domenica 3 luglio 2016

In viaggio verso me - 03 luglio 3016

Continuo ad anticipare i tempi, ed a fornirvi un po’ di tutto, visto che per questa estate poco altro vi farà compagnia. Ho iniziato leggendo un saggio che mi riportava ai (bei) tempi di via dei Sabelli, constatando (e non mi meraviglio certo) che il tempo passa. Forse qualcosa migliora, io no di certo, ma almeno so chi sono. E poi tra una sarabanda dedicata al muoversi per il mondo ed al mangiare alternativo (tutte premiate con ottimi risultati), un bel salto all’indietro, laddove il mio amato Asterix non mancherà mai. Come diceva il grande Marcello: Sono Pazzi Questi Romani!!!
Krishnananda e Amana “Fiducia e sfiducia” Feltrinelli s.p. (biblioteca di Tolemaide)
[A: 06/06/2015– I: 17/01/2016 – T: 22/01/2016] - && +   
[tit. or.: Trust and Mistrust; ling. or.: inglese; pagine: 193; anno 2004]
Ecco ancora un altro libro che è saltato fuori dalla riorganizzazione delle librerie delle varie case dove ho vissuto negli ultimi venti anni. Un libro che mi ha fato fare un salto indietro di quindici anni, ripercorrendo con lui alcuni momenti dei miei percorsi interiori, cercando anche di capire se io stesso sono cambiato rispetto al libro, a quello che facevo, al modo di essere e di pensare che mi aveva fatto passare momenti pochi simpatici della vita. Devo dire che, chiuso il libro, ho avuto due reazioni. Verso il libro, che non mi è piaciuto moltissimo. Dice cose anche interessanti, ma in modi didascalici che non condivido (o non condivido più). Verso di me, che al contrario mi sono piaciuto, per come sono ora, con tutti i limiti, gli errori, ed i sempre possibili miglioramenti. Comunque poiché paliamo di libri e non di biografie, torniamo al testo e lasciamo il contesto. Che il libro mi aveva attirato per quel sottotitolo furbetto (“Impariamo dalle delusioni della vita”) e dal nome indiano degli autori. I quali, tuttavia, non sono indiani ma lui è americano, lei è danese, ed il loro nome indiano deriva dal lungo percorso che hanno fatto, soprattutto Krish, come seguaci, adepti e propugnatori degli ashram di Osho. Non voglio entrare (non mi interessa, non ne so abbastanza) sulle polemiche intorno a Osho, certo che Krish e Amana, alla fine, se ne sono staccati, ed ora gestiscono un centro terapeutico del nome accattivante di “Learning Love” (à imparare l’amore). Per la loro missione, ad un certo punto, hanno cominciato a pubblicare libri che seguono i diversi fili della loro terapia. Come “Uscire dalla paura” o “A tu per tu con la paura”. O come questo che esamina il rapporto tra fiducia e sfiducia, al fine di volgere a nostro vantaggio (prima interiore, poi di vita) i momenti che attraversiamo durante la nostra esistenza. Il tentativo dei nostri è quello di sfoltire la mente del lettore da quella patina di resistenza che mettiamo di fronte a noi ogni volta che siamo in difficoltà, cercando di farci discernere le “vere” difficoltà, dai momenti illusori, dove ci facciamo un castello di idee, in genere basate sul niente. Arrivare quindi, secondo la loro definizione, a liberarsi della “fiducia fantasticata”, cioè quella sensazione di fiducia che ci auto-imponiamo al fine di non cadere in depressioni varie. Uscire, quindi, da quello stato infantile, da quel bambino bisognoso, e lasciare accadere la vita. Imparare le lezioni che ogni istante ci pone davanti. Imparare ad essere responsabili verso noi stessi, il nostro corpo, le nostre sensazioni. In fin dei conti, seguire ogni istante, lasciandolo accadere, capendo che non sono le “sliding doors” della vita che ci permettono di essere sereni, ma l’accettazione e la comprensione di quanto accade. Ed alla fine, la fiducia diventa uno stato interiorizzato. Non dicono, nessuno ci crede, né che sia facile né che sia vincente. Ma, un po’ alla “Catalano” (per chi è anziano come me, ci si capisce), è meglio avere fiducia che non averla. Ovviamente, il loro percorso porta, non può che portare, dalla fiducia all’amore. Proponendo anche un esagramma di atteggiamenti per “imparare l’amore” (e poi, se volete approfondire, ci sono sempre i seminari). Spero di non aver interpretato troppo quanto viene percorso nel libro, volendo solo darne un assaggio, al fine di farvi capire l’approccio. Per poi discutere, proprio dell’approccio. Non dico di sapere tutto dei percorsi personali (non so se conosco il mio, figuratevi quello vostro), tuttavia una cosa ho appreso in tutto questo tempo (di studi e di viaggi). Niente può essere trapiantato “sic et simpliciter”, da una cultura all’altro. È impossibile che, da occidentali, si riesca ad entrare completamente nella mentalità di una meditazione orientale. Come, scusate il paragone molto basico, è impossibile gustare un cibo orientale con la stessa fragranza ed ampiezza di risultati che si ha mangiandolo su luogo. Con questo, non dico che non possa far bene. Che il secondo insegnamento che ho appreso recita: “se ti fa bene, fallo”. Se meditare come Osho ti fa bene, fallo. Se muoverti bioenergeticamente come Lowen ti fa bene, fallo. Se sederti su di un lettino come Freud ti fa bene, fallo. Questo è, alla fine, il grosso limite della maggior parte degli interventi sulla psiche. Pensare, erroneamente, che la propria modalità sia la migliore, e vada bene per tutti. La modalità migliore è quella che fa star meglio chi sta male.
“Lasciare il caos dove altri dovranno fare ordine, non prendersi cura di importanti aspetti pratici della vita … sono modalità disfunzionali in cui si esprime l’inconscio bisogno di ricevere attenzione.” (49)
“Lo ami abbastanza da voler essere con lui/lei, anche se non cambierà mai?” (107)
“Dobbiamo prenderci il rischio di onorare i nostri bisogni. Ciò non significa che vivere o essere in intimità con un’altra persona non includa delle mediazioni. Ma quando questo avviene su cose essenziali, allora non si tratta più di una mediazione ma di un compromesso.” (146)
Gabriele Romagnoli “Solo bagaglio a mano” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 22/01/2016 – I: 23/01/2016 – T: 25/01/2016] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87; anno 2015]
Altro libro fortunatissimo, e con una serie di curiosità e carambole, per mezzo delle quali è riuscito ad entrare nella mia libreria, prima, e nelle mie grazie, poi. Ne ho sentito parlare dalla mia nipotina preferita (nonché unica, e, volendo, neanche tanto “ina”, visto che quest’anno va per i ventinove). In genere non parliamo di libri, quindi mi aveva incuriosito le sue citazioni di questo libro, delle esperienze che sembravano nascervi. Ne parlai a mia volta con Alessandra, che, nascostamente, ha poi trovato il modo di regalarmelo per una piacevole ricorrenza post-cubana. Tant’è che l’ho subito aperto, e letto abbastanza alacremente. Tra l’altro ricordandomi, mentre lo aprivo, che Romagnoli è proprio il giornalista che ho seguito per tutto il 2015 con le sue uscite domenicali su Repubblica, dove ogni settimana parlava di una città e di un paese diversi. Alla fine il libro, brevissimo e veloce, parla anche di altro, e ci torniamo tra poco. Quello su cui metto immediatamente l’accento è l’inizio, ove il nostro Gabriele accenna al suo obiettivo – promessa del suo cinquantesimo compleanno: visitare nel corso della vita 100 paesi, arrivando, mentre scrive questo libro verso la fine del 2015, alla quota di 73. Io non ho fatto la stessa promessa, non ho vissuto a lungo all’estero come lui, eppure ho viaggiato tanto, spero di viaggiare ancora a lungo, ed ho visitato sino ad ora 83 paesi. Non so, non m’interessa vedere se arriverò a 100. M’interessa vedere, sempre e comunque, cose nuove, perché solo così si rigenerano le cellule morte, ed i pochi neuroni mantengono un minimo di attività vitale. Attività stimolata dai molti spunti di questo libro, che non è sull’arte del viaggiare, ma sull’arte di vivere. Anche se ammetto, che per me sono spesso nozioni coincidenti. Aprendosi e chiudendosi con l’esperienza di Romagnoli in Corea di organizzare il proprio funerale facendosi rinchiudere in una bara, per un tempo definito, ma che non è a lui noto. Lì lo fanno per esorcizzare l’ondata di suicidi che vi avvengono. Lui ne approfitta per meditare sugli aspetti della vita. In una serie di piccoli pensieri, l’autore ci accompagna verso la sua meta. A partire da quella sensazione avuta a Kigali, in Ruanda, dove vedeva la gente, nonostante sia ormai in periodo di pacificazione, muoversi all’aperto molto velocemente. Dove gli spiegano che era un’abitudine venuta propria dalla guerra, dove andando svelti era più difficile essere colpiti. Proseguendo con il panegirico di una trovata in cui è maestra Alessandra, quella del borsone vuoto e ripiegato, che si riempie di cose quando servono. Un continuo quindi andare e venire, sempre sulla falsariga di cosa portarsi appresso per viaggiare leggeri nella vita. Per perdere la zavorra, al fine di ritrovare le essenze di sé stessi. Fino a quel capolavoro di ricordi e memorie che Romagnoli (ed io con lui) troviamo nel bellissimo Ireneo di Borges. Quello che ricordava tutto, e proprio per questo non potrà che morire sovraccarico di ricordi, così come moriranno le memorie esterne dei nostri supporti mobili, computer o cellulari che siano. Bisogna selezionare, bisogna avere la capacità di mollare (penso al recente film di Genovesi “Perfetti sconosciuti” ed alla battuta di Marco Giallini sull’importanza di non fare sempre muro contro muro, ma di aver la capacità, di una difficoltà infinita, di fermarsi). Ed alla fine Gabriele esce dalla sua bara fittizia, raccoglie queste memorie sparse, batte, insiste fino alla morte sulla necessità di avere tutto quello che serve a portata di mano. Ricordandosi, e ricordandomi, di quel non eccelso film con George Clooney, “In the air”, e la sua vita raccolta in uno zainetto. Va per i sessanta, Romagnoli, ma con lo spirito giovanile di sempre, finisce con un’esortazione che condivido, sulla necessità di nuovi spiriti, di generazioni capaci “di scegliere sempre la libertà, di consumare soltanto il necessario, … di saper perdere cose e battaglie senza perdersi, … con una inflessibile attrazione verso il presente”. Sì, con il qui ed ora. Come abbiamo imparato. Come spesso ci dimentichiamo, sovente appesantiti da troppa zavorra. Partiamo, allora, nel presente, e verso il futuro, solo con il bagaglio a mano.
“Il bagaglio ideale è leggero … Non conta com’è quando è chiuso, conta com’è quando lo apri. Vale per la casa che sceglierai. Per la persona con cui passerai gli anni a venire. Conta che sia agevole andarci in giro.” (31)
“Sai, all’inizio tieni tutto. Poi … capisci che l’unico archivio che conti è la tua memoria: hai tutto lì, per sempre.” (48)
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e il Papiro di Cesare” Panini euro 12,90
[A: 28/01/2016– I: 29/01/2016 – T: 29/01/2016] - &&& e ½  
[tit. or.: Le Papyrus de César; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2015]
Non si può dimenticare il proprio passato (quello per cui siamo ciò che siamo) e quindi, fatalmente, si ritorna a voler bene ai fumetti, che tanto spazio hanno avuto in anni lontani (ma solo nel tempo). Asterix è per me uno dei fari illuminanti, e mai scorderò la “goturia” che mi prendeva nel leggere le strampalate avventure dei resistenti all’impero di Cesare (e chi non sa perché ho scritto il virgolettato, si vada a rileggere il capolavoro “Asterix e i Goti”). Come ho detto nel commentare il primo volume della nuova serie, dalla morte di Goscinny, pur apprezzando gli sforzi di Uderzo di mantenere in vita le storie ai Asterix, Obelix e compagnia, notavo un affievolimento della verve che aveva guidato la parte “forte” della serie. Ora che Uderzo ha compreso di non riuscire più ad esprimersi compiutamente, ed ha passato la mano ai due nuovi co-autori, i nostri stanno tornando, non dico ai fasti di un tempo, ma sicuramente ad una più godibile lettura. Certo, la matita di Conrad, pur muovendosi nel solco originale, ogni tanto sbava verso elementi spuri e poco consoni (come il mostro di Lochness della precedente storia, o la carica dell’unicorno in questa). Ma la sceneggiatura di Ferri si sta rivelando, e qui meglio che nel primo volume, di un più gradito spessore. La storia prende le mosse dalla decisione di Cesare riguardante la pubblicazione del suo “De Bello gallico”, ed al suggerimento del suo editore di tagliare la parte relativa alle sconfitte con il piccolo villaggio armoricano. Un intrepido giornalista trafuga il capitolo mancante, e, sprezzante dei pericoli, lo rimette nelle mani di Abraracourcix. Vicissitudini si susseguono nella ricerca da parte dei romani di riprendersi il capitolo sottratto e nelle intenzioni dei galli di perpetuarlo a futura memoria. Sarà il capo dei druidi ad impararlo “par coeur” come dicono in Francia. Cesare riavrà le sue pagine, e le distruggerà, ma il passa-parola dei druidi continuerà, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove l’ultimo druido ne narrerà le vicende a due intrepidi autori: Albert e René. E se la storia è semplice, le invenzioni narrative ne danno un pepe che da qualche tempo mancava. Pepe che non sempre è facile riportare nelle traduzioni (pur volenterose di Vania Vitali e Andrea Toscani). L’editore di Cesare (che nell’originale si chiama Bonus Promoplus e che qui viene tradotto con Bonus Bestsellerus) ha le fattezze di Jacques Séguéla (un pubblicitario ben noto in Francia per essere stato consigliere di Mitterrand a suo tempo, e per aver poi preso più tardi la via di Sarkozy). Più facile è decifrare l’intrepido giornalista (Doublepolémix in francese e Vispolemix in italiano), che, nel tratto e nei modi, si rivela un doppione di Julian Assange, il famoso reporter di WikiLeaks. Un altro nuovo personaggio è introdotto nella storia, il capo dei druidi, il più anziano e memoria storica della specie. E con bella invenzione gli viene affibbiato il nome di Archéoptérix, facilmente riconducibile all’Archaeopteryx, il cosiddetto “uccello primario”, e come questo anello di congiunzione tra il remoto passato ed il mondo attuale (non certo odierno, ma cosa sono duemila anni se non un colpo di ciglio nello scorrere del tempo universale?). E se vogliamo cercare il più nascosto degli omaggi, c’è il falconiere al seguito dei romani, che invia messaggi con i piccioni ed addestra il falco cattivo che ha la faccia di Alfred Hitchcock (un omaggio all’immortale autore del film “Gli uccelli”?).  Mentre quindi gli ultimi volumi della gestione “tutta Uderzo” passavano senza lasciar traccia, qui si riprende a lanciare frecciate satiriche sul mondo attuale. Lo strapotere degli editori che stravolgono talvolta i libri per renderli più vendibili. La non censurabilità dei giornalisti e di converso, la credulità verso tutto quanto viene scritto. Ci sono due passi esemplari nel testo. Il primo, quando tutti gli abitanti del villaggio gallico pendono dalle righe dell’ultimo oroscopo pubblicato sul giornale locale, con il saggio druido Panoramix che commenta: “Le persone tendono a credere a tutto quello che trovano scritto.” L’altra quando sempre Panoramix, per suffragare la volontà di imparare a memoria il testo sottratto, recita il vecchio adagio gallico: “Gli scritti volano, le parole restano!”, con tutto il coro di risate che noi vecchi latinisti subito orecchiamo. Altre spigolature sono presenti, e ve le lascio scoprire da soli, che la lettura di un libro di Asterix è anche una palestra per affinare le doti di connessione che i nostri (ormai) pochi neuroni ancora conservano. Io spero solo, prima o poi, di avere la voglia di ripercorrere la genesi onomastica dei libri di Goscinny (come credo sia riportata nell’introvabile “Dictionnaire Goscinny”), e la parallela genesi dei nomi italiani. Perché se Abraracourcix o Assurancetourix rimangono, perché modificare Agecanonix con Matusalemix? Insomma, sarebbe una bella sfida. Intanto, aspettiamo un terzo libro, forse per il prossimo anno, chissà.
Fausto Brizzi “10” Einaudi euro 12,50 (in realtà scontato a 8 euro)
[A: 15/02/2016 – I: 16/02/2016 – T: 17/02/2016] - &&&&     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126; anno 2016]
Ogni regola ha le sue eccezioni, altrimenti saremmo in un regime dittatoriale che a me non è consono. Per cui, passato in libreria per vedere le novità, mi colpisce il titolo del libro (ripensando sia ai miei conoscenti vegetariani o quasi, sia al libro sul cibo di Pollan appena letto), lo compro e lo leggo subito. Anche perché la seconda curiosità deriva dall’autore, che conosco buon regista (“Notte prima degli esami” tanto per citare a memoria) e sceneggiatore “di routine” (ha collaborato ad una serie infinita di “Natale a …” e simili cine-panettoni). E che non è nemmeno lontanamente parente di Enrico (scrittore bolognese che ho adorato per “Jack Frusciante”). La resa finale mantiene le premesse di quanto cinematograficamente fa Fausto. Testo scorrevole, alcune battute fulminanti, situazioni surreali ben gestite, nonché presenza simpatica e tuttavia allarmante di Claudia Zanella, moglie di Fausto. La vegana, appunto, dato che il sottotitolo è proprio “Una storia vera, purtroppo”.  Assistiamo quindi alla discesa “in abisso” (senza nessuna connotazione di giudizio, come dirò poi) del nostro Fausto onnivoro impenitente, che non sa resistere alla pizza bianca calda con la mortadella, agli spaghetti alla carbonara o cacio e pepe, alla mozzarella di bufala, trovarsi innamorato della giovane Claudia, e scoprire, al primo appuntamento in un ristorante specializzato in insaccati, che la suddetta è vegana. Da qui l’altalenarsi delle situazioni, dove Fausto è preso tra l’amore per Claudia e l’amore per il cibo spazzatura. Altra scena degna, la cena a casa di Claudia, con la descrizione del primo pasto vegano, cromaticamente ineccepibile ma dal sapore, a primo acchito, tra “stucchevole” e “disgustoso”. Poi, come in tutte le cose, il gusto, guidato dal cervello, si affina. A parte le ricadute verso i cibi proibiti, e le conseguenti punizioni: depurazioni con acqua e limone, giorno di digiuno programmato, ed altre disavventure. Indescrivibile il tentativo di esportare in Tailandia dieci chili di riso basmati. E poi la convivenza, a tre ovviamente, che Claudia porta con sé anche Lana la cana. Ed è un crescendo di ironia il giro per la nuova casa di Claudia, che smonta, pezzo dopo pezzo, vestito dopo vestito, tutta la precedente vita di Fausto. Il matrimonio vegano sulla spiaggia di Sabaudia (con il testimone dello sposo che importa di contrabbando le mozzarelle di bufala). Per finire con l’annuncio di Claudia, a Fausto, a noi, ed anche a tutto il mondo (se ne legge anche in rete), di essere incinta, e di essersi messa a cercare un pediatra vegano. Non auguriamo, ovviamente, alla coppia Brizzi-Zanella le disavventure descritte da Saverio Costanzo nel film “Hungry Hearts” con Alba Rohrwacher, che lo stesso Brizzi conosce bene per aver prodotto il film. Detto quindi del testo, che, ripeto, è accattivante, veloce, a tratti divertente, e che comunque trasmette un’allegria di fondo (che non fa mai male di questi tempi). E che quindi è un testo che promuovo ampiamente. Veniamo al contesto, che invece mi suscita qualche perplessità. La prima è derivata dal fanatismo, elemento che ho sempre rifuggito in tutte le sue espressioni, civili e religiose. Quindi cerchiamo di (con-)vivere, vegani e non, vegetariani e non, fumatori e non, e via elencando. Mi rendo conto anche che una dieta con meno proteine animali possa essere migliore, per la salute e per l’ambiente. Ritengo tuttavia corretto un uso, anche parziale, di tutti i tipi di alimenti, anche se bisognerebbe dare più spazio alle verdure. Mi vedrei bene nel “flexitariano” di Pollan, vegetariano flessibile, senza abbandonare il resto, ma facendone un uso consapevole. Dato che non potrei rinunciare alle tazzone di caffellatte che accompagnano la mia colazione, insieme allo yogurt, alla marmellata d’arance (ma solo se fatta da Alessandra) ed al miele (che non si capisce perché sia vietato dai vegani). Non credo, sono uno tendenzialmente innocentista, che il libro sia stato commissionato da una setta di vegani che hanno circuito Fausto, o che Brizzi si sia piegato a volontà denaresche. Preferisco prendere il buono che c’è dove c’è. E ridere a tutta faccia (come ho fatto in autobus mentre ne leggevo) quando con Fausto ripenso ai vegani, ed al fatto che, prima che alla dieta, pensavo all’invasione aliena degli abitanti del pianeta Vega, ed alla difesa della Terra che faceva Actarus ed il mitico Goldrake. Intramontabile!
“Il mio piatto sembrava la tavolozza di un pittore che aveva esagerato nello spremere i tubetti di tempera.” (33)
“Non mi ammalo quasi mai … non so gestire bene nemmeno un insignificante 37,2 … [e divento] un fastidioso piagnisteo ambulante.” (51)
Poiché siamo nella corsa ravvicinata delle diverse scrittura, e per ora tralasciamo i “libri per vivere felici” che riprenderemo a settembre, vi allego la solita cura, dedicata al lavoro.

Continua a fare caldo, continuiamo a soffrire un poco preparando la vicina partenza (dove poi non si andrà di certo in climi più freschi…). 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2016
Sempre nell’ottica dei contrari, cosa dire di una puntata dedicata alla perdita del lavoro quando si è nella mia posizione? Vediamo cosa ne esce…

LAVORO, PERDERE IL

Andrea Bajani     “Cordiali saluti”
Herman Melville   ”Bartleby lo scrivano”
Kingsley Amis     “Lucky Jim2
Licenziamenti e morti sul lavoro sono purtroppo le storie del nostro tempo, un tempo davvero determinate, per usare il lessico dei nuovi contratti, a perseguire incertezza e iniquità sociale. La paura di essere licenziati, o di non trovarlo mai, un lavoro, è una sindrome sempre più diffusa, una malattia contagiosa e intergenerazionale. “Cordiali saluti” di Andrea Bajani ne ripercorre diverse fasi. È la storia di uno che per mestiere deve licenziare i suoi colleghi per conto dell’azienda. Scrive allora delle lettere calorose e paradossali, perché ha un debole per la cortesia, invitando coloro che esonera a riprendere in mano la loro vita, i loro sogni, il futuro che gli si spalanca davanti come una grande occasione. Presto, nei corridoi della ditta, lo accompagneranno il gelo, il terrore e la diffidenza degli altri dipendenti, gli elogi dei suoi capi e il soprannome di Killer. Ma una curiosa circostanza scompagina l’ordine feroce delle cose: una paternità improvvisata e d’emergenza per conto dello sfortunato collega che lo ha preceduto, il direttore delle vendite, licenziato prima dalla società, e poi dalla vita. Saranno questi due bambini a riportarlo nel consorzio umano e a fargli scrivere un’ultima lettera, per riscattare il dolore provato e procurato.
Perdere il lavoro può essere un colpo terribile, per le vostre tasche e per il vostro ego. Il modo migliore per affrontare questa eventualità è provare a considerarla per davvero come un’occasione - la possibilità di prendersi una pausa dagli impegni quotidiani, ripensare alle vostre opzioni, e forse addentrarsi in un mondo nuovo. Invece di concludere che eravate inadatti a quel lavoro, convincetevi che quel lavoro era inadatto a voi. Se non siete ancora convinti, pensate a tutte le volte in cui, nel vostro lavoro, vi è capitato di non aver voglia di fare le cose che vi venivano chieste. Proprio come Bartleby.
Il Bartleby di Herman Melville è uno scrivano, e quando si presenta per la prima volta allo studio legale del narratore, «pallidamente lindo» e «penosamente decoroso», il suo datore di lavoro pensa che il suo carattere tranquillo avrà un effetto positivo sugli altri dipendenti. In un primo tempo, Bartleby si comporta come un lavoratore modello, trascrivendo industriosamente lettere in quadruplice copia. Poi però comincia a ribellarsi. Quando il suo datore di lavoro gli chiede di confrontare una copia con l’originale, Bartleby gli risponde: «Preferirei di no». Ben presto diventa chiaro che lui non intende occuparsi di nulla che vada al di là delle mansioni più elementari del proprio lavoro. Se gli viene chiesto di fare qualcosa di più, risponde sempre allo stesso modo, inflessibile: «Preferirei di no». È un terribile vicolo cieco, perché il suo datore di lavoro non se la sente di licenziare una persona così mite e che sembra non avere una vita al di là della scrivania. Bartleby, da parte sua, farà solo quello che vorrà.
Lasciatevi ispirare dal gesto di resistenza di Bartleby. Fino a che punto il vostro lavoro vi costringe a scendere a compromessi con ciò che volevate davvero fare? La ribellione di Bartleby lo porta fino a rifiutare di alzarsi dalla scrivania. Voi, invece, avete la possibilità di andare avanti ed esplorare nuovi territori.
Forse potrete addirittura festeggiare la perdita del vostro lavoro. Quando Jim Dixon ottiene la cattedra di Storia medievale in un’anonima università nelle Midlands in “Lucky Jim”, non ha alcuna intenzione di rovinare le cose. Accetta di buon grado l’invito del suo capo, Neddy Welch, per partecipare a un «week-end culturale» in campagna, pensando che sia meglio tenerselo buono. Una volta a destinazione, tuttavia, non fa altro che cacciarsi nei guai. Seguono scene farsesche, con lenzuola incendiate, madrigali cantati da ubriachi e varie complicazioni sessuali. Jim, tuttavia, dà il peggio di sé proprie quando fa una lezione sugli stereotipi pastorali nell’Inghilterra medievale, i cui ultimi passaggi sono inframmezzati proprio dalle sue smorfie di derisione.
Fatevi una bella risata, insomma, e poi mettetevi a cercare il lavoro che meglio si adatta a voi. Perché la pubblica umiliazione di Jim ha un epilogo inattese. Vedere qualcuno farsi beffe del proprio lavoro - e uscire vincitore - sarà un toccasana per il vostro morale.

Bugiardino

Ho letto due dei tre libri proposti, e ne ho letto ormai da molti anni, quando queste trame erano ancora molto telegrafiche. E Melville l’ho letto nell’edizione di Repubblica con il testo a fronte.
Andrea Bajani ”Cordiali saluti” Einaudi euro 9,50
[pubblicato il 14 gennaio 2007]
Non è caustico, di più. Storia di un responsabile del personale che deve “allontanare” dipendenti inutilizzabili nella logica industriale. Dove andremmo a finire schiacciati dai “disumani” meccanismi aziendali? Cento pagine di pugni nello stomaco.
Herman Melville “Bartleby, lo scrivano” Repubblica Short Stories euro 4,50
[pubblicato il 12 aprile 2009]
Sconcertato! Ma la sindrome di Bartleby (ricordando l’esilarante libro di Vila-Matas) mi sembrava una cosa diversa. È vero che qui siamo nel puro Melville, quello dove l’atmosfera conta più dei fatti, che sono pochi: un avvocato, i suoi copisti, l’arrivo di Bartleby che non si integra nello studio e ad un certo punto si tira fuori, con quello che diventerà il suo celebre motto “I would prefer not to”. Il resto è ricamo. L’ambientazione a New York, in una Wall Street dove lo studio dell’avvocato si affaccia su un cortile chiusa da una parete. Mi sfugge, nonostante il tentativo dell’introduzione di chiarirlo, il perché della vicenda. Certo, qualcuno, ad un certo punto, messo di fronte a qualcosa che non si sente in grado di fare, può assumere l’atteggiamento dello scrivano, il suo “preferirei di no”. E quella cortesia disarmante può distruggere mondi interi. Una specie di Gandhi cento anni prima. Ma con una grande, sostanziale diversità: per cosa lotta Bartleby? Qual è lo scopo del suo diniego? Rifiutare un mondo che sta iniziando ad uccidere tutti i valori, ma per cosa? Qui si è arenata la mia empatia con la scrittura. Non sono riuscito a capire lo sforzo verso cui tende la sua resistenza passiva. E non capendolo, mi sono trascinato nella scrittura, staccandomene un po’ e trovandola proprio americana. Anzi di uno di quei caffè americani, che si dice contengono molta più caffeina del nostro espresso, ma che, al mio gusto, rimangono una brodazza mal ingurgitabile. Ottima la lingua, niente da dire sulla traduzione, forse troppo didascaliche le note (sembrava ripercorrere una mini guida di New York), forse ci voleva almeno un amaro finale (e non un finale amaro).

Conclusioni

Si, i meccanismi sono perfetti. Le descrizioni appropriate. Soprattutto nello splendido per cattiveria lavoro di Bajani. Ma io avrei anche aggiunto Joshua Ferris con “E poi siamo arrivati alla fine”.

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