Cosa di meglio, per festeggiare
il ritorno da un bel viaggio in una terra che sempre ci accoglie, se non
iniziando proprio con un autore israeliano. Che non sempre mi piace, ma che
qui, ringraziando Nico, mi ha fatto trascorrere giorni epifanici lieti. Per gli
altri luoghi, si torna prima nel Nord Europa, con quel Bjorn che tanto di mare
scrive, facendomi tornare all’infanzia dei tesori. Finendo poi nell’America del
Sud, del grande Gabo, che non sempre mi piace. Come qui: due libri e due
giudizi, buoni eppur diversi.
David Grossman “Qualcuno con cui correre” Mondadori s.p. (regalo
natalizio di Nico)
[A: 25/12/2016– I: 05/01/2017 – T: 07/01/2017] - &&&
e ½
[tit. or.: מישהו לרוץ איתו Misheu Laruz Ito; ling. or.:
ebraico; pagine: 362; anno 2000]
Avevo
letto questo Grossman al tempo dell’uscita, ma era rimasto dimenticato nelle
pieghe della memoria, sia come libro (che non trovavo più nelle mie librerie)
sia come storia, benché non sia facile farla uscire di mente. Ma si sa che il
mio cervello ogni tanto ha dei salti quantici che non immaginate, per cui, va
bene così. E va bene che l’ottima Nicoletta me lo abbia omaggiato nelle nostre
scorribande natalizie. In realtà non ho letto molto di Grossman, che nelle sue
prime espressioni trovo difficile da seguire. Mi trovo a mio agio più con Amos
Oz che con lui, anche se del buon David seguo sempre con interesse le prese di
posizione, gli articoli politici pubblicati qua e là. Devo quindi convenire che
questo romanzo “di formazione” come sarebbe chiamato dai critici ortodossi, è
un buon romanzo, si legge con facilità, anche nelle sue improbabilità. Perché
non è probabile certo la corsa di Assaf per le strade di Gerusalemme, dietro
alla cagna Dinka alla ricerca di una fantomatica Tamar, improbabili gli incontri
(Teodora, il poliziotto cattivo, Sergej, Leaf), improbabile alla fine
l’incontro con Tamar, e la soluzione, per fortuna, ottimistica di tutta la
storia. Tanto improbabile da essere vera, appassionata, in molti sensi
adorabile. Anche se mi lascia più freddo tutta la storia di strada degli
artisti maledetti e senza futuro che si aggirano per un’Israele che, all’epoca
dello scritto, avevo appena visitato. E già, proprio nel 2000 e nella sua
Pasqua feci un grande giro per tutto Israele, dal deserto del Negev sino ad un
kibbutz nel nord, verso il Libano, rimanendo, a lungo, e spero di tornarci
presto, in una sempre adorabile ed amata Gerusalemme. Città di tutte le razze e
le religioni. Questo è quello che qui mi manca un po’. Un racconto che potrebbe
essere ovunque, che dribbla i problemi locali, per tirare fuori, e con grande
capacità certo, i problemi di tutti, dei giovani, della vita che cresce, della
droga che invade il terreno dei giovani. Che li devasta, che li cede in pasto
ai delinquenti che ci sono ovunque, qui, lì e in Israele. Ma qui siamo ovunque,
e siamo alla storia di Assaf e di Tamar. Che, come altrove in Grossman, si
intrecciano, percorrendo le loro vie prima di congiungersi in un finale comune.
Assaf lo seguiamo in diretta, sedicenne introverso, ma pieno di sensibilità,
che viene incaricato di trovare il padrone della cagnetta Dinka, persa in una
calda estate israeliana. Dinka porta il nostro in giro per la Gerusalemme
ebraica, prima da un pizzaiolo che gli confeziona una pizza olive e capperi, poi
dalla suora greca Teodora, che da quaranta anni aspetta i pellegrini della sua
natia Lyksos che non arriveranno mai. Ma che conosce Tamar (primo tassello) e
che comincia a parlarne. Per far sì che Assaf continui la ricerca, che Tamar è
scomparsa. Dopo giri diversi, incontri cattivi (il polizotto ottuso, il
mafiosetto russo, e altri di poca importanza), finalmente riesce a trovare un
indizio reale, il ristorante di Leaf, ed il rifugio di Tamar. Che invece
seguiamo in retrospettiva, vivendo questo suo ultimo mese pericoloso, quando
decide di ritrovare il fratello caduto nella spirale della droga e delle
cattive compagnie. Seguiamo il suo immergersi nel mondo degli sbandati, dei
mendicanti di strada, che cantano agli angoli delle strade. E nel racket che li
gestisce, per soldi e per droga. Seguiamo la sua paura di cantare, ma anche la
sua volontà, dura, forte, ferma. Vediamo la meteora di Shelly, unico sostegno
in questa caccia notturna. Fino a ritrovare Shay, il fratello, a fuggire con
lui, a rintanarsi nelle grotte vicino alla città, per una cura, dura, di
disintossicazione. Qui, finalmente, si ricongiungono le loro storie. Tamar la
dura, improvvisamente, si accorge che con Assaf è diverso. Non è come i suoi
irraggiungibili sogni precedenti. Un ragazzo gentile, che l’ha cercata senza
conoscerla, che ha letto i suoi diari con la delicatezza di chi si apre ad un
segreto. Un ragazzo che non ha paura di aiutarla. Un ragazzo che scopre un
giovane donna piena di dubbi, piena di interrogativi, ma che ha deciso di
salvare il fratello. E che farà di tutto, anche le cose più difficili, per
raggiungere la meta. A costo di sacrificare una parte di sé. A quanto può la
decisione! Ci sono tanti bozzetti, in questa Gerusalemme alle soglie del nuovo
millennio. Ci sono tante strade, come Ben Yehuda, che ben ricordo. Ci sono
tanti luoghi, come Mea Shearim. E ancora, e ancora. Ma c’è la bellezza di un
rapporto che dalle prime righe speriamo che sbocci, perché per la loro
complementarietà, Assaf e Tamar sono destinati a capirsi ed a fare un percorso
insieme, come capiamo dalle ultime righe. Dopo che tanto è trascorso sotto i
ponti. Non solo di Tamar, della famiglia dura che scacciò Shay drogato. Ma
anche di Assaf, della sorella emigrata in America, dal suo ex rimasto in
Israele. Sono stato conquistato dall’ottimismo nonostante tutto di Grossman.
Una volontà positiva, che ci fa bene, che ci serve. Soprattutto quando tutto va
in altre direzioni. Ottimismo della gioventù, direte voi. Sì, ma l’ottimismo va
bene a qualsiasi età!
“Ogni storia, in qualche punto profondo, si
rifà a una grande verità, anche se questa non sempre ci è chiara!” (32)
“Talvolta è più offensivo essere apprezzati
per i motivi sbagliati che essere disprezzati per quelli giusti.” (159)
“Pensò che non aveva mai incontrato nessuno
con cui si sentiva tanto bene tacendo.” (362)
Björn Larsson “La vera storia del pirata Long John Silver” Iperborea
euro 18,50
[A: 01/10/2015– I: 28/02/2017 – T: 06/03/2017] - &&&&
[tit. or.: Long John Silver; ling. or.: svedese; pagine: 504;
anno 1995]
Eccoci
qua, allora, dopo una lunga cavalcata per i sette mari, a ritrovare la bella
scrittura di Larsson ed una storia che vale molte storie. Peccato solo non aver
mantenuto l’asciutto titolo originale, ed essersi dilungati nell’aggiungere
“vera storia” e “pirata”. Inutili e ridondanti simboli qualificativi, che
servono solo a cercare di attirare lettori ad una storia che, devo dire, si
attira e si commenta da sé. Anche se l’originale svedese, che i nostri
traduttori neanche riportano, implica un bel sottotitolo che val la pena
menzionare: “Den äventyrliga och sannfärdiga berättelsen om mitt liv och
leverne som lyckoriddare och mänsklighetens fiende” (cioè “La storia
avventurosa e veritiera della mia vita e delle mie avventure di uomo libero, di
gentiluomo di fortuna e di nemico dell’umanità”). Che, infatti, il nostro
svedese Larsson è uno scrittore di intriganti capacità complicative di trame e
situazioni. Che è solo cognonimo del compianto Stieg (quello di Millennium) e
della giallista Åsa. Che ho imparato a conoscere nel tempo per due
caratteristiche: l’abilità nell’ideare trame (come quella, cui rimando, del
primo suo libro che ho letto, un poliziesco letterario dal titolo “I poeti
morti non scrivono gialli”) e l’amore per il mare. Che traspare in molti suoi
scritti (che consiglio al mio amico Renato), e dalla sua vita, visto che passa
la maggior parte del suo tempo sulla sua barca, un Rustler 31 di nome
“Rustica”. Dove, al largo delle coste galiziane, ha anche ideato e scritto
questo romanzo biografico su di un personaggio inventato. Già questo me lo
rende simpatico: prendere a prestito da Robert L. Stevenson uno dei personaggi
più emblematici de “L’isola del tesoro”, e fargli ripercorrere in prima persona
le tappe della sua vita. Mescolando, sapientemente, vero e falso, facendo
intervenire a lungo Daniel Defoe (coevo delle vicende narrate) sia come
scrittore sia come conoscitore di pirati. Anche se l’opera cui si fa spesso
riferimento (“Storia generale dei pirati”) è scritta sotto la firma “Captain
Johnson” che per molto tempo si pensò fosse uno pseudonimo dello stesso Defoe
(ma pare non lo sia). E facendo intervenire anche altri pirati famosi, veri o
letterari. Dal vero Edward England (sodale di Silver) al falso capitano Flint
(uscito dalla penna di Stevenson). Tutta la finzione, tuttavia, è al servizio
di un’idea di fondo del nostro Bjorn: parlare degli uomini, dei loro
sentimenti, del loro modo di vivere, in quei primi 40 anni del 1700. Gli anni
che seguirono la grande guerra tra Inghilterra e Spagna, laddove gli inglesi
utilizzarono le navi da corsa per attaccare le galee spagnole (da cui i famosi
“corsari”). E dove questi, una volta assaporati soldi e donne, non si tirano
indietro, si impadroniscono di quel vessillo che diventerà famoso (il teschio
con le due tibia incrociate, chiamato in inglese “Jolly Roger”). Larsson usa
Silver per farlo diventare eponimo di quest’epoca. Mozzo in fuga dalla natia
Bristol, girellando per i mari ad “imparare il mestiere”. Sempre padrone del
suo destino, per cui deciderà di non diventare mai capitano di una nave,
tuttalpiù quartiermastro (che è una specie di secondo ufficiale, con il
compito, importante per quelle imprese, di tenere anche la contabilità). A
lungo ancora in Scozia, per sfuggire ad una falsa accusa di ammutinamento, a
lungo in compagnia del suo primo grande amore, Elisa. Scoperto, di nuovo in
fuga, di qua e di là degli oceani. Coinvolto nella tratta dei negri, ma di cui
diventa amico. Soprattutto del capo Jack e di una mulatta fiera che ritroverà
dopo qualche anno, libererà dalla schiavitù e diventerà la compagna dell’ultima
parte della sua vita. Non la donna, che Dolores non chinerà mai il capo a
nessuno (tanto che aveva ucciso un capitano che voleva violentarla), ma che
deciderà di unire le sue forze alla declinante vecchiaia di Silver. Larsson ci
spiega anche l’origine del soprannome “Long”, non per l’altezza, ma come
pseudonimo per sfuggire alle guardie. Si fece chiamare John Long, per un
periodo, divenendo poi facilmente Long John, e finalmente Long John Silver. Ci
dice come perse la gamba, non per una palla nemica, ma per un tiro mancino
dell’invidioso Deval. Cui, per ripicca, farà tagliere dal medico di bordo una
gamba sana! E poi il lungo sodalizio con Edward England, un pirata che
realmente aveva poca voglia di uccidere i nemici sconfitti, tanto che alla fine
il suo equipaggio si ammutinò e lo lasciò su di un’isola deserta verso il
Madagascar. Infine, l’ultima parte, dove (grande momento di meta-letteratura)
scorre la storia del tesoro del capitano Flint scritta da … Jim Hawkins, ormai
gentiluomo in Londra con i soldi del Tesoro. Silver sa che quella storia
segnerà la sua fine, e si affretta a finire la sua e spedirla a Jim. Per poi
finire come tutti i pirati. O forse no? Larsson ci lascia un’ombra di mistero,
che non svela (né io a voi). Perché quello che piace, che rende godibile le 500
pagine non è solo la storia dei pirati sulle onde dei sette mari, ma la figura
stessa di Long John. Che Larsson prende da Stevenson ampliandone i lati
ambigui. Se ricordate, il grande scozzese aveva sempre messo su due binari il
pirata da una gamba sola. Un po’ con Jim e molto con sé stesso. Qui Larsson ci
presenta un pirata che, come dice sempre lui stesso, volendo “essere padrone
del mio destino”, usa tutti i mezzi per farlo. Sfrutta i suoi studi giovanili
(è uno dei pochi che sa leggere e scrivere). È empatico con gli schiavi negri
(che una volta liberati saranno con lui sino alla fine), è crudele con i
capitani inglesi, è tenero solo con due donne (Elisa e Dolores). Ruba,
tradisce, ed alla fine, come tutti, si ritrova solo. A cosa serve aver girato
tutta una vita, per poi essere lì, forse sui sessant’anni, con la pirateria che
è ormai morta da venti. Solo a pensare di non aver trovato, di non riuscire a
trovare, di non trovare mai, la sua posizione. Questa la riflessione personale
che poi tutte le belle pagine mi lasciano. Mentre io lascio ai miei amici che
amano il mare il godimento di seguire le navigazioni per i sette mari. Anche a
chi, purtroppo, le sentirà solo da queste righe. Ed a lui brindo con un colmo
bicchiere di rhum!
“Se tanta gente muore prima di aver imparato
a vivere, è perché vive come se non dovesse mai morire” (12)
“Mi dissi, in tutta onestà, che tra i
milioni e milioni di donne che popolano la nostra terra, dovevano pur essercene
altre come … Ma a incontrarne una, in tutta la mia lunga vita, che io sia
dannato se ci sono riuscito.” (141)
“Vi confesso dunque che, di tanto in tanto,
ho desiderato che … scrivere non fosse un’attività così dannatamente solitaria.”
(184)
“La mia vita non è stata che una navigazione
stimata, ma forse, chi lo sa, arriverò a trovare la mia posizione, prima di
affondare.” (220) [dicesi navigazione stimata quella tecnica di navigazione a
mezzo della quale è possibile determinare la posizione stimata della nave in
mare, utilizzando gli elementi del moto quali: la velocità, la direzione ed il
senso.]
“Se c’è una cosa da cui ci si deve tenere
lontani, se si vuole restare sani di mente, è … la scrittura.” (403)
Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera” Mondadori euro
9,50 (in realtà, scontato a 7,15 euro)
[A: 03/03/2015– I:
28/03/2017 – T: 02/04/2017] - &&&& --
[tit. or.: El
amor en los tiempos del cólera; ling. or.: spagnolo; pagine: 376; anno 1985]
Mi
ero accostato con un po’ di timore ad un ulteriore libro di Gabo, dopo che le
ultime letture mi avevano sinceramente deluso. Non che volessi tornare
all’epifania interna che mi sconvolse con “Cento anni”, ma mi sarebbe bastato
tornare al piacere di una bella lettura come quella del giovanile “Racconto di
un naufrago”, dopo aver passato le pene a sopportare la candida Erendira o il
tramonto del patriarca. Timore che era un po’ mitigato dalla spinta verso la
lettura che mi stavano dando sia le libropeute di “Curarsi con i libri”, che lo
consiglia ai settantenni, sia l’allegra Giulia Fiore che lo consiglia come
antidoto a “Il grande Gatsby”. Buoni consigli, ed altrettanto buona lettura.
Qui, il quasi sessantenne Gabo riprende il bandolo dei suoi giri infiniti, dei
suoi mille personaggi, che poi a ben vedere si riducono a due o tre, e ci
trascina in meno di quattrocento pagine alla ricerca di uno sbocco ad una
vicenda che, bene o male, durerà una sessantina di anni. Lo fa con la sua
vecchia maestria, cominciando da un punto A, spostandosi a B, poi a C e D, ed
intessendo tutto un intreccio di situazioni e di svolgimenti, che mi hanno
tenuto incollato alla pagina più di quanto mi aspettassi. All’inizio ero un po’
dubbioso, seguendo le pagine sulla morte dello strano Jeremiah de Saint-Amour,
starno personaggio, piombato all’improvviso nella cittadina teatro della
vicenda, ricucitosi uno spazio di vita come fotografo e di relazioni come
giocatore di scacchi. Personaggio che decide di non dover invecchiare ed a sessanta
anni si uccide. Morte che coinvolge il suo compagno di scacchi, il dottor
Juvenal Urbino. Di cui vediamo i turbamenti per la morte, che cominciamo a
seguire con le sue manie di vita, con le sue esuberanze sociali, conosciamo di
sfuggita la moglie Fermina Daza. Veniamo ben presto coinvolti nella vita del
dottore, nel ricordo dei suoi viaggi giovanili a Parigi, delle sue dotte
lezioni di medicina, delle sue letture. Venendo all’improvviso coinvolti nella
sua morte, lo stesso giorno dell’amico, per una caduta accidentale e ben
ridicola. Prende allora il centro della scena la moglie Fermina, che sembrava
sino ad allora vissuta nell’ombra del marito importante, ma che esegue i giusti
passi per il funerale, per il ricordo, per il rapporto con il figlio Urbino Daza,
anche lui dottore, e con la figlia Ofelia. E nel momento culminante di questo
inizio pirotecnico abbiamo lo squarcio che farà girare tutto il romanzo.
L’anziano a sua volta Florentino (sia lui che Fermina sono poco oltre i 70),
che alla fine del funerale dichiara il suo imperituro amore a Fermina. Un amore
che dura quasi nascosto da 53 anni, 7 mesi ed 11 giorni. Dichiarazione che
permette all’autore una capriola appunto di più di cinquanta anni all’indietro,
dove ritroviamo la giovane Fermina, assediata dalle lettere e dalle poesie di
Florentino. Siamo nella fine dell’Ottocento, non facili sono i rapporti tra
maschi e femmine. Inoltre Fermina è figlia di un oscuro malversatore, che
finirà i suoi giorni tornando scornato in Spagna, mentre Florentino è figlio
naturale di uno dei maggiorenti locali. Ma non riconosciuto, quindi di poco
peso sociale. Inoltre Florentino ha un suo aspetto triste, è
aiuto-telegrafista, miope. Ha solo la parola dalla sua, novello Cyrano di sé
stesso. Seguiamo allora Fermina che decide di lasciarlo per sposare senza
amarlo il ricco Juvenal, con cui costruirà un rapporto bene o male felice nel
corso degli anni, con picchi di bellezza e di amore e con abissi non proprio di
dolore, ma di crisi. Che verranno superate, avendo sempre ormai la nostra buona
Fermina seppellito il ricordo del giovane amore con Florentino. Che invece non
si rassegna, che decide, lì sui venti anni che quella sarà sempre la sua donna.
E che comincerà la sua scalata sociale, aiutato dalle sue capacità e dal padre
naturale che gli offre la possibilità di sfruttarle. Vediamo Florentino perdere
la verginità del corpo su di un battello fluviale. Ma anche salire, gradino
dopo gradino, proprio le fortune dei battelli, di cui alla fine diventerà il
capo e padrone indiscusso. Avrà anche la capacità di soddisfare i suoi ardori,
andando a letto con 622 donne come puntigliosamente registra nei suoi diari. Il
funambolismo di Gabo ci fa quindi saltare di donna in donna, seguendone
brevemente il fugace rapporto con Florentino, ma dipingendole a tutto tondo.
Anche l’ottima Leona, l’unica con cui non andrà a letto, ma che sarà il motore
segreto della sua ascesa. Dopo questa lunga cavalcata, allora ritroviamo i
nostri due eroi, anziani ma non vecchi. Dove vediamo Florentino riprendere il
leggero corteggiamento, delicato e pieno di un tatto sempre presente nelle sue
manifestazioni, anche quando sembra non essere capace di mantenersi centrato.
Vediamo Fermina leggere le sue lettere, capire i percorsi suoi e del suo amor
di gioventù. Gabo ci infioretta tutta una bella parte su queste basi,
mettendoci dentro anche i corpi di questi due settantenni, il loro scivolare
verso la inevitabile morte, che fortunatamente non vedremo. Fino però ad
imbarcarsi su una delle navi della flotta di Florentino, quasi a ripercorrere
una fuga giovanile di Fermina verso parenti che le facessero passare i dolori e
quel momento d’amore di Florentino. Cosa succederà sulla nave, dovrete
leggerlo, perché è il momento chiave del libro. E non vi anticipo cosa succederà.
Tutto il libro è corso via su questi binari, l’ho letto legato alla pagina nei
pochi momenti liberi di queste giornate ad altro dedicate. E vi confesso che
avrei anche dato maggior punteggi, se non ci fossero alcuni passi che mi hanno
lasciato un po’ di dubbi. Uno su tutti, il famoso diario di Jeremiah, di cui
tanto si parla nelle prime pagine, che mi aveva solleticato, ma di cui poi se
ne perde traccia. Con dispiacere. Un libro sulla vecchiaia e sull’amore e sul
fatto che comunque possano convivere. A dispetto di tutti.
“Era ancora troppo giovane per sapere che la
memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, e che
grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.” (116)
“Un uomo sa quando comincia a invecchiare
perché comincia ad assomigliare a suo padre.” (183)
“Con lei … aveva imparato quello che aveva
già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse
persone al contempo … senza tradirne nessuna.” (293)
“È incredibile come si possa essere tanto
felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature … senza sapere in realtà se è amore o se non lo
è.” (356)
Gabriel Garcia Marquez “Memoria delle mie puttane tristi” Mondadori
euro 10 (in realtà, scontato a 7, 05 euro)
[A: 25/03/2016– I: 12/04/2017 – T: 13/04/2017] - &&&
--
[tit. or.: Memoria de mis
putas tristes; ling. or.: spagnolo; pagine: 139; anno 2004]
Si
legge in un sospiro, rimane però dentro con qualche passaggio indimenticabile,
anche se alla fine ha una stentata sufficienza, o come direbbe l’autore, una
sufficienza triste. Perché l’impianto generale, ed almeno un passaggio, sono
una rivisitazione in salsa sudamericana del bellissimo “La casa delle belle
addormentate” di Kawabata Yasunari (scritto però più di 40 anni prima). È anche
l’ultimo romanzo scritto da Gabo, già quasi ottantenne. Poi niente più romanzi
negli ultimi dieci anni della sua lunga ed intensa vita. Qui appunto,
riprendendo l’idea giapponese di una casa di “signorine” (capite a me) che
dormono contemplate da persone (anziane o meno) che stanno al nadir della loro
virilità, ne fa un elemento cardine per l’avvio alla conclusione della propria
vita di un giornalista eccentrico novantenne, che in molti tratti ripercorre
momenti e modi della vita stessa del nostro amico colombiano. L’abilità,
indubbia, di Gabo è quella di restituirci l’immagine di un percorso che
inesorabilmente porta alla morte, con la delicatezza della descrizione di un
fiore. Anche con parole crude (come quelle del titolo), anche con richieste e
momenti che ci spiazzano. L’io narrante ha amato molte donne, e spesso, nelle
more dei suoi percorsi amorosi (che se volete ripercorrono in pochi tratti
quelle di Florentino da poche descritte) si ritrova a frequentare bordelli di
tutte le risme. Ed a questo si rivolge, questo della sua di poco più giovane
tenutaria Rosa, per chiedere di festeggiare il suo compleanno con una vergine.
Richiesta soddisfatta, ma la quattordicenne Delgadina dorme tutta la notte. Il
nostro giornalista però rimane affascinato dal corpo, dalle visioni, e sommerso
dai ricordi che un corpo nudo risveglia nel suo corpo anziano. Mentre procede
il rapporto con la sempre dormiente e sempre vergine Delgadina, affiorando
ricordi, seguiamo i brevi tratti della vita del protagonista. La vita felice
della gioventù, accanto alla tanto amata madre italiana. La crescita, la morte
dei genitori, la scrittura, soprattutto di piccoli elzeviri e di recensioni di
brani di musica classica. Le piccole storie più di sesso che d’amore. Le paure,
in particolare quella di mettere al mondo dei figli. Perché sarebbe disposto
anche a sposarsi, come sta per fare con la bellissima Ximena. Tuttavia bloccato
dalla possibilità di procreare, anzi spaventato, non si presenta il giorno
delle nozze. Vediamo l’anziana Damiana, che lo avrebbe amato, ma di cui lui si
accorge solo perché lo accudisce ora che è sì vecchio e stanco. Poi le baruffe
per incomprensione con Rosa, l’allontanamento da Delgadina, ed il definitivo
ritorno, con quell’immagine in cui pensa di potersi mettere a lavorare
scarpette per neonati all’uncinetto. Certo, è un po’ tardi per decidere di
avere una progenie, quasi che potesse farlo solo ora che il tempo tiranno non
può più tollerarlo. Finisce così la cronaca di questo anno tremendo, in cui allo
zero dei novanta finalmente si sostituisce il primo numerale. Con il
protagonista che, pacificato nell’animo, guarda radioso al futuro, ed alle
sempre più vicina dipartita, circondato dall’amore di Delgadina (benché mai
consumato), dall’affetto di Damiana e da un gatto che pur vecchio anche lui non
verrà simbolicamente soppresso, ma rimarrà a fare da terzo incomodo nella casa
avita. Se tuttavia la storia è breve e lineare come consentono le poco più di
cento pagine del libro, Gabo riesce ad infiorettare dei momenti, da anziano,
che diventano in ogni caso, momenti eterni per tutti noi. Come le frasi che ho
sotto riportato. Come la descrizione di quella fotografia presa al giornale
quando aveva trenta anni, ed era uno dei momenti forti della stampa locale (per
qualche evento poco importante, ora). Con quelle crocette che qualcuno ha
segnato accanto alla testa di tutte le persone che in questi sessanta anni sono
morte. E lui guarda e ci dice che sono rimasti in quattro. O come la visita al
medico, nipote di quello che lo aveva visitato una volta nel volgere dei suoi
cinquanta. E che fisicamente ed anche operativamente risulta identico al nonno
medico, anche nella diagnosi che gli fornisce (“Lei è perfetto, rispetto
all’età che ha”). Di passaggio riporto anche altri due momenti di
ricongiunzione con lo scritto di Kawabata: entrambi constano di cinque capitoli
ed in entrambi, ad un certo punto, muore una persona all’interno del bordello
frequentato dal protagonista. Forse se non avessi notato tutte queste rivisitazioni,
poteva il libro avere più consistenza nella mia memoria? Non so, di certo mi ha
lasciato sconcertato, anche se, capisco, che, come qualcuno ha scritto, tutti
scrivono lo stesso libro: quello pieno delle parole che vogliamo sentire. A
volte ci accorgiamo delle similitudini, a volte no. Come direbbe Borges.
“L’età non è quella che si ha ma quella che
si sente.” (75)
“Scrivevo … con la voce di un uomo di
novant’anni che non ha imparato a pensare come un vecchio.” (83)
“È impossibile non finire per essere come
gli altri credono che uno sia.” (117)
“Sto diventando vecchio … Il fatto è che non
lo si sente dentro, ma di fuori tutto lo vedono.” (120)
Essendo
il primo invio con trama del mese di giugno, ecco che vi riporto l’elenco dei
libri letti nel mese di marzo. Dove si è ricominciato a leggere ai ritmi
usuali. E dove abbiamo due libri che su gli altri si staccano: il pirata di Larsson,
di cui parlo ampiamente sopra, ed il salmone di Eco. Ed un libro che, invece,
cola a picco: l’ultima poco esaltante prova di Wilbur Smith.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Leif GW Persson
|
Uccidete il drago
|
Corriere della Sera Svezia
|
7,90
|
3
|
2
|
Bjorn Larsson
|
La vera storia del pirata Long
John Silver
|
Iperborea
|
18,50
|
4
|
3
|
Wilbur Smith
|
La legge del deserto
|
TEA
|
12
|
2
|
4
|
Camilla Läckberg
|
La sirena
|
Marsilio
|
14
|
2
|
5
|
Umberto Eco
|
Come viaggiare con un salmone
|
La Nave di Teseo
|
10
|
4
|
6
|
Camilla Läckberg
|
Il guardiano del faro
|
Marsilio
|
14
|
2
|
7
|
Wilbur Smith
|
Vendetta di sangue
|
TEA
|
12
|
2
|
8
|
Ian Rankin
|
Dietro la nebbia
|
TEA
|
12
|
3
|
9
|
Isabel Allende
|
Afrodita
|
Corriere della Sera Cucina
|
7,90
|
2
|
10
|
Olivier Truc
|
L’ultimo lappone
|
Corriere della Sera Svezia
|
7,90
|
3
|
11
|
Andrea Camilleri
|
Le vichinghe volanti e altre
storie d’amore di Vigata
|
Sellerio
|
14
|
2
|
12
|
Patricia Cornwell
|
Polvere
|
Mondadori
|
13
|
2
|
13
|
Wilbur Smith
|
La notte del predatore
|
Longanesi
|
s.p.
|
1
|
14
|
Gianni Simoni
|
Lo specchio del barbiere
|
TEA
|
9
|
3
|
15
|
Gianni Simoni
|
La morte al cancello
|
TEA
|
9
|
3
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Tornato, abbastanza, pacificato
dalle terre delle tre religioni, ecco che affrontiamo l’inizio torrido di
questa estate mettendo a posto scritti, finalizzando case, e pensando ai
prossimi viaggi. Soprattutto a quello, pensato/sperato, verso le terre
patagoniche.
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