domenica 1 luglio 2018

Delle buone letture - 01 luglio 2018


Eh sì, una settimana di buone letture, tutte con un discreto taso d’interesse. Libri prestati, libri regalati, ma tutti sulla sufficienza, più o meno piena. Si stacca un po’ verso l’alto il buon vecchio Romain Gary, ma devo dire che tutti meritano una lettura. Con qualche punta di curiosità per il me poco noto Foenkinos.
Romain Gary “Educazione europea” Neri Pozza s.p. (Natalino di Nicoletta)
[A: 25/12/2017 – I: 14/01/2018 – T: 16/01/2018] - &&& +
[tit. or.: Éducation européenne; ling. or.: francese; pagine: 271; anno 1945]
Inizio tributando un doveroso omaggio alla mia amica Nico che, amando solo i classici, riesce a farmi recuperare qualche buona lettura nel corso del tempo. Come questa di Romain Gary, scrittore che neri Pozza sta riproponendo alla grande negli ultimi anni e che io mi ero sempre ripromesso di affrontare, prima o poi. Infatti, mi incuriosiva questa sora di avventuriero delle arti e delle lettere, nato con il nome di Roman Kacew a Vilnius in Lituania nel 1914, divenuto poi polacco, russo, emigrato in Francia a 14 anni, naturalizzato francese a 24, aviatore, eroe della resistenza con De Gaulle, diplomatico, regista, uomo di cultura, amante di belle donne, e sempre scrittore, almeno dal 1945 in poi, anno di questo suo primo romanzo, nel quale cambia il proprio cognome in Gary (derivato dall’imperativo russo “brucia!”). Ne avevo letto, ma solo per vie traverse, la storia tormentata del suo amore con Jean Seberg, la bellissima attrice americana, che le persecuzioni dell’FBI portarono anni dopo alla depressione ed al suicidio. Storia tormentata, che Romain la sposa, ha un figlio (vivente, cinquantenne libraio in Barcellona), poi divorzio dopo aver scoperto un flirt di Jean con Clint Eastwood. Ma queste sono altre storie, che, per chiudere con la biografia, servono solo a notare che al fine, a 66 anni, sentendosi invecchiare ed incapacitato a produrre nuove cose, Romain Gary si suicida a Parigi. Ma qui dobbiamo tornare, e torniamo a questo suo libro d’esordio, che l’autore scrive durante la guerra, nelle pause tra una missione e l’altra, e che rifinisce e pubblica al termine della guerra stessa. Primo libro di una persona già matura e piena di esperienze, primo libro a tesi (e questo un po’ ne forza alcune parti), sicuramente comunque uno dei migliori libri che abbia letto sulla resistenza (quella attiva, da “Il partigiano Johnny” di Fenoglio a “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino). Resistenza nella terra natale di Gary, tra lituani, ucraini e polacchi, vista e seguita attraverso la vicenda di Janek, giovane quattordicenne, dall’ottobre del ’42 al febbraio del ’43, con un’appendice da “fine guerra o quasi”. Janek si rifugia in una “kryjówka”, nascondiglio scavato nel terreno (antesignano dei tunnel vietnamiti) per sfuggire ai tedeschi che imperversano nella zona. Che gli hanno ucciso i fratelli, che rapiranno le donne del paese, tra cui la madre, per farne esca per i partigiani e sollazzo per le truppe d’occupazione, e dove il padre, in un tentativo suicida di salvare la moglie, uccide soldati nemici e muore. Janek vivacchia un po’ con la scorta di patate (uno degli elementi base del mangiare povero della zona, e che tornerà a più riprese per salvare o condannare persone), ma alla fine deve uscire. Si mette alla ricerca dei partigiani e si aggrega ad una compagnia di irregolari, chiamati “verdi”. Con i suoi occhi ancora innocenti, seguiamo le azioni dei partigiani, che muoiono di stenti o di tubercolosi, che muoiono traditi, che muoiono in azioni di guerra, che muoiono per errore o per eroismo. Gary ben descrive il sentimento unitario di lotta che comunque accomuna le varie anime individuali dei partigiani del gruppo di Janek. Difficile ricordarne i nomi, troppo slavi per la mia memoria, non difficile ricordarne le personalità. I fratelli che cercano obiettivi da colpire, il malato di tubercolosi con amante pianista, l’avvocato anziano che si è unito alla lotta per “farsi bello” rispetto alla molto più giovane moglie, il vecchio ciabattino che ha un figlio divenuto generale nell’Armata Rossa, e tanti altri, ma soprattutto Dobranski, lo studente letterato, un po’ alter-ego di Gary, che cerca di sollevare il morale dei partigiani improvvisando brevi racconti morali. Che sono spesso allegorie per i partigiani che lottano. Purtroppo, per me e per la linearità del romanzo, sono anche intarsi che non sempre si incastrano alla perfezione nella trama. Infine compare anche Zosia, coetanea di Janek, che si prostituisce ai tedeschi per carpirne informazioni utili alla Resistenza. Bello il loro incontro, la redenzione reciproca che ne scaturisce, l’amore che sboccia (e che porterà alla fine del libro alla nascita del loro bambino, simbolo della futura Europa). Janek capirà l’importanza, per lui, della musica, ascoltando polacche di Chopin, o il violino di un giovane ebreo. Janek dovrà passare per le forche caudine delle uccisioni dei nemici. Che dopo aver passato tutti i primi tempi come staffetta, nel finale sarà impegnato in prima persona. Vedrà uccidere, ucciderà, e dovrà risorgere come fenice da questi dolori. Perché, come dice ad un certo punto Dobranski, questa che stanno vivendo è una educazione europea, dove le cose importanti non moriranno mai. Moriranno gli uomini, non le idee. Gary, pur condannando senza riserve il nazismo e tutti i suoi seguaci, volenti o nolenti, fa capire che ci sono comunque ampie zone grigie nella vita di ognuno. Non potrà mai cessare (e sono in totale accordo) l’odio per chi ha commesso crimini indicibili, utilizzando tutte le pieghe dell’animo umano per distruggere, sterminare, soperchiare. Ma c’è anche la pietà. Nel furore della guerra, Gary non può tirarsi indietro, non può ammettere pietismi. L’Europa potrà nascere solo distruggendo questo male alla radice. Ma il bello c’è e sempre in ogni cosa. Ce lo fa vedere nella foresta coperta di neve, nel piano suonato magistralmente dal nemico, nelle patate fredde mangiate per non morire. Scrittura compatta, vigorosa, che incita. Autore da considerare meglio, che qui, pur positivo, poteva crescere molto. A volte l’intreccio è debole, ma le parole rimangono. Come rimane il volto di Janek, perso sulle scale, ad ascoltare un pianoforte suonare.
Philipp Meyer “Il figlio” Einaudi s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 10/10/2015– I: 10/02/2018 – T: 17/02/2018] - &&& --
[tit. or.: The Son; ling. or.: inglese; pagine: 546; anno 2013]
Un libro che Alessandra non ha gradito molto, e che mi ha girato qualche tempo fa. Ho messo molto tempo anche io per capire se mi interessava, ed ecco che, letto, mi sembra meno peggio di quello che pensavo. Certo, alla fine pensavo fosse più concludente, invece di rimanere sospeso nel limbo delle storie interessanti ma non compiute. L’autore, come ho letto su qualche critica, aveva in mente di fare un romanzo corale, a moltissime voci, per raccontarci un’epopea americana. Impresa parzialmente riuscita, tanto che, all’inizio, stavo quasi per mettere il libro tra i romanzi d’avventura. Poi, in questa resa finale, ha ridotto le voci essenzialmente a tre, e da questi tre contraltari, ognuno con le sue particolarità, esce sì un po’ di epopea americana, ma, forse, e meglio, esce la storia di una “tipica” famiglia americana, delle sue origini, dei suoi personaggi, e di come si sia evoluta la stessa percezione americana di sé stessi tra l’inizio dell’Ottocento fino ai giorni nostri. Devo comunque dire che mi rimane un tantino misterioso il titolo, questo “figlio” che si dovrebbe adattare a chi. A Peter, figlio di Eli? A Jeanne nipote di Peter e figlia di Charles (ma allora perché al maschile)? A Ulysses figlio di un figlio di non si sa chi? O allo stesso Eli, figlio sì di Armstrong, ma soprattutto figlio del suo tempo e della sua storia? Rinunciando a decifrare questo mistero, Meyer, in queste lunghe 500 pagine, ci presenta la storia e l’epopea della famiglia McCullough, immigrata in America alla fine del Settecento, e di cui seguiamo tre voci tipiche. Quella di Eli, il più integrato alla terra stessa, nato nel 1836 e morto a cento anni nel 1936. Quella di Peter il meno integrato, nato nel 1870 e morto probabilmente negli anni Quaranta. Quella di Jeanne Anne, detta J.A., la voce femminile, che riposiziona la famiglia in un solco da cui stava dirazzando, nata nel 1926 ed ancora viva agli inizi degli anni 2000. La parte che mi ha più preso è l’infanzia di Eli, quando dodicenne viene rapito dai Comanche, e ci viene narrata tutta la sua iniziazione indiana. Con occhio attento alle faide tra le diverse tribù, tra indiani e messicani, e anche, ma solo in modo marginale, tra indiani e bianchi. Dicevo questa la parte migliore, in cui vediamo nascere la coscienza di Eli verso la natura e verso la sua terra. Certo Meyer non dimentica che l’uomo è molteplice e sfaccettato e quando Eli, per una lunga serie di circostanze torna a vivere tra la “sua” gente, in lui rimangono sì le abitudini indiane, ma vengono esaltate le qualità poco onorevoli verso i non locali, messicani in particolare. Fino allo sterminio, da lui guidato, verso la famiglia Garcia, di certo non stinchi di santo. Ma le scene sono truculente abbastanza per ricordarci che siamo sempre in zone di frontiera. Dalla strage si salverà solo la piccola Maria. Meno coinvolgente tutta la prima parte dei diari di Peter, con il suo sentirsi diverso dal padre Eli, dai suoi rimorsi verso i Garcia, dal suo estraniarsi dal mondo McCullough, dalla moglie, dai figli. Fino a ritrovare sé stesso solo ritrovando Maria, e fuggendo con lei (ma attraverso momenti assai complicati) in Messico e dando vita al loro ramo messicano, quella da cui nelle ultime pagine sbucherà il giovane Ulysses. Infine, tipica per lo svolgimento, ma quella che veramente non saprei collocare in nessun senso positiva, la lunga storia di J.A. Forse darà al solito perché difficile rendere da uomo l’animo femminile, J.A. colpisce solo perché diventerà una donna con i pantaloni, che dovrà reggere l’ultimo impatto con l’impero. Perché già Eli nell’ultima parte della sua vita, e poi il fratello di Peter, Phineas, costruiscono il loro impero sul petrolio. Meyer fa anche alcune citazioni dotte, come al film “Il Gigante”, l’ultimo interpretato da James Dean. Ma questa è altra storia, J.A. consolida il suo impero, si sposa, fa dei figli che saranno sbandati per sempre (potenza del denaro), diventa vedova, vive una lunga storia d’amore. Per ritrovarsi ottantenne, sulla soglia di una doverosa fine di vita, con tutti i dubbi sull’aver sprecato tutta la vita inseguendo valori cui, forse, non crede più. Ma sottolineo forse, che poi, tutti i McCullough (forse eccetto Peter) rimangono legati alle leggi morali e legate alla natura tramandate da Eli, che rimane per tutti, sempre meno Peter, il faro (nel bene e nel male) di tutta la storia. Ma se la prima parte avvince e convince, dalla metà in poi si trascina. Meyer vuole mostrarci i guasti della società attuale e come hanno radici nel turbolento passato americano. Ma non riesce nel suo intento. Cioè si capisce, ma solo perché si conosce l’America, ciò che è e ciò che fa, da sempre. Non cito il solito Donald, ma mi avete capito. Poteva nascere una storia da “Pastorale americana” che legasse alle vicende della terra quanto lì si nasconde nei meandri dell’Est. Non è nata. Esce solo un discreto prodotto, che poteva essere qualcosa in più. E non lo è stato.
Alexander McCall Smith “Amori in viaggio” TEA euro 9 (in realtà scontato a 6,75 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 29/03/2018 – T: 01/04/2018] - &&&--  
[tit. or.: Trains and Lovers; ling. or.: inglese; pagine: 213; anno 2012]
Come molti sanno, sono da sempre un estimatore della scrittura tranquilla e delle atmosfere scozzesi di McCall Smith. Tanto che seguo alcune sue scritture seriali da molti anni. Non quella che persegue da più tempo, relativa ad una improbabile signora detective nel Botswana, ma quelle ambientate in Scozia: la casa di Scotland Street n° 44 ed il Club dei Filosofi Dilettanti, sempre pieno di interessanti questioni comportamentali. Qui, senza un vero perché invece, siamo in una situazione anomale: un libro senza serialità, in cui nulla succede realmente. Mi aveva attirato il titolo, che quando si parla di viaggi, io ho veramente poca resistenza. Purtroppo il titolo italiano è leggermente fuorviante, che l’originale riporta “Treni e Amanti”, che, forse, confesso mi avrebbe attirato ugualmente, ma chissà. Certo il ricordo sopito del mio lungo amore giovanile in treno diciottenne da Siviglia a Madrid con la tedesca Monika si sarebbe svegliato, anche se solo io ed il mio amico Andrea ce ne ricordiamo (non credo Monika che sparì alla stazione di Madrid e non fu più rivista). Per venire al testo, ricordo sempre che, se volete rodare il vostro inglese questo è l’autore giusto: scrive in modo tranquillo, senza troppi fronzoli, in un inglese facile ma non banale. Io, nonostante le insistenze della mia amica Chiara, continuo a leggerlo in italiano. Quindi, di conseguenza, a trovarlo molto essenziale. Infatti, qui, come accennavo prima, non succede granché. Abbiamo uno scompartimento di un treno che sta viaggiando nella campagna inglese. Quattro passeggeri che non si conoscono. Due giovani, i più o meno trentenni Hugh e Andrew. Il più che maturo David. La cinquantenne, credo, Kay. Come tutti gli sconosciuti, ma di buone maniere, si parla di tutto e di niente. Fino a che Andrew, spinta da una sua urgenza personale, comincia a parlare dei suoi problemi di cuore. Della sua passione per l’arte, dell’incontro con la ricca Hermione in una casa d’aste. Lo scontro con il padre di lei, che lo vede povero e cacciatore di doti. Il suo successo in una difficile expertise. Fino alla nemesi con il padre di Hermione ed al definitivo (ma forse momentaneo) momento di felicità. Non vi dico la natura della nemesi, che poco entra nel discorso. Stimolato da Andrew, anche Hugh racconta la sua storia, l’incontro casuale con la bella Jenny, la nascita (anzi lo scoppio di un amore). Ma Hugh non sa chi sia Jenny, che cela nel passaporto e nelle frequentazioni misteri che potrebbero essere inquietanti. Una donna scomparsa, una vecchia fiamma che ha paura di essere uccisa. Sarà così? Sarà vero? La solita bravura dell’autore è poi nello smontare il castello appena costruito, per farlo vedere nel suo aspetto innocente. Con l’esortazione: dobbiamo fidarci degli altri. Anche Kay, a questo punto, racconta la sua storia, anzi la storia dei suoi genitori. Il padre emigrante dalla Scozia in Australia, i mille lavori, il rintanarsi in una sperduta stazione di treno al centro dell’Australia, nel famoso “outback” (quell’area semi-desertica e remotamente interna del continente australiano). Là dove, ad un certo punto, dopo un lungo scambio epistolare, decide di portare quella che è diventata sua moglie. Là dove nascerà Kay. E ci saranno altre storie. Ma quello che interessa è proprio quello sguardo d’amore che i due genitori continuano a scambiarsi per tutta la vita. L’unico che non parla di sé, ma che pensa e ci comunica i pensieri, è David. Che il suo amore, la sua passione, era rivolta verso, quando diciottenni, al suo amico spensierato Bruce. Una pulsione omosessuale che nessuno dei due vive, ma che si intuisce passa in entrambe le loro teste. Certo, l’autore sembra avere del pudore, ma piace poco che questo amore debba essere silenziato. Ci si rende conto poi che David e Bruce si sposeranno e vivranno altre vite. Ma cosa sarebbe successo se…? Ecco, sono nate quattro storie, le abbiamo seguite, ci hanno dato qualche spunto. Ma niente di veramente esaltante o coinvolgente. Un buon compito, da primo della classe che non ha voglia di spremersi troppo. Spero di tornare alle sue serie che più mi piacevano. Un’ultima tirata d’orecchie: che senso ha quel sottotitolo ammiccante e fuorviante “gli imprevedibili percorsi del cuore”?!! Che rottura gli editor italiani.
“Mio padre … è morto … e mi manca. Non pensavo che avrei provato questa sensazione. Tendiamo a dare i genitori pe scontati.” (16) [vale ugualmente per qualsiasi genitore]
“C’è una canzone, non mi ricordo di chi, che chiede se esiste l’amore a prima vista e risponde che sì, è sempre a prima vista.” (29) [ahi, ahi, ahi, Alexander, è “With a little help of my friends” dei Beatles]
“L’amore ci fa sembrare straordinario ciò che è più normale.” (39)
“Gli esseri umani potevano sforzarsi di comprendere … ma non tutti erano in grado di compiere quel balzo d’immaginazione che consentiva di vedere le cose dal punto di vista dell’altro … per il semplice fatto che era appunto altro. Io sono io e tu sei tu. (73)
“Non posso fornirvi risposte. Ma posso insegnarvi a fare domande.” (184)
David Foenkinos “Il mistero Henri Pick” Mondadori s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 01/05/2018 – I: 01/05/2018 – T: 03/05/2018] - &&&
[tit. or.: Le mystère Henri Pick; ling. or.: francese; pagine: 243; anno 2016]
Un altro libro entrato velocemente ed altrettanto velocemente letto. Era un natalino fatto ad Ale, ma in quel di Varanasi, costretto anche io inopinatamente, ad un giorno di riposo, ed avendo esaurito i libri da me portati in India, me l’ha prestato. Ed io l’ho voracemente letto, nulla sapendo dell’autore né del libro stesso. Una delle migliori situazioni per affrontare una lettura. Qualcosa cambiava sapendo che Foenkinos è considerato uno dei migliori scrittori quarantenni francesi? Che ha vinto dei premi? Che ha scritto alcuni libri considerati tra i migliori campioni di vendita in Francia (“Les Cœurs autonomes”, “La Délicatesse” e “Charlotte”)? Poco sarebbe cambiato, che il libro prende, con uno spunto interessante e coinvolgente. E con uno sviluppo sostenuto dalla buona scrittura. Probabilmente troppo facile lo scioglimento del “cosiddetto” mistero di Henri Pick, ma ci sta. Come ci sta la capacità dell’autore di intrecciare vite e storie diverse, prima di prendere il binario veloce della storia principale. L’idea di base, riprende un concetto espresso nel libro “L’aborto. Una storia romantica” di Richard Brautigan, estremizzandone lo spirito. Lì, il narratore mette su una biblioteca di tutti i libri che qualcuno vuole portargli. Qui, Jean-Pierre, nell’ambito della libreria comunale che gestisce, impianta una sezione “di libri non pubblicati o rifiutati”, dove accetta tutti i libri che sono stati respinti da editori vari, purché l’autore glieli porti di persona. Una libreria affascinante e di nicchia, che ha dei momenti di gloria, soprattutto negli ultimi anni di vita di Jean-Pierre, per merito della sua aiutante Magali che spinge tutto il piccolo paese di Crozon a scrivere qualcosa. Il fascino di Jean-Pierre e di Crozon, deriva anche dal fatto che non solo siamo in Bretagna, terra aspra e fascinosa, ma per di più nel dipartimento di “Finistère” (cosa di più affascinante che portare un libro rifiutato fino alla “fine della terra”?). Su questo incipit si installa l’altra storia, quella di Delphine e di Frédéric. Lei editor presso Grasset, autrice di alcune scoperte letterarie di successo. Lui autore del cui libro primo lei si innamora, che lancia ma che risulta un fiasco. Assistiamo alle loro schermaglie, fino a quando non decidono di passare le vacanze dai genitori di lei. Dove? Ovviamente a Crozon. Qui sentono parlare della biblioteca, vanno a trovare Magali, e si immergono nella lettura (d’altra parte lei lavora con i libri). Fino a trovare un manoscritto che reputano “imperdibile”. Si tratta de “Le ultime ora di una storia d’amore” firmato Henri Pick. Qui comincia la storia vera e propria. Che il libro è giudicato da tutti fantastico, con il suo intreccio tra una storia d’amore che volge alla fine con la vita di Aleksandr Puškin. Ma c’è il mistero riguardante l’autore. Che Henri Pick era un cittadino di Crozon, morto da non molto, ma soprattutto era un fornaio, o meglio, un ristoratore che faceva pizze. Qui si esalta la capacità dell’autore di intrecciare storie. C’è infatti quella della famiglia Pick, la moglie Madeleine e la figlia Josephine, antipatica all’inizio poi solo sfortunata. Dell’ex-marito della figlia di Pick. E di tutti i raggiri che si fanno intorno alla figura di Pick stesso. Fino al lancio del libro, al suo successo. Ed alla comparsa di Rouche, un altro figuro dell’editoria, che però, come un Bernard Pivot sfortunato, è ormai emarginato dall’ambiente stesso. Cercando inutilmente di sollevarsi per trovare “il vero autore del libro”. Queste sono le parti migliori, gli intarsi, le piccole storie, Rouche e la sua vita. I dubbi di Frédéric, la voglia di strafare di Delphine, l’umanità di Madeleine, della redenzione di Josephine, forse proprio con Rouche. Capiamo anche presto che Henri non poteva essere l’autore del libro, ed alla fine se ne avranno le prove. Ed allora chi? Forse lo stesso Jean-Pierre prima di morire? O Magali in un sussulto d’amore per Jean-Pierre? O qualcun altro, magari insospettabile? Certo che, come dimostra l’autore, molte vite sarebbero travolte dalla scoperta di un autore “diverso” da Pick. Forse meglio lasciare andare tutto così, come d’altra parte è giusto per un libro trovato nella biblioteca dei libri rifiutati. Quindi, anche se poi nel finale Foenkinos ci svela il mistero, noi lo lasciamo a voi saggi lettori. Per una lettura gradevole, a volte anche stimolante, mai troppo scontata. Stimolante, perché, se non li avete letti, vi consiglio di tornate ai libri di Brautigan, soprattutto “American Dust”, perché la “Pesca alla trota in America” è forse un po’ troppo sperimentale (anche se interessante).
“Che idiozia … fare il furbo con frasi pompose e stroncature senza appello. Non rinnegava le sue opinioni, ma il modo in cui le aveva espresse… Era costantemente in ritardo sulla versione migliore di sé stesso.” (181)
Prima uscita di luglio, con 16 libri in lettura ad aprile, il cui alto numero è dovuto agli agili ma non particolarmente coinvolgenti librini della serie “Unwired”, che si beccano gli unici due “1” del mese. Portato invece verso l’alto dal solito Maigret e dall’ultimo libro della serie Asterix.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Alexander McCall Smith
Amori in viaggio
TEA
9
2
2
Georges Simenon
I Maigret – 11
Adelphi
s.p.
4
3
Beatrice Corradini
Io sono pioggia
Centauria
9,90
3
4
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad
Asterix e la corsa d’Italia
Panini
12,90
4
5
Olivier Truc
Lo stretto del lupo
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
6
Martin Suter
Allmen e le dalie
Corriere della Sera Arte
7,90
2
7
Antonio Manzini
Cinque indagini romane per Rocco Schiavone
Sellerio
14
2
8
Nancy Mitford
L’amore in un clima freddo
Adelphi
12
2
9
Anna Grue
Il bacio del traditore
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
10
Federico Pace
Controvento
Einaudi
14
3
11
Wilbur Smith
Il destino del leone
Longanesi
s.p.
3
12
Dino Buzzati
Un amore
Mondadori
s.p.
2
13
Personalità Confusa
Storia completa del tuo futuro
Unwired
s.p.
2
14
Hotel Messico
Seppellitemi con l’accappatoio
Unwired
s.p.
1
15
Marquant
Zitti al cinema
Unwired
s.p.
2
16
Spad
Convivo con la metà di me stesso (il resto l’ho affittato a un pirla)
Unwired
s.p.
1
Non entro nel merito di tutte le sfortune che ci stanno capitando in questi giorni. Note ai più, giustamente ignorate, perché non si vuole cedere alla sfortuna. Noi tutti saremo sempre più forti. Per questo continuo ad abbracciarvi 

Nessun commento:

Posta un commento