Sono tornato dall’Islanda carico
di belle sensazioni: una bella compagnia ed un bel ritorno “in famiglia” (nonostante
qualche scivolata di troppo sul bagnato). Aumentano quindi i fruitori di queste
mie scritture, che, ricordo, invio “senza scopo alcuno”, che se vi stufate
basta dirmelo, e se volete leggere le ottocentomila duecentoventi puntate
precedenti, potete comodamente sfogliare http://giogio53.blogspot.it/trame_e_voila.
Casualmente, poi, in questa quaterna capita anche un autore del profondo Nord,
il sempre interessante finlandese Paasilinna, accompagnato da anglosassoni
nativi come Eugenides, o immigrati, come Al-Aswani, o liberati dal gioco
inglese, come l’indiano Gosh. Spero che voi, mie cari lettori, possiate “remain”
in queste letture.
‘Ala Al-Aswani “Chicago” Feltrinelli euro 9
[A: 01/07/2014– I: 06/01/2016 – T: 10/01/2016] - &&
e ½
[tit. or.: Chicago; ling. or.: arabo; pagine: 310;
anno 2006]
Un’altra
molto datata segnalazione della Terza Pagina del supplemento di Repubblica dedicato
ai Libri, che ho aspettato anni affinché uscisse in edizione economica. E
ricordo che ho parlato dell’autore circa otto anni fa, dopo aver letto il suo
primo, interessante ma non entusiasmante libro (“Palazzo Yacoubian”). Al-Aswani
ha continuato la sua opposizione al regime egiziano, appoggiando in maniera
forte tutti i movimenti della “primavera araba”. Scrivendo (come dice offrendo
un contributo al raggiungimento della democrazia attraverso la letteratura che
“cambia il lettore e lo aiuta ad essere meno ipocrita e a combattere il
fanatismo in una società in cui prevale la mediocrità e in cui il ribellarsi ha
un caro prezzo”) e continuando nel contempo ad esercitare la sua professione di
dentista. Proprio dalla sua esperienza durante la specializzazione
nell’Università dell’Illinois a Chicago, vengono questi vecchi appunti, dieci
anni fa trasformati in un libro. La prima caratteristica che risulta evidente,
è che, generalmente, siamo abituati a leggere di enclavi non americane viventi
sul territorio a stelle strisce in altri contesti geografici: cinesi ed
indiani, in prima linea, poi vietnamiti in Texas, e diverse confraternite europee
di prima e seconda generazione. Il tentativo di Al-Aswani è di svelarci che
esistono anche delle “Little Egypt”, come quella appunto che si muove a
Chicago, con professori o laureati che con borse di studio si sono trasferiti
nella grande e importante università dell’Illinois, per conseguire il
dottorato. Qualcuno è anche in fuga dall’Egitto per motivi politici. Una
comunità ovviamente colpita anche da tutte le problematiche post-2001
(controlli, terrorismi vari, nonché attenzione da parte dei Servizi Segreti
egiziani). Come il precedente palazzo, anche questo è un romanzo corale, in cui
incontriamo molti personaggi egiziani (il poeta Naghi, la studentessa Shayma,
il dottorando Tareq, ed i professori Raafat Thabet, Karam Dos, Mohammed Salah),
ma anche alcuni americani (il prof. Graham, progressista, con la sua compagna
Carol, il prof. Michael, razzista, la bella Wendy, ebrea). Tutti sono accomunati
da essere inclusi in confraternite con punte più o meno alte di razzismo, siano
essi arabi, mussulmani, copti, ebrei o neri americani. E tutte le storie che s’intrecciano
battono molto il tasto sui conflitti. Naghi ribelle patriota che non riesce a
portare avanti il suo rapporto con Wendy. Shayma che non rinuncia né al suo
essere mussulmana (porta il velo) né al suo essere donna. Karam che è sempre
emarginato (sia in patria sia in America) per il suo essere copto. Raafat che
decide di essersi integrato, ma che non riesce a vedere come l’integrazione
porti sua figlia su strade senza ritorno. Mohammed che si accorge di aver orami
abbandonato tutte le speranze di riformismo che aveva in gioventù, e per le
quali era emigrato. Graham che non capisce le difficoltà della sua compagna di
colore, fino a lasciarla per futili (almeno per noi) motivi. La storia stessa
della donna nera molto bella che non riesce a trovare lavora (ma non siamo nel
paese di Obama?). Al-Aswani non rinuncia nella sua denuncia del regime egiziano
sull’uso della tortura (e noi pensiamo a Giulio e ne soffriremo sempre),
attraverso l’agente che usa anche il sesso come strumento di violenza verso le
opposizioni. Non può mancare, non manca la critica alla politica estera
statunitense. Né la critica a tutte le società opulente, che neanche lì si è
“sicuramente felici”, anche se si proviene da paesi in cui manca di tutto.
Purtroppo, la mancanza di figure positive, lascia tutto in un grigio limbo che
non dà una patina di compartecipazione da parte del lettore verso le vicende di
coloro che si agitano nelle pagine del libro. Quindi, d’accordo sulla denuncia,
d’accordo sulla critica dei valori e dei comportamenti. E tuttavia, ci può
essere salvezza. Lo credo fermamente, ma l’autore non ne vede l’orizzonte a
breve. Lasciandoci nel buio del suo pessimismo. Spero che il mondo arabo riesca
a trovare la via dell’estate dopo queste lunghe giornate di primavera.
“Non è giusto invecchiare senza gustarsi il
valore del tempo. È ingiusto che nessuno ti dica prima che il tempo ti
scivolerà inesorabilmente tra le mani. Ci accorgiamo quanto vale la vita solo
un attimo prima che finisca.” (188)
“Ti prego di non telefonarmi. Mi piacerebbe
che la nostra relazione terminasse bene come è iniziata. Ti ringrazio per le
splendide emozioni che ho conosciuto grazie a te.” (276)
Amitav Ghosh “Il fiume dell’oppio” Neri Pozza euro 14 (in realtà, 11,90
euro)
[A: 03/07/2014– I:
30/01/2016 – T: 04/02/2016] - &&& e ½
[tit. or.: River of Smoke; ling. or.: inglese; pagine: 586; anno 2011]
Secondo
libro della trilogia dell’Ibis, un’opera summa cui Ghosh ha lavorato per sette
anni, dal 2008 al 2015. Iniziata con quello che ho già tramato (“Il mare di
papaveri”) e che finirà con “Diluvio di fuoco”. Ghosh è un antropologo, che
ogni tanto cede, ed a noi fa piacere, al “demone” della scrittura, lasciandoci
libri forse non memorabili, ma di sicuro interesse. Ricordo a memoria due che
mi hanno preso ormai tanti anni fa: “Il cromosoma Calcutta” (trasposizione
letteraria della scoperta del virus della malaria da parte di Sir Ronald Ross)
e “Estremi orienti” (l’unico reportage che mi ha fatto entrare realmente nel
mondo birmano). Qui appunto, riprende la tematica del mare di papaveri,
cercando (forse con meno successo o con altre mire) di seguire altri personaggi
che si trovavano o gravitavano intorno all’Ibis (ed al suo quasi naufragio).
Utilizzando ancora, e con maestria, quella mescola di inglese, urdu, hindi e
bengalese che tanto hanno fatto penare i traduttori italiani (e ne
sottolineiamo ancora la bravura: Anna Nadotti e Norman Gobetti, grazie!). E se
nel primo libro seguiamo (oltre alle disquisizioni sulla natura del papavero)
in particolare le vicende di Deeti e del suo amore fuori casta Kalua, della
presa di coscienza dell’americano Zachary Reid e di Sereng Ali, qui altri sono
i personaggi che prendono il centro della scena. Anche perché ci trasferiamo
presto dall’India e dalle navi, nell’enclave di Canton. Siamo comunque sempre
nel 1838, ed è qui a Canton che nasce il germe della rivolta tra cinesi e
stranieri, qui che dal 1839 al 1842 si svolgerà la prima guerra dell’oppio.
Mentre nei primi capitoli veniamo brevemente aggiornati sul fatto che i
naufraghi dell’Ibis (quelli buoni) si salveranno in quel di Mauritius (anche se
perdiamo traccia di Zachary), per il resto delle onerose pagine seguiamo da
vicino le avventure di Neel Rattan Halder, ex rajah ora in rovina, che in quel
di Singapore trova il modo di entrare al servizio di Bahram Moddie, un mercante
parsi di Bombay (che sappiamo essere la maggior enclave parsi fuori Persia).
Con gli occhi di Neel, seguiamo l’ascesa e caduta di Moddie. Partito con un
grande carico di oppio da contrabbandare semi-legalmente in Cina, ma che si
dovrà fermare come tutti a Canton, colpito dalle voglie riformatrici
dell’Imperatore cinese Daoguang e dalle forze armate comandate
dall’incorruttibile mandarino Lin Zexu (personaggio reale). Ripercorriamo la
grande storia d’amore di Moddie con la cinese Chi Mei, i suoi tentativi di
salvare i suoi investimenti in oppio, le sue mediazioni (fallite) con gli
inglesi, la sua caduta e morte per abuso di oppio in quel di Hong Kong. Vediamo
il lato non commerciale della vita di Canton attraverso le vicende dell’armeno
Zadig Bey, anche se è sempre Neel quello che porta notizie, si collega con i
cinesi “buoni” e da questi verrà salvato. Neel ci darà l’immagine “mercantile”
di Canton, con tutti gli intrighi delle 13 compagnie occidentali, e le trame
losche di Lancelot Dent (altro personaggio storico, nodo centrale della futura
guerra). Questa è una parte, seppur un po’ prolissa, illuminante nella sua
ricostruzione per la protervia occidentale di voler continuare guadagni
favolosi non attraverso normali transazioni mercantili (come unico fa l’altro
personaggio reale della vicenda, l’americano Charles King), ma utilizzando
l’oppio come moneta sonante di conquista. La ricostruzione (antropologica come
la sua formazione) delle prese di posizioni inglesi sulla vicenda sono quanto
di più crudo si possa dire sulla protervia dei britannici a non voler
considerare una nazione civile la Cina, giustificando il contrabbando in nome
del libero commercio. Scontro che porterà alla prima guerra dell’oppio, alla
successiva sconfitta cinese, ed alla cessione agli inglesi del territorio
libero di Hong Kong. L’altro elemento della storia riguarda Paulette,
l’incontro con il suo mentore, il botanico scozzese Fitcher Penrose, e la loro
scoperta delle rare e bellissime piante orientali, tra cui alcune impagabili
camelie. Tra cui la Camelia sinensis da cui si ricava il tè. Tutta questa parte
è invece narrata attraverso uno scambio di lettere tra Paulette, relegata ad
Hong Kong in quanto non era consentito alle donne occidentali di arrivare a
Canton, e Robin Chinnery, fittizio figlio naturale del reale pittore George
Chinnery. Soprattutto con gli occhi di Robin vediamo “l’altra Canton”, quella
dei pittori cinesi, dei coltivatori di piante, nonché tutti i riti ed i rituali
dei “quasi omosessuali” occidentali. Ricordo che non c’erano donne, ed ognuno
si arrangiava “come fanno i marinai” direbbe Dalla. Anche questa è una bella
pennellata di vita, che ci da, a tutto tondo, un diverso spaccato del mondo
orientale in questo fatidico 1838. Una chicca: Robin ci descrive come i pittori
cinesi dipingano le ceramiche attraverso modelli estetici richiesti dai
residenti occidentali di Canton, per poi inviare i vasi in Europa dove saranno
ammirati per la loro “cineseria”. Insomma, un grande affresco pieno di luci, di
suoni e di colori, forse un po’ lungo, ma giustificato per la complessità della
materia. Certo mi aspettavo una maggiore coralità, anche perché mi sono perso
il povero Jodu che non so che fine abbia fatto. Ed altri personaggi del primo
libro che mi erano più simpatici del pur bravo Neel. Per finire una domanda,
dove Zadig Bey sostiene Canton essere coeva di Roma, mentre a me risulta essere
fondata “solo” nel 214 a.C.: qualcuno ne sa di più?
Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide” Mondadori euro 10 (in realtà,
scontato a 9,50 euro)
[A: 03/04/2015– I: 05/02/2016
– T: 08/02/2016] - && +
[tit. or.: The Virgin Suicides; ling. or.: inglese; pagine: 213; anno 1993]
Ho
sempre confuso nella mia mente aneuronica questo libro con il sicuramente
diverso “Picnic ad Hanging Rock”. Errore a posteriori grossolano, visti i
diversi scrittori (Eugenides vs. Joan Lindsay) e la diversa ambientazione
(America vs. Australia) e la diversa situazione di fondo (suicidio vs.
sparizione). Ma sappiamo che la mente fa brutti scherzi, e solo dopo essere
stato convinto dalle mie mentori libresche Ella & Susan, a comprare e
leggere questo libro, finalmente ho sciolto la confusione. Anche se non so dire
se avrei preferito rimanere nell’ignoranza. Comunque, ora posso anche dire che
questo libro di Eugenides, il secondo che leggo da lui scritto, anche se è poi
il primo che ha realizzato nella sua non prolifica vita letteraria, non mi è
piaciuto particolarmente. Mi è scivolato via, pagina dopo pagina, mentre
cercavo di afferrarne il senso ed i modi. Senza riuscire a decifrare bene né
gli uni né gli altri. Se infatti “Middlesex”, dopo un inizio a bassa
carburazione, era andato avanti scorrendo e risultando alla fine di una normale
piacevolezza, queste vergini suicide mi hanno creato non poche difficoltà. E
tuttavia, cominciamo con le note positive, o comunque innovative, che questo
romanzo di più di venti anni fa portava con sé. Innanzi tutto, la trovata di
presentarsi come uno scritto collettivo. In tutto il romanzo l’io narrante
diventa un noi narratori, con la sotto-trovata poi di non dire mai chi siano
questi noi. Certo capiamo che ne possano far parte Trip, Tim, Chase e David, ma
la voce narrante rimane un collettivo che, a distanza di anni dai fatti, ne
narra, e, forse, cerca di capirne di più di quanto se capisse al tempo. Secondo
ed ultimo elemento la presentazione della vita claustrofobica di un quartiere
periferico di Detroit (tra l’altro città natale dell’autore, figlio di un
immigrato greco, come si intuisce dal cognome, e che riempie questa periferia
di altri immigrati, soprattutto italiani), con le casette che immaginiamo come
nei film, a schiera su dei viali con alberi e verde. Casette con garage, con
del verde intorno. E pur tuttavia senza nessuna reale interazione tra i vari
abitanti. Quasi che ci si guardi come da dentro delle provette di laboratorio,
ognuno preso dal suo esperimento di vita, senza poter interagire con le vite
altrui. In questo mondo senza molta gioia s’inserisce la vita, e la morte,
delle ragazze Lisbon. Sono cinque sorelle, accudite e/o oppresse da un padre
insegnante di matematica (che brutta fine) ma soprattutto da una madre bigotta
ed inflessibile (inciso, resa benissimo sullo schermo del film diretto da Sofia
Coppola, dalla bravissima Kathleen Turner). Una madre incapace (nei pochi
interventi che la vedono in primo piano) di accompagnare le cinque figlie
nell’adolescenza. Il dramma comincia con il suicidio della più piccola Cecilia,
e si conclude un anno dopo con il patto sucida, purtroppo riuscito, delle altre
quattro. Cecilia si getta dal secondo piano della casa. E nella ricorrenza del
primo anniversario della morte, Bonnie si impicca, Mary mette la testa nel forno,
Therese si imbottisce di sonniferi e Lux si uccide con il monossido di carbonio
della macchina paterna. Tutto il libro scorre fra queste morti, con la voce
narrante che cerca di capire prima i motivi di Cecilia. Che restano misteriosi,
e vengono tralasciati per cercare invece di entrare in contatto con le altre
sorelle Lisbon. Sorelle che sembrano poter uscire dalla cupa atmosfera materna,
finché, ad una festa, Lux si attarda con trip, fanno l’amore, lei torna a casa
tardi, e scoppia di tutto. La madre le reclude in casa, le ritira da scuola, il
padre si licenzia. Inizia una corsa verso la dannazione, che i narratori
descrivono, che cercano di fermare, senza mai capirne motivi, senza mai trovare
il modo di intervenire o di far intervenire qualcuno. Sembra allucinante (e
forse lo è) che in un paese “civile” in nome delle libertà personali, nessun
servizio civile intervenga nella vita della famiglia Lisbon. Eugenides porta
tutto alle estreme conseguenze, come detto. Ma anche lui non spiega, non
interpreta. Narra, fa forse trasparire elementi di comprensione, tutto però
diluito nella melassa che pervade questa inutile vita americana di provincia.
Le ragazze muoiono, i Lisbon spariscono (e poi sapremo che divorziano), i
narratori continuano da venti anni a porsi domande senza risposte. Il tutto con
una rappresentazione dello squallore quotidiano che rende la vita inutile di
essere vissuta. Quasi a dire che forse hanno fatto bene le sorelle a scegliere
il momento di andarsene. Insomma, meglio il film, più movimentato, anche se
meno straniante del libro. Libro, dove ringraziamo Eugenides di averci fatto
dono di uno zeugma dantesco a pagina 93 (“se ne andò indossando il suo
turbamento ed il suo cappotto”).
“La vita è una perdita di tempo.” (150)
Arto Paasilinna “Il liberatore dei popoli oppressi” Iperborea s.p.
(regalo di Silvia)
[A: 01/01/2016– I: 12/02/2016 – T: 16/02/2016] - &&&+
[tit. or.: Vapahtaja Surunen; ling. or.: finlandese; pagine: 305;
anno 1986]
Trent’anni
dalla scrittura, e li dimostra tutti. Anche se la penna (o il computer) di
Arto, ex-molto (guardaboschi, giornalista, poeta, e altro ancora), è sempre
affascinante. Ringrazio sempre, che bisogna rendere omaggio a chi apre delle
strade, il mio amico Emilio che mi consiglio il primo Paasilinna che ho letto
(“Piccoli suicidi tra amici”). Ed altri ne sono seguiti. Sempre con quel filo
d’ironia che non guasta mai. Come in questo, che, in maniera certamente
cattiva, in originale s’intitolava “Surunen il Salvatore”. Dove appunto Viljo
Surunen è l’eroe indiscusso del libro. Salvatore è (talvolta) l’appellativo di
Gesù, e qui Arto lo usa in modo ironico, che il nostro Viljo spazia da una
parte all’altra del globo per “salvare” qualcuno. Certo, sarebbe bello fosse
anche un liberatore dei popoli oppressi, come suggerisce il titolo italiano. Ma
se libera qualcuno, è solo un paio di persone alla volta, non certo tutto un
popolo. E penso ci sia un accordo tra Italia e Francia, poiché anche lì è stato
intitolato “Moi, Surunen, libérateur des peuples opprimés”, mentre nei paesi
anglofoni è uscito con il più corretto “Saviour Surunen”. La penna caustica di
Arto qui si esprime per tocchi, non lasciando nessuno immune dei suoi graffi. A
cominciare da Amnesty International, alle cui riunioni si conoscono il nostro
Viljo e la bella Anneli. Lei maestra di musica, lui glottologo. E dai banchi di
Amnesty cominciano a “lottare” con petizioni varie per la liberazione, ovunque
nel mondo, delle persone ingiustamente incarcerate. Si fossilizzano poi su tal
Ramon, da anni in carcere nell’oscuro Monterey, ignoto paese sudamericano,
assurto ad eponimo di tutti i simili paesi di quell’area: poche risorse, molti
dittatori (generalmente militari), aiuti nordamericani, carcere e tortura per
gli oppositori. Qui il primo scatto: le petizioni di Amnesty non hanno sbocco,
allora Viljo, sfruttando le sue capacità linguistiche, decide di andare di
persona al salvataggio di Ramon. E qui abbiamo la partenza delle immaginifiche
avventure degli eroi di Paasilinna: eroi improbabili, che tuttavia riescono a
piegare a loro favore gli eventi, sfruttando il più delle volte elementi
assurdi ed impensati. Vediamo allora Viljo arrivare a Santa Ruiza, capitale del
Monterey, entrare in conflitto con le autorità, lui di mentalità rigorosamente
democratica. Rischia la pelle nelle mani delle bande del terrore locale,
salvato da un miracoloso terremoto. Altro scatto d’ironia, Viljo decide di
conquistare la benevolenza dei potenti locali con conferenze sull’influsso
ellenico nella cultura sudamericano. Ovviamente riesce nell’intento
impossibile, facendosi dare una scorta militare, con la quale va alla prigione
montana, dove libera Ramon ed il suo amico Rigoberto. Fuggendo con loro in
Honduras. Peccato che, ormai provato dagli stenti, Ramon muoia. Ma Rigoberto è
con lui, ed insieme riescono a tornare a Mosca da dove Surunen era partito. E
dove aveva conosciuto un altrettanto improbabile studioso di pinguini. Che
convince Viljo e Rigoberto ad accompagnarlo nel cuore di un tipico paese
comunista, la Delatoslavia. Qui abbiamo la seconda parte degli avvenimenti, che
dopo aver salvato i comunisti latinoamericani dalle carceri militari,
nell’enclave claustrofobico slavo, il nostro eroe decide di salvare un prete
battista dal manicomio criminale dove è rinchiuso. Con tutta una serie di
improbabili e fortunosi accadimenti, sfruttando a pieno la burocrazia slava,
riesce alla fine a ripartire per Vienna con il prete Radel. Alla fine tutti
sono premiati. Radel si rifugia a Helsinki fondando una nuova Chiesa. Rigoberto
sposa la bella Milja. E finalmente, il nostro Salvatore può riposarsi dalle
fatiche con la sua Anneli. In tutto il filo del romanzo, Arto riesce sempre a
sfruttare al meglio tutte le possibilità. Surunen, da glottologo, parla tutte
le lingue locali, dallo spagnolo del Monterey allo slavo della Delatoslavia.
Riesce a farsi aiutare dai buoni, senza farli cadere nelle grinfie dei cattivi.
Riesce a dare colpi ironici a Gorbaciov (ancora in auge nell’anno 1986), a
Kekkonen (presidente storico della Finlandia), ed altri ancora. Ho ammirato e
confrontato a lungo, poi, il modo di guardare un paese completamente alieno al
personaggio, come il Sudamerica per il finlandese, con quello da poco letto
dell’India vista con gli occhi di uno sperduto americano del Texas (ne “I sei
sospetti” di Swarup) trovando molte più somiglianza che differenze. Purtroppo,
tuttavia, lo scritto risente il peso degli anni, e non è più graffiante come
alla sua uscita. Anche se questa è la sua prima pubblicazione in Italia. Grazie
ovviamente al lavoro paziente di Iperborea, ma si aspetta qualcosa di più
“moderno e vicino” per avere maggiori gradimenti.
Certo
che si sta molto in giro, in questi mesi estivi, sperando anche di fuggire dal
caldo. Ed allora eccovi subito, come seconda scrittura del mese, anche la
solita appendice legate alle cure, questa volta incentrata sull’ipocrisia.
Detto
dell’Islanda, detto che non si vede l’ora di partire, ma anche di tornare, e
poi di stare, come posso farmi mancare i miei soliti abbracci.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GIUGNO 2016
Un nuovo contrappasso simbolico
mi porta a leggere di ipocrisie dopo aver passato tre settimane in un paese
luterano, schietto, e piacevole, anche se costoso, come l’Islanda. Vediamo che
ne viene fuori.
IPOCRISIA
Herman Koch
“La cena”
I veri
ipocriti difficilmente hanno il sospetto di essere tali dal momento che il loro
atteggiamento è spesso inconsapevole. Questo rimedio non è indirizzato tanto a
loro, che se ne infischierebbero in ogni caso, quanto piuttosto a tutti coloro
che l’ipocrisia la sottovalutano. Se siete fra coloro che pensano sia un vizio
di poco conto, più un fastidio e un malcostume che una reale fonte di allarme
sociale, allora dovreste leggere “La cena” di Herman Koch.
In un
ristorante di lusso, due fratelli con le rispettive mogli si incontrano per
discutere, tra un manicaretto e l’altro, di come salvare i loro rispettivi
figli adolescenti dalla prigione dopo che hanno ucciso una barbona davanti a un
bancomat dandogli fuoco. La faccenda è seria poiché sono stati ripresi da più
di una telecamera... e allora che si fa? Bella domanda. Chiunque di noi non
saprebbe rispondere ad un interrogativo del genere, ma se anche non avete idea
di quello che avreste fatto voi, provate a giustificare quello che faranno
loro, se ci riuscite. Poco importa che la vicenda sia inventata, vi verrà la
pelle d’oca comunque e la prossima volta che incontrerete un ipocrita non
avrete più tanta voglia di essere indulgenti.
Bugiardino
Ebbene
sì, l’ho letto, e non molto tempo fa. Mi piaceva la copertina, e mi ricordava
echi di un film che non ho visto, ma di cui ho sentito parlare (“I nostri
ragazzi” di Ivano De Matteo, con un quartetto ben assortito di attori:
Alessandro Gassman, Giovanna Mezzogiorno, Luigi Lo Cascio e Barbora Bobulova).
Torniamo a vedere come ne scrissi due anni fa.
Herman Koch “La cena” Beat euro 9
[pubblicato il 19 settembre
2014]
Il
mio coevo scrittore olandese, dopo tanto scrivere per televisioni e giornali,
esce qui in tarda età con un libro ambivalente. Sicuramente ben scritto (ed una
volta tanto ben tradotto), cerca di confutare l’incipit dell’Anna Karenina di
Tolstoj. Cerca cioè di spiegare come non solo ogni infelicità è unica, ma anche
le famiglie felici, sono felici a modo loro. E lo fa con un libro, come
sottolinea Daria Bignardi, politicamente scorretto. Con un libro in cui, dopo
aver cercato di farci simpatizzare con tutti i personaggi, li distrugge ad uno
ad uno. Tanto che alla fine verrebbe da dire, come con Agatha Christie, “… e
non rimase nessuno”. Allora perché valutarlo al ribasso? Forse mi aspettavo un
po’ più di crudeltà verso la fine. Arrivati a tanto, viene quasi voglia di
vedere di più. Invece il libro si chiude, forse con scelta saggia, con una
cattiveria non tanto celata: le cose sono talmente brutte che continueranno ad
andare male. Non si salverà nessuno. La narrazione è fatta in prima persona da
uno dei quattro partecipanti alla cena, Paul. Partecipanti che si scopre essere
due fratelli, Paul appunto e Serge, con le rispettive mogli, Claire e Babette.
Si nota subito una certa disparità. Serge è l’uomo famoso, un politico in
scalata, che aspira ad alte cariche. Babette è un po’ una moglie “palo”: serve
nelle occasioni pubbliche, ma poco nel privato. Paul si scoprirà è un
professore in congedo, mentre ignoto sembra il lavoro della moglie. Si sa solo
che Paul la ritiene molto più in gamba di sé stesso (e di tutti gli altri). Ci
sono poi i due figli grandi, Michael e Rick, nonché Beau un nero adottato dal
politico. E si nota anche dell’astio. Paul sembra avercela, e molto, con Serge.
Ci fa credere forse che sia per la prosopopea da uomo pubblico (e ne
stigmatizzata bene gli atteggiamenti) ma procedendo capiamo che ci deve essere
qualcosa di più profondo. E mentre la cena procede (ed alla fine, da buona
forchetta, vi riporto anche il menu), Paul ci svela tutti (o quasi) i
retroscena. Lui, professore di storia, preso da crisi depressive profonde,
comincia a fare discorsi para-nazisti sulla necessità di eliminare i “cattivi
soggetti”. Tanto che viene allontanato dalla scuola. Poi la malattia di Claire,
e le continue scaramucce con il fratello, che sembra fare sempre la parte del
buono, del corretto. Ma infine, la grande crisi. Tutti e quattro i genitori si
accorgono, attraverso uno sfocato video trasmesso dalla televisione che sono
Rick e Michael ad aver ucciso (forse involontariamente) una barbona che dormiva
in un bancomat. Questa è la scintilla nascosta, che mette a nudo i
comportamenti dei quattro. Babette è subito emarginata non pensa che a sé
stessa, senza capire né figli né parenti. Serge è preso dal suo ruolo sociale,
vuole fare ammenda davanti a tutti. Paul e Claire, quasi indipendentemente
l’uno dall’altra, hanno invece un atteggiamento simile: fare di tutto per
proteggere il figlio Michael. Anche perché si aggiunge un ulteriore pericolo:
l’adottato Beau scopre le malefatte e ricatta i due ragazzi. L’abilità di Koch
è nel farci calare, gradino dopo gradino, nell’inferno di queste “felicità”.
Paul all’inizio sembra molto posato, riflessivo, preoccupato delle attività di
Michael. E poi, si scopre essere lui stesso razzista, quasi comprensivo,
preoccupato di coprire il figlio. Lo stesso modo di agire di Claire, che
addirittura cerca di coprire la possibile resa dei conti tra i ragazzi e Beau.
E cercano entrambi di mandare fuori gioco il tentativo di Serge di fare il
“bravo politico”. Ovviamente, riusciranno tutte le peggiori attività che ci
possono venire in mente. Alla fine non potremmo far altro che piangere su come
stia andando in malora l’etica di questo nostro mondo. E ringraziare l’autore
di aver costruito un monumento all’ipocrisia. Che sappiamo essere di questo
mondo, ma che pensiamo sia altrove. Invece è anche lì, nei comportamenti minuti
di molte persone. Nella mia ricerca del buono, nel mio fondamentale ottimismo,
rimango spiazzato da questo libro, dove non riesco ad entrare in empatia con
nessuno. Bravo Koch! Alcune note a margine sugli atteggiamenti al ristorante.
Non sono riuscito a capire, infatti, se il soggettivo di Paul è ironico o meno.
Ma dubito che lo sia, come quando fa una sparata sul fatto che solo in Olanda
(dice) i camerieri riempiono continuamente i bicchieri di vino per far salire
il conto. Lo fanno ovunque. Allora è ironico? È ipocrita? È, forse, solo ben
scritto, in modo che risaltano le stupidità della borghesia olandese. E magari
riusciamo a riflettere sulle nostre, di stupidità. Poi date un’occhiata al
menu, ed immaginate il cameriere che si affanna a descrivere i piatti,
soprattutto gli antipasti. E poi spezza il tappo mentre tenta di stappare una
bottiglia di Chablis!
Il menu (per quattro, ma non
sempre quattro piatti, che alcuni prendono pietanze simili, altri, verso la
fine, smettono di mangiare)
Aperitivo Champagne rosé
Vino Chablis
Antipasti Gamberi di fiume in vinaigrette di
dragoncello e cipolline con gallinacci dei Vosgi
Animella d’agnello marinata in olio sardo con rucola e
pomodori secchi della Bulgaria
Caprino caldo con pinoli e noci tritate e contorno di
songino
Piatto Filetto di faraona avvolta in
pancetta tedesca
Tournedos con contorno di uva e lattughina
Dolci Parfait di cioccolato con mandorle, noci grattugiate e
more
Gelato alla vaniglia con cioccolata calda
Caffè
“Non bisogna sempre sapere tutto l’uno
dell’altro. I segreti non ostacolano la felicità.” (252)
Conclusioni
Per una volta, e non succede
spesso, mi trovo concorde con le mie amiche dottoresse in libreria. Un perfetto
documento che innalza l’ipocrisia a modo di vita, che va letto e meditato, e
con tutte le forze, superato.