domenica 29 novembre 2015

Amy vs Elena - 29 novembre 2015

Un confronto tra America e Italia, che si vince alla grande. Anche se, ribadisco, Elena Ferrante non sempre riesce a coinvolgermi. Certo il primo libro è molto “forte”, mentre il secondo, secondo anche come storie delle amiche napoletane, ha avuto, nel mio immaginario una impennata dovuta ad alcune corde che tocca sui discorsi adolescenziali – universitari. Amy Homes è senz’altro interessante, il primo libro forse non ti salva la vita ma aiuta. Il secondo (che poi è uscito per primo) sono racconti forse in minore, anche se hanno momenti alti ed avvincenti. Se si trova in italiano (penso di si) vale la pena di leggerne.
A. M. Homes “Questo libro ti salverà la vita” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 01/02/2014– I: 12/03/2015 – T: 14/03/2015] - &&& e ¾  
[tit. or.: This Book Will Save Your Life; ling. or.: inglese; pagine: 310; anno 2006]
Non è che non sappia come si chiama (il suo nome completo è Amy Michael Homes), ma questo con i punti è il suo nome da scrittrice, quello con cui firma tutti i suoi lavori. Cinquantenne newyorchese, a me prima di questo libro ignota, pur nella non completa riuscita del libro, mi ha incuriosito, divertito, ed anche fatto riflettere qua e là. Le prime cinque pagine mi stavano frenando, come se non si riuscisse a decollare. Poi sono stato preso dalla vicenda di Richard, ma, soprattutto, dall’uso che fa la scrittrice di un racconto per fare critiche alla società americane ed alle sue degenerazioni palesi. Con l’abilità di farmi, in fondo, fare il tifo per lo sballottato Richard, anche se non è proprio l’esempio del paladino dalle mille virtù che ci si aspetta per farne il tifo. Richard ha un pacco di soldi, essendo un abilissimo online trader che vende e compra azioni come fossero noccioline, ed in questo che non sembra essere un gran lavoro, accumula dollari su dollari. Ad un certo punto si separa dalla moglie, molto più di lui work-aholic come si dice oggi in America, lasciandola a New York con il loro figlio Ben e trasferendosi a Los Angeles. Qui vive in una villa su una collina, si mette cuffie con musica la mattina, si allena sul suo tapis roulant mentre la sua tata accudisce la casa, mangia la sua colazione ed i suoi pranzi che gli prepara la sua nutrizionista, interrompe il collegamento con il PC per un po’ di ginnastica con la sua Personal Trainer, e poco altro. Guarda la collina del suo mondo, e sta lì, ibernato, tanto che la tata gli dice che sono 35 giorni che non parla con nessuno. Il punto di crisi, la “zeppa” che viene messa nell’ingranaggio è un dolore che sente al petto. Sto per morire? Un infarto? Dalla visita al pronto soccorso comincia un percorso suo per comprendersi, tanto che tutti cominciano a non “riconoscerlo” più. Si “interessa”! E gli capitano tante cose, cui, forse, prima neanche avrebbe scorto. Si crea una buca in giardino che sta per inghiottire il cavallo di una sua vicina, che lui e un vicino famoso che si scopre poi essere un grande divo del cinema, salvano con un elicottero. Vagando per il quartiere con la sua Mercedes in leasing incontra un immigrato indiano che fa delle ciambelle favolose, che entrano a poco a poco a sostituire i cereali che punteggiano la sua vita. In un super mercato incontra una donna che piange e … le parla. Un altro incontro che sarà di buon auspicio per il resto del libro. Diventano amici e lui la incoraggia a seguire una nuova vita, lontano da un marito violento e da figli che si accorgono di lei solo se non cucina o non lava i panni. Lo strano (per il mondo di L.A.) è che saranno solo amici. Per un terremoto la casa minaccia di crollare, e lui si trasferisce a Malibu. Dove incontra uno vicino stralunato, che si rivela essere uno scrittore di grido. Dove adotta un cane. Dove, dopo anni, fa di nuovo sesso (ma non con l’amica di cui sopra). Dove lo raggiunge il figlio Ben che ha deciso di fare il coast to coast con il cugino Barth. E lunghe saranno le difficoltà che Richard e Ben dovranno superare per avvicinarsi e comunicare realmente. E Richard capirà quello che aveva già capito ma non vissuto: la necessità di Ben della sua figura, anche distante, ma in modo da scambiarsi parole e sostenersi a vicenda nei momenti di crisi. Richard continua a fare il buon samaritano, salvando una signorina che stava per essere rapita da un bruto, facendo regali a tutti, senza volere niente in cambio (ricordate i discorsi sui doni che avevo fatto parlando di padre Bianchi?), pagando l’operazione all’anca alla sua tata. Ed avendo anche un riavvicinamento, almeno verbale, con l’ex-moglie. Fortunatamente Holmes non spinge tutto verso l’happy end, che sarebbe uno stucchevole strato di miele su di una storia che invece, anche se facciamo il tifo, è ben amara. E si ipotizza che, benché sperso su di una zattera davanti alla spiaggia di Malibu, Richard ci sarà, per gli altri, e soprattutto per Ben. Il piacevole della scrittura è che tutta questa scrittura, che potrebbe essere solo una specie di sceneggiatura per un mélo americano (alla Paul Mazursky) diventa una critica serrata della società americana: incomunicabilità, passione per il “cibo sano” ma solo se lo dice la nutrizionista, macchine in leasing, attori che fanno i simpatici, lo scrittore che scrive i suoi capolavori perché si isola, ginnastica che “deve” essere fatta (tapis roulant e piscina in casa), divorzi senza parole, famiglie che pensano la donna solo come serva, e tutte le peggiori insensatezze americane (fino al dottore che cura bene ma che si scopre non essere laureato). Certo, non un capolavoro né un libro immancabile, ma ho trovato la nostra scrittrice capace di gettare un bell’occhio sulla realtà americana attuale.
“[della mia infanzia] io non mi ricordo niente … e poi, tutto a un tratto, mi torna un pezzetto e penso: ma guarda, me n’ero completamente dimenticato.” (236)
“Non basta dire ‘mi dispiace’ come se significasse qualcosa.” (258)
Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[A: 01/10/2014– I: 25/05/2015 – T: 28/05/2015] - &&&&-- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 211; anno 2002]
È il secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere, di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia ogni tanto non riesco ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece, generalmente, mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su argomento analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è invece qualcosa nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si riesca a leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra lettore e pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la pagina scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta durezza. Una coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8 anni e Ilaria di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto, abbandona Olga e famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di Olga nelle peggiori paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui non ci si risolleva più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a farci sentire il dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella mente di Olga. E ad ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non capisce i motivi di Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o sodali nella cerchia delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più difficoltà a gestire i figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era stato voluto da Mario, ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente avventate. Urla, dice parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di una quindicina di anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso la quarantina). Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di testa. Pensa di potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista Carrano. Fallendo anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul fuoco. Si scorda di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta di casa, e spesso non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del libro e della pazzia, laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non dico alla normalità, ma quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci sono formiche in casa, e Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri dedicati alla sua vita con Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente, Gianni ha un attacco di febbre e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche sulla fronte (le solite idee pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la chiave si blocca e la porta non si apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui male, anche lui vomita, e Olga trova l’insetticida mangiato dal povero cane. Ancora più panico, si urla dalle finestre, il telefono non funziona (il cellulare perché scaraventato giorni prima contro il muro, il fisso, non avendolo pagato, è stato sospeso). Come chiamare il veterinario? Come chiamare un medico? Come comperare la Tachipirina per il malato?. Come chiamare anche il povero Carrano, per essere aiutate? Parlo al femminile che le uniche persone ancora vigili sono proprio Olga ed Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o ci si salva o si muore. Fortunatamente, ma un po’ casualmente nella scrittura, Olga si salva. Non si salva il povero Otto, che muore avvelenato dall’insetticida. Si salvano (almeno parzialmente) i figli: di sicuro dalla febbre, ed in parte dalle “pazzie” materne. Un po’ perché ricominciano le scuole, un po’ perché cominciano a frequentare il padre. Che all’inizio sembra contento, poi capisce che anche quello è un onere. E come tutte le persone che scelgono le vie più facili, anche se meno intelligenti, comincia a manifestare segni di indolenza. Olga, invece, alleggerita da questi pesi di cui si era autocaricata, ricomincia a vedere la luce. Accetta il suo ruolo di “abbandonata”, non pensa più al suicidio, e più distesa con i figli, si dispiace (ma in fondo è sollevata) della morte di Otto, e comincia a frequentare, con molta leggerezza il musicista del piano di sotto. Ripeto, la scrittura della Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non riesco ad entrarci bene. Al solito, penso sia il problema di punti di vista maschili-femminili, dove non è facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga verso il fondo della pazzia, mi risulta altrettanto semplicistica la risalita verso la “normalità”. Comunque un forte libro sulla fine dell’amore tra due persone supposte mature. Dove, e non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille è il maschio che si perde dietro a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la scrittrice. Quindi, donne, leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)
A. M. Homes “The Safety of the Objects” Perennial euro 13,50 (in realtà, scontato a 6,30 euro)
[A: 25/06/2015– I: 08/07/2015 – T: 11/07/2015] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 173; anno 1990]
Eccoci di nuovo ad un libro da viaggio. Stavo trascorrendo un piacevole pomeriggio a Jackson nel Wyoming, aspettando la fine del bel viaggio americano nei Parchi degli Stati del West, e, al solito, cercavo un libro che mi legasse un po’ ai giorni trascorsi. E nella non fornitissima ed anche unica libreria del posto, trovo questo primo libro di una scrittrice di cui da poco avevo letto altro, e con gradimento. Preso al volo e letto in un torrido luglio ripensando al fresco del Montana, l’ho trovato interessante, anche se non all’altezza del primo. Intanto sono racconti, e questo, come sapete, se non sono scritti magistralmente (leggi Alice Munro) mi lascia sempre un po’ storto. È inoltre, come detto, il primo libro della scrittrice, e ne risente in fluidità di scrittura. Anche in una certa sottolineatura di alcune situazioni, a volte decisamente forzate al seguire una sua linea descrittiva. In nuce, sono presenti altri suoi temi (critiche sempre e comunque all’inadeguatezza della vita americana). Rivolgendo una sguardo alle cose inanimate, che forse ci possono portare alla salvezza, al miglioramento, quando gli uomini, i pensanti non riescono a farlo. La scrittura della nostra autrice poi ben si intreccia, quasi che le tematiche, le tesi che vuole sottendere prescindano dai racconti stessi e possano essere incastrate in un unico grande romanzo. Tanto che dal libro ne è stato tratto un film, che fa proprio questa operazione, che cercherò di ripercorrere, tramando i nove racconti così come fossero una sola scrittura dedicata agli oggetti, perché sono gli oggetti, le cose inanimate che creano la spina dorsale della scrittura stessa. Ci si immagina quindi di essere in un quartiere di periferia, dove troviamo Paul nella sua camera da letto in coma. Ha avuto un traumatico incidente d'auto (“Esther in the Night”) ed è curato dalla madre, Esther che standogli vicino, si è isolata ed allontanata dal marito Howard e dalla figlia adolescente Julie. Cercando di suscitare l'attenzione di sua madre, Julie la iscrive ad un concorso della radio locale, nella speranza di vincere una macchina nuova (“The Bullet Catcher”). Nel frattempo, dopo anni che mette al primo posto della sua vita il suo lavoro, Jim sente che la sua famiglia, specialmente la sua efficiente moglie Susan, può fare a meno di lui (“Jim Train”). Egli tenta di interagire con il figlio Jake, sulle soglie della pubertà, ma il giovane si imbarca in romantiche fantasie che riversa sulla bambola di plastica di sua sorella minore (“A Real Doll”). Quando Jim viene scavalcato da un collega nella carriera, smette di andare a lavorare, sostenendo che una bomba è stata trovata nel suo ufficio. Sentendosi incompreso dalla sua famiglia, incontra Esther e Julie ed inizia ad aiutarle nel concorso. Intanto la sua compagnia di pendolarismo sul treno per New York, Helen, sente il passare del tempo e cerca qualcosa che la renda ancora e nuovamente desiderabile, come ad esempio una storia di sesso con uno sconosciuto (“Adults Alone”). Ma i suoi sforzi riescono solo ad allontanarle il marito, che invece la ama così com’è. Un’amica di Helen, Annette, durante un disastroso divorzio, si sforza di provvedere al mantenimento delle sue due figlie. Sam, la maggiore, è un maschiaccio, ed è disperata per dover andare ad un campo estivo (“Chunky in Heat” e “The I of It”). La sorella minore soffre di disabilità mentale e richiede una scolarizzazione speciale, che suo padre, l'ex marito di Annette, si rifiuta di pagare. Annette è anche in lutto per la perdita di Paul, con il quale aveva iniziato una relazione. Randy, il giardiniere del quartiere, sta vivendo (male) la morte del proprio fratello minore, morte avvenuta nello stesso incidente d'auto che ha ferito gravemente Paul. L’ex marito di Annette durante la periodica visita settimanale alle figlie dichiara di voler prendere Sam per le vacanze, ma Annette rifiuta sia perché Sam non vuole stare con il padre sia perché l’ex-marito non vuole prendersi cura della figlia minore (“Yours Truly”). Sam ascolta la loro lite e fugge quando il padre cerca di parlare con lei. Nella fuga incontra Randy, che sostiene essere stato mandato dalla madre a riprenderla (“Looking for Johnny”). Randy porta Sam in una sperduta capanna nel bosco e la tiene lì, non permettendole di chiamare casa. Inoltre la chiama 'Johnny', come il suo defunto fratello. Dopo circa tre giorni di isolamento, Randy prende la macchina e si aggira nottetempo per la cittadina, quasi a ricreare la notte in cui la vita dei personaggi si è incrociata. Quando chiede una birra a Sam, seduta sul sedile posteriore, e la birra non esplode quando la apre (vedi sotto il perché) realizza improvvisamente che Sam non è Johnny e la riporta, incolume, a casa. Esther finalmente arriva alla finale del concorso, quando rimangono solo in due. Ma non resiste alla tensione (i concorrenti devono toccare la macchina in palio e chi si stacca perde). Sono ormai tre giorni che sta così, in piedi, emotivamente provata. Sviene e viene eliminata. Julie si arrabbia e scappa via. Jim, arrabbiato anche lui perché pensa il secondo premio essere inadeguato, diventa violento ma viene cacciato da Bobby, il figlio di Helen, che lavora come guardia di sicurezza del centro commerciale. Esther, tornando a casa si rende conto di quanto lei abbia trascurato la figlia. Giunta al capezzale di Paul, tra le lacrime, soffoca il figlio in coma. Anche Jim torna a casa sua ed al suo lavoro. Helen, infine, quasi tradisce il marito, ma alla fine torna a casa senza aver compiuto questo passo (“Slumber Party”). Possiamo, seguendo il film, ipotizzare un finale flashback che spieghi i rapporti tra i vari personaggi ed il meccanismo dell’incidente d'auto: Randy, Paul, e Johnny stavano viaggiando in una macchina dopo un concerto della band di Paul. Johnny dà una birra a Randy e Paul, birra che per gioco aveva agitato. Randy la apre e la schiuma esplode sulla faccia di Paul che stava alla guida (così si spiega cosa faceva Randy con Sam). Un'altra macchina viene dalla direzione opposta, dove sono Julie e Bobby, che guida come un pazzo per portare la ragazza a casa prima dell’ora impostale dai severi genitori. I due piloti (per la birra e la fretta) si distraggono, sterzano improvvisamente e l’auto di Paul ha la peggio. Randy e Julie saranno per sempre rosi dai loro sensi di colpa. Alla fine comunque tutti i personaggi mostrano una migliore comprensione degli effetti che gli oggetti inanimati (birre, auto, bambole, trucchi, ed altri) hanno sulla loro vita. E forse, ne usciranno migliori. Così come speriamo migliori la scrittura della nostra brava newyorchese che aspetto ad altre e più consistenti prove.
Elena Ferrante “Storia del nuovo cognome” E/O s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 07/05/2015– I: 26/07/2015 – T: 01/08/2015] - &&&&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 470; anno 2012]
E siamo al secondo volume della tetralogia di Elena Ferrante (su cui non ritorno) dedicato all’amicizia. Chi mi legge assiduamente sa che del primo volume (sempre regalo di Rosa & Emilio che spero ora mi regalino anche gli altri), letto lo scorso anno, ho apprezzato la scrittura, potente e fluida, ma il libro in sé non mi aveva convinto del tutto. Qui siamo senz’altro in ripresa. Sarà forse che le protagoniste crescono e le loro storie mi avvincono più delle vicende infantili (cioè dell’infanzia) narrate nel primo. Sarà che esce di più la personalità della scrittrice, dell’io narrante, questa Elena Greco che cerca, attraverso lo studio di uscir fuori dal mondo chiuso e gretto del rione di Napoli che ne ha visto i natali (uscire per poi apprezzare il buono che comunque quel mondo le ha dato). Sarà anche che Lila, l’amica geniale (che non mi sta per ora proprio simpatica) è a volte più sullo sfondo, anzi talvolta viene lasciata da parte per pagine e pagine. Pur se la sua presenza, ed il rapporto simbiotico palesemente nascosto tra Lila e Lenù è sempre vivo e sempre fa da filo rosso della storia. Se devo fare solo una prima critica personale, mi trovo in difficoltà con tutti i personaggi che girano introno alle pagine. Certo, alla fine delle quasi 550 di questo libro, molti hanno ormai una loro caratteristica, una loro presenza, anche se tuttora, dopo due libri, continuo a confondere Antonio ed Alfonso. Ed anche se c’è una specie di indice dei personaggi all’inizio del volume, riesco sempre a mescolare i parenti tra di loro. Anzi mi sfugge spesso chi è parente a chi. Comunque, si terminò il primo volume con il matrimonio di Lila che poco aveva convinto Lenù. In tutto questo secondo volume assistiamo alle due parabole di vita che coinvolgono le due amiche, tra discese ardite e le risalite (come diceva Lucio). Lenù come detto studia, anche se all’inizio con fatica. E ribadisco che vede lo studio solo come mezzo di uscita dalla vita che sta vivendo, anche se non focalizza uscita per dove e da dove. Si illude di voler bene ad Alfonso (o era Antonio?) ma è fumo. Per 2/3 invece parla del suo trasporto verso Nino, che nel primo l’aveva baciata. Che ora è universitario, che fa grandi discorsi politici (siamo comunque nei primi anni ’60). Nino che ritrova in vacanza ad Ischia, che lei cerca in tutti i modi di conquistare. Ma Nino non se la fila de pezza, perché invece è preso, e da sempre da Lila. Delusione tremenda, tanto che Lenù si concede addirittura al maturo padre di Nino per perdere la verginità. Poi però passa la maturità con buoni voti, tanto che partecipa al concorso e vince una borsa di studio per la Normale di Pisa. L’ultimo terzo del libro è quindi narrato un po’ su ricordi, e molto su quanto poi apprenderà al ritorno dalla città degli studi. A Pisa, fa vita libera, finalmente lontano dalla madre oppressiva. E soprattutto dalla presenza di Lila che ogni volta la tarpa. Così che riesce anche a scrivere un corto libro (137 pagine, dice)  trasponendo le vicende della sua pur breve vita. Ed il suo ultimo amore, tal Pietro di Genova, dai buoni natali e dai buoni contatti, riesce a farlo pubblicare. Dall’altra parte vediamo la parabola inversa di Lila, che si accorge ben presto di non amare Stefano, di aver pensato di sposarlo per raggiungere una agiatezza economica che le consenta di uscire dal suoi mondo chiuso e gretto (quello che Lenù vuole ottenere con lo studio). Ma non è la “sua” vita quella di bottegaia di salumeria, o anche di padrona di negozio di scarpe. E non riesce a far figli con Stefano. E sono proprio le vicende dei negozi che complicano tutto (ed i soldi a quello legati). Con il suo modo “strampalato” di vedere le cose, che solo Lenù riesce a decrittare, si inimica Pina, poi Carmen, litiga sempre di più con i Solara (i mafiosi del rione), e soprattutto si avvia verso la rottura con Ada. Come detto, ovvio, ha delle uscite geniali. Il primo modello di scarpe, l’arredo del negozio. Ma è un giullare, capace di singole imprese mirabili ma a cui manca la continuità. E quando ad Ischia ritrova Nino, un’altra persona capace di risvegliare il suo lato geniale, si dà fino in fondo all’amore proibito. Pur sapendo che Lenù è presa da Nino, lo vuole per sé, lo prende. E tornata a Napoli continua ad averlo come amante. Tanto che finalmente rimane in cinta. Ma quando decide di fuggire con Nino, la quotidiana convivenza sopravvivrà solo 23 giorni. Troppo forte il suo carattere. Per chiunque. Ed anche Nino si perde e fugge. Lila torna per un po’ con Stefano. Partorisce Rinuccio, il figlio di Nino. Cerca di sopravvivere. Ma intanto il marito si era già allontanato, instaurando una tresca stabile con Ada. Allora si, che Lila e Rinuccio fuggono, rifugiandosi dall’amico Enzo, in un rapporto di convivenza e di amicizia senza sesso. Anche se Enzo è da sempre innamorato di Lila. Il libro si chiude con un dibattito in una libreria di Milano per la presentazione del libro di Lenù. E sull’intervento, più o meno critico, che fa uno spettatore. Che guarda caso è proprio lo scomparso Nino. Mi accorgo, rileggendo, che ho narrato la storia a modo mio. Saltando molte parti. Ma questo è il mio modo di tramare. Non è detto che si debba fare un riassunto del libro. Io tiro fuori quelle bolle che le parole mi hanno fatto scaturire. Saltando, tralasciando, fissandomi magari su elementi marginali, che a me hanno comunicato qualcosa. Ed alla fine, sono comunque contento di aver avuto questo regalo che mi ha forzato a leggere questo secondo libro. E mi ha incuriosito di sapere cosa succede negli altri.
Essendo questo novembre trascorso molto altrove, solo in quest’ultima settimana vi posso deliziare con una nuova puntata delle cure libropeutiche, anche se l’argomento ed il commento non sono centrati come al solito.
Si affaccia quindi un operoso dicembre, forse anche affollato, crescendo bambini ed aumentando viaggi. Che l’anno nuovo si dovrebbe iniziare a Cuba, e questo vecchio finirlo un po’ come si era cominciato or saranno cinquantacinque anni fa. Io continuerò ad essere misterioso, come sono e fui.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NOVEMBRE 2015
Per questo novembre passato nell’India mistica, le nostre ineffabili curatrici ci propongono opportunamente un discorso sulla fede. Anche se vista da diversi angoli, e se dobbiamo sempre chiederci cosa intendiamo con questo “nome”.

FEDE, PERDERE LA

Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen”
William Peter Blatty “L’esorcista”
Rachel Joyce “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry”
Per alcune persone, avere fede significa credere in Dio, per altre significa credere che la vita abbia un senso e per altre ancora significa credere nella bontà del mondo. Qualunque cosa significhi per voi, perdere la fede può spegnere la luce nella vostra vita. In momenti del genere abbiamo bisogno di romanzi che ci restituiscano ai principi di cui abbiamo bisogno per trovare sostegno, se vogliamo andare avanti con gioia e con fiducia. La nostra cura prevede tre approcci diversi alla fede; scegliete quello che sembra più adatto a voi.
Se per voi la fede è il trionfo delle convinzioni personali sul dato scientifico, “Pesca al salmone nello Yemen” diventerà la vostra Bibbia. Quando Fred Jones, funzionario responsabile del Centro Nazionale per l’Eccellenza nel settore della pesca, riceve una lettera che chiede il suo aiuto per introdurre il salmone, e la pesca al salmone, nello Yemen, lui fa quello che farebbe ogni scienziato che si rispetti - rifiuta. È «senza senso» - «risibile» - sfidare le leggi della natura per il capriccio di uno sceicco con troppi soldi e privo di cultura. Questo, però, succede prima che Jones incontri lo sceicco Muhammad e scopra il potere di un uomo determinato. Lo sceicco Muhammad infatti è un visionario e, come il dottor Jones presto si renderà conto, non si tratta tanto di pesca quanto di fede. Questo rassicurante romanzo servirà a rinnovare la vostra convinzione che la fede, come si sa, può spostare le montagne.
Se è la vostra fede in Dio a essere messa in dubbio “L’esorcista” vi procurerà una scossa elettrica lungo la colonna vertebrale così forte che potrebbe anche bastare a farvi cambiare idea. In questo agghiacciante romanzo - forse il più terrificante che conosciamo - una madre si convince sempre di più che la figlia, Regan, sia posseduta e in preda alla disperazione fa venire a casa Padre Karras. Anche lui, in quel momento, sta mettendo in discussione la propria fede in Dio, ma l’orrore tangibile e infernale che vede agire nella povera Regan afferma con tale chiarezza la presenza del Diavolo che l’uomo ricomincia a credere all’esistenza del Bene e del Male. Il romanzo potrebbe farvi lo stesso effetto.
Se invece avete smarrito il senso di tutto - e pensate che non ha più importanza nemmeno essere buoni o cattivi - possiamo proporvi una cura più leggera. Harold Fry è un pensionato dai capelli grigi, scoraggiato, che a stento scambia convenevoli con la moglie e che ha perso i contatti con il figlio adulto. Quando riceve una lettera dalla sua vecchia amica Queenie e viene a sapere che sta morendo di cancro, le scrive una cartolina e va subito a imbucarla. Durante il tragitto gli rimane in testa una conversazione del tutto casuale con una benzinaia (la «ragazza del garage»), e quando arriva alla cassetta delle lettere invece di imbucare la cartolina continua a camminare – e fa tutta la strada da Devon a Berwick-on-Tweed, in effetti, dove vive Queenie, sempre più convinto che finché camperà per raggiungere l’amica lei resterà in vita.
Durante quel viaggio, la fede di Harold viene messa alla prova molte volte, ma lui crede nella Provvidenza, non prende mai più di quanto gli serva, dorme all’aria aperta piuttosto che nelle case della gente e diventa sempre più simile a un pellegrino di un’altra epoca. Alla fine i media si accorgono di lui e presto diventa famoso proprio come «il pellegrino»: tutti vogliono toccarlo ed essere toccati da lui. La fede, a quanto pare, è contagiosa. Sua moglie Maureen si innamora di nuovo di lui, a distanza, e Queenie... Beh, non vi resta che leggere e scoprirlo.
Nei momenti di maggiore desolazione, quando avrete perso la fede nella vita, in Dio, nell’amore, in qualcun altro o in voi stessi, rivolgetevi a questi romanzi per affermare di nuovo alcune verità fondamentali. Perché la ragazza del garage ha ragione: «Se hai fede, puoi fare qualunque cosa».

Bugiardino

Non ho letto, anche se ci farò un pensierino, il libro di Rachel Joyce. Ma soprattutto non ho né letto il libro né visto il film dell’indemoniata Regan. E ancora più fermamente non credo che lo farò in futuro. Per cui, mi rimane nel solco della fede di cui si parla sopra, lo strano libro di Paul Torday sul salmone e lo Yemen. Che ha un pregio diverso, per me, dove cerca di mettere in crisi tutto un modo di affrontare la politica estera da parte dei paesi occidentali. Certo c’è anche lo sceicco, e la sua fede nella sua idea. Ma vediamo meglio.
Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen” LIT euro 9,90
[pubblicato il 30 agosto 2015]
Anche questo è uno di quei libri che non sarebbero entrati nella mia copiosa biblioteca senza la spinta di opportuni e mirati suggerimenti. E bene ho fatto, che, anche se non è un libro stravolgente, mostra una indubbia capacità dell’autore di cogliere aspetti assurdi della vita, trattarli con efficacia e costruirvi intorno un libro rimarchevole. Peccato che poco dopo la pubblicazione di questa opera prima (scritta dall’autore già sessantenne) il nostro Torday muoia di un male incurabile. Anzi, è proprio questa malattia che lo aveva spinto, lui industriale di discreto successo nel campo petrolifero, a riprendere in mano la sua passione giovanile e dedicarsi alla scrittura. Ma non parliamo degli altri suoi lavori, rimaniamo a questo, ed alla sua natura eclettica ed umoristica. Che inizia già dal titolo che ci cattura: pesca al salmone nello Yemen? Infatti, se doveste immaginare di pescare salmoni – un pesce tipico di corsi d’acqua freddi e impetuosi, generalmente molto nordici – in un polveroso uadi tra gli infuocati canyon delle montagne dello Yemen penserete tutti ad un errore. Una cosa fuori da ogni logica, senza alcun senso, priva di qualsivoglia razionalità, scientifica, biologica. Un’assurdità, insomma. In effetti è la stessa opinione che matura il professor Fred Jones, idrobiologo dell’ENPI – l’ente per la tutela e lo sviluppo del patrimonio ittico nei fiumi. Lo pensa fin da subito, ne andrebbe peraltro del proprio onore scientifico imbarcarsi in una assurdità del genere e non lo ritiene proprio il caso, dato che pure la vita privata non gira certo nel migliore dei modi – Mary, la moglie, è una donna in carriera alla quale prospettano un prestigioso trasferimento all’estero che lei decide di accettare subito, palesando così la fragilità del rapporto matrimoniale con Fred, probabilmente fin dall’inizio mancante di autentico amore e semmai soprattutto conveniente e “funzionale” ad entrambi. Una crisi matrimoniale in piena regola, insomma, durante la quale il professor Jones, gioco forza costretto dai suoi capi a prendere in mano il folle progetto di introduzione del salmone nello Yemen, conosce il fautore di esso, lo sceicco Muhammad ibn Zaidi, ricchissimo yemenita con la passione per la cultura britannica e, ancor più, per la pesca sportiva nei fiumi di Sua Maestà: una persona affascinante, visionaria e spiritualmente assai profonda. Ma, soprattutto, Jones conosce la giovane e bella Harriet, dipendente della società incaricata dallo sceicco di realizzare materialmente il progetto, della quale, stante la sua situazione matrimoniale e nonostante lei sia già impegnata con Robert, un ufficiale dei Royal Marines di stanza in Iraq, ben presto si innamora. Noi seguiremo tutta l’intricata vicenda attraverso quello che è uno dei punti forza del romanzo: la sua particolare struttura narrativa. Il progetto che dà il nome al libro viene infatti raccontato al lettore prima attraverso le pagine del diario personale di Fred, poi dalle lettere di Harriet, poi dalle mail tra Fred e Mary, dallo scambio di mail tra l'ENPI e il Ministero dell'Ambiente e dell'Agricoltura, dalle note del Ministero degli Esteri, da stralci di giornale, dalle lettere secretate di Robert dall’Iraq, dai resoconti stenografici delle Commissioni Parlamentari. Seguiamo il progetto, passo dopo passo, dalla sua ideazione fino alla sua concreta, ma non priva di ostacoli, realizzazione. Un invito, in altre parole, a cercare di dare sempre il meglio di noi stessi, anche quando tutto sembra andare per il verso sbagliato. È comunque ed alla fine un tentativo non solo di dare un senso umoristico al tutto, ma anche di critica sociale (castiga ridendo mores, che, ricordo ai più smemorati, non è una tradizione del latino antico, ma una frase del latinista francese del XVII° secolo, Jean de Santeul). Dalle manie di successo della moglie Mary, agli strani comportamenti di fondamentalisti mediorientali, dalle follie della politica estera britannica ai comportamenti giornalieri di chi quella politica dovrebbe attuarla per il bene della patria. terminando, realisticamente, con una citazione di Tertulliano che riassume sia il senso del progetto “Salmone” sia quella della vita dei protagonisti: Certum est quia impossibile est (è certo perché è impossibile). Solo nel finale, il nostro Torday si incarta un po’, ma non ci saremmo mai aspettati un lieto fine da tutta la storia. E così sarà, anche se vi esorto a leggere il libro per scoprirne meglio tutte le sfumature. Vale la pena.

Conclusioni

Per quanto detto nell’introduzione al bugiardino, e per quanto mi consentono le mie capacità di cui so bene i limiti, non mi addentro in un discorso più dettagliato su cosa sia fede, su cosa rappresenti nella testa e nel cuore di ognuno di noi, e cosa possa voler dire la sua scomparsa dall’orizzonte dei nostri punti ideali. Mi limito a sottolineare quanto detto nella trama, dove il detto di Tertulliano penso sia riproponibile anche per gli altri libri citati e non letti. Soprattutto perché Tertulliano è un apologeta cristiano del II° secolo, nato e vissuto in Tunisia.

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