, perché ormai vi stava un po’ stretta; la riprenderete di sicuro
entro pochi giorni, quando il vostro articolo sarà pubblicato. Allora potrete
dare finalmente qualche corona a un uomo per strada con un fagotto in mano che
non mangia da parecchi giorni e che vi ha fatto piangere. Certo, nemmeno voi
avete mangiato, e il vostro stomaco non riuscirà più a trattenere il cibo
perché è rimasto vuoto per troppo tempo. Ma non dimenticate che avete lasciato
una banconota da dieci corone che pensavate non fosse vostra alla venditrice di
torte, gliel'avete messa in mano e lei non capiva perché: ora forse potreste
andare alla sua bancarella e chiedere qualche torta che, diciamo, avete pagato
in anticipo. La polizia potrebbe arrestarvi perché siete in giro la mattina
presto e non avete un posto - e, in quel caso, cosa potreste volere più di una
cella, asciutta e pulita? Ovviamente la polizia crede alla storia che siete un
uomo di buon carattere e saldi principi, che è rimasto semplicemente chiuso
fuori e in casa ha un sacco di soldi. Potete far tesoro di questa esperienza e
raccontarla nel prossimo pezzo che venderete al giornale e che potrebbe
fruttarvi addirittura quindici corone; naturalmente, c’è pure un tocco di
commedia, basta solo riuscire a finire l’ultimo atto. Se riuscirete a
pubblicarla, non dovrete più preoccuparvi dei soldi. Prima, però, conoscerete
la gioiosa follia della fame cronica e non soffrirete più nemmeno a stomaco vuoto.
Bugiardino
Ne scrissi più o meno un anno fa,
e ne uscii in modo controverso. Vediamone ora, anche alla luce di quanto sopra
esposto.
Knut Hamsun “Fame” Adelphi euro 10
[pubblicato il 6 luglio 2014]
Il
recupero di un classico: come scrittore e come scritto. Un libro che per molto
tempo è stato nelle mie liste mentali di acquisto, ma che non trovava spazio
per più urgenti e presenti letture. Sotto la spenta del mai troppo lodato
Curarsi di Otto e Ale, ho deciso di prenderlo, e di leggerlo. È un libro
datato, ovvio, visto che è stato scritto quasi 125 anni fa. Ha pur tuttavia una
forza espressiva, descrittiva e narrativa non indifferente. Intanto pensiamo
allo strano autore, che lo buttò giù di getto a 30 anni. Knut era uomo dai
mille mestieri e dai diecimila vagabondaggi. A vent'anni aveva già varcato
l’oceano per una lunga permanenza in America. In questo libro riversa molta del
suo vissuto giovanile, esaltato dalla scrittura ma intrinsecamente povero,
sempre alla ricerca del modo di sbarcare il lunario. Altro dato interessante è
la scrittura stessa: prima di Joyce e molto prima di Proust, una sorgente quasi
di “flusso di coscienza” che riempie le pagine delle idee, delle azioni
soggettive, dei pensieri di questo giovane norvegese, girovagante per le strade
e per le case di Christiania (questo il nome di Oslo fino al 1924) in cerca di
qualcosa da mangiare e nell'intento di scrivere qualsiasi cosa che possa essere
vendibile e sollevarlo dall'indigenza. Il romanzo è tutto lì, concentrato in un
ristretto spazio temporale, e scandito da quattro lunghi capitoli, all'interno
dei quali il nostro percorre un’altalena, spesso analoga come andamento, ma
diversa (ed angosciosa) in ogni passo. Ogni capitolo comincia con questa grande
fame, tanto che il libro è grondante di fame dalla prima alla penultima riga
(poi vi dirò perché non ultima). E lui gira, pensa, si industria nella
scrittura, impegna abiti, cerca conoscenti cui magari ha prestato denaro a sua
volta (e non li trova mai), si rivolta contro il Dio che come a Giobbe gli da
tante prove da sopportare. Ed ogni volta la discesa verso l’indigenza pura è
sempre più forte e sempre con meno speranza di risalita. Tanto che si industria
a succhiare pezzi di legno prima, ed anche sassolini poi per placare la fame.
Ed intanto, come detto, scrive. E nei primi due capitoli, inaspettatamente,
alla fine riesce a vendere un articolo, un brano, qualcosa ad un giornale, che
gli viene pagato. E con le cinque corone riesce ad andare avanti un altro po’.
Il suo è comunque un girovagare folle, allucinato, fa cose strampalate. Segue
una signorina inventandosi storie e storielle. Ed ovviamente quella, pagine
dopo, si ricorderà e sembra che si possa innamorare del folle giovane. C’è una
timida scena di quasi sesso, che si ferma molto al di qua (si adombra forse la
visione di un seno). Ma il giovane, cui la carenza di zuccheri da cibo fa
sproloquiare, non può che allontanarsi dalla giovane. Oltre al cibo, costante è
anche la ricerca di un riparo per la notte. Quando ha qualche spicciolo riesce
ad affittare, anche se per poco, stanze o ripari vari. Al verde, cerca di farsi
ospitare. Una notte la passa anche in prigione (con la scusa che ha perso le
chiavi di casa). Insomma, inventa di tutto. Ma sempre al di qua della legge.
Non ruba mai, anzi quando si trova inaspettatamente dei soldi, li scialacqua
subito. Vuoi per concedersi una suntuosa bistecca (ma non avendo mangiato per
giorni, il cibo improvviso non potrà che farlo vomitare). Vuoi per dare
elemosine, come se fosse un signore. Vuoi per pagare più del dovuto la sua
affittacamere, che lo aveva trattato sgarbatamente. E lui, altero, le dà tutti
i soldi ricevuti in regalo dalla signorina di cui prima, per poi andarsene via,
senza un soldo, senza una casa, senza un cibo sotto i denti. Quando ha due panini,
ne regala uno ad un ragazzo che piange. Ma la girandola dei capitoli si fa
sempre più difficile, sempre più difficile trovare anche una corona. Che la sua
vena di scrittura, l’unica a sorreggerlo, sembra si inaridisca. Per poi
terminare, come nella sua vita di cui scrissi sopra, per imbarcarsi su di una
nave, senza un soldo in tasca e senza una meta in testa (questa l’ultima e
diversa riga). Due sono infine i motivi per cui alla fine non riesco a dargli
che 4 libricini su 6. Il primo è legato al testo, che alla fine forse diventa
appunto ripetitivo con questa ciclicità di alti e bassi. E con l’incapacità del
giovane di spezzare il cerchio che lo avvolge. Il secondo è invece di contesto,
che poi (ma dovrò approfondirlo) nella sua lunga vita, anche se nel ’20 riceve
il Nobel per la letteratura, lo strambo Hamsun si lega al partito nazista,
tanto da subire un processo nel ’48 per queste sue simpatie. La materia è
controversa, e non c’è spazio (né conoscenza mia) per andare oltre. Ma nella
mia testa è un punto nero che non si cancella. Tuttavia devo riconoscere che
quando descrive la sua fame, mi fa venire una stretta allo stomaco. D’angoscia.
“Così ero fatto, all'occorrenza pagavo fino
all'ultimo centesimo.” (181)
Conclusioni
Questa volta un “nome – omen” di
sicura presa. La Fame descritta da Hamsun è quasi tangibile. E la sua
descrizione talmente vivida che non potremmo più fare a meno di cercare di
evitarla. Per noi probabilmente sarà facile. Ma quanti soffrono e muoiono di
fame nel mondo? E non vado oltre.
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