domenica 22 luglio 2018

Un luglio ... nero - 22 luglio 2018


Sia perché trattiamo di quattro libri usciti nelle varie collane del “noir” italiano di Repubblica, sia perché da una prima “quasi” sufficienza, i giudizi vanno in calando, sia infine, ma non se parli ora, per tutte le disavventure che questo mese ci sta portando. Rimane di certo una simpatia per Simi che aspetto ad altre prove, una curiosità per possibili riscatti di Ervas, anche se con molti punti interrogativi, ed una sostanziale indifferenza verso altri scritti di D’amaro.
E con una piccola premessa: come spesso dopo viaggi avventurosi, altri si aggiungono a queste mie mail periodiche. Se hanno piacere resteranno, se si stufano, basta dirlo, e rimarranno soltanto nelle mail dei viaggi (da cui nessuno le toglierà mai).
Giampaolo Simi “Cosa resta di noi” Repubblica Italia Noir 28 euro 7,90
[A: 06/12/2016 – I: 08/03/2018 – T: 10/03/2018] - &&&-----
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 236; anno 2015]
Per buona parte della lettura questo libro mi lasciava perplesso. Come storia, poco “noir”, come nelle prime 150 pagine, è interessante, ma non fa scattare molle particolari. L’ultima parte la fa piombare direttamente nelle atmosfere del mitico Scerby, tanto che non sono meravigliato che abbia, per l’appunto, vinto il Premio Scerbanenco 2015. Alla fine, a lettura ultimata, posso dire di essere ancora perplesso. Infatti, la storia in sé è ben divisa in due parti di cui certo la prima fa da traino al lancio della seconda, ma che, a parte l’episodio che la tinge di nero, poteva continuare ad essere una pallida storia d’amore e di corna nella riviera versiliese. Abbiamo il lui, narratore in prima persona, Edo, bagnino tuttofare dei bagni Antaura (stabilimento esistente a Viareggio, ma qui preso solo come “location” dell’azione). Ad un certo punto della sua storia, si innamora, ricambiato, della figlia del padrone, la bella Guia. Più giovane, di bel mondo, tendenzialmente scrittrice, ma anche giornalista, PR, ed altro. Matrimonio d’amore, che naviga bene sull’orlo delle frequentazioni viareggino-romane. Fino a che i due si mettono in testa di avere un figlio. Purtroppo, azoospermia (anche se non totale) e fibromi rendono difficile il processo, motivo per cui i due si imbarcano in lunghe sedute ospedaliere ed altre diavolerie ginecologiche, senza però che si vada avanti di un passo. Ovvio che la coppia entri in una crisi latente, che culmina nella decisione di abbandonare il processo. Contemporaneamente a questa decisione avvengono due fatti importanti: Edo, come direttore dei bagni, decide di avviare una ristrutturazione per la nuova stagione, e Guia termina un libro dedicato alla lotta per avere un figlio. Edo conosce così la responsabile del cotto da posa, Anna, quarantenne “abbastanza…”. Cioè abbastanza simpatica, abbastanza brava, abbastanza avvenente. Si infioretta così un balletto tra il dire e il fare, in cui Edo non fa un passo più lungo di mezza gamba, eppure entra nelle simpatie di Anna. Che ha una storia dura alle spalle, e neanche tanto alle spalle. Si accompagnava con tal Gianni Giorgi in arte Giangi, un comico da strapazzo che imperversa per i lidi toscani come molti comici d’avanspettacolo. Che ha un paio di macchiette interessanti (tipo alcune da Zelig minore), che gli danno un minimo di risonanza. Peccato che sia anche alcolista e manesco. La prima tara lo porta a cadere con un tonfo quando avrebbe potuto avere successo, la seconda lo porta in un rapporto conflittuale con Anna. Che lo lascia, ma che lui non molla, continuando a perseguitarla. Sull’altro versante, il libro di Guia sulla non-nascita del bambino viene cestinato dall’editore, facendo piombare la donna in una depressione profonda: no libro, no bimbi, cosa c’è nella vita? Anche la lontananza tra Edo e Guia non favorisce la distensione ed il ricomporre il loro stato di crisi. Anzi lo esaspera, con Guia che tenta di tutto, imbarcandosi in mille sterili rivoli, ed Edo che invece sembra tirarsene fuori, provato dalle difficoltà della convivenza e senza una reale via di sbocco. Il punto di svolta si ha il 14 febbraio (casualmente San Valentino): ormai esasperato da Guia, Edo cede e scopa con Anna, mentre esce incontra Giangi che sopraggiunge, il giorno dopo Anna è scomparsa. Da qui nasce la seconda parte falsamente noir, anche se come detto con atmosfere alla Scerby. È ovvio, anche se nessuno sembra dirlo, che è stato Giangi. Ma come? Ed il corpo? L’interesse di Simi è invece su altro: le ripercussioni su Edo, quelle su Edo e Guia, quelle sui media (Giangi colpevole o innocente in tutte le trasmissioni TV?). Edo cerca di tirarsi fuori, ma Guia invece si tira e lo tira dentro. Con tutta una serie di note stonate che noi avevamo visto a pagina due, e che Edo vede a pagina 200. C’è tutta la parabola mediatica che sembra interessare Simi: Giangi sulla polvere, poi di nuovo sull’altare, Guia che lo intervista, Giangi che torna sulle scene, Guia che ne diventa l’amante, Edo che si allontana, una scena “finto madre” con faccia a faccia tra Giangi e Edo, l’ultimo spettacolo, irritantemente inutile, di Giangi. Finalmente, e ce n’è voluto, Edo capisce che è meglio andarsene. Non sappiamo dove evolverà la sua vita ora che fa il tuttofare su di uno yacht lontano dalla Versilia. Né diciamo, anche se sappiamo, cosa sarà di Guia, di Giangi, del libro di Guia su Giangi, ed altre vicende in minore. Quello che sappiamo, o pensiamo di sapere, o ipotizziamo, e che nessuno troverà Anna, e nessuno sarà incolpato della morte. Per riuscire in questo finale interessante, Simi ha un bel “coup de theatre”, che è realmente il punto nero forte del libro. Se non avesse avuto questa idea, che sicuramente non vi dico, sarebbe caduto molto in basso. Così diventa un libro strano eppur interessante, palloso nella prima parte, intrigante nel finale. Io finisco con il rimanere ancora perplesso, sulle scelte di Repubblica e sulla scrittura di Simi. Ma ho letto di molto peggio. Quindi va bene così.
Fulvio Ervas “Finché c’è prosecco c’è speranza” Repubblica Italia Noir 24 euro 7,90
[A: 09/11/2016 – I: 11/03/2018 – T: 14/03/2018] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 252; anno 2010]
Quando lessi il titolo per la prima volta provai una immediata simpatia per questo libro. Purtroppo non ricambiata dal libro stesso, ora che l’ho finalmente letto. Non che Ervas non abbia delle frecce al suo arco, ma il libro è il quarto episodio basato sulle gesta di un simpatico ispettore di padre iraniano e madre italica, l’ispettore Stucky. Questo poteva essere un atout, se non che Ervas non ci facilita il compito, facendo finta che noi si sappia tutto dell’ispettore e del suo mondo, partendo in quarta con la storia ed i suoi contorni. Purtroppo noi si sa poco, e solo a fatica riusciamo a districarci nel mondo di Stucky. Dove abbiamo, almeno così ho ricostruito io, una poliziotta veneziana, tal Teresa, che si accompagna con lui, condividendone dei momenti molto, ma molto intimi, uno zio iraniano che vende tappeti, due sorelle, Sandra e Veronica, affiatate nel mettere in difficoltà il nostro, cercando anche di circuirne la virtù (e forse riuscendoci, ma sul fatto cala presto un velo discreto). Dall’altro lato, quello pubblico, abbiamo la Questura di Treviso, con il commissario Leonardi, prossimo alla pensione e che cerca in ogni modo di percorre i sentieri meno impervi, scansando qualsiasi pericolo, soprattutto se le vicende si avvicinano troppo alla politica ed altre “magagne”, e gli appuntati Landrulli, sempre alle calcagna di Stucky e Spreafico, che invece fa da palo per il commissario. Tutto questo mondo pieno di tic e di cose che dovremmo sapere se avessimo letto i primi tre libri. Ma non lo abbiamo fatto, ed il ritmo della lettura ne risente. Secondo elemento che fa mal digerire il piatto, o meglio il bicchiere di prosecco, è quell’intercalare, dopo qualche capitolo, con un paio di pagine in corsivo, dove, mentre si dipana la vicenda, il matto del paese, anche se proprio matto non è, solo forse un po’ rintronato dal troppo bere, tal Isacco, ci narra le vicende di vita di una serie di paesani, tutti morti di cancro. Ora, è pur carina e ben scritta questa specie di “Spoon River trevigiana”, ma a me rompeva anch’essa il ritmo di lettura, facendo perdere il filo, che, anche se non complicato, aveva del suo. Che ovvio tutto gira intorno al prosecco. Dove abbiamo un primo morto, suicida, il conte Ancillotto, grande produttore di bollicine, nonché gaudente imperituro. Vissuto a lungo in Sud America, dove fece amicizia anche con Secondo, l’oste del paese. Poi tornato sui declivi della Valdobbiadene, a fare la bella vita ed a produrre vino. Il conte si suicida al cimitero, con accanto una bottiglia (anzi un “mathusalem”) di champagne. Mentre indaga sul conte, parlando con la domestica Adele, con il prete Don Anselmo (uno che si faceva consegnare tutte le armi fucili e pistole dei vari valligiani, perché amante della pace), con Francesca, una escort con la quale si accompagnava spesso nell’ultimo periodo, avviene il secondo fatto delittuoso: l’ingegner Speggiorin, direttore del cementifico di zona, viene freddato con tre colpi di pistola mentre torna a casa in bicicletta. Pistola che ben presto si scopre essere stata in possesso del conte, e che il conte stesso aveva depositato nelle mani del prete. Tra un bicchiere e l’altro di bollicine, il nostro ispettore scopre altre stranezze del conte: una querelle lunga e senza per ora nessun vincitore, con la Confraternita del Valdobbiadene, sul modo più puro di produrre le bollicine, attraverso lieviti selezionati, ma anche osteggiando l’inquinante cementificio. Un afflato ecologico. Poi l’arrivo dell’erede del conte, una cilena che in patria coltiva anche lei vini, ma che viene nelle terre del conte propugnando bellicosamente di espiantare le vigne per produrre banane. Tra una passata in osteria, una visita di Elena, un battibecco con le sorelle vicine di casa, Stucky accumula domande ma non risposte. Anche questo poi scopriamo, proveniente dai precedenti episodi: l’ispettore in ogni indagine scrive domande su domande in fogli di carta, cui ogni tanto riesce a dare risposte. Formando così due mucchi sul suo tavolo: le domande ancora senza risposte e le domande risolte. Divertente chicca investigativa. Ervas cerca di mettere molta carne al fuoco, cerca di imbrogliare le carte, mettendo in mezzo il conte come malato, Isacco come longa mano del conte stesso, l’ingegnere con amante moglie di un politico di grido (cosa che mette in agitazione il commissario), la scomparsa di Francesca, le mattane dell’erede, la ritrosia di Adele. Ma è tutto un po’ troppo per questo prosecco speranzoso. Di certo Stucky troverà il modo di spiegare tutti i passaggi, ma resta la vicenda un po’ troppo sospesa. Con quel modo di porgere la pagina quasi a voler ammiccare ogni tre capoversi al lettore, con battute, riflessioni, giri vari. Alla fine un prodotto leggerino, scritto da una mano che sa usare le parole, e che a volte fa delle riflessioni anche interessanti (o collegamenti con musiche, libri, odori, piatti e vini). Ma a me ha disturbato troppo la non linearità del romanzo, e quelle pagine in corsivo che poco aggiungono (anche se a volte quel poco serve). Non so, riprendo le righe di partenza: sembrava un prodotto ilare-noir, ma non si sviluppa bene in nessuno dei due sensi. Ed è un peccato.
Fulvio Ervas “Si fa presto a dire Adriatico” Repubblica Agenda Noir 20 euro 7,90
[A: 29/11/2015 – I: 14/03/2018 – T: 16/03/2018] - && 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 267; anno 2013]
Passiamo subito ad un altro Ervas, con gli stessi problemi del primo. Anche perché, se quello era il quarto, questo è il sesto. Ed il nostro pur bravo scrivano non riesce a tenere le fila. Forse si pensa che noi leggiamo tutti i libri in sequenza (e può capitare). Ma se non succede, e ci sono situazioni che ignoriamo, la scorrevolezza del testo ne risente. Per cui, di certo, ritroviamo il buon ispettore Stucky, sempre insidiato benevolmente dalle sorelle di Vicolo Dotti, ma ormai passato dall’invaghimento trevisan-veneziano con la bella Teresa, ad un impegno più duraturo con tal Elena (forse uscita fuori nel quinto ed ignorato episodio), dotata perfino di figlio in odore di ribellione, tal Michelangelo. Per sfuggire agli strali di Sandra e Veronica, il nostro pensa bene di regalarsi una bella villeggiatura (in fondo l’azione si svolge tra fine luglio ed agosto) magari in quel di Croazia. Qui, abbiamo due begli intarsi personali. Il primo riguarda il cane che Stucky decide di adottare, essendone morto il precedente proprietario. Poco ci meraviglia il fatto che tale cane si chiami Argo. Secondo, nell’andar in cerca di luoghi villeggiabili, girando isole e coste croate sulla sua inseparabile moto Morini, e con Argo caricato in uno zaino a spalla (nonostante gli ormai 14 chili di peso…), come non far risuonare corde antiche nel momento di passaggio per l’isola di Hvar. Una vacanza di quarant’anni fa, piena di attese e di promesse (in fondo si era sui 25, e la vita, più o meno, sorrideva lunga e moderatamente felice), con la mia fidanzata d’allora, ma sempre, beh forse direi spesso, con il solido amico Luciano vicino (e con tutte le sue vicissitudini, che essendo sue e non mie ho il dovere di tacere). Stucky, ed Argo, al fine, trovano pur un bel campeggio in rive croate, per di più, come spesso da quelle parti, un campeggio naturista. Sarebbero potute nascere scene pruderose, e quasi ci si poteva imbarcarne in una, laddove Stucky incontra la veterinaria Ajda, che quasi quasi, ma poi, sul più bello, qualcuno cerca di massacrare a bastonate Argo, e Ajda si dedica al cane e non all’uomo. Ma questa è una delle tante storie incastonate nella Storia, come quella di foto di donna nuda inserita nella buca delle lettere, di lettere d’amore scritte sui vagoni ferroviari, di ricerche su Internet e di giochi di ruolo collegati (peccato che siano gialli per ispettori di polizia, si prega di sorridere alla battuta). Che anche qui la storia narrata seguendo l’ispettore, vede, da un certo punto in poi, inserirsi una voce altra, in soggettiva, che racconta vicende varie, che abbiamo di certo prima il sospetto poi la certezza, si intreccino con il resto. Qui, abbiamo tal Ugo Boscolo detto Sele, ex-pescatore di Chioggia, che narra la sua storia in soggettiva. Il fallimento da pescatore quando l’Adriatico comincia a perdere pesci, gli anni da skipper/capitano di yacht da turisti, con una ciurma dei suoi sodali chioggiotti, l’ammirazione per Gabriele D’Annunzio, il passaggio dal turismo all’assalto di barca, soprattutto di turisti danarosi (e russi). Ma come nel precedente, la storia in corsivo mal si amalgama con il resto, ha un respiro, un’andatura narrativa diversa, e questo diverso passo non favorisce la fruibilità del romanzo. Dove invece seguiamo con più agio le avventure di Stucky nel campeggio, la scoperta di un cadavere, l’intervento della polizia croata, corrotta tanto quanto molte polizie al mondo, la fuga del principale sospettato, tra l’altro vecchia conoscenza del nostro, e tutta la serie di avventure “da inchiesta” che dovrebbero far alimentare il lato poliziesco della vicenda. Purtroppo Ervas nel suo modo di narrare, scelta personale e quindi rispettabile anche quando non condivisibile, lascia tutto girare tra l’ironico ed il serio. Stucky vede, capisce, si aggira, utilizza il vecchio contatto di Teresa per avere informazioni, si districa tra tutti i nomi e soprannomi dei lidi veneti. Riuscendo anche ad avere, alla fine, un rapporto discreto con il capo poliziotto croato, molto simile a lui in qualche impostazione, anche se sull’altra sponda dell’Adriatico. Il dramma, che alla fine scopriamo, è che, nelle scorrerie dei Boscolo, oltre ai soldi, erano finiti nelle loro mani carte compromettenti, scatenando una guerra tra bande, con una lunga scia di morti. Non vi vado a scardinare il finale, anche se Stucky avrà il suo momento di “gloria”, ma dovrà tornare verso le natie sponde trevigiane in macchina, essendo anche lui ferito come Argo. Insomma, qualche buono spunto, qualche idea, qualche riciclaggio di situazioni già sentite, senza uno spunto veramente ironico, veramente coinvolgente. Anche se non mi ha convinto fino in fondo, invidio sempre (bonariamente) chi sa maneggiare le parole per pagine e pagine.
“In questura la comparsa di Argo provocò reazioni … caustiche: ‘Argo sembra il nome di un elettrodomestico’.” (13)
Armando D’Amaro “La controbanda” Repubblica Italia Noir 31 euro 7,90
[A: 02/01/2017 – I: 17/05/2018 – T: 19/05/2018] - && -- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 123; anno 2007]
Veloce ed indolore questo nuovo libro della collana sul Noir italiano di Repubblica, quello che si muove di regione in regione, toccando qui la Liguria. In una storia ambientata tra Genova e Calice Ligure. Che tra l’altro è la città d’origine dell’autore, che mi aveva incuriosito, come potrebbe insegnarmi il mio amico Ennio, con quel nome anagrammatico per aumento del cognome. Ma nonostante qualche premessa esterna al libro (il nome, l’età stessa dell’autore, l’abbondono dell’attività forense per la scrittura, l’opera meritoria dei Fratelli Frilli che da Genova continuano a sfornare piccole perle di lettura) la resa finale è stata molto meno brillante. Intanto perché questa è la seconda storia che ha per protagonista il maresciallo Corradi, e come tutte le seconde storie, l’autore rimando a qualche passo della prima lasciando noi poveri lettori con qualche puntino di sospensione. Certo, dal punto di vista del marketing ha senso, così chi vuole colmare quei puntini va alla ricerca del resto della produzione dell’autore. Noi, che siamo molto antipatici, ribadiamo soltanto la scarsa considerazione che in questi casi si ha del lettore. È anche un libro che scorre veloce, con quel doppio ottavo che ne costituisce l’edizione tipografica (per i più “colti” un “in ottavo” sono un blocco di 16 pagine, il doppio “ottavo in ottavo” sono 8 per 16 cioè 128). Ma scorre senza lasciare segni. Non ci appassioniamo alle vicende del maresciallo, che succhia bastoncini di liquirizia avendo smesso di fumare, ma che quando è nel vivo dell’indagine, non fa altro che chiedere sigarette a destra e manca. Non ci coinvolge Iolanda, che non è la nonna del Corsaro nero, ma una signorina divorziata che chiede al buon Isidoro 8questo il nome del maresciallo) di accompagnarla a Calice per una esumazione dovuta ad una ristrutturazione del cimitero. Avvenimenti che si svolgono i primi di febbraio, in concomitanza con la ricorrenza di un eccidio perpetrato da una banda di Repubblichini di Salò (la cosiddetta “controbanda” del titolo). Qui D’Amaro cerca di far salire il tono del racconto, ingarbugliando un po’ le acque. C’è un fascista della banda che pare sia innamorato di una signorina del posto, c’è un traditore del posto che dovrebbe guidare i fascisti in una azione contro i partigiani ma che si fa male e non può. Ma i fascisti trovano comunque qualcuno che li aiuta. Poi c’è un cadavere in più nella tomba della zia di Iolanda. Chi sarà mai? Il fascista che amava la zia e che tornò 20 anni prima in paese, proprio per il funerale della vegliarda? Il famoso Tarzan scomparso? Dopo qualche indagine cui assistiamo senza partecipazione si scopre che è un fratello della morta, senza nessun interesse per la vicenda. Vicenda che l’autore cerca di condire con un po’ di sesso tra Iolanda ed Isidoro che ci fa piacere per loro ma che anche qui aggiunge poco pathos alla vicenda. Una suspense che si cerca di alimentare con la comparsa di un ragazzo che sembra sapere qualcosa delle vicende di sessanta anni prima, ma che, prima di poterle narrare al maresciallo, viene ucciso. Ora finalmente sembra che ci si cali in una atmosfera da “noir”, ma saranno le poche pagine, sarà che l’autore ha poche frecce al suo arco, veniamo subito alla luce con la scoperta di un anziano che poco esce dai boschi, che fa vita ritirata, ma che nel lungo faccia a faccia con Corradi tira fuori le fila di questo breve romanzo. Era lui il ragazzo che sostituì Tarzan per guidare i fascisti, era lui che cercava nei boschi il tesoro di Tarzan (che i fascisti l’avevano pagato e bene ma che Tarzan nascose e morì prima di goderne). Era lui che con l’aiuto del guardiano del cimitero ritrovò il tesoro. Ma il guardiano voleva darlo agli eredi dei partigiani, motivo per cui il solitario cattivo decide di far fuori anche lui. E quando il giovane Alberto gli prospetta la nuova situazione, con il maresciallo che ha anche lui compreso tutto, il vecchio fa fuori anche Alberto. Nell’incontro finale con Corradi, poi, cerca di uccidere il maresciallo, riuscendo solo a ferirlo gravemente, che le forze buone dell’ordine, su suggerimento di Iolanda, hanno capito ed arrivano in tempo per portarlo all’ospedale. Corradi si salva, D’Amaro scrive altre storie, e probabilmente Iolanda e Isidoro avranno la loro storia. Tutto senza né coinvolgimento né altro. Peccato. Rimangono alcuni accenni dell’entroterra savonese, che mi coinvolgono solo nel ricordo di mia nonna la marchesa Paola Bianca Torriglia di Varazze. Prova deboluccia che non lascia altri segni.
Seconda trama, ed allora anche un piccolo consiglio aggiuntivo dei libri per curare malattie, anche se ad ora servirebbero di più libri per curare traumi.
Benché infine nell'ultima trama abbia stilato anatemi contro la sfortuna, non dico certo che il viaggio scozzese sia stato tutto rose e fiori, tra forature e sparizioni. Ma anche qui, siamo sempre dei ragazzi fortunati, anche perché il mio gruppo di “highlander” è stato fantastico. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2018
Bah, le libropeute parlano di cure e malattie; io mi astengo e provo solo a commentare.

PREMESTRUALE, SINDROME

Vi fanno male le gambe. Vi vengono i brividi. Meglio fare piano. Qualcosa di troppo impegnativo potrebbe ridurvi in lacrime. Oggi restate sotto il piumone con la borsa dell’acqua calda e un buon romanzo per ragazze: il miglior analgesico del mondo.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUEI CERTI GIORNI
Isabel Allende                “La casa degli spiriti”
Thomas Bernhard           “Perturbamento”
Luciano Bianciardi           “La vita agra”
Truman Capote              “A sangue freddo”
Arthur Conan Doyle         “Uno studio in rosso”
Jeffrey Eugenides           “Le vergini suicide”
Helen Fielding                “Che pasticcio, Bridget Jones”
Yu Hua                          “Cronache di un venditore di sangue”
Anna Maria Ortese          “L’Iguana”
Giovanni Verga              “I Malavoglia”

Bugiardino

A parte Truman Capote, che prima o poi leggerò, e Bridget Jones che riposa sugli scaffali in attesa di aver voglia di leggerne, nel mazzo di questi libri anti-sindrome, solo il cinese e Anna Maria Ortese rimangono fuori dai giochi. Gli altri se ne lesse anche e soprattutto prima di queste scorribande letterarie. Dal Verga compulsato sui banchi del liceo, alla Allende dei primi anni ’90, dagli scarsi ricordi, forse anche annebbiati, di Bianciardi e del duro Bernhard, alle ultime riletture dei primi anni 2000 di Conan Doyle. Rimane il solo Eugenides di cui ne parliamo sotto.
Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)
[tramato il 26 giugno 2016]
Ho sempre confuso nella mia mente aneuronica questo libro con il sicuramente diverso “Picnic ad Hanging Rock”. Errore a posteriori grossolano, visti i diversi scrittori (Eugenides vs. Joan Lindsay) e la diversa ambientazione (America vs. Australia) e la diversa situazione di fondo (suicidio vs. sparizione). Ma sappiamo che la mente fa brutti scherzi, e solo dopo essere stato convinto dalle mie mentori libresche Ella & Susan, a comprare e leggere questo libro, finalmente ho sciolto la confusione. Anche se non so dire se avrei preferito rimanere nell’ignoranza. Comunque, ora posso anche dire che questo libro di Eugenides, il secondo che leggo da lui scritto, anche se è poi il primo che ha realizzato nella sua non prolifica vita letteraria, non mi è piaciuto particolarmente. Mi è scivolato via, pagina dopo pagina, mentre cercavo di afferrarne il senso ed i modi. Senza riuscire a decifrare bene né gli uni né gli altri. Se infatti “Middlesex”, dopo un inizio a bassa carburazione, era andato avanti scorrendo e risultando alla fine di una normale piacevolezza, queste vergini suicide mi hanno creato non poche difficoltà. E tuttavia, cominciamo con le note positive, o comunque innovative, che questo romanzo di più di venti anni fa portava con sé. Innanzi tutto, la trovata di presentarsi come uno scritto collettivo. In tutto il romanzo l’io narrante diventa un noi narratori, con la sotto-trovata poi di non dire mai chi siano questi noi. Certo capiamo che ne possano far parte Trip, Tim, Chase e David, ma la voce narrante rimane un collettivo che, a distanza di anni dai fatti, ne narra, e, forse, cerca di capirne di più di quanto se capisse al tempo. Secondo ed ultimo elemento la presentazione della vita claustrofobica di un quartiere periferico di Detroit (tra l’altro città natale dell’autore, figlio di un immigrato greco, come si intuisce dal cognome, e che riempie questa periferia di altri immigrati, soprattutto italiani), con le casette che immaginiamo come nei film, a schiera su dei viali con alberi e verde. Casette con garage, con del verde intorno. E pur tuttavia senza nessuna reale interazione tra i vari abitanti. Quasi che ci si guardi come da dentro delle provette di laboratorio, ognuno preso dal suo esperimento di vita, senza poter interagire con le vite altrui. In questo mondo senza molta gioia s’inserisce la vita, e la morte, delle ragazze Lisbon. Sono cinque sorelle, accudite e/o oppresse da un padre insegnante di matematica (che brutta fine) ma soprattutto da una madre bigotta ed inflessibile (inciso, resa benissimo sullo schermo del film diretto da Sofia Coppola, dalla bravissima Kathleen Turner). Una madre incapace (nei pochi interventi che la vedono in primo piano) di accompagnare le cinque figlie nell’adolescenza. Il dramma comincia con il suicidio della più piccola Cecilia, e si conclude un anno dopo con il patto sucida, purtroppo riuscito, delle altre quattro. Cecilia si getta dal secondo piano della casa. E nella ricorrenza del primo anniversario della morte, Bonnie si impicca, Mary mette la testa nel forno, Therese si imbottisce di sonniferi e Lux si uccide con il monossido di carbonio della macchina paterna. Tutto il libro scorre fra queste morti, con la voce narrante che cerca di capire prima i motivi di Cecilia. Che restano misteriosi, e vengono tralasciati per cercare invece di entrare in contatto con le altre sorelle Lisbon. Sorelle che sembrano poter uscire dalla cupa atmosfera materna, finché, ad una festa, Lux si attarda con Trip, fanno l’amore, lei torna a casa tardi, e scoppia di tutto. La madre le reclude in casa, le ritira da scuola, il padre si licenzia. Inizia una corsa verso la dannazione, che i narratori descrivono, che cercano di fermare, senza mai capirne motivi, senza mai trovare il modo di intervenire o di far intervenire qualcuno. Sembra allucinante (e forse lo è) che in un paese “civile” in nome delle libertà personali, nessun servizio civile intervenga nella vita della famiglia Lisbon. Eugenides porta tutto alle estreme conseguenze, come detto. Ma anche lui non spiega, non interpreta. Narra, fa forse trasparire elementi di comprensione, tutto però diluito nella melassa che pervade questa inutile vita americana di provincia. Le ragazze muoiono, i Lisbon spariscono (e poi sapremo che divorziano), i narratori continuano da venti anni a porsi domande senza risposte. Il tutto con una rappresentazione dello squallore quotidiano che rende la vita inutile di essere vissuta. Quasi a dire che forse hanno fatto bene le sorelle a scegliere il momento di andarsene. Insomma, meglio il film, più movimentato, anche se meno straniante del libro. Libro, dove ringraziamo Eugenides di averci fatto dono di uno zeugma[1] dantesco a pagina 93 (“se ne andò indossando il suo turbamento ed il suo cappotto”).
“La vita è una perdita di tempo.” (150)

Conclusioni

Ripeto quanto detto all'inizio, da bravo ometto non parlo di sindromi pre o post mestruali. Ne sapete molto meglio voi. Io non sono convinto della scelta di questo mese, ma vado avanti, come un carabiniere (nei secoli fedele).

[1] Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due complementi o due costrutti diversi, dei quali uno solo propriamente gli si adatterebbe: per es. “Parlare e lacrimar vedrai insieme” (Dante), dove vedrai si adatta solo a lacrimare e non a parlare.

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