domenica 12 maggio 2019

Libri fakocitati - 12 maggio 2019


Sándor Márai “L’eredità di Eszter” Repubblica Duemila 10 euro 9,90
[A: 12/03/2018– I: 11/11/2018 – T: 15/11/2018] - &&& +
[tit. or.: Eszter hagyateka; ling. or.: ungherese; pagine: 115; anno 1939]
Un nuovo libro della collezione dedicata ai libri che scritti in svariati anni nel nostro ieri, come dice l’exergo di Repubblica, “spiccano il volo nel Duemila”. Non so se questo di Márai rientra in questa definizione, di certo è un libro di ieri (1939) e la sua è una fortuna tutta postuma. Non so se nel Duemila, ma di certo postuma all’autore, l’ungherese Sándor Károly Henrik Groschenschmied de Mára, che dagli anni ’20 in poi si firmerà brevemente solo Sándor Márai. Visse una vita strana, avventurosa e raminga, tanto che verrebbe voglia di farne uso per scriverne, e scrisse opere varie, di cui lessi il magistrale “Le braci” una decina di anni fa. Sempre con un’attenzione acuta verso le scene a due personaggi, verso il passato che irrompe nel presente, partecipandoci sempre con i suoi brevi tratti alle vite dei suoi personaggi. Che ben presto ci sembra di conoscere, ma che poi faranno altro da quello che ci aspettiamo. Come l’autore stesso, che, a 89 anni, si uccide con un colpo di pistola alla testa. Nelle more, prima di entrare nel testo, mi viene anche in mente che veramente poco conosco della letteratura ungherese. Anzi, a mente potrei dire di ricordare solo Ferenc Molnar ed il suo “I ragazzi della via Pal”. Vedremo in futuro se verrà fuori altro. Intanto qui entriamo nella vita di Eszter, che ce la racconta in prima persona, mentre attende, riceve, e poi saluta dolorosamente, Lajos. Eszter sa bene, lo ha imparato sulla sua pelle, chi sia Lajos, cosa sia capace di fare. Eppur tuttavia … Lajos è un furfante di bell’aspetto e buone parole, che sa incantare, che sa intortare il prossimo. Era amico di Laci, fratello di Eszter, e di otto anni più grande di lei. Con Laci fa la bella vita in città, poi si ritrova in campagna nella casa avita, dove vive appunta la famiglia di Eszter, con il padre, e con la sorella Vilma. Lajos parla, inventa, crede alle sue bugie, è sempre pieno di debiti, per far fronte ai quali falsifica assegni, e fa tutto ciò che, in un mondo “corretto” lo avrebbe portato dritto alla rovina. Ma lui affascina, convince il padre di Eszter a coprire i suoi debiti. Fa una corte spietata ad Eszter, ma quando sembra che stiano combinando, lui chiede in sposa Vilma, e con lei si allontana. I due fanno due figli, poi Vilma muore. Lajos torna brevemente solo per il funerale, e poi sparisce con i ragazzi. Ora, venti anni dopo, è di nuovo di ritorno. Eszter sa che è venuto per rubarle anche l’ultimo brandello di una vita dignitosa, la casa ed il piccolo orto che danno sostentamento a lei ed alla vecchia governante Nuna. Vede passo dopo passo tutti gli inganni e le menzogne che anche questa volta l’imbonitore Lajos mette su piazza. Ma l’amore mai sopito di Eszter farà ancora i suoi danni. E quando Lajos le chiede la casa ed il giardino che serviranno a Lajos per pagare i suoi debiti, ancora una volta non sa dire di no. Tutto il breve romanzo si incentra quindi in queste schermaglie dialettiche tra Eszter e Lajos, tra Eszter e sua nipote, tra Eszter e sé stessa, quando ha la forza di parlarsi e di capire ancora una volta di essere stata turlupinata. Come quando la nipote le chiede come mai non sia fuggita con Lajos che le scriveva lettere d’amore prima di sposare Vilma. Ma la nipote, ed Eszter, non sanno che fu proprio Vilma ad intercettare le lettere che Eszter non ricevette mai. Ma anche ricevendole, avrebbe avuto la forza di fuggire? La forza di mettersi in gioco appresso ad un ciarlatano come si dimostra essere stato ed essere tuttora Lajos? Eszter firma, e Lajos, cambiali in mano, se ne va insalutato e non salutante ospite. Così come tutti, a parte Nuna, se ne vanno, ed Eszter, stanca e sconfitta, ricorda solo … che si addormentò. La capacità di Marai è tutta nella forza delle sue parole. Nel lungo soliloquio di Eszter che racconta la storia. Facendoci capire tutto, senza dire mai nulla di troppo esplicito. Certo si dicono le malefatte di Lajos, si intuiscono gli spasimi amorosi di Eszter, si sentono i mille palpiti che attraversano il testo. E si capisce che bene o male è una lunga lettera di un amore inespresso e mai realmente sbocciato. Ce n’era forse la volontà, ma non è mai uscito dalla bocca di Eszter. Così tutti, e Lajos in primis, approfitteranno di lei. Marai è un grande ritrattista di anime che ci porge un testo che ci fa riflettere sull’incapacità di vivere, di assumersi le proprie colpe e le proprie vittorie. Fa una rabbia terribile vedere il vortice in cui cade Eszter, soprattutto che verrebbe di darle una scossa, di farle fare un gesto in avanti. Non tutto riesce bene come ne “Le braci”, a volte qualche passo è troppo glissato. Ma vale tutta la pena che ci lascia leggerlo.
“Gli amori infelici non finiscono mai”. (25)
Mario Vargas Llosa “Pantaleón e le visitatrici” BUR s.p. (prestito di Fako)
[A: 05/12/2018 – I: 06/12/2018 – T: 11/12/2018] - & --  
[tit. or.: Pantaleón y las visitadoras; ling. or.: spagnolo; pagine: 293; anno 1973]
Un altro capitolo dedito alle letture di Premi Nobel ed affini, anche se qui il Nobel è del 2010, ed è Vargas Llosa, un peruviano, uno scrittore che non ho mai particolarmente amato. Né lui, né le sue posizioni politiche, né la maggior parte dei suoi scritti. Eppur ne ho letti, sia dei primi che dei secondi. Poi me ne sono stancato, e le ultime fatiche, che critici migliori di me ritengono risalire nelle fatture e nei risultati, non sono mai entrate nelle mie sfere di ipotetiche letture. Qui, per i buoni uffici dell’esimio amico Fako, ritorno a letture antiche, ad uno dei suoi primi scritti. E ne continuo il giudizio che ho stratificato negli anni. Un ottimo scrittore, un romanzo che usa talmente tanti linguaggi da seppellire chi non sia in grado di gestirli. Eppure, il risultato è un libro che non mi ha mai coinvolto, di cui si poteva leggere l’andamento sin dall’incipit (ammesso di riuscire a sopravvivere alle prime pagine che vi gettano in un non facilmente districabile caos). Il libro, intanto, dopo le prime dure prove (come non ricordare la ferocia de “La città e i cani”) segna il passaggio ad un tono più leggero, sperimentalmente ironico, dedicato ad una vicenda che se non fosse parzialmente vera sarebbe ironicamente metaforica. Che realmente i comandi militari peruviani tentarono di trovare una soluzione agli ardori sessuali dei militari di stanza in Amazzonia. I quali, almeno nella finzione libraria, non trovano di meglio che assaltare qualsiasi gonna si muova intorno a loro. I tristi generali allora incaricano il sempre attento capitano Pantaléon Pantoja di organizzare un servizio di visitatrici a domicilio. Cioè, fuor di metafora, un bordello ambulante per soddisfare le voglie della truppa. Il nostro eroe, quindi, con moglie e suocera si trasferisce a Iquitos, dove comincia, con l’abilità che gli è propria, ad imbastire la rete di “donnine leggere”. In Amazzonia, il nostro Panta subisce anche lui l’aumentato appetito sessuale, tanto che passa dalle due-tre volte mensili, ad un assalto continuo alle virtù della moglie, tanto che questa rimarrà anche incinta. Ma deve anche dedicarsi alla costruzione del suo “Servizio delle Visitatrici per Guarnigioni, Posti di frontiera e Affini”, frequentando locali notturni, personaggi loschi come Porfirio il Cinese gestrici di bordelli come donna Chuchupe. Tuttavia, le sue doti di organizzatore hanno la meglio e ben presto il servizio viene avviato. Cominciando a solcare il Rio delle Amazzoni con un battello carico di attraenti ragazze, Pantaleón in poco tempo riesce a mettere in piedi una vera e propria impresa, con il puntiglio, la precisione e l’uso di una tattica attenta, cioè le doti che dovrebbero contraddistinguere un militare. Da qui, seppur non già palesato prima, si svela l’intento finale dell’autore: portare avanti una critica verso l’esercito, verso tutti gli eserciti, ma non con le armi, forse spuntate, di un politico come diventerà più tardi, ma con una penna usata come fioretto, da parte di uno scrittore non privo di fantasia. Alla fine, però, tonando al testo, Panta, si viene a trovare, inevitabilmente, davanti a difficoltà insormontabili. Da un lato, l’ostracismo dei ben pensanti locali e nazionali. Dall’altro, l’arrivo di una bella prostituta, la Brasiliana, di cui il nostro cade innamorato. Quando lo “scandalo” viene alla luce, prima la moglie torna a Lima, poi la Brasiliana farà una tragica fine (inserita in un contesto di una sotto trama talmente astrusa che non ho neanche voglia di tornarci sopra). Panta cercherà di raddrizzare il tutto, affermando la liceità di ogni gesto suo, di Chuchupe e della Brasiliana. Ma quando lo scandalo si fa palese, tutti gli voltano le spalle. In particolare, chi, con la sua insipienza, aveva dato il via a tutto l’ambaradan. Ma il capitano Pantoja è un uomo tutto d’un pezzo e non recede di un passo, costringendo anche i militari non ha radiarlo (troppa pubblicità) ma ad esiliarlo, questa volta nel freddo delle Ande. Dove il capitano comincerà una nuova avventura, riconciliatosi anche con la moglie. Mi scuso se ho trattato anche troppo per esteso la trama, ma non è certo una trama da nascondere, e non contiene nessuna uscita originale. Si poteva capire sin dall’inizio che una simile avventura non poteva che finire male, aspettando solo di capire da dove sarebbe arrivata la zeppa. Ma se la trama è scontata, tanto da far precipitare in basso i miei sentimenti verso il testo, quello che non posso non sottolineare è la fenomenale bravura di Vargas Llosa nel mescolare eterogenei modi di scrivere e raccontare, facendo rilucere la vicenda senza mai troppo cadere nel racconto. Perché la maggior parte del testo è costruito su due falsarighe rese con ottima fattura: i dispacci e le note militari, redatte con il tipico stile “da carabiniere” (senza nessuna offesa per il termine stesso, qui usato come eponimo), ed un continuo cicaleccio di dialoghi. Sono questi soprattutto che si fanno ammirare, che sono dialoghi a getto continuo, a volte che saltano da un attore all’altro della vicenda. Ma che proprio nell’amalgama e nel coacervo di espressioni eterogenee, riescono a farci entrare nella vicenda, a capirne il senso, a denotare, in maniera indelebile, i caratteri dei personaggi.
Jonathan Coe “Expo 58” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 7,92 euro)
[A: 21/09/2016 – I: 20/12/2018 – T: 22/12/2018] - &&& --
[tit. or.: Expo 58; ling. or.: inglese; pagine: 279; anno 2013]
Torno al buon “vecchio” Coe (mi permetto le virgolette, essendo lo scrittore coetaneo del mio giovane fratello, ma anche perché ho già tramato 5 suoi libri, leggendone ben 10) dopo ben 4 anni dall’ultima lettura. Che, se ne ricordate, mi soddisfece solo parzialmente. Come solo parzialmente mi ha soddisfatto questa, che tuttavia ritengo meglio riuscita. Cambiando registro, come Coe spesso fa, ma rimanendo sempre in un solco che ormai ho abbastanza bene in mente: un uomo, una persona, di fronte ad avvenimenti più grandi di lui, che non capisce, che non decifra, e da cui viene spesso travolto. In questo caso, e qui gli devo un sentito grazie, ci fa fare non solo un salto indietro temporale, trasportandoci nel 1958, ma anche un saltino geografico, che gran parte della vicenda si svolge a Bruxelles, in quell’anno fatidico che segnò una svolta nei rapporti internazionali, inaugurando, forse, realmente, la via del dopoguerra. L’anno cioè della grande mostra denominata “Exposition Universelle et Internationale de Bruxelles”. Sulla mostra stessa, e sul suo simbolo maggiore, l'Atomium, una struttura di acciaio alta 102 metri che rappresenta un cristallo di ferro ingrandito 165 × 109 volte, rimando a siti e letture che forse ne spiegano meglio avvenimenti e significati. Di tutto ciò dirò soltanto che anch’io ho visitato il Parco dell'Heysel, entrando dentro alla grande struttura (che è tuttora presente ed insieme al Mannekin Pis è un po’ il simbolo di Bruxelles). Erano anni strani, almeno nei racconti di mio padre. Da poco era finita la guerra di Corea (luglio 1953), da poco i vietnamiti avevano sconfitto i francesi a Dien Bien Phu (maggio 1954). Si stava passando da guerre calde, a quel lungo periodo di “guerra fredda”, forse già in essere dal ’47, e sicuramente non finita se non nel novembre ’89 con la caduta del Muro di Berlino. Anche sul fronte delle scoperte e delle realizzazioni scientifiche si era nel mezzo di un bel conflitto, visto il lancio del primo Sputnik nell’ottobre del 1957 e la risposta americana con l’Explorer del gennaio 1958. Ma qui stiamo divagando. Anche se tutti questi materiali vengono frullati da Coe, e condensati in una vicenda che ha per protagonista un altro dei suoi uomini senza qualità, Thomas Foley. Oscuro funzionario britannico di un ministero casualmente vicino a chi deve organizzare il Padiglione Nazionale, con Sylvia, moglie tiepidina, ed una figlia di un paio di anni. Thomas viene scelto come “uomo del Governo” per controllare uno dei fiori all’occhiello degli inglesi: un pub da installare a Bruxelles. Thomas quindi deve lasciare la famiglia e trasferirsi per 6 mesi in Belgio (che per inciso è il paese natale della madre fuggita durante l’occupazione tedesca del 1914). Sembra un plot banale, ma ben presto Coe lo infoltisce di piccoli accidenti. Thomas, al suo arrivo in Belgio, conosce Anneke, una simpatica e spigliata belga, verso cui comincia ad avere un debole. Il pub diventa presto un centro di bevute e scambi tra i vari padiglioni, in particolare frequentato da Tony, responsabile di una installazione para-segreta britannica, Arkady, un russo che non la conta giusta, alcuni americani, Emily, una ragazza del Wisconsin, forse attrice o forse no. Come in un libro di Barnes, dove ognuno non è quello che sembra, ed abbiamo solo al centro Thomas, che invece è il solo che non capisce cosa stia succedendo, si sviluppano allora trame incrociate. A casa, Sylvia sembra subire le avances di un vicino di casa. A Bruxelles, Thomas è molto vicino ad Anneke, ma non sa se stare con lei o con Sylvia. Emily sembra circuire Tony, che però viene richiamato in patria. Allora “ripiega” su Arkady, ed anche il russo pare metterci del suo, cercando con ogni mezzo qualcuno da convertire al suo “comunismo duro e puro”. Nell’ombra, ogni tanto, appaiono due “Mr. Wolf” alla Tarantino, che etero-dirigono le mosse di Thomas. Tutto per mettere alla berlina i meccanismi spionistici dell’epoca, ma anche, almeno per la mia sensibilità, per mostrarci la fallacia umana, allora ed ora. Dove non c’è fiducia e rispetto reciproco ci saranno sempre delle zone d’ombra, sulle quale i “cattivi” prosperano. Metto le virgolette, perché non sempre sono cattivi nel senso proprio, o non sempre sono in prima persona. Potreste sostituire il termine con CIA, MI5, DIGOS, ma anche Trump, May. O chi altro vi pare. Alla fine, il KGB avrà la peggio (ma non vi dico come), Thomas ci racconterà i restanti 50 anni della sua vita e Clara (che non vi dico chi sia), in un finale stringato e poco coinvolgente, cercherà di mettere dei dubbi su cosa sia realmente accaduta tra Thomas e Anneke. Un intreccio che poteva essere più elegante e più avvincente. Ma che io, per almeno qualche verso, ho apprezzato: Bruxelles, il Teatro de la Monnaie, le vie dei ristoranti, l’Atomium, le cozze, la birra, ed altre belgicherie che mi fanno tornare a divertenti tempi passati. Finisco con una piccola tirata d’orecchie ai traduttori, che a pagina 64 riportano la bevuta di “tre bottiglie di pallida ale”, che per anche modesti birrofonai come me suona meglio forse come “pale ale”, un modo di birrificare con un lievito ad alta fermentazione, in genere malto chiaro. Per questo “pale”. Ma se andati in una birreria e ne chiedete, penso che farete una figura veramente pallida!
Paco Ignacio Taibo II “Ritornano le tigri della Malesia” Tropea s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/05/2017 – I: 06/11/2018 – T: 08/01/2019] - &&& --  
[tit. or.: El Retorno de Los Tigres de la Malasìa; ling. or.: spagnolo; pagine: 352; anno 2010]
Un libro moderatamente divertente, che promette più di mantenere. Di certo Paco vi ha lavorato molto, riuscendo nell’opera di resuscitare uno “stile Salgari” più di cento anni dopo. Non scordando, inoltre, le sue origini di ribelle a tutti i regimi (origini familiari, d’altronde, visto il nonno combattente nella guerra civile spagnola contro i franchisti, nonché l’esilio deciso dal padre alla fine degli anni Cinquanta dalla natia Spagna al Messico che, al tempo, accoglieva rifugiati da tutti i paesi oppressi), infioretta il libro di colpi (corretti storicamente) al cuore degli imperialisti inglesi ed olandesi che hanno oppresso (ed opprimono in parte anche ora) politicamente ed economicamente la regione indocinese. Tanto che l’astuto editore italiano decide di mettere un sotto titolo non presente in originale, quel “più antimperialiste che mai” riferito alle Tigri, ma soprattutto ai due capi indiscussi, il bornese (più che malese) Sandokan ed il portoghese Yanez de Gomera (anche se Yanez è un nome spagnolo, e la sua figura fu ispirata a Salgari dall’italiano Paolo Solaroli di Briona). A parte queste piccole dolenze, sono contento di poter parlare di questo libro a pochi giorni dal compimento del settantesimo compleanno di Paco. Anche se, come detto sopra, speravo in qualcosa di altro. Certo, il libro è ben costruito, riporta alle sensazioni salgariane della gioventù, con rimandi, citazioni, favolose descrizioni inventate. Ed anche con qualche dotta digressione che forse non avrebbe avuto posto negli scritti del nostro Emilio. Io, purtroppo, mi aspettavo una ricostruzione non filologica, ma fattiva, che interpreta ma rimane altro. Come quel grande esempio, per me insuperato, de “Il diario segreto di Phileas Fogg” di Philip José Farmer, che ci dà una visione trasversa ma “verniana” de “Il giro del mondo in ottanta giorni”. Purtroppo, parlare di Farmer ci porterebbe fuori dal seminato, per cui torniamo alla Malesia. L’idea di Paco, come detto, non è male: riprendere la saga di Salgari, immergersi nella lettura di tutti i suoi libri (secondo la leggenda Che Guevara ne lesse 62, Paco di più), e tirarne fuori una nuova avventura, che veda i nostri due eroi contrapposti nuovamente ai cattivi colonizzatori. Perché anche Salgari, seppur velatamente, andava criticando inglesi ed olandesi che opprimevano i locali, seppur con uno spirito più di “si va alla ventura con i corsari” più che con coscienti critiche sociali (di certo Salgari non è London). Ecco allora che sbuca fuori una banda di cattivi, che non solo mette in pericolo la vita dei nostri, ma che attenta anche al grande e vasto impero economico che i due hanno accumulato per anni. Tutto per avviare un vasto sfruttamento del nuovo materiale che si andava imponendo in tutto il mondo e che proprio nel 1876 veniva piantato nell’area indo-malese: l’hevea brasiliensis o caucciù. Proprio nel 1876 un bio-pirata inglese (questa è storia non romanzo) Henry Wickham trafuga semi di caucciù dal Brasile (fino allora monopolista del ramo) portandoli prima a Londra e poi in varie zone dell’area indocinese. Un cartello di banditi tenta di sfruttare queste risorse per creare un piccolo impero, sulla moda che una dozzina di anni dopo portava Cecil Rhodes a fondare il suo impero depauperando tutta l’Africa australe). Taibo II riesce a farci seguire abbastanza agilmente le vicende dei nostri due eroi, con scontri, camminate nella jungla, navigazioni, battaglie navali e terrestre, rapimenti, morti sospetti e tanto altro. Che ben ha appreso l’andamento salgariano: molte cose nuove e misteriose per il lettore (ogni tanto anche Taibo II fa digressioni che spiazzano il lettore), ma anche capitoli brevi, quasi a voler di nuovo pubblicare su periodici a puntate. Il pastiche è comunque ben organizzato, anche queste digressioni: uno scambio di lettere tra Yanez ed Engels sugli orangutan malesi, la presenza di uno strano tedesco dal soprannome americano (“Shatterhand”) come quello di uno dei più diffusi giochi su Nintendo negli anni ’90, una donna (ricordo che Salgari metteva sempre qualche tocco al femminile) che non avrà storie con i nostri, ma che è ricalcata su una possibile Louis Michel della Comune parigina, ipoteticamente sfuggita alla deportazione in Nuova Caledonia. Per finire sulle contaminazioni: il grande capo degli oppositori a Sandokan non è altro che James Moriarty, che ben presto, pochi anni dopo in realtà, vedremo alle prese con Sherlock Holmes. Non entro di più nel merito della trama, che ogni capitolo ha un nuovo elemento di complicazione, e descriverne i capisaldi sarebbe riscrivere il libro con le mie parole, cosa di cui non sono capace né mi interessa. Ricordo solo alcune apparizioni: Tremal Naik, l’unico a disputare in bellezza con Sandokan, che muore nel suo villaggio (facendoci credere che sia molto più vecchi del nostro), risorge Giro-Batol che era morto durante la serie salgariana, Kammamuri fa tutta una parte del lavoro di intelligence per i nostri, per poi non rivelare nulla di quanto scoperto ed eclissarsi dalla scena principale. Infine, a parte rilevare alcuni capitoli inutili, come il XII della seconda parte (pagina 202) con una digressione assolutamente poco interessante su Venezia, ricordo che l’azione si svolge nel 1876, che alcune delucidazioni sono date dallo stesso autore nella post-fazione (come il cambio di data per l’eruzione del vulcano Krakatoa), ma che rimane almeno una imprecisione: viene detto che la Bolivia non ha sbocchi sul mare, ma questo sarà vero solo dal 1884 in poi, dopo la sconfitta nella guerra con il Cile, mentre, all’epoca dei fatti, aveva ancora l’accesso al Pacifico (con conseguente Ministro della Marina). In ogni caso, non posso che ringraziare il sempre ottimo Fako per fornirmi queste piccole provocazioni di lettura.
Quanto tempo è passato (or quasi è un mese), ma ecco che si può tornare al solito andamento di citazioni varie, con i libri letti in quel di febbraio. Contenuti, dato il viaggio indiano, ed ance poco esaltanti. Un mese piatto, scaldato solo dal mai tramontato Chandler. Per il resto, un po’ di delusione.
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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Elizabeth Gilbert
Eat, Pray, Love
Penguin
10
2
2
Wade Miller
L’arma del delitto
Corriere della sera Gialli
6,90
2
3
Peter Mayle
Chi ha rubato Cézanne
Corriere della Sera Arte
7,90
2
4
Mickey Spillane
La vendetta è mia
Corriere della sera Gialli
6,90
2
5
Andrea Camilleri
La cappella di famiglia e altre storie di Vigata
Sellerio
14
2
6
Mickey Spillane
Una ragazza e una pistola
Corriere della sera Gialli
6,90
2
7
Mickey Spillane
Cacciatori di donne
Corriere della sera Gialli
6,90
2
8
Raymond Chandler
Addio mia amata
Corriere della sera Gialli
6,90
3
9
Raymond Chandler
Finestra sul vuoto
Corriere della sera Gialli
6,90
3
10
Gianni Simoni
Sezione Omicidi
TEA
9
3
11
David Goodis
C’è del marcio in Vernon Street
Corriere della sera Gialli
6,90
2
Ripeto, ottima la Pasqua messicana, una lunga cavalcata tra Maya e natura. Vedremo di continuare ancora su questi toni, premettendo che la prossima settimana, per impegni pregressi, tarderò di un giorno i miei invii.

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