Eh sì, una settimana di buone
letture, tutte con un discreto taso d’interesse. Libri prestati, libri
regalati, ma tutti sulla sufficienza, più o meno piena. Si stacca un po’ verso
l’alto il buon vecchio Romain Gary, ma devo dire che tutti meritano una
lettura. Con qualche punta di curiosità per il me poco noto Foenkinos.
Romain Gary “Educazione europea” Neri Pozza s.p. (Natalino di
Nicoletta)
[A: 25/12/2017 – I: 14/01/2018
– T: 16/01/2018] - &&& +
[tit. or.: Éducation
européenne; ling. or.: francese; pagine: 271; anno 1945]
Inizio tributando
un doveroso omaggio alla mia amica Nico che, amando solo i classici, riesce a
farmi recuperare qualche buona lettura nel corso del tempo. Come questa di
Romain Gary, scrittore che neri Pozza sta riproponendo alla grande negli ultimi
anni e che io mi ero sempre ripromesso di affrontare, prima o poi. Infatti, mi
incuriosiva questa sora di avventuriero delle arti e delle lettere, nato con il
nome di Roman Kacew a Vilnius in Lituania nel 1914, divenuto poi polacco,
russo, emigrato in Francia a 14 anni, naturalizzato francese a 24, aviatore,
eroe della resistenza con De Gaulle, diplomatico, regista, uomo di cultura,
amante di belle donne, e sempre scrittore, almeno dal 1945 in poi, anno di
questo suo primo romanzo, nel quale cambia il proprio cognome in Gary (derivato
dall’imperativo russo “brucia!”). Ne avevo letto, ma solo per vie traverse, la
storia tormentata del suo amore con Jean Seberg, la bellissima attrice
americana, che le persecuzioni dell’FBI portarono anni dopo alla depressione ed
al suicidio. Storia tormentata, che Romain la sposa, ha un figlio (vivente,
cinquantenne libraio in Barcellona), poi divorzio dopo aver scoperto un flirt
di Jean con Clint Eastwood. Ma queste sono altre storie, che, per chiudere con
la biografia, servono solo a notare che al fine, a 66 anni, sentendosi
invecchiare ed incapacitato a produrre nuove cose, Romain Gary si suicida a
Parigi. Ma qui dobbiamo tornare, e torniamo a questo suo libro d’esordio, che
l’autore scrive durante la guerra, nelle pause tra una missione e l’altra, e
che rifinisce e pubblica al termine della guerra stessa. Primo libro di una
persona già matura e piena di esperienze, primo libro a tesi (e questo un po’
ne forza alcune parti), sicuramente comunque uno dei migliori libri che abbia
letto sulla resistenza (quella attiva, da “Il partigiano Johnny” di Fenoglio a
“Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino). Resistenza nella terra natale di
Gary, tra lituani, ucraini e polacchi, vista e seguita attraverso la vicenda di
Janek, giovane quattordicenne, dall’ottobre del ’42 al febbraio del ’43, con
un’appendice da “fine guerra o quasi”. Janek si rifugia in una “kryjówka”,
nascondiglio scavato nel terreno (antesignano dei tunnel vietnamiti) per
sfuggire ai tedeschi che imperversano nella zona. Che gli hanno ucciso i
fratelli, che rapiranno le donne del paese, tra cui la madre, per farne esca
per i partigiani e sollazzo per le truppe d’occupazione, e dove il padre, in un
tentativo suicida di salvare la moglie, uccide soldati nemici e muore. Janek
vivacchia un po’ con la scorta di patate (uno degli elementi base del mangiare
povero della zona, e che tornerà a più riprese per salvare o condannare
persone), ma alla fine deve uscire. Si mette alla ricerca dei partigiani e si
aggrega ad una compagnia di irregolari, chiamati “verdi”. Con i suoi occhi
ancora innocenti, seguiamo le azioni dei partigiani, che muoiono di stenti o di
tubercolosi, che muoiono traditi, che muoiono in azioni di guerra, che muoiono
per errore o per eroismo. Gary ben descrive il sentimento unitario di lotta che
comunque accomuna le varie anime individuali dei partigiani del gruppo di
Janek. Difficile ricordarne i nomi, troppo slavi per la mia memoria, non
difficile ricordarne le personalità. I fratelli che cercano obiettivi da
colpire, il malato di tubercolosi con amante pianista, l’avvocato anziano che
si è unito alla lotta per “farsi bello” rispetto alla molto più giovane moglie,
il vecchio ciabattino che ha un figlio divenuto generale nell’Armata Rossa, e
tanti altri, ma soprattutto Dobranski, lo studente letterato, un po’ alter-ego
di Gary, che cerca di sollevare il morale dei partigiani improvvisando brevi
racconti morali. Che sono spesso allegorie per i partigiani che lottano.
Purtroppo, per me e per la linearità del romanzo, sono anche intarsi che non
sempre si incastrano alla perfezione nella trama. Infine compare anche Zosia,
coetanea di Janek, che si prostituisce ai tedeschi per carpirne informazioni
utili alla Resistenza. Bello il loro incontro, la redenzione reciproca che ne
scaturisce, l’amore che sboccia (e che porterà alla fine del libro alla nascita
del loro bambino, simbolo della futura Europa). Janek capirà l’importanza, per
lui, della musica, ascoltando polacche di Chopin, o il violino di un giovane
ebreo. Janek dovrà passare per le forche caudine delle uccisioni dei nemici.
Che dopo aver passato tutti i primi tempi come staffetta, nel finale sarà
impegnato in prima persona. Vedrà uccidere, ucciderà, e dovrà risorgere come
fenice da questi dolori. Perché, come dice ad un certo punto Dobranski, questa
che stanno vivendo è una educazione europea, dove le cose importanti non
moriranno mai. Moriranno gli uomini, non le idee. Gary, pur condannando senza
riserve il nazismo e tutti i suoi seguaci, volenti o nolenti, fa capire che ci
sono comunque ampie zone grigie nella vita di ognuno. Non potrà mai cessare (e
sono in totale accordo) l’odio per chi ha commesso crimini indicibili,
utilizzando tutte le pieghe dell’animo umano per distruggere, sterminare,
soperchiare. Ma c’è anche la pietà. Nel furore della guerra, Gary non può
tirarsi indietro, non può ammettere pietismi. L’Europa potrà nascere solo
distruggendo questo male alla radice. Ma il bello c’è e sempre in ogni cosa. Ce
lo fa vedere nella foresta coperta di neve, nel piano suonato magistralmente
dal nemico, nelle patate fredde mangiate per non morire. Scrittura
compatta, vigorosa, che incita. Autore da considerare meglio, che qui, pur
positivo, poteva crescere molto. A volte l’intreccio è debole, ma le parole
rimangono. Come rimane il volto di Janek, perso sulle scale, ad ascoltare un
pianoforte suonare.
Philipp Meyer “Il figlio” Einaudi s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 10/10/2015– I:
10/02/2018 – T: 17/02/2018] - &&& --
[tit. or.: The Son; ling. or.: inglese; pagine: 546; anno 2013]
Un
libro che Alessandra non ha gradito molto, e che mi ha girato qualche tempo fa.
Ho messo molto tempo anche io per capire se mi interessava, ed ecco che, letto,
mi sembra meno peggio di quello che pensavo. Certo, alla fine pensavo fosse più
concludente, invece di rimanere sospeso nel limbo delle storie interessanti ma
non compiute. L’autore, come ho letto su qualche critica, aveva in mente di
fare un romanzo corale, a moltissime voci, per raccontarci un’epopea americana.
Impresa parzialmente riuscita, tanto che, all’inizio, stavo quasi per mettere
il libro tra i romanzi d’avventura. Poi, in questa resa finale, ha ridotto le
voci essenzialmente a tre, e da questi tre contraltari, ognuno con le sue
particolarità, esce sì un po’ di epopea americana, ma, forse, e meglio, esce la
storia di una “tipica” famiglia americana, delle sue origini, dei suoi
personaggi, e di come si sia evoluta la stessa percezione americana di sé
stessi tra l’inizio dell’Ottocento fino ai giorni nostri. Devo comunque dire
che mi rimane un tantino misterioso il titolo, questo “figlio” che si dovrebbe
adattare a chi. A Peter, figlio di Eli? A Jeanne nipote di Peter e figlia di
Charles (ma allora perché al maschile)? A Ulysses figlio di un figlio di non si
sa chi? O allo stesso Eli, figlio sì di Armstrong, ma soprattutto figlio del
suo tempo e della sua storia? Rinunciando a decifrare questo mistero, Meyer, in
queste lunghe 500 pagine, ci presenta la storia e l’epopea della famiglia
McCullough, immigrata in America alla fine del Settecento, e di cui seguiamo
tre voci tipiche. Quella di Eli, il più integrato alla terra stessa, nato nel
1836 e morto a cento anni nel 1936. Quella di Peter il meno integrato, nato nel
1870 e morto probabilmente negli anni Quaranta. Quella di Jeanne Anne, detta
J.A., la voce femminile, che riposiziona la famiglia in un solco da cui stava
dirazzando, nata nel 1926 ed ancora viva agli inizi degli anni 2000. La parte
che mi ha più preso è l’infanzia di Eli, quando dodicenne viene rapito dai
Comanche, e ci viene narrata tutta la sua iniziazione indiana. Con occhio
attento alle faide tra le diverse tribù, tra indiani e messicani, e anche, ma
solo in modo marginale, tra indiani e bianchi. Dicevo questa la parte migliore,
in cui vediamo nascere la coscienza di Eli verso la natura e verso la sua
terra. Certo Meyer non dimentica che l’uomo è molteplice e sfaccettato e quando
Eli, per una lunga serie di circostanze torna a vivere tra la “sua” gente, in
lui rimangono sì le abitudini indiane, ma vengono esaltate le qualità poco onorevoli
verso i non locali, messicani in particolare. Fino allo sterminio, da lui
guidato, verso la famiglia Garcia, di certo non stinchi di santo. Ma le scene
sono truculente abbastanza per ricordarci che siamo sempre in zone di
frontiera. Dalla strage si salverà solo la piccola Maria. Meno coinvolgente
tutta la prima parte dei diari di Peter, con il suo sentirsi diverso dal padre
Eli, dai suoi rimorsi verso i Garcia, dal suo estraniarsi dal mondo McCullough,
dalla moglie, dai figli. Fino a ritrovare sé stesso solo ritrovando Maria, e
fuggendo con lei (ma attraverso momenti assai complicati) in Messico e dando
vita al loro ramo messicano, quella da cui nelle ultime pagine sbucherà il
giovane Ulysses. Infine, tipica per lo svolgimento, ma quella che veramente non
saprei collocare in nessun senso positiva, la lunga storia di J.A. Forse darà
al solito perché difficile rendere da uomo l’animo femminile, J.A. colpisce
solo perché diventerà una donna con i pantaloni, che dovrà reggere l’ultimo
impatto con l’impero. Perché già Eli nell’ultima parte della sua vita, e poi il
fratello di Peter, Phineas, costruiscono il loro impero sul petrolio. Meyer fa
anche alcune citazioni dotte, come al film “Il Gigante”, l’ultimo interpretato
da James Dean. Ma questa è altra storia, J.A. consolida il suo impero, si
sposa, fa dei figli che saranno sbandati per sempre (potenza del denaro),
diventa vedova, vive una lunga storia d’amore. Per ritrovarsi ottantenne, sulla
soglia di una doverosa fine di vita, con tutti i dubbi sull’aver sprecato tutta
la vita inseguendo valori cui, forse, non crede più. Ma sottolineo forse, che
poi, tutti i McCullough (forse eccetto Peter) rimangono legati alle leggi
morali e legate alla natura tramandate da Eli, che rimane per tutti, sempre
meno Peter, il faro (nel bene e nel male) di tutta la storia. Ma se la prima
parte avvince e convince, dalla metà in poi si trascina. Meyer vuole mostrarci
i guasti della società attuale e come hanno radici nel turbolento passato
americano. Ma non riesce nel suo intento. Cioè si capisce, ma solo perché si
conosce l’America, ciò che è e ciò che fa, da sempre. Non cito il solito
Donald, ma mi avete capito. Poteva nascere una storia da “Pastorale americana”
che legasse alle vicende della terra quanto lì si nasconde nei meandri
dell’Est. Non è nata. Esce solo un discreto prodotto, che poteva essere
qualcosa in più. E non lo è stato.
Alexander McCall Smith “Amori in viaggio” TEA euro 9 (in realtà
scontato a 6,75 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 29/03/2018
– T: 01/04/2018] - &&&--
[tit. or.: Trains and Lovers; ling. or.: inglese; pagine: 213; anno 2012]
Come
molti sanno, sono da sempre un estimatore della scrittura tranquilla e delle
atmosfere scozzesi di McCall Smith. Tanto che seguo alcune sue scritture
seriali da molti anni. Non quella che persegue da più tempo, relativa ad una
improbabile signora detective nel Botswana, ma quelle ambientate in Scozia: la
casa di Scotland Street n° 44 ed il Club dei Filosofi Dilettanti, sempre pieno
di interessanti questioni comportamentali. Qui, senza un vero perché invece,
siamo in una situazione anomale: un libro senza serialità, in cui nulla succede
realmente. Mi aveva attirato il titolo, che quando si parla di viaggi, io ho
veramente poca resistenza. Purtroppo il titolo italiano è leggermente
fuorviante, che l’originale riporta “Treni e Amanti”, che, forse, confesso mi
avrebbe attirato ugualmente, ma chissà. Certo il ricordo sopito del mio lungo
amore giovanile in treno diciottenne da Siviglia a Madrid con la tedesca Monika
si sarebbe svegliato, anche se solo io ed il mio amico Andrea ce ne ricordiamo
(non credo Monika che sparì alla stazione di Madrid e non fu più rivista). Per
venire al testo, ricordo sempre che, se volete rodare il vostro inglese questo
è l’autore giusto: scrive in modo tranquillo, senza troppi fronzoli, in un
inglese facile ma non banale. Io, nonostante le insistenze della mia amica
Chiara, continuo a leggerlo in italiano. Quindi, di conseguenza, a trovarlo
molto essenziale. Infatti, qui, come accennavo prima, non succede granché.
Abbiamo uno scompartimento di un treno che sta viaggiando nella campagna
inglese. Quattro passeggeri che non si conoscono. Due giovani, i più o meno
trentenni Hugh e Andrew. Il più che maturo David. La cinquantenne, credo, Kay.
Come tutti gli sconosciuti, ma di buone maniere, si parla di tutto e di niente.
Fino a che Andrew, spinta da una sua urgenza personale, comincia a parlare dei
suoi problemi di cuore. Della sua passione per l’arte, dell’incontro con la
ricca Hermione in una casa d’aste. Lo scontro con il padre di lei, che lo vede
povero e cacciatore di doti. Il suo successo in una difficile expertise. Fino
alla nemesi con il padre di Hermione ed al definitivo (ma forse momentaneo)
momento di felicità. Non vi dico la natura della nemesi, che poco entra nel
discorso. Stimolato da Andrew, anche Hugh racconta la sua storia, l’incontro
casuale con la bella Jenny, la nascita (anzi lo scoppio di un amore). Ma Hugh
non sa chi sia Jenny, che cela nel passaporto e nelle frequentazioni misteri
che potrebbero essere inquietanti. Una donna scomparsa, una vecchia fiamma che
ha paura di essere uccisa. Sarà così? Sarà vero? La solita bravura dell’autore
è poi nello smontare il castello appena costruito, per farlo vedere nel suo
aspetto innocente. Con l’esortazione: dobbiamo fidarci degli altri. Anche Kay,
a questo punto, racconta la sua storia, anzi la storia dei suoi genitori. Il
padre emigrante dalla Scozia in Australia, i mille lavori, il rintanarsi in una
sperduta stazione di treno al centro dell’Australia, nel famoso “outback”
(quell’area semi-desertica e remotamente interna del continente australiano).
Là dove, ad un certo punto, dopo un lungo scambio epistolare, decide di portare
quella che è diventata sua moglie. Là dove nascerà Kay. E ci saranno altre
storie. Ma quello che interessa è proprio quello sguardo d’amore che i due
genitori continuano a scambiarsi per tutta la vita. L’unico che non parla di
sé, ma che pensa e ci comunica i pensieri, è David. Che il suo amore, la sua
passione, era rivolta verso, quando diciottenni, al suo amico spensierato
Bruce. Una pulsione omosessuale che nessuno dei due vive, ma che si intuisce
passa in entrambe le loro teste. Certo, l’autore sembra avere del pudore, ma
piace poco che questo amore debba essere silenziato. Ci si rende conto poi che
David e Bruce si sposeranno e vivranno altre vite. Ma cosa sarebbe successo se…?
Ecco, sono nate quattro storie, le abbiamo seguite, ci hanno dato qualche
spunto. Ma niente di veramente esaltante o coinvolgente. Un buon compito, da
primo della classe che non ha voglia di spremersi troppo. Spero di tornare alle
sue serie che più mi piacevano. Un’ultima tirata d’orecchie: che senso ha quel
sottotitolo ammiccante e fuorviante “gli imprevedibili percorsi del cuore”?!!
Che rottura gli editor italiani.
“Mio padre … è morto … e mi manca. Non
pensavo che avrei provato questa sensazione. Tendiamo a dare i genitori pe
scontati.” (16) [vale ugualmente per qualsiasi genitore]
“C’è una canzone, non mi ricordo di chi, che
chiede se esiste l’amore a prima vista e risponde che sì, è sempre a prima
vista.” (29) [ahi, ahi, ahi, Alexander, è “With a
little help of my friends” dei Beatles]
“L’amore ci fa sembrare straordinario ciò
che è più normale.” (39)
“Gli esseri umani potevano sforzarsi di
comprendere … ma non tutti erano in grado di compiere quel balzo d’immaginazione
che consentiva di vedere le cose dal punto di vista dell’altro … per il
semplice fatto che era appunto altro. Io sono io e tu sei tu. (73)
“Non posso fornirvi risposte. Ma posso
insegnarvi a fare domande.” (184)
David Foenkinos “Il mistero Henri Pick” Mondadori s.p. (prestito di
Alessandra)
[A: 01/05/2018 – I:
01/05/2018 – T: 03/05/2018] - &&&
[tit. or.: Le
mystère Henri Pick; ling. or.: francese; pagine: 243; anno 2016]
Un altro libro entrato velocemente ed
altrettanto velocemente letto. Era un natalino fatto ad Ale, ma in quel di
Varanasi, costretto anche io inopinatamente, ad un giorno di riposo, ed avendo
esaurito i libri da me portati in India, me l’ha prestato. Ed io l’ho
voracemente letto, nulla sapendo dell’autore né del libro stesso. Una delle
migliori situazioni per affrontare una lettura. Qualcosa cambiava sapendo che
Foenkinos è considerato uno dei migliori scrittori quarantenni francesi? Che ha
vinto dei premi? Che ha scritto alcuni libri considerati tra i migliori
campioni di vendita in Francia (“Les Cœurs autonomes”, “La Délicatesse” e
“Charlotte”)? Poco sarebbe cambiato, che il libro prende, con uno spunto
interessante e coinvolgente. E con uno sviluppo sostenuto dalla buona
scrittura. Probabilmente troppo facile lo scioglimento del “cosiddetto” mistero
di Henri Pick, ma ci sta. Come ci sta la capacità dell’autore di intrecciare
vite e storie diverse, prima di prendere il binario veloce della storia
principale. L’idea di base, riprende un concetto espresso nel libro “L’aborto.
Una storia romantica” di Richard Brautigan, estremizzandone lo spirito. Lì, il
narratore mette su una biblioteca di tutti i libri che qualcuno vuole
portargli. Qui, Jean-Pierre, nell’ambito della libreria comunale che gestisce,
impianta una sezione “di libri non pubblicati o rifiutati”, dove accetta tutti
i libri che sono stati respinti da editori vari, purché l’autore glieli porti
di persona. Una libreria affascinante e di nicchia, che ha dei momenti di
gloria, soprattutto negli ultimi anni di vita di Jean-Pierre, per merito della
sua aiutante Magali che spinge tutto il piccolo paese di Crozon a scrivere
qualcosa. Il fascino di Jean-Pierre e di Crozon, deriva anche dal fatto che non
solo siamo in Bretagna, terra aspra e fascinosa, ma per di più nel dipartimento
di “Finistère” (cosa di più affascinante che portare un libro rifiutato fino
alla “fine della terra”?). Su questo incipit si installa l’altra storia, quella
di Delphine e di Frédéric. Lei editor presso Grasset, autrice di alcune
scoperte letterarie di successo. Lui autore del cui libro primo lei si
innamora, che lancia ma che risulta un fiasco. Assistiamo alle loro schermaglie,
fino a quando non decidono di passare le vacanze dai genitori di lei. Dove?
Ovviamente a Crozon. Qui sentono parlare della biblioteca, vanno a trovare
Magali, e si immergono nella lettura (d’altra parte lei lavora con i libri).
Fino a trovare un manoscritto che reputano “imperdibile”. Si tratta de “Le
ultime ora di una storia d’amore” firmato Henri Pick. Qui comincia la storia
vera e propria. Che il libro è giudicato da tutti fantastico, con il suo
intreccio tra una storia d’amore che volge alla fine con la vita di Aleksandr
Puškin. Ma c’è il mistero riguardante l’autore. Che Henri Pick era un cittadino
di Crozon, morto da non molto, ma soprattutto era un fornaio, o meglio, un
ristoratore che faceva pizze. Qui si esalta la capacità dell’autore di intrecciare
storie. C’è infatti quella della famiglia Pick, la moglie Madeleine e la figlia
Josephine, antipatica all’inizio poi solo sfortunata. Dell’ex-marito della
figlia di Pick. E di tutti i raggiri che si fanno intorno alla figura di Pick
stesso. Fino al lancio del libro, al suo successo. Ed alla comparsa di Rouche,
un altro figuro dell’editoria, che però, come un Bernard Pivot sfortunato, è
ormai emarginato dall’ambiente stesso. Cercando inutilmente di sollevarsi per
trovare “il vero autore del libro”. Queste sono le parti migliori, gli intarsi,
le piccole storie, Rouche e la sua vita. I dubbi di Frédéric, la voglia di
strafare di Delphine, l’umanità di Madeleine, della redenzione di Josephine,
forse proprio con Rouche. Capiamo anche presto che Henri non poteva essere
l’autore del libro, ed alla fine se ne avranno le prove. Ed allora chi? Forse
lo stesso Jean-Pierre prima di morire? O Magali in un sussulto d’amore per
Jean-Pierre? O qualcun altro, magari insospettabile? Certo che, come dimostra
l’autore, molte vite sarebbero travolte dalla scoperta di un autore “diverso”
da Pick. Forse meglio lasciare andare tutto così, come d’altra parte è giusto
per un libro trovato nella biblioteca dei libri rifiutati. Quindi, anche se poi
nel finale Foenkinos ci svela il mistero, noi lo lasciamo a voi saggi lettori.
Per una lettura gradevole, a volte anche stimolante, mai troppo scontata.
Stimolante, perché, se non li avete letti, vi consiglio di tornate ai libri di
Brautigan, soprattutto “American Dust”, perché la “Pesca alla trota in America”
è forse un po’ troppo sperimentale (anche se interessante).
“Che
idiozia … fare il furbo con frasi pompose e stroncature senza appello. Non
rinnegava le sue opinioni, ma il modo in cui le aveva espresse… Era
costantemente in ritardo sulla versione migliore di sé stesso.” (181)
Prima
uscita di luglio, con 16 libri in lettura ad aprile, il cui alto numero è
dovuto agli agili ma non particolarmente coinvolgenti librini della serie “Unwired”,
che si beccano gli unici due “1” del mese. Portato invece verso l’alto dal
solito Maigret e dall’ultimo libro della serie Asterix.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Alexander McCall Smith
|
Amori in viaggio
|
TEA
|
9
|
2
|
2
|
Georges Simenon
|
I Maigret – 11
|
Adelphi
|
s.p.
|
4
|
3
|
Beatrice Corradini
|
Io sono pioggia
|
Centauria
|
9,90
|
3
|
4
|
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad
|
Asterix e la corsa
d’Italia
|
Panini
|
12,90
|
4
|
5
|
Olivier Truc
|
Lo stretto del lupo
|
Corriere della Sera Svezia
|
7,90
|
3
|
6
|
Martin Suter
|
Allmen e le dalie
|
Corriere della Sera Arte
|
7,90
|
2
|
7
|
Antonio Manzini
|
Cinque indagini romane per Rocco Schiavone
|
Sellerio
|
14
|
2
|
8
|
Nancy Mitford
|
L’amore in un clima freddo
|
Adelphi
|
12
|
2
|
9
|
Anna Grue
|
Il bacio del traditore
|
Corriere della Sera Svezia
|
7,90
|
3
|
10
|
Federico Pace
|
Controvento
|
Einaudi
|
14
|
3
|
11
|
Wilbur Smith
|
Il destino del
leone
|
Longanesi
|
s.p.
|
3
|
12
|
Dino Buzzati
|
Un amore
|
Mondadori
|
s.p.
|
2
|
13
|
Personalità Confusa
|
Storia completa del tuo futuro
|
Unwired
|
s.p.
|
2
|
14
|
Hotel Messico
|
Seppellitemi con l’accappatoio
|
Unwired
|
s.p.
|
1
|
15
|
Marquant
|
Zitti al cinema
|
Unwired
|
s.p.
|
2
|
16
|
Spad
|
Convivo con la metà di me stesso (il resto l’ho affittato
a un pirla)
|
Unwired
|
s.p.
|
1
|
Non entro nel merito di tutte le sfortune
che ci stanno capitando in questi giorni. Note ai più, giustamente ignorate, perché
non si vuole cedere alla sfortuna. Noi tutti saremo sempre più forti. Per
questo continuo ad abbracciarvi
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