Una settimana dedicata agli
amici, cominciando con i sempre interessanti prestiti/regalo del grande Fako.
Che questa volta ha superato sé stesso riuscendo a rifilarmi quattro libri
praticamente illeggibili. Tre “vecchi” Sellerio, che, come dice il primo, dopo
aver fatto “passi nella memoria”, sono scomparsi verso un giusto oblio. L’ultimo
sarebbe anche riuscito interessante, per il tema in sé. Purtroppo la resa
stilistica dello stesso tema mi ha lasciato freddo e distante. Nonostante
questo, spero che Fako continui a rifornirmi, che, pur nella disparità, sono
libri che si possono leggere (con buona pace di Pennac).
Antonio Castelli “Passi a piedi passi a memoria” Sellerio euro s.p.
(regalo di Fako)
[A: 30/08/2016 – I: 30/08/2016 – T: 31/08/2016] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 90;
anno 1985]
Benché
sempre grato a Fako, per la sua paziente opera di distribuzioni di libri,
questo suo recente omaggio è stato preso, cotto, letto e mangiato in un
battibaleno (come vedete, iniziato lo stesso giorno in cui è entrato in casa, e
presto terminato). Purtroppo non è stato ben digerito, forse non ne ho capito
le motivazioni, forse la frammentarietà del testo stesso lascia il lettore con
un sentimento di attonita incompiutezza. Come vedete dalla data di
pubblicazione è uno dei non dico primi ma sicuramente poco dopo pubblicati della
collana “La memoria”, quella che permise a Sellerio, sotto la spinta di
Sciascia, un recupero di libri ed una sua collocazione in un mercato che allora
era di nicchia, ma che si andò ben presto allargando. Per poi, ingaggiato
Camilleri nella squadra, cominciò a correre ed a mietere indicibili successi.
Quelli erano invero i primi passi, cominciati con “Dalla parte degli infedeli”
di Sciascia stesso, proseguiti con libri particolari come “Il procuratore della
Giudea” di Anatole France o come “Delitti esemplari” di Max Aub (un libro che
ricordo con affetto). Castelli era uno scrittore siciliano, in quella fila di
eruditi marginali alla cultura imperante, che arruolava elementi poco noti al
grande pubblico, ma di spicco come Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo, anche
prima dei loro boom editoriali. Castelli è erudito, avvocato, ma soprattutto
collaboratore di Panunzio sul settimanale “Il Mondo”. A 40 anni pubblica il suo
primo libro (“Gli ombelichi tenui”) e cinque anni dopo il secondo
(“Entromondo”). Poi più nulla. Ovvero, più nulla se non questa invenzione di
Sciascia, che prende alcuni racconti del primo libro (passi a piedi) e li
unisce a pezzi scelti espunti dal secondo (passi a memoria) confezionando un
libro omaggio. Cui Sciascia teneva molto, volendo ripagare il suo colto amico
dello sgarbo a lui inflitto nel ’68 quando al libro di Castelli, la giuria del
Premio Brancati preferì “Il mondo salvato dai ragazzini” di Elsa Morante. E
tanto brigò Sciascia da far avere nel 1998 a questo libro l’omaggio postumo
(Castelli era morto ormai da dieci anni) con l’assegnazione del Premio
Recalmare. Chiudendo l’inciso di cui sopra, però, poco prima di questo (che
porta il numero 106), nella collana di Sellerio, escono altri libri, per me
memorabili: con il 93 “Notturno indiano” di Antonio Tabucchi e con il numero 95
“Assassinio al Comitato Centrale” di Manuel Vázquez Montalban. Tornando al
libro, a questo libro, devo invece dire che mi ha lasciato abbastanza e
congruentemente freddo. Nella prima parte ci sono alcuni piccoli racconti, nella
maggior parte ambientati nella città d’elezione di Castelli, cioè Cefalù. Se ne
respirano i passi e gli umori, se ne intravedono le possibili percorrenze come
elementi che spiccano da una tela altrimenti bianca. C’è il gusto della frase,
della parola, si nota anche la fatica che ognuna di queste parole ha fatto
soffrire all’autore per uscire, per cristallizzarsi nella pagina. La seconda
parte, questo “Entromondo” che ogni tanto muove verso la natia Castelbuono, è
ancora più rarefatta, tanto che ne riporto una frase, per mostrare come
scriveva Castelli. Per mostrarne l’indubbia bellezza nella scelta delle parole.
Ma anche per mostrarne l’inutile espressione. Non muove sentimenti, muove
sinapsi cerebrali forse, fa fare piccole connessioni. Ma non riesce ad avere la
compiutezza di quegli altri autori siculi di cui citavo sopra. Non riesce in
nessuna breve frase (od anche in quelle lunghe) a farmi avere quel brivido che
ad esempio provo leggendo questa riga di Giorgio Caproni: “Buttate pure via /
ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella
sua essenza, una rosa”. Sciascia ed i suoi postumi rivendicano la bellezza e
l’asciuttezza dello stile di Castelli, espostosi alla luce quando lo stile non
era un elemento di distinzione. Io, con molta umiltà, ne ho letto, ma non ne ho
tratto nessun benefico effetto. Pur essendo molto cerebrale, non lo sono forse
abbastanza, qui.
“Una vasta nuvola funerea sporcherebbe il
cielo, se il sole non provvedesse ad essiccarla, mungendone la pioggerellina
che porta in grembo.” (44)
Max Beerbohm “Storie fantastiche per uomini stanchi” Sellerio s.p.
(prestito di Fako)
[A: 30/08/2016 – I: 31/10/2016 – T: 31/10/2016] - & e ½
[tit. or.: vedi sotto; ling. or.: inglese; pagine: 159;
anno 1897-1919]
Seppur
devo ancora ringraziare il mio amico Fako che mi fornisce sovente libri che non
avrei mai pensato di acquistare, questa volta il suo prestito è caduto
malamente. Un libricino di quattro racconti, che si leggono velocemente e che
velocemente si dimenticano. Tanto che avrei dato al massimo mezzo libricino di
gradimento, se non avessi approfondito la personalità dell’autore che, seppur
non mi sia simpaticissimo, comunque ha un suo interesse e delle curiose
particolarità. Ma prima dell’autore, veniamo alla confezione. Che qui Sellerio
stava agli albori della sua collana dedicata a “La Memoria”, essendone questo
il volume 41 (e ricordo che ora si avvia oltre i mille esemplari). Per cui
venivano fatte operazioni un po’ troppo intellettuali, come riunire quattro racconti
di questo esimio caratterista nato a Londra nel 1872, coevo e sodale di
personaggi come Aubrey Beardsley, o Oscar Wilde o William Rothenstein (che tra
l’altro compare nel secondo scritto). Non solo, ma come titolo di questo
compendio viene preso il sottotitolo del primo racconto, “A fairy tale for
tired men”, facendo lievitare “tale” in “tales”. Perché? Misteri editoriali.
Beerbohm, per l’appunto, è un uomo di punta di penna, che riempie i suoi
scritti, come al tempo si usava, anche di disegni (tanto che è noto anche come
caricaturista). Pare fosse anche omosessuale, benché inconfesso, tanto che si
sposa almeno due volte. E, per la gioia degli scopritori di elementi “altri”,
muore di infarto ad 83 anni, in quel di Rapallo. Come autore, pubblica una serie
di piccole raccolte di racconti, da dove provengono queste. Il primo, in
realtà, pur nella sua brevità, ha avuto anche una pubblicazione autonoma.
Scritto nel lontano 1897, dal titolo “The Happy Hypocrite”, reso in italiano
con l’ottimo “L’ipocrita felice”. Ma che direi è l’unico elemento di interesse
dello scritto. Per il resto seguiamo la vicenda di George Hell (Giorgio
Inferno, se lo vogliamo tradurre), un cattivo gaudente, che, colpito dalla
freccia di cupido, cada innamorata della giovane Jenny. Per conquistarla si fa
fare una maschera di cera con la faccia innamorata, la conquista, vanno a
vivere in campagna, e lui si redime. Restituisce soldi e ruberie perpetrate, e
l’amore lo cambia talmente che quando, e non vi diciamo come, la maschera cade,
Jenny lo vede come realmente è diventato. Buono e innamorato. E vissero felici
e contenti. Bah, niente di particolare. I due centrali provengono dalla
raccolta di scritti del 1919 “Seven Men”, e non si è avuta difficoltà nel
lasciare il nome di questi brevi assaggi di personaggi, “Enoch Soames” e “James
Pethel”. Il primo ha un qualche interesse, mentre il secondo è assolutamente
inutile. La storia di tal James, conosciuto dall’autore per due giorni di
convivenza con moglie e figlia. Poi perso di vista, e scoperto anni dopo morto
di infarto. Aveva sempre avuto il cuore debole, ma nelle poche ore che vediamo
descritte, cerca sempre emozioni a tutto campo. Ma non si sa perché né come.
Altro grande bah. Dicevo che Soames ha invece qualche interesse. Più per l’impianto
generale che la res specifica. Storia di uno scrittore senza arte né parte che
pensa di essere un “grande”, scrive delle poesie illeggibili (e Max ce ne dà un
esempio), ed alla fine fa un patto con il diavolo per andare a vedere cento
anni dopo cosa sarà di lui nella British Library. Ovviamente tornerà sconfitto,
nessuno ne sa niente. Anzi si conosce solo Beerbohm, l’io narrante, che viene
ricordato per un suo racconto basato proprio su “l’inventato” Soames. Questo
tocco è magistrale. L’ultimo, scritto nel 1918, era incluso nella sua ultima
raccolta “And Even Now”, ed anche qui con un titolo che ci viene rimandato
intonso. “A relic” in inglese, che l’ottima traduzione di Mario Praz porta in
“La reliquia”. Dove poi è lo stesso Praz che ce ne fa un’analisi tutta da
leggere, anche se, personalmente, l’ho trovata molto letteraria e poco
avvincente. È il più breve dei racconti, e nella sua brevità ha un suo fascino.
Il narratore tra le vecchie cose della sua soffitta, ritrova un ventaglio
rotto. Che lo rimanda al momento che lo ebbe in mano, assistendo ad una scenata
tra due persone, una giovane signorina, padrona e distruttrice del ventaglio,
ed un signore di mezza età che la blandisce. E ricorda, il nostro, come abbia
pensato di scrivere un racconto su questo episodio, come più volte abbia
tessuto nella sua testa una trama che pensava fosse bellissima. E di cui, ora,
non gli rimane che l’attacco: ‘Down below, the sea rustled to and fro over the
shingle.’ [Giù in basso, il mare frusciava avanti e indietro sopra la ghiaia,
nella bellissima traduzione di Praz]. Racconto che si chiude sul malinconico
ricordo di questo tentativo. E come fa risuonare le corde di quegli scrittori,
piccoli o grandi, che rileggessero le loro prime prove. Ma il nostro Max è
morto da sessanta anni, ed il suo periodo più fulgido risale a cento anni fa.
La sua scrittura, adesso, è solo un reperto storico. E non incide, né fa
sorridere, noi uomini stanchi del qui ed ora.
Friedrich Glauser “I primi casi del sergente Studer” Sellerio s.p. (prestito
di Fako)
[A: 30/08/2016 – I: 05/11/2016 – T: 06/11/2016] - & --
[tit. or.: Wachtmeister
Studer erste Fälle; ling. or.: tedesco; pagine: 203; anno 1933-1989]
Con
questo terzo libro si conclude la trilogia dei tomi prestatami (o regalatami o
altro) dal mio amico Fako. Che sempre ringrazio per la sua attenzione di
attento lettore e promettente scrittore di racconti. Ma che non posso non
rilevare come questi tre “Sellerio” siano alle punte più basse dei miei
gradimenti. Anche questo Glauser, da cui mi aspettavo di più, ricordandomi
dell’unico libro che di lui lessi dalla biblioteca materna. Quel “Sergente
Studer” che, nel respiro a me più congeniale del romanzo, presentava caratteri
e tipologie interessanti per una descrizione degli ambienti elvetici degli anni
Trenta. Qui, invece, siamo ad un’operazione di recupero ed integrazione, che
poco ha a che fare con Glauser e, soprattutto, con Studer. Glauser, pur nato a
Vienna, divenne ad un certo punto cittadino svizzero, e come tale è ricordato
negli annali letterari. Oltre al fatto che, più che le sue opere, in realtà, la
sua stessa vita è un romanzo. Senza entrare nello specifico, dopo non aver
conseguito nessun diploma, comincia a fare mille mestieri: garzone di un
lattaio, giornalista tirocinante, legionario per due anni, poi subacqueo,
minatore, orticoltore. Da sempre questi mestieri gli servono per alimentare la
sua passione di scrittore, che sarà a vita marcata anche dalla morfina che
comincia a prendere a 22 anni per curarsi dalla tubercolosi. Solo a metà degli
anni Trenta comincerà a poter vivere del proprio lavoro, quando i “casi del
sergente Studer” gli daranno soldi ed un inizio di fama. Che terminerà poco
dopo, a 42 anni, quando viene stroncato da una crisi cardiaca, il giorno prima
delle nozze. Perché allora questo libro mi ha così innervosito? Come detto, è
un’operazione postuma che recupera tre racconti con Studer da protagonista,
aggiungendone altri nove di diversa fattura. E soprattutto senza Studer. I
curatori, per sfruttare il nome a cui più di tutti è legato Glauser, ci
appiccicano quel titolo anodino. E noi siamo lì, a cercare di capire qualcosa
del perché. Arrendendoci all’evidenza. Sono pezzi che vanno su e giù. Alcuni
momenti felici. Ma altri illeggibili, almeno per noi che lo prendiamo 80 anni
dopo che l’autore ne narra. Come ad esempio i due ambientati nella legione
straniera. Ma che poco ci portano di nuovo o di intrigante della stessa.
Sarebbero quasi da saltare a piè pari, se non ripercorressero, ad esempio,
alcuni passi della vita stessa di Glauser. Dove, infatti, lui fu allontanato
dalla Legione Straniera in seguito ad una denuncia per appropriazione indebita,
vera o falsa che sia. E che lui ripercorre, piattamente, in “Il caporale
veggente”. Mentre parla di altre storie di cui venne a conoscenza in “La morte
del negro”, che non avvince, né si capisce bene perché il negro del titolo
muoia. O in “Assassinio”, dove descrive l’uccisione di una recluta appena
arrivata in Legione, solo per farci capire come sia dura la vita laggiù in Marocco.
In altri, Glauser tenta approcci diversi al genere, ma sempre con poca presa:
descrizione di un interrogatorio “alla Maigret” dove parla solo l’imputato che
alla fine non può che confessare (“Interrogatorio” e “Sfortuna”), tentativo di
descrizione di una situazione criminale attraverso le lettere (“Fine del
mondo”), un gioco su nomi e scacchi dove una variante di una difesa ad un
gambetto descritta dallo scacchista polacco Zuckertort porta all’arresto
dell’assassino (“Re Zucchero”). Più simpatici il lamento della donna che
“suicida” il vecchio amante (“Lamento funebre”) o il modo di salvarsi della
bella Hilde prendendo in giro l’ispettore con le sue stesse armi
(“Criminologia”). E viene anche ai tre “Studer”. Inutili. Un lungo panegirico
della campagna elvetica per trovare un vecchio contadino che vuole uccidere
sette mogli per avere l’immortalità (“Il vecchio mago”). Un doppio suicidio
fallito (“La coppia discorde”). Una lunga malattia del sergente Studer che dal
letto, riconoscendo le tipologie di scarpe che passano vicino al suo posto di
dolore, risolve il mistero dell’uccisione di una dodicenne (“Scarpe che
scricchiolano”). Tutto, come detto, senza mordente, senza enfasi. Scritture
forse degne di esegesi se si volesse fare un’analisi della vita e delle opere
di Glauser. Cosa che non è né nelle mie intenzioni né tanto meno nelle mie
capacità. C’è anche una postfazione sulla criminologia, poco avvincente
anch’essa, anche nella confutazione che ne fa Glauser. Dove l’unica cosa che
avrei sensatamente risposto e rimandato al mittente sono i punti 4 e 5 del
decalogo della buona letteratura poliziesca. Dove mai si può affermare e
sostenere senza pena di ridicolo che “l’assassino dev’esser un uomo” o “anche
l’investigatore dev’esser un uomo”. Se volete, leggete il primo romanzo di
Glauser su Studer. E poi passato ad altro.
Bernardo Kucinski “K o la figlia desaparecida” Giuntina s.p. (regalo di
Fako)
[A: 24/11/2016 – I: 11/12/2016 – T: 14/12/2016] - &&
e ½
[tit. or.: K. Relato de uma
busca; ling. or.: portoghese; pagine: 174; anno 2011]
Devo
dire che mi aspettavo di più, dopo averne a suo tempo letto sulle pagine
librarie di Repubblica. Anche se mi ero fermato, e non lo avevo comperato,
quindi c’era comunque qualche campana che suonava. Ringraziamo allora il sempre
attento amico Fako che mi ha fatto colmare questa lacuna. Anche perché,
rispetto al testo, il contesto del libro è forte, interessante, e mi ha spinto
a recuperare la storia del Brasile nei suoi venti anni terribili, dal 1964 al
1985. Venti anni di dittatura militare, venti anni di repressione, soppressione
dei diritti umani, uccisioni e sparizioni. Come nel Cile di Pinochet (ma solo
dal ’73) o nell’Argentina di Videla (ma qui a partire dal ’76). Mentre queste
però sono vive e ben presenti (sarà la memoria di Allende o quella delle “madri
di Plaza de Mayo”), le vicende brasiliane, ai più, scivolano via come se non
fosse successo niente. Ben venga quindi un libro che cerca di sollevare il
coperchio a questo vaso di Pandora. Un libro che sicuramente ha un bel piglio
di scrittura. Non è un caso che l’autore (benché laureato in fisica) sia un
giornalista. Anche di spicco, che oltre al giornalismo di protesta (ma solo a
partire dal 1986, al ripristino di un minimo di libertà personali), è stato
anche consigliere alla comunicazione del primo governo Lula. Fino al 2008,
quando, settantenne, si ritira in pensione. E da pensionato, categoria da
tenere in grande considerazione, ripensa agli anni bui, sia socialmente, ma
anche, e soprattutto, personalmente. Visto che nel 1974, la sorella Ana e suo
marito Wilson, “spariscono”. Su questo ricordo, costruisce questa relazione di
una ricerca (come dice mirabilmente il titolo portoghese “Relato de uma busca”,
mentre fuori dal Brasile, per prendere il lettore, viene aggiunto quel “figlia
desaparecida”, molto marketing, anche se reale). La costruisce ribaltando la
visuale dai suoi occhi, a quelli del padre. Costruendo così un castello (mi si
perdoni il parallelo kafkiana, visto che il personaggio viene indicato per tutto
il libro con l’iniziale “K.”) di memorie che va letto e si legge su diversi
livelli. La capacità giornalistica di Kucinski si esprime infatti alternando i
capitoli, uno dedicato a K. ed alla sua ricerca, l’altro dedicato ad una
pluralità di voci che da diverse angolature serviranno a delineare i contorni,
atroci, della vicenda. Da un lato quindi il padre, non avendo da dieci giorni
notizie della figlia, professoressa associata all’Istituto di Chimica, comincia
a chiedersi dove sia. Passo dopo passo scopre che la figlia si è sposata (e con
un non ebreo, che un altro elemento della vicenda è proprio l’appartenenza,
benché lasca, alla comunità ebraica), e che era un membro attivo
dell’opposizione al regime. Tanto attivo che (ma questo lo scoprirà molto dopo)
faceva parte del gruppo armato Aliança Nacional Libertadora (noi lo scopriremo
solo a posteriori, nella mia ricerca, che nel libro compaiono pochi nomi, e
tutti dei torturatori). Comincerà quindi a domandarsi come abbia potuto non
conoscere la propria figlia. Ma come non conosce gli altri due figli maschi: il
primogenito, che prima di tutti gli avvenimenti si trasferisce a vivere in
Israele, e l’ultimo, Bernardo appunto, che alcuni anni prima (nel ’70 per
l’esattezza) si rifugia in Inghilterra dove vive fino all’86. Si interroga
sulla propria vita, lui scappato dalla Polonia nel ’35 a seguito dei primi
pogrom anti-ebrei. Si interroga sul proprio essere ebreo, e sulla vocazione
ebraica alla sofferenza (“dove potevo intervenire perché non succedesse tutto questo”
si chiede K. come se lo chiedono i superstiti della Shoah). Si interroga sul
proprio lavoro, lui che si era dedicato, oltre ad un onesto lavoro di
commerciante, a sviluppare la letteratura yiddish (e qui ci sarebbe un nuovo
capitolo da aprire ed approfondire). Prosegue comunque a testa bassa, cerca
aiuti dove può. Nelle lobby ebraiche americane, presso i cattolici che aiutano
le famiglie degli scomparsi, guidati dal cardinale Evaristo Arns. Cade in
trappole tese dai militari che vogliono fermare tutte le fughe di notizie. Non
si rassegnerà mai, anche se, anno dopo anno, si ritirerà in sé stesso,
guardando, ora a trenta anni dalla scomparsa di Ana, le lettere annuali di una
banca che continua a proporre investimenti alla figlia. Ma si sa i computer non
hanno notizia delle morti delle persone. Dall’altro, i capitoli duri, dove
vediamo l’agire dei cattivi, dei militari, dei torturatori. Sentiamo voci,
immaginarie ma fino ad un certo punto, di un amante del famigerato Sergio
Fleury, il capo delle squadre della morte, di una tossicodipendente che faceva
da secondina nelle carceri militari e che esce da questa esperienza segnata nel
corpo e nella mente. Vediamo, in un momento di epica rabbia, i professori del
collegio di chimica che “licenziano” Ana in quanto assente ingiustificata.
Insomma vediamo tante cose che sappiamo esserci state, che ne sottolineano
l’atrocità. Ma se forte e dolente è tutto il contesto, il libro non sale mai di
tono, non prende allo stomaco. Ci sono pugni, ma sono piccoli buffetti che non
ci fanno barcollare. Questo alla fine mi fa porre il libro poco al di sotto del
mio gradimento medio. È servito ad aprire delle pagine che non conoscevo, come
ho detto. Non è servito come libro in sé stesso, con la sua scrittura, a farmi
appassionare alla vicenda.
“Benché tutte le storie di vita siano
uniche, ogni superstite soffre in misura diversa.” (151) [vogliamo pensare ad
Anna Karenina?]
Secondo
appuntamento di febbraio, e come ormai sapete, ecco una nuova puntata dei libri
“curativi”, che questa volta riguardano il mal di denti, ed ancora, come per
due righe sopra, con citazioni da Tolstoj.
Dicevo
amici, che ci sono, e che si sono addormentati. Poiché non è facile
staccarsene, anzi impossibile, leniamo il possibile ricordandone parole
affettuose che mi dedicò anni fa, in una prefazione commossa ad un florilegio
delle mie trame. Un viaggio nella carta diceva. Continuando: “Dunque viaggio.
Meglio, viaggi. Come quelli, reali, che da sempre scandiscono la vita di G. Che
da anni attraversa le terre, le genti e le storie dei luoghi del mondo con
inesausto stupore - e passione ed amore - per le vite e le culture che
incontra. Ancora capace di incanto. Di curiosità per la vita … dunque … acuto
sguardo su come le parole costruiscono il mondo. E ci aiutano ad abitarlo.” Grazie
Carlo.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2017
Eccoci qui allora, in questi
giorni di Carnevale, a girare e rigirare con libri e pensieri. Sapendo i dolori
che può causare il mal di denti. Ma sapendo anche come cavarsene, magari senza
leggere Tolstoj.
MAL DI DENTI
Lev
Tolstoj “Anna Karenina”
Ennio
Flaiano “Tempo dì uccidere”
Il mal di
denti è un dolore dei più squisiti - uno dei peggiori, perché è dentro la testa
- e chi ne soffre sarà solidale con Vronskij, il personaggio, Anna Karenina di
Tolstoj: «L’attanagliante dolore al dente robusto, che gli riempiva di saliva
la bocca, gli impediva di parlare. Tacque, esaminando le ruote di un tender che
scivolava lento e scorrevole sulle rotaie...».
Ciò che cura
Vronskij, un attimo dopo, è la sostituzione del dolore fisico con un fortissimo
disagio interiore -un ricordo che gli provoca un «dolore tormentoso e
complesso» che gli fa dimenticare completamente il suo mal di denti. Guardando
le rotaie si ricorda improvvisamene di lei, o almeno di «quello che rimaneva
ancora di lei» quando l’aveva trovata distesa sul tavolo del guardaroba della
stazione, in mezzo agli estranei, il corpo insanguinato e scomposto, la testa
reclinata all’indietro con le trecce pesanti, gli occhi ancora aperti e
spaventosi nella loro fissità, la bocca socchiusa come se stesse per
pronunciare «quella frase terribile» che gli aveva detto durante il litigio:
che se ne sarebbe pentito.
Se questa
immagine del corpo martoriato di Anna non ha funzionato, pensate a qualche
altro pugno allo stomaco della letteratura (se volete sapere i nostri
preferiti, fate riferimento alla cura per il singhiozzo ed a “The Fit” di
Philip Hensher). Poi rifletteteci sopra, mentre telefonate al dentista.
Se Anna
Karenina non basta e volete un’altra storia che vi aiuti a sopportare
stoicamente il dolore senza cercare scorciatoie, allora non potete che leggere
o rileggere uno dei romanzi più europei della narrativa italiana del
dopoguerra: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Prima di affermarsi negli anni
Cinquanta come sceneggiatore, soprattutto dei film di Fellini, Ennio Flaiano
pubblicò questo suo libro d’esordio nel 1947 vincendo il Premio Strega. La
temperatura esistenziale e l’ambientazione africana affratellano questa storia
a Lo straniero di Camus. Tutto comincia con un camion rovesciato durante la
campagna di Abissinia, lo «sgabuzzino delle porcherie» del mondo, e con un
terribile mal di denti che spingeranno un giovane tenente a intraprendere un
viaggio in cerca di un dentista. Dovrà seguire un sentiero di muli morti,
cercando di non perdere la pista. Ma il destino e il gioco del caso lo gettano
in una boscaglia, dove il tenente incontra una donna nuda che si lava in una
pozza. Il tenente ci farà l’amore e da lì in poi sarà un susseguirsi visionario
e delirante di sciagure: l’accidentale uccisione della donna sparando a un
animale notturno, l’occultamento del cadavere, la possibilità di avere
contratto la lebbra, l’accusa di essere un disertore... Ogni cosa tornerà al
suo posto, come dopo un’allucinazione, ma al prezzo della coscienza che la vita
è «un dado senza punti», nessuno vince, ci precede soltanto una scia di fiori
inaciditi. È probabile, a questo punto, che la vostra soglia del dolore si sarà
alzata.
Bugiardino
Confesso
che non ho (ancora) letto Tolstoj. Come non ho letto molti autori russi, quasi
avessi un rifiuto inconscio di quella scrittura. E credo che la mia amica Nico
mi tirerà a lungo le orecchie per tutto ciò. Ma ho letto, e non da molto, l’unico
libro del buon pescarese. Che dalla sua terra natia mi riporta (molto) ai
natali di Luciana, al vissuto di Ulisse, al lavoro di Cristina. Mentre dal suo
vissuto ad altro vengo ricondotto. Ai sodalizi con Fellini, alle belle
scritture cinematografiche, nonché, e con passione e sorriso, a tutte quelle
piccole righe, che sempre ne hanno costellato gli scritti (per non dimenticare
le funambolerie del mio amico Jacob nel teatro romano a lui intitolato).
Ennio Flaiano “Tempo di uccidere” BUR euro 10,50
[trama pubblicata il 11 dicembre 2016]
Unico
libro scritto dal mago della penna di Pescara, che preferiva (ed io con lui, di
quello che ho letto) l’aforisma, la corta battuta, al massimo l’elzeviro. Come
dimenticare la caustica brevità di “Si arriva a una certa età nella vita
e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano
diretti a noi.” (dal “Diario degli errori”) o di “La stupidità degli altri mi
affascina ma preferisco la mia.” (dal “Frasario per passare inosservati in
società”). O meglio ancora quando si nascondeva dietro un regista per
stendere una sceneggiatura (come dimenticare la collaborazione con Fellini in
“La dolce vita” o in “8 e ½”?). Ma qui siamo di fronte al suo unico romanzo e
di questo vogliamo parlare. Romanzo strano, complesso nella genesi, fulminante
nella riuscita. Dopo aver scritto brevi racconti sulla sua esperienza di guerra
africana, viene stimolato dall’amico Leo Longanesi a raccordarli in una trama
unica, ed a farne un libro. Con l’idea, visto che Flaiano era già discretamente
noto per scritti su vati giornali e riviste, di usarlo per lanciare un premio
letterario che nasce proprio all’uscita del libro. E che viene vinto proprio da
Flaiano con questo libro pubblicato da … Longanesi. Torniamo allora al testo. Un
libro sulla guerra, ed in particolare sulla guerra di conquista in Etiopia,
quella del 1936, quella della fondazione dell’Impero, secondo Mussolini. Un
libro però in cui non si parla direttamente della guerra (o se ne parla poco e
di sfuggita). La guerra c’è, ci sono morti, odi, attacchi narrati, ed altro. Ma
mai direttamente. Si vede più il quotidiano del protagonista, con tutte le sue
avventure, con tutte le sue peregrinazioni mentali che lo postano spesso e
volentieri fuori dal seminato. Mi ha ricordato talvolta il film di Scola “Il
mondo nuovo” (che spero avrete visto, un film fondamentale per leggere la
Storia dalla parte della storia). Pur partendo dalla propria esperienza
etiopica, e dai brevi racconti che ne aveva già tratto, quando si avventura nel
complesso del romanzo, il tutto viene avvolto da un’atmosfera surreale, da una
concatenazione di eventi che rischia di travolgere il protagonista (e forse lo
fa). Tutto comincia con un mal di denti che il nostro soldato, anzi un tenente,
vuole curare. Per questo chiede una mini-licenza per andare da un dentista
normale e non dal cavadenti della compagnia. Durante il viaggio, rallentato da
camion che saltano in aria ed altre vicissitudini simili dovute alla guerra in
corso, decide di proseguire a piedi. In una valle, di una calma altrettanto
surreale, incontra una donna bellissima con un turbante bianco in testa. Dato
che, come diceva Villaggio in “Carlo Martello”, “più che l’onor poté il
digiuno”, sappiamo come va a finire. Ma nella notte africana, riposando accanto
alla bella, sente i rumori che tutti noi, passati per il continente nero,
abbiamo imparato a sentire. Ha paura, spara, ed una pallottola vagante accidentalmente
uccide la donna. Qui cominciano le “follie” del nostro. Seppellisce la donna,
fugge, comincia a sentire male ad una mano, viene informato che le donne con
turbante bianco sono bandite dai villaggi in quanto portatrici di lebbra, si
convince che ha la lebbra lui stesso. Cerca di farsi curare da un medico senza
scoprirsi, ha paura della reazione di questo, gli spara ma lo manca. Continua a
fuggire raggiungendo Massaua, dove pensa di potersi imbarcare clandestinamente
per l’Italia. Ma non ha i soldi, si lega ad un maggiore che si sta arricchendo
con traffici illegali, lo deruba, e tenta di uccidere anche lui (togliendo i
bulloni ad una ruota del camion). Il tenente continua ad accumulare paure: che
si trovi il cadavere dell’africana, che il dottore ed il maggiore lo denuncino,
che abbia seriamente la lebbra. Si rifugia allora nel bosco, presso il nero
Johannes, che, dopo lunghi momenti di reciproca insofferenza (muta che nessuno
parla la lingua dell’altro) arrivano ad una convivenza (quasi) pacifica. Tanto
che Johannes lo cura, ed una volta guarito e stanco, il nostro eroe decide di
tornare al comando per costituirsi. Ma dove scopre che nessuno lo ha
denunciato, che la licenza non è scaduta, e che potrà tornare in Italia e
riabbracciare la moglie. Sostenuto da lirismo surreale nella prima parte
(stupenda la scena in cui il tenente mette una sigaretta in bocca ad un
caimano), ad un certo punto Flaiano si rende conto che non può continuare ad
accumulare storie su storie e deve avviarsi verso la fine. Scendendo dal
surreale al reale si perde di slancio, di compattezza, e tutta la parte in cui
l’antagonista non è più il tenente con sé stesso, ma si presenta nel nero
Johannes, la trovo lenta e poco felice. Per questo non sono stato soddisfatto
della lettura di pancia. Rimane quella di testa, rimane un libro che deve
essere letto se si vuole entrare nei meandri di un’epoca che spesso viene poco
seguita in libri e testi e romanzi ed altro. Ma un voto di testa a me non basta
per arrivare ad una piena sufficienza. Mi dispiace per Flaiano, e tornerò a
rileggere (e lo consiglio) solo l’appendice finale, quella “Aethiopia”, diario
scritto durante la guerra dove vengono alla luce, direttamente, i pensieri e le
sensazioni di un tenente a contatto con quello strano continente. Dove si
capisce anche la nascita dell’antifascismo di Flaiano. Che qui saluto con
un’altra sua frase “Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può
essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano
rispettate da chi governa” (da “La solitudine del satiro”).
“Sessanta [chilometri], insomma
dodici ore di marcia di buon passo [cioè cinque chilometri all’ora, sotto il
sole africano, mi sembra una buona prova… nota mia].” (229)
Conclusioni
Non so, non mi pronuncio su Anna
Karenina, e sulla sua capacità di far passare (o alleviare) i dolori dentali. Di
certo Flaiano mi farebbe dimenticare i denti, ma solo in quelle solitudine del
satiro che ben lontane sono da questi tempi africani. Che solo mi riportano ad
un paesaggio forse da troppo tempo lasciato nell’oblio della memoria. Ma cui si
spera di tornare presto.
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