Pensavate
di esservi liberati di me, ma è stata solo la lunga (e molto interessante)
parentesi messicana che ha fermato il vostro grafomane dall’inondarvi di
parola. Riprendiamo allora con un dovuto omaggio al mio amico prestatore di
libri, anche se divergiamo sul giudizio verso Vargas Llosa, che a me non è mai
particolarmente piaciuto. Segnalo e sottolineo invece le sempre ottime prove di
Márai, il dignitoso Coe ed il divertente Paco (ma solo se conoscete a
memoria Salgari).
Sándor Márai “L’eredità di Eszter”
Repubblica Duemila 10 euro 9,90
[A: 12/03/2018– I: 11/11/2018 – T: 15/11/2018] - &&& +
[tit. or.: Eszter hagyateka; ling. or.: ungherese; pagine: 115; anno 1939]
Un
nuovo libro della collezione dedicata ai libri che scritti in svariati anni nel
nostro ieri, come dice l’exergo di Repubblica, “spiccano il volo nel Duemila”.
Non so se questo di Márai rientra in questa definizione, di certo è un libro di
ieri (1939) e la sua è una fortuna tutta postuma. Non so se nel Duemila, ma di
certo postuma all’autore, l’ungherese Sándor Károly Henrik Groschenschmied de
Mára, che dagli anni ’20 in poi si firmerà brevemente solo Sándor Márai. Visse
una vita strana, avventurosa e raminga, tanto che verrebbe voglia di farne uso
per scriverne, e scrisse opere varie, di cui lessi il magistrale “Le braci” una
decina di anni fa. Sempre con un’attenzione acuta verso le scene a due
personaggi, verso il passato che irrompe nel presente, partecipandoci sempre
con i suoi brevi tratti alle vite dei suoi personaggi. Che ben presto ci sembra
di conoscere, ma che poi faranno altro da quello che ci aspettiamo. Come
l’autore stesso, che, a 89 anni, si uccide con un colpo di pistola alla testa. Nelle
more, prima di entrare nel testo, mi viene anche in mente che veramente poco
conosco della letteratura ungherese. Anzi, a mente potrei dire di ricordare
solo Ferenc Molnar ed il suo “I ragazzi della via Pal”. Vedremo in futuro se
verrà fuori altro. Intanto qui entriamo nella vita di Eszter, che ce la
racconta in prima persona, mentre attende, riceve, e poi saluta dolorosamente,
Lajos. Eszter sa bene, lo ha imparato sulla sua pelle, chi sia Lajos, cosa sia
capace di fare. Eppur tuttavia … Lajos è un furfante di bell’aspetto e buone
parole, che sa incantare, che sa intortare il prossimo. Era amico di Laci,
fratello di Eszter, e di otto anni più grande di lei. Con Laci fa la bella vita
in città, poi si ritrova in campagna nella casa avita, dove vive appunta la
famiglia di Eszter, con il padre, e con la sorella Vilma. Lajos parla, inventa,
crede alle sue bugie, è sempre pieno di debiti, per far fronte ai quali
falsifica assegni, e fa tutto ciò che, in un mondo “corretto” lo avrebbe
portato dritto alla rovina. Ma lui affascina, convince il padre di Eszter a
coprire i suoi debiti. Fa una corte spietata ad Eszter, ma quando sembra che
stiano combinando, lui chiede in sposa Vilma, e con lei si allontana. I due
fanno due figli, poi Vilma muore. Lajos torna brevemente solo per il funerale,
e poi sparisce con i ragazzi. Ora, venti anni dopo, è di nuovo di ritorno.
Eszter sa che è venuto per rubarle anche l’ultimo brandello di una vita
dignitosa, la casa ed il piccolo orto che danno sostentamento a lei ed alla
vecchia governante Nuna. Vede passo dopo passo tutti gli inganni e le menzogne
che anche questa volta l’imbonitore Lajos mette su piazza. Ma l’amore mai
sopito di Eszter farà ancora i suoi danni. E quando Lajos le chiede la casa ed
il giardino che serviranno a Lajos per pagare i suoi debiti, ancora una volta
non sa dire di no. Tutto il breve romanzo si incentra quindi in queste
schermaglie dialettiche tra Eszter e Lajos, tra Eszter e sua nipote, tra Eszter
e sé stessa, quando ha la forza di parlarsi e di capire ancora una volta di
essere stata turlupinata. Come quando la nipote le chiede come mai non sia
fuggita con Lajos che le scriveva lettere d’amore prima di sposare Vilma. Ma la
nipote, ed Eszter, non sanno che fu proprio Vilma ad intercettare le lettere
che Eszter non ricevette mai. Ma anche ricevendole, avrebbe avuto la forza di
fuggire? La forza di mettersi in gioco appresso ad un ciarlatano come si
dimostra essere stato ed essere tuttora Lajos? Eszter firma, e Lajos, cambiali
in mano, se ne va insalutato e non salutante ospite. Così come tutti, a parte
Nuna, se ne vanno, ed Eszter, stanca e sconfitta, ricorda solo … che si
addormentò. La capacità di Marai è tutta nella forza delle sue parole. Nel lungo
soliloquio di Eszter che racconta la storia. Facendoci capire tutto, senza dire
mai nulla di troppo esplicito. Certo si dicono le malefatte di Lajos, si
intuiscono gli spasimi amorosi di Eszter, si sentono i mille palpiti che
attraversano il testo. E si capisce che bene o male è una lunga lettera di un
amore inespresso e mai realmente sbocciato. Ce n’era forse la volontà, ma non è
mai uscito dalla bocca di Eszter. Così tutti, e Lajos in primis,
approfitteranno di lei. Marai è un grande ritrattista di anime che ci porge un
testo che ci fa riflettere sull’incapacità di vivere, di assumersi le proprie
colpe e le proprie vittorie. Fa una rabbia terribile vedere il vortice in cui
cade Eszter, soprattutto che verrebbe di darle una scossa, di farle fare un gesto
in avanti. Non tutto riesce bene come ne “Le braci”, a volte qualche passo è
troppo glissato. Ma vale tutta la pena che ci lascia leggerlo.
“Gli
amori infelici non finiscono mai”. (25)
Mario Vargas Llosa “Pantaleón e le
visitatrici” BUR s.p. (prestito di Fako)
[A: 05/12/2018 – I: 06/12/2018 – T: 11/12/2018]
- &
--
[tit. or.: Pantaleón y las visitadoras;
ling. or.: spagnolo; pagine: 293; anno 1973]
Un
altro capitolo dedito alle letture di Premi Nobel ed affini, anche se qui il
Nobel è del 2010, ed è Vargas Llosa, un peruviano, uno scrittore che non ho mai
particolarmente amato. Né lui, né le sue posizioni politiche, né la maggior
parte dei suoi scritti. Eppur ne ho letti, sia dei primi che dei secondi. Poi
me ne sono stancato, e le ultime fatiche, che critici migliori di me ritengono
risalire nelle fatture e nei risultati, non sono mai entrate nelle mie sfere di
ipotetiche letture. Qui, per i buoni uffici dell’esimio amico Fako, ritorno a
letture antiche, ad uno dei suoi primi scritti. E ne continuo il giudizio che
ho stratificato negli anni. Un ottimo scrittore, un romanzo che usa talmente
tanti linguaggi da seppellire chi non sia in grado di gestirli. Eppure, il
risultato è un libro che non mi ha mai coinvolto, di cui si poteva leggere
l’andamento sin dall’incipit (ammesso di riuscire a sopravvivere alle prime
pagine che vi gettano in un non facilmente districabile caos). Il libro,
intanto, dopo le prime dure prove (come non ricordare la ferocia de “La città e
i cani”) segna il passaggio ad un tono più leggero, sperimentalmente ironico,
dedicato ad una vicenda che se non fosse parzialmente vera sarebbe ironicamente
metaforica. Che realmente i comandi militari peruviani tentarono di trovare una
soluzione agli ardori sessuali dei militari di stanza in Amazzonia. I quali,
almeno nella finzione libraria, non trovano di meglio che assaltare qualsiasi
gonna si muova intorno a loro. I tristi generali allora incaricano il sempre
attento capitano Pantaléon Pantoja di organizzare un servizio di visitatrici a
domicilio. Cioè, fuor di metafora, un bordello ambulante per soddisfare le
voglie della truppa. Il nostro eroe, quindi, con moglie e suocera si
trasferisce a Iquitos, dove comincia, con l’abilità che gli è propria, ad
imbastire la rete di “donnine leggere”. In Amazzonia, il nostro Panta subisce
anche lui l’aumentato appetito sessuale, tanto che passa dalle due-tre volte
mensili, ad un assalto continuo alle virtù della moglie, tanto che questa
rimarrà anche incinta. Ma deve anche dedicarsi alla costruzione del suo
“Servizio delle Visitatrici per Guarnigioni, Posti di frontiera e Affini”,
frequentando locali notturni, personaggi loschi come Porfirio il Cinese
gestrici di bordelli come donna Chuchupe. Tuttavia, le sue doti di
organizzatore hanno la meglio e ben presto il servizio viene avviato.
Cominciando a solcare il Rio delle Amazzoni con un battello carico di
attraenti ragazze, Pantaleón in poco tempo riesce a mettere in piedi una vera e
propria impresa, con il puntiglio, la precisione e l’uso di una tattica
attenta, cioè le doti che dovrebbero contraddistinguere un militare. Da qui,
seppur non già palesato prima, si svela l’intento finale dell’autore: portare
avanti una critica verso l’esercito, verso tutti gli eserciti, ma non con le
armi, forse spuntate, di un politico come diventerà più tardi, ma con una penna
usata come fioretto, da parte di uno scrittore non privo di fantasia. Alla
fine, però, tonando al testo, Panta, si viene a trovare, inevitabilmente,
davanti a difficoltà insormontabili. Da un lato, l’ostracismo dei ben pensanti
locali e nazionali. Dall’altro, l’arrivo di una bella prostituta, la
Brasiliana, di cui il nostro cade innamorato. Quando lo “scandalo” viene alla
luce, prima la moglie torna a Lima, poi la Brasiliana farà una tragica fine
(inserita in un contesto di una sotto trama talmente astrusa che non ho neanche
voglia di tornarci sopra). Panta cercherà di raddrizzare il tutto, affermando
la liceità di ogni gesto suo, di Chuchupe e della Brasiliana. Ma quando lo
scandalo si fa palese, tutti gli voltano le spalle. In particolare, chi, con la
sua insipienza, aveva dato il via a tutto l’ambaradan. Ma il capitano Pantoja è
un uomo tutto d’un pezzo e non recede di un passo, costringendo anche i
militari non ha radiarlo (troppa pubblicità) ma ad esiliarlo, questa volta nel
freddo delle Ande. Dove il capitano comincerà una nuova avventura,
riconciliatosi anche con la moglie. Mi scuso se ho trattato anche troppo per
esteso la trama, ma non è certo una trama da nascondere, e non contiene nessuna
uscita originale. Si poteva capire sin dall’inizio che una simile avventura non
poteva che finire male, aspettando solo di capire da dove sarebbe arrivata la
zeppa. Ma se la trama è scontata, tanto da far precipitare in basso i miei
sentimenti verso il testo, quello che non posso non sottolineare è la
fenomenale bravura di Vargas Llosa nel mescolare eterogenei modi di scrivere e
raccontare, facendo rilucere la vicenda senza mai troppo cadere nel racconto.
Perché la maggior parte del testo è costruito su due falsarighe rese con ottima
fattura: i dispacci e le note militari, redatte con il tipico stile “da
carabiniere” (senza nessuna offesa per il termine stesso, qui usato come
eponimo), ed un continuo cicaleccio di dialoghi. Sono questi soprattutto che si
fanno ammirare, che sono dialoghi a getto continuo, a volte che saltano da un
attore all’altro della vicenda. Ma che proprio nell’amalgama e nel coacervo di
espressioni eterogenee, riescono a farci entrare nella vicenda, a capirne il
senso, a denotare, in maniera indelebile, i caratteri dei personaggi.
Jonathan Coe “Expo 58” Feltrinelli euro 9
(in realtà, scontato a 7,92 euro)
[A: 21/09/2016 – I: 20/12/2018 – T: 22/12/2018]
- &&&
--
[tit. or.: Expo 58; ling. or.: inglese; pagine: 279; anno 2013]
Torno al buon “vecchio” Coe (mi permetto le
virgolette, essendo lo scrittore coetaneo del mio giovane fratello, ma anche
perché ho già tramato 5 suoi libri, leggendone ben 10) dopo ben 4 anni
dall’ultima lettura. Che, se ne ricordate, mi soddisfece solo parzialmente.
Come solo parzialmente mi ha soddisfatto questa, che tuttavia ritengo meglio
riuscita. Cambiando registro, come Coe spesso fa, ma rimanendo sempre in un
solco che ormai ho abbastanza bene in mente: un uomo, una persona, di fronte ad
avvenimenti più grandi di lui, che non capisce, che non decifra, e da cui viene
spesso travolto. In questo caso, e qui gli devo un sentito grazie, ci fa fare
non solo un salto indietro temporale, trasportandoci nel 1958, ma anche un
saltino geografico, che gran parte della vicenda si svolge a Bruxelles, in
quell’anno fatidico che segnò una svolta nei rapporti internazionali, inaugurando,
forse, realmente, la via del dopoguerra. L’anno cioè della grande mostra
denominata “Exposition Universelle et Internationale de Bruxelles”. Sulla
mostra stessa, e sul suo simbolo maggiore, l'Atomium, una struttura di acciaio
alta 102 metri che rappresenta un cristallo di ferro ingrandito 165 × 109
volte, rimando a siti e letture che forse ne spiegano meglio avvenimenti e
significati. Di tutto ciò dirò soltanto che anch’io ho visitato il Parco
dell'Heysel, entrando dentro alla grande struttura (che è tuttora presente ed
insieme al Mannekin Pis è un po’ il simbolo di Bruxelles). Erano anni strani,
almeno nei racconti di mio padre. Da poco era finita la guerra di Corea (luglio
1953), da poco i vietnamiti avevano sconfitto i francesi a Dien Bien Phu (maggio
1954). Si stava passando da guerre calde, a quel lungo periodo di “guerra
fredda”, forse già in essere dal ’47, e sicuramente non finita se non nel
novembre ’89 con la caduta del Muro di Berlino. Anche sul fronte delle scoperte
e delle realizzazioni scientifiche si era nel mezzo di un bel conflitto, visto
il lancio del primo Sputnik nell’ottobre del 1957 e la risposta americana con
l’Explorer del gennaio 1958. Ma qui stiamo divagando. Anche se tutti questi
materiali vengono frullati da Coe, e condensati in una vicenda che ha per
protagonista un altro dei suoi uomini senza qualità, Thomas Foley. Oscuro
funzionario britannico di un ministero casualmente vicino a chi deve
organizzare il Padiglione Nazionale, con Sylvia, moglie tiepidina, ed una figlia
di un paio di anni. Thomas viene scelto come “uomo del Governo” per controllare
uno dei fiori all’occhiello degli inglesi: un pub da installare a Bruxelles.
Thomas quindi deve lasciare la famiglia e trasferirsi per 6 mesi in Belgio (che
per inciso è il paese natale della madre fuggita durante l’occupazione tedesca
del 1914). Sembra un plot banale, ma ben presto Coe lo infoltisce di piccoli
accidenti. Thomas, al suo arrivo in Belgio, conosce Anneke, una simpatica e
spigliata belga, verso cui comincia ad avere un debole. Il pub diventa presto
un centro di bevute e scambi tra i vari padiglioni, in particolare frequentato
da Tony, responsabile di una installazione para-segreta britannica, Arkady, un
russo che non la conta giusta, alcuni americani, Emily, una ragazza del
Wisconsin, forse attrice o forse no. Come in un libro di Barnes, dove ognuno
non è quello che sembra, ed abbiamo solo al centro Thomas, che invece è il solo
che non capisce cosa stia succedendo, si sviluppano allora trame incrociate. A
casa, Sylvia sembra subire le avances di un vicino di casa. A Bruxelles, Thomas
è molto vicino ad Anneke, ma non sa se stare con lei o con Sylvia. Emily sembra
circuire Tony, che però viene richiamato in patria. Allora “ripiega” su Arkady,
ed anche il russo pare metterci del suo, cercando con ogni mezzo qualcuno da
convertire al suo “comunismo duro e puro”. Nell’ombra, ogni tanto, appaiono due
“Mr. Wolf” alla Tarantino, che etero-dirigono le mosse di Thomas. Tutto per
mettere alla berlina i meccanismi spionistici dell’epoca, ma anche, almeno per
la mia sensibilità, per mostrarci la fallacia umana, allora ed ora. Dove non
c’è fiducia e rispetto reciproco ci saranno sempre delle zone d’ombra, sulle
quale i “cattivi” prosperano. Metto le virgolette, perché non sempre sono
cattivi nel senso proprio, o non sempre sono in prima persona. Potreste
sostituire il termine con CIA, MI5, DIGOS, ma anche Trump, May. O chi altro vi
pare. Alla fine, il KGB avrà la peggio (ma non vi dico come), Thomas ci
racconterà i restanti 50 anni della sua vita e Clara (che non vi dico chi sia),
in un finale stringato e poco coinvolgente, cercherà di mettere dei dubbi su
cosa sia realmente accaduta tra Thomas e Anneke. Un intreccio che poteva essere
più elegante e più avvincente. Ma che io, per almeno qualche verso, ho
apprezzato: Bruxelles, il Teatro de la Monnaie, le vie dei ristoranti,
l’Atomium, le cozze, la birra, ed altre belgicherie che mi fanno tornare a
divertenti tempi passati. Finisco con una piccola tirata d’orecchie ai
traduttori, che a pagina 64 riportano la bevuta di “tre bottiglie di pallida
ale”, che per anche modesti birrofonai come me suona meglio forse come “pale
ale”, un modo di birrificare con un lievito ad alta fermentazione, in genere
malto chiaro. Per questo “pale”. Ma se andati in una birreria e ne chiedete,
penso che farete una figura veramente pallida!
Paco Ignacio Taibo II “Ritornano le tigri
della Malesia” Tropea s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/05/2017 – I: 06/11/2018 – T: 08/01/2019]
- &&&
--
[tit. or.: El Retorno de Los Tigres de la Malasìa; ling. or.: spagnolo; pagine: 352; anno 2010]
Un libro moderatamente divertente, che promette più
di mantenere. Di certo Paco vi ha lavorato molto, riuscendo nell’opera di
resuscitare uno “stile Salgari” più di cento anni dopo. Non scordando, inoltre,
le sue origini di ribelle a tutti i regimi (origini familiari, d’altronde,
visto il nonno combattente nella guerra civile spagnola contro i franchisti,
nonché l’esilio deciso dal padre alla fine degli anni Cinquanta dalla natia
Spagna al Messico che, al tempo, accoglieva rifugiati da tutti i paesi oppressi),
infioretta il libro di colpi (corretti storicamente) al cuore degli
imperialisti inglesi ed olandesi che hanno oppresso (ed opprimono in parte
anche ora) politicamente ed economicamente la regione indocinese. Tanto che
l’astuto editore italiano decide di mettere un sotto titolo non presente in
originale, quel “più antimperialiste che mai” riferito alle Tigri, ma
soprattutto ai due capi indiscussi, il bornese (più che malese) Sandokan ed il
portoghese Yanez de Gomera (anche se Yanez è un nome spagnolo, e la sua figura
fu ispirata a Salgari dall’italiano Paolo Solaroli di Briona). A parte queste
piccole dolenze, sono contento di poter parlare di questo libro a pochi giorni
dal compimento del settantesimo compleanno di Paco. Anche se, come detto sopra,
speravo in qualcosa di altro. Certo, il libro è ben costruito, riporta alle
sensazioni salgariane della gioventù, con rimandi, citazioni, favolose
descrizioni inventate. Ed anche con qualche dotta digressione che forse non
avrebbe avuto posto negli scritti del nostro Emilio. Io, purtroppo, mi
aspettavo una ricostruzione non filologica, ma fattiva, che interpreta ma
rimane altro. Come quel grande esempio, per me insuperato, de “Il diario segreto
di Phileas Fogg” di Philip José Farmer, che ci dà una visione trasversa ma
“verniana” de “Il giro del mondo in ottanta giorni”. Purtroppo, parlare di
Farmer ci porterebbe fuori dal seminato, per cui torniamo alla Malesia. L’idea
di Paco, come detto, non è male: riprendere la saga di Salgari, immergersi
nella lettura di tutti i suoi libri (secondo la leggenda Che Guevara ne lesse
62, Paco di più), e tirarne fuori una nuova avventura, che veda i nostri due
eroi contrapposti nuovamente ai cattivi colonizzatori. Perché anche Salgari,
seppur velatamente, andava criticando inglesi ed olandesi che opprimevano i
locali, seppur con uno spirito più di “si va alla ventura con i corsari” più
che con coscienti critiche sociali (di certo Salgari non è London). Ecco allora
che sbuca fuori una banda di cattivi, che non solo mette in pericolo la vita
dei nostri, ma che attenta anche al grande e vasto impero economico che i due
hanno accumulato per anni. Tutto per avviare un vasto sfruttamento del nuovo
materiale che si andava imponendo in tutto il mondo e che proprio nel 1876
veniva piantato nell’area indo-malese: l’hevea brasiliensis o caucciù. Proprio
nel 1876 un bio-pirata inglese (questa è storia non romanzo) Henry Wickham
trafuga semi di caucciù dal Brasile (fino allora monopolista del ramo)
portandoli prima a Londra e poi in varie zone dell’area indocinese. Un cartello
di banditi tenta di sfruttare queste risorse per creare un piccolo impero,
sulla moda che una dozzina di anni dopo portava Cecil Rhodes a fondare il suo
impero depauperando tutta l’Africa australe). Taibo II riesce a farci seguire
abbastanza agilmente le vicende dei nostri due eroi, con scontri, camminate
nella jungla, navigazioni, battaglie navali e terrestre, rapimenti, morti
sospetti e tanto altro. Che ben ha appreso l’andamento salgariano: molte cose
nuove e misteriose per il lettore (ogni tanto anche Taibo II fa digressioni che
spiazzano il lettore), ma anche capitoli brevi, quasi a voler di nuovo
pubblicare su periodici a puntate. Il pastiche è comunque ben organizzato,
anche queste digressioni: uno scambio di lettere tra Yanez ed Engels sugli
orangutan malesi, la presenza di uno strano tedesco dal soprannome americano
(“Shatterhand”) come quello di uno dei più diffusi giochi su Nintendo negli
anni ’90, una donna (ricordo che Salgari metteva sempre qualche tocco al
femminile) che non avrà storie con i nostri, ma che è ricalcata su una
possibile Louis Michel della Comune parigina, ipoteticamente sfuggita alla
deportazione in Nuova Caledonia. Per finire sulle contaminazioni: il grande
capo degli oppositori a Sandokan non è altro che James Moriarty, che ben presto,
pochi anni dopo in realtà, vedremo alle prese con Sherlock Holmes. Non entro di
più nel merito della trama, che ogni capitolo ha un nuovo elemento di
complicazione, e descriverne i capisaldi sarebbe riscrivere il libro con le mie
parole, cosa di cui non sono capace né mi interessa. Ricordo solo alcune
apparizioni: Tremal Naik, l’unico a disputare in bellezza con Sandokan, che
muore nel suo villaggio (facendoci credere che sia molto più vecchi del
nostro), risorge Giro-Batol che era morto durante la serie salgariana,
Kammamuri fa tutta una parte del lavoro di intelligence per i nostri, per poi
non rivelare nulla di quanto scoperto ed eclissarsi dalla scena principale.
Infine, a parte rilevare alcuni capitoli inutili, come il XII della seconda
parte (pagina 202) con una digressione assolutamente poco interessante su
Venezia, ricordo che l’azione si svolge nel 1876, che alcune delucidazioni sono
date dallo stesso autore nella post-fazione (come il cambio di data per
l’eruzione del vulcano Krakatoa), ma che rimane almeno una imprecisione: viene
detto che la Bolivia non ha sbocchi sul mare, ma questo sarà vero solo dal 1884
in poi, dopo la sconfitta nella guerra con il Cile, mentre, all’epoca dei
fatti, aveva ancora l’accesso al Pacifico (con conseguente Ministro della
Marina). In ogni caso, non posso che ringraziare il sempre ottimo Fako per
fornirmi queste piccole provocazioni di lettura.
Quanto
tempo è passato (or quasi è un mese), ma ecco che si può tornare al solito
andamento di citazioni varie, con i libri letti in quel di febbraio. Contenuti,
dato il viaggio indiano, ed ance poco esaltanti. Un mese piatto, scaldato solo
dal mai tramontato Chandler. Per il resto, un po’ di delusione.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Elizabeth
Gilbert
|
Eat,
Pray, Love
|
Penguin
|
10
|
2
|
2
|
Wade Miller
|
L’arma del
delitto
|
Corriere
della sera Gialli
|
6,90
|
2
|
3
|
Peter
Mayle
|
Chi
ha rubato Cézanne
|
Corriere
della Sera Arte
|
7,90
|
2
|
4
|
Mickey Spillane
|
La vendetta è
mia
|
Corriere
della sera Gialli
|
6,90
|
2
|
5
|
Andrea
Camilleri
|
La
cappella di famiglia e altre storie di Vigata
|
Sellerio
|
14
|
2
|
6
|
Mickey Spillane
|
Una ragazza e
una pistola
|
Corriere
della sera Gialli
|
6,90
|
2
|
7
|
Mickey Spillane
|
Cacciatori di
donne
|
Corriere
della sera Gialli
|
6,90
|
2
|
8
|
Raymond
Chandler
|
Addio
mia amata
|
Corriere
della sera Gialli
|
6,90
|
3
|
9
|
Raymond Chandler
|
Finestra sul vuoto
|
Corriere della sera Gialli
|
6,90
|
3
|
10
|
Gianni
Simoni
|
Sezione
Omicidi
|
TEA
|
9
|
3
|
11
|
David Goodis
|
C’è del marcio
in Vernon Street
|
Corriere
della sera Gialli
|
6,90
|
2
|
Ripeto, ottima la Pasqua messicana, una lunga
cavalcata tra Maya e natura. Vedremo di continuare ancora su questi toni,
premettendo che la prossima settimana, per impegni pregressi, tarderò di un
giorno i miei invii.
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