lunedì 20 maggio 2019

L’arte non arriva in quarta - 19 maggio 2019


O meglio, arriva alla quarta puntata, ma non riesce ad elevarsi con scritti significativi. Di certo è leggibile Fioretti con il suo Caravaggio o Bailey con il suo Vermeer. Gradevole direi Zuffi ed il suo Durer. Ma di difficile digestione Ferri ed i Gonzaga. Mentre quasi illeggibile Gatza con il suo… Beh qui è difficile dire con chi, ne perché. Si spera sempre in un futuro migliore, allora, per noi e per l’arte.
Mathias Gatza “Il mago della luce” Corriere della Sera Arte 6 euro 7,90
[A: 01/09/2016 – I: 26/11/2018 – T: 04/12/2018] - &--
[tit. or.: Der Augentäuscher; ling. or.: tedesco; pagine: 265; anno 2012]
Sono rimasto molto deluso da questa ripresa della collana del Corriere sull’Arte come romanzo, per una serie elencabile di ragioni, che vanno tuttavia al di là della storia stessa narrata, che, se diversamente scritta, articolata e spiegata, avrebbe potuto avere un impatto di certo migliore. Innanzi tutto, la “cattiveria” del cambio di titolo. L’originale tedesco puntava (credo, data la mia scarsa familiarità con quella lingua) sul fascino del personaggio centrale, l’ammaliatore, l’accattivante Silvius Schwarz. Che, come vedremo, avrà molti e forti contatti con la luce, eppur tuttavia se l’autore propende per un titolo, sicuramente avrà le sue buone ragioni. Poi ci sono l’esposizione a più voci del testo e del contesto, che tuttavia non solo non rendono quanto devono descrivere, ma spesso, omettendo, a volte rendono quasi poco comprensibile l’andamento della storia. Infine, la storia stessa, altamente improbabile essa stessa, non tanto nelle vicissitudini dei protagonisti, quanto nelle scoperte ultime del sunnominato Schwarz (dove anche per me è facile notare la contrapposizione tra il cognome, che significa “Nero”, e la ricerca della magia della Luce, essendo il nero, come ogni buon ottico sa, il collasso di tuti i colori). Ipotizzare l’invenzione di una macchina para-fotografica intorno al 1670 è di sicuro più materia da ucronia che della storia. Non solo, ma nella ricerca di mettere tante frecce al proprio arco, il vezzo della narrazione a più voci, mette in gioco la nascita delle storie dei diversi attori del romanzo. E se le storie del XVII secolo, alla fine, ogni tanto hanno momenti interessanti, l’io narrante del presente è mal rappresentato, risultando altamente antipatico e di difficile empatia, che invece sarebbe stata la chiave di volta positiva della storia stessa. Gli assi della storia, allora, sono nel presente le vicende di uno storico fallito che trova casualmente un primo libretto stampato nel XVII secolo in cui un misterioso compositore Leopold narra le vicende della vita e delle opere di un ignoto pittore barocco, appunto Silvius Schwarz. Il nostro, saputa l’esistenza di altri libretti, parte alla ricerca per ovunque sia possibile degli stessi, rubando, coinvolgendo la bella Sandra (forse a sua volta misteriosa ma ad un certo punto questo rivolo si esaurisce come una dolina carsica), e recuperando non solo i libretti di Leopold, ma anche uno scambio epistolare tra Silvius e la sua cugina-amante Sophie von Schlosser. Quindi, noi lettori, vediamo e leggiamo a posteriori le tre diverse direttrici della storia: la narrazione del presente, i libretti di Leopold e le lettere tra Silvius e Sophie. I libretti di Leopold narrano la storia di Silvius, del modo in cui ammalia i suoi coetanei, con i suoi quadri luminosi, che però scompariranno ad uno ad uno, lasciando nel presente alcune opere di dubbia attribuzione. Mescolando la storia con morti misteriose e truculente, di cui non si capisce a prima vista il motivo, di cui sembra essere artefice proprio Silvius. O forse sono solo momenti della classe dominante, clero in prima linea, per screditare ed alla fine trovare il modo di annientare le opere e la vita stessa di Silvius. Per farne luce, il ritrovamento del romanzo epistolare mette altro sale sulle pietanze: il rapporto tra la cugina, pur sposata, e Silvius stesso. Il loro amore appassionato. L’opera, unica e finale, di una lastra con una “fotografia” ante-litteram. Perché Silvius nella sua ricerca della perfezione capisce che la pittura è solo un metodo espressivo, che fa risaltare l’artista e le sue idee, non è la realtà dell’immagine, che solo con una cosa tipo “fotografia” può essere reale ed autentica. Qui si aprirebbe un baratro di discussione su cosa sia in realtà la fotografia, ma questo è un dibattito che esula il contesto e le mie forze. Fatto sta che Silvius diventa anche l’ossessione del povero storico dell’arte, che dedicherà tutta la sua vita per cercare di cavare fuori il ragno dal suo buco. Ci proverà con questo testo, ma per me è un fallimento su tutta la linea. Tra l’altro la storia è infiorettata con voli pindarici su filosofie, arti varie, tra cui la mia amata matematica, accenni a Spinoza e Cartesio. Un calderone inimmaginabile, e, purtroppo, alla fine, di difficile e pesante lettura. Per finire, torniamo sull’idea della collana, sull’arte. Ora, seppur noi concordiamo che tutto può essere ed è arte, la pittura come la scultura, il disegno come l’architettura, arrivando, ai giorni nostri ad includervi la fotografia ed il cinema, volendo fare una collana significativa, ci si sarebbe dovuto attestare sui pilastri dell’arte. Così in genere vien fatto, passando da Giotto a Vermeer, da Piranesi a Brunelleschi. E non mi sarei scandalizzato di libri su Nader o su Hitchcock (avrei apprezzato la riproduzione del magistrale Truffaut). Ma passare per pseudo arte alchemica inventata e poco documentata ha fatto perdere punti alla collana ed al romanzo.
“Ho amato tutte le mie donne, una alla volta. Sono sempre rimasto fedele anche a me stesso.” (71)
Francesco Fioretti “Il quadro segreto di Caravaggio” Corriere della Sera Arte 10 euro 7,90
[A: 20/09/2016 – I: 05/12/2018 – T: 12/12/2018] - &&&     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 281; anno 2012]
Finalmente un libro, che almeno nei suoi contorni generali e nel suo impianto soddisfa sia il dettato della collana, sia un lettore mediamente esigente come il sottoscritto. Non è compiutissimo, ed alcune scelte stilistiche mi hanno lasciato dei dubbi sulla loro efficacia. Tuttavia, ha il pregio di farci calare nel Seicento caravaggesco, ed in tutta quella congerie di intrecci politici ed economici del tempo. D’altra parte, Fioretti è un cultore dei tempi antichi e dei grandi personaggi italici. Abruzzese, laureato in lettere, insegnante nei licei lombardo-marchigiani, è autore, oltre a saggi inerenti ai suoi studi, di alcuni libri di realtà romanzata. Un paio su Dante, uno su Leonardo, e questo su Michelangelo Merisi da Caravaggio. Detto quindi che l’autore ha una buona facilità di scrittura, e che ben si segue il suo scritto, prima di addentrarci nella trama e nell’opera stessa, faccio menzione di quell’idea stilistica che sorregge tutto il libro e che è quella che meno mi ha convinto. Infatti, il libro è in pratica dualizzato: c’è un capitolo che, in terza persona, narra le vicende del pittore, a partire dal 1604 sino al 1610, mentre il capitolo successivo è in soggettiva, dove Caravaggio stesso esprime idee, concetti, supposizioni. Queste parti sono le meno riuscite, che il Caravaggio si esprime con linguaggio moderno, delucidando le sue scelte di vita e di stile, ma in un modo che alla fine risulta posticcio. Certo, ben seguiamo sia i suoi tormenti verso i committenti, le sue scelte di usare popolani come soggetti delle scene bibliche che gli vengono commissionate. Ma sentirlo discettare dell’America e di altri soggetti stona alquanto con il tono del volume stesso. Meglio quindi la parte in oggettiva, dove seguiamo appunto le vicende di vita e di opera in quel periodo finale della sua vita. Pur se protetto dal cardinal Dal Monte e dal nobile Giustiniani, trova sempre il modo di invischiarsi in vicende al limite della legalità. C’è il suo frequentare le donne perdute, di cui Maddalena sarà l’esempio più importante, anche se gli storici lo fanno più propenso verso tal Fillide. Si trova immischiato nella strana morte di alcune prostitute, tra cui Annuccia, che diventerà il soggetto di uno dei suoi quadri più forti, la “Morte della vergine”, con quel corpo gonfio da gravidanza, e quei popolani sporchi e laceri che la contornano. Proprio indagando sulla morte, entra in serie conflitto con la fazione filospagnola, allora ben presente e forte in Roma. In particolare, con tal Ranuccio Tommasoni, dal quale più volte subisce angherie. Ma che poi affronterà nel famoso duello della pallacorda, dove Ranuccio ha la peggio e muore, e Caravaggio, colpito da pesante condanna capitale, sarà costretto a fuggire da Roma. Vediamo quindi, e capiamo, il suo pellegrinaggio prima a Napoli, in casa Colonna, poi a Malta, dove cerca di farsi nominare Cavaliere, senza molto successo. Ma dove dipinge quella stupenda “Decollazione di San Giovanni Battista” che ebbi il piacere di visitare or son trent’anni nella mia prima puntata a La Valletta. Nei capitoli oggettivi viene poi descritta l’ultima parte della vita del nostro. La promessa di aver salva la vita in cambio di quadri da donare a Scipione Borghese, cardinale, nipote di Papa Paolo V, nonché spregiudicato collezionista d’arte ed abile committente (sua la costruzione del palazzo di Villa Borghese a Roma), lo sbarco a Palo dove però viene fermato mentre i quadri continuano la navigazione verso Porto Ercole, allora enclave francese in territorio italiano, la fuga per le paludi toscane, l’arrivo e la morte a Porto Ercole. Qui, basandosi su un piccolo falso storico, l’autore estrapola una fine diversa. Questa era tutta una messa in scena da parte del Cardinal Dal Monte, che invece riuscì a traghettare Michelangelo e Maddalena prima in Spagna e poi in Argentina, dove il pittore morirà di vecchiaia. Questa leggenda viene sostenuta dalla presenza di un quadro del Caravaggio (“San Giovanni Battista disteso”) in Argentina nei primi anni del Novecento. Non entro in questa leggenda, che serve solo a dare una patina di bellezza alla parte finale della vita di Caravaggio, includendo anche un’improbabile incontro con Velázquez. Tornando al libro, oltre alle comunque avvincenti vicende storiche, che mi hanno spinto ad approfondirne in altro contesto, quello che Fioretti ci rimanda è anche una piccola parte delle scelte stilistiche di Merisi: l’ombra e la luce, i tagli prospettici, le figure del popolo. Scelte audaci ma consapevoli. Che rendono gradevole la lettura del libro, e fanno sì, che, chi ne sia interessato, può andare sull’ottima voce di Wikipedia dedicata alle opere di Caravaggio, e decifrarne i segreti. Buona lettura. E buona visione (per i romani, andate a San Luigi dei Francesi, il San Matteo è superlativo).
“Oggi a Roma … è diventato difficilissimo vivere bene, in serena armonia, cioè, con la propria coscienza, se non si è perfettamente idioti.” (107)
Anthony Bailey “Vermeer – Vita di un genio della pittura” Corriere della Sera Arte 9 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 13/12/2018 – T: 20/12/2018] - &&& e ½  
[tit. or.: Vermeer – A View of Delft; ling. or.: inglese; pagine: 243; anno 2001]
Ecco un altro buon esempio del dettato della collana. Un libro che parla di arte, un libro che ci fa entrare nelle pieghe di difficile lettura di un pittore agli apici della maestria pittorica ma di cui poco o nulla si sa della vita. Non è un caso allora che l’autore sia stato per trenta anni il critico d’arte del “New Yorker”. Infatti, non c’è una sbavatura storica, né una mancata sottolineatura dell’arte di Vermeer e dell’arte olandese del Seicento. Tanto che non è un caso che il sottotitolo originale fosse “Una veduta di Delft” (dal titolo anche di una delle migliori opere di Vermeer), dato che si parla molto, e con gran proprietà della città olandese, uno dei centri artistici dell’epoca. Mentre in italiano, l’editore ha pensato bene di inserire un “Vita di un genio della pittura” che pur coerente con il personaggio Vermeer, non era nelle (sole) intenzioni dell’autore. Perché si parla di Vermeer, si parla della sua vita e delle sue opere, se ne sottolinea la genialità, ma tutto inserito appunto in una lunga storia della città di Delft, della sua vita, artistica e non, e del suo inserimento nel contesto storico del Seicento olandese, il cosiddetto “Secolo d’oro”, un periodo durante il quale il commercio, le scienze e le arti olandesi furono tra le più acclamate del mondo. Con un lungo corredo bibliografico, che non poteva mancare nella coda di uno scritto di un autore così ben inserito nel panorama artistico mondiale. Le vivaci parole di Bailey mi hanno così di colpo riportato alla Delft che visitammo l’estate del 2017, alla casa del pittore, restaurata e piena di rimandi storici, nonché le due grandi chiese, la Chiesa Nuova e la Chiesa Vecchia, la piazza del Mercato. Insomma, un piccolo salto nel recente passato che di certo favorisce un giudizio positivamente partecipato. In ogni caso, la bravura di Bailey è proprio quella di portarci in Olanda. Anzi nelle Province Unite, nella città di Delft con la grande esplosione che ne devastò gran parte nel 1654. Ma anche con le taverne (una delle quali di proprietà della famiglia Vermeer, con la Corporazione di San Luca dove afferivano pittori ed altri artisti, con le piastrelle blu di Delft, assolutamente uniche. Poi ci sono i vari pittori, che all’epoca ben più noti del nostro erano, come Carel Fabritius, Pieter de Hooch ed altri, con i mercanti d’arte, con i quadri che venivano usati per pagare i debiti, con gli scontri religiosi, con la rigidità protestante degli olandesi, con la guerra franco-olandese del 1672. In effetti questi sono i due paletti dello scritto di Bailey: il 1654 ed il 1672. Anche perché la guerra con la Francia si protrasse a lungo, mentre Vermeer muore nel 1675, a soli 43 anni, lasciando moglie, suocera e una decina di figli viventi. Probabilmente stroncato dallo stress provocato dalla guerra e dalle difficoltà economiche che ne seguirono. Bailey ha facile gioco nel giostrarsi nel mondo olandese del tempo, lo fa con grande abilità, anche se, personalmente, ho trovato leggermente arduo tenere a mente tutti i nomi dei personaggi che compaiono sulla scena durante i venti anni che descrive. Ma se questo lo lascio ai lettori più attenti, a quelli un po’ ingenui come me, riporto invece la vita riparata di Jan Vermeer. Intanto, con quel nome contratto per esigenze di scrittura (e di firma sui quadri), rispetto all’originale che dovrebbe suonare come Johannes van der Meer (tanto appunto che firma i quadri con “I V Meer”). Di lui, esplicitamente, sappiamo la nascita (31 ottobre 1932), il matrimonio con la cattolica Catherina (aprile 1953), la convivenza con la ricca suocera Maria Thins (che aiutò spesso la coppia nei momenti difficili), i quattordici figli nati, ma tre subito defunti, nonché la morte improvvisa il 15 dicembre 1675. Bailey tenta di collocare in questo lasso di tempo i 37 (o 38) quadri di Vermeer, sottolineando come sia stato un pittore poco prolifico. Ma di una tecnica impareggiabile. Vermeer è il pittore della borghesia (solo 3 quadri hanno soggetto religioso), della vita quotidiana, degli oggetti ben disposti nello spazio, della calma olandese nell’affrontare la vita stessa. Come vediamo nella “Donna che legge una lettera davanti alla finestra”, ne “La lattaia” e ne “La merlettaia”, nella “Donna seduta alla spinetta” piuttosto che nella “Stradina di Delft” o nella “Veduta di Delft”. Bailey è bravissimo (ed io non posso ripeterne le orme che non ne sarei capace) nel descrivere i colori usati, le pennellate per rendere le trasparenze (che vengono denominate “bagnato su bagnato”), l’uso, probabile, di strumenti ottici per inquadrare le scene, la descrizione degli oggetti usati, culminanti, per me, ne “L’Arte della Pittura”, con la mappa alla parete, il magistrale candelabro, e le piastrelle in bianco e nero. C’è anche, e non poteva mancare, l’accenno ai falsi Vermeer, ed alla storia della fortuna del pittore. Che rimase ignorato per lunghi decenni, fino ad essere (ri-)scoperto solo alla fine dell’Ottocento. Insomma, un libro che mi ha portato nel mondo di Vermeer, che mi ha fatto tornare in Olanda, stimolando anche la voglia di vedere i coevi dell’autore, come quel tale Harmenszoon van Rijn più comunemente noto con il nome di Rembrandt.
Stefano Zuffi “Apocalisse con figure - Un viaggio di Dürer” Corriere della Sera Arte 11 euro 7,90
[A: 28/09/2016 – I: 12/01/2019 – T: 16/01/2019] - && e ¾      
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 266; anno 2014]
Un altro libro della serie sull’arte che, pur non raggiungendo una piena sufficienza, ha comunque una lettura spigliata ed alcuni elementi di interesse. Anche per la personalità dell’autore che non solo è un reputato storico dell’arte, consulente di varie collane editoriali e redattore di numerose monografie dedicate all’argomento. Ma è anche nato lo stesso giorno, mese ed anno di mio fratello, cosa che non può che rendermi benevolo verso di lui. Benevolo in quanto, ad esempio, questo viaggio di o con Albrecht Dürer, pur facendoci immergere con decisione nell’atmosfera dell’epoca, non lascia una grossa traccia dell’opera del pittore, incisore nonché matematico tedesco. L’idea di base del libro è quella di seguire il grande tedesco in un momento cruciale della sua vita. Sul volgere dei cinquanta anni, nel pieno della sua notorietà, comincia ad avere dubbi e stanchezze sul significato e sulla valenza della sua opera. Anche perché, storicamente, è un momento difficile. Pochi anni prima, Lutero ha affisso le sue 95 tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, dando fuoco alle polveri che porteranno al duro scontro nel cattolicesimo, alle scomuniche ed allo scisma della chiesa luterana. Questo provocherà grandi sommovimenti nel mondo germanico e nord-europeo in generale. Dürer, di base a Norimberga, si troverà nel pieno di queste discussioni. Anzi, ora, nel 1520 è in mezzo al guado: guarda con occhio critico sia il passato cattolico che il futuro protestante, ripensando anche a tutte le sue opere di carattere religioso. Inoltre, sono più di 25 anni che è sposato con Agnes Frey, ma dall’unione non sono nati figli, ed è un altro cruccio dell’uomo. infine, sebbene produca e venda in quantità, è sempre (sembra) a corto di moneta, tanto che confida nelle promesse di Massimiliano I di una rendita. Ma ora l’imperatore muore ed il nostro si trova in ambasce. Per tutta questa serie di ragioni decide di mettersi in viaggio per le terre del nord, per vedere nuovi paesaggi e nuove opere, per incontrare artisti ed eruditi, nonché per assistere all’incoronazione di Carlo V al fine di rendere effettiva la promessa rendita. Per la prima volta (in gioventù spesso Dürer viaggiò ma in solitario) porta la moglie ed una serva di compagnia. La preparazione e le quotidianità del viaggio sono forse le parti migliori del libro quelle che ci fanno fare il viaggio con Dürer mentre seguiamo il viaggio di Dürer. Le vie d’acqua, i passaggi doganali, i carri, le città piccole attraversate, sino ad arrivare, dopo un mese di viaggio, in quel di Anversa, diventata all’epoca uno dei centri economici e culturali della zona. Vediamo le descrizioni delle campagne, dei volti rudi dei contadini e degli osti incontrati (anche se i carboncini che dice di aver fatto non risultano nel catalogo delle sue opere). Vediamo la descrizione delle città, laddove intrigano alcuni scorci, nascenti all’epoca, ed ora famosi. Maastricht come crocevia, il porto e la cattedrale di Anversa (che Dürer segue nella sua inaugurazione del 1521, scalando la torre allora impensabilmente alta ben 123 metri), la piazza grande di Bruxelles, la pala dell’agnello a Gand, i canali di Bruges e poi Colonia, fino allo sfarzo imperiale dell’incoronazione imperiale in quel di Aquisgrana del 23 ottobre 1520 (dove finalmente ottenne la conferma della rendita). Purtroppo, Zuffi non si sofferma troppo sugli incontri di Dürer, anche se ne cita molti, ma con un fare un po’ troppo “da storico”, che spesso nomi anche illustri a noi risultano dimenticati o ignoti. Di tutti, mi rimane Geronimo di Boscoducale (morto 4 anni prima) che forse voi ed io consociamo meglio con il nome con cui firma le sue opere: Hieronymus Bosch, e la descrizione di una sua opera. E il pacifico e proficuo incontro con Desiderio Erasmo da Rotterdam. Certo, Zuffi ogni tanto ci parla di carboncini, di acquisti di colori, di vendita di incisioni. Tuttavia, non entriamo nel merito di alcuna opera dell’autore, di alcuna descrizione delle loro genesi. Quello che Zuffi ci ripropone, anche troppo, è l’elenco di quanto spendeva: fiorini per cene, stüber per acquisti, heller per i passaggi doganali. Ma se non sappiamo i rapporti reali con il loro potere d’acquisto ci rendiamo poco conto cosa significa. Quello che alla fine sappiamo è che la rendita che ottenne dall’imperatore è di cento fiorini annui, che, nel 1528, anno della morte, lo ponevano tra le dieci persone più ricche di Norimberga. Personalmente, conosco poco di Dürer, ma questo libro mi ha dato anche la spinta a vedere, cercare, e capire di qualche quadro dell’epoca. In anni in cui da poco muore Leonardo, proprio nel 1520 muore anche Raffaello e Michelangelo veleggia verso l’apice della sua fama, i fiamminghi producono cose egregie, che vanno meglio sudiate ed approfondite. Con le parole che riporto, poi, Dürer si apriva anche al nuovo, tanto da spingersi a vedere ed usare le cose nuove dei nuovi mondi (in fondo erano gli anni del dopo Colombo, gli anni di Magellano e di Caboto), tanto da essere punto da una mosca malarica, contraendone il morbo che lo debiliterà negli ultimi otto anni della sua vita. Insomma, una lettura gradevole, forse poteva essere migliore, ma rispetto ad alcune pessime uscite della collana, sicuramente degna.
“Vorrei … trasferirmi qui in campagna. Ho viaggiato molto in vita mia … ma ora vorrei stare un po’ tranquillo. (dalle confessioni di Erasmo a Dürer).” (206)
“Voglio continuare a … portare nel mondo qualche oncia in più di bene e di bello, come antidoto alla volgarità, alla brutalità di un tempo che sta per scoppiare nelle mani di chi lo maneggia e lo governa.” (256)
“Ho capito quanto sia importante avere sempre il gusto del nuovo visto con i nostri occhi … incontrare, confrontarsi, toccare con mano non è solo un modo per conoscere gli altri, ma anche il modo migliore per comprendere sé stessi.” (259)
Edgarda Ferri “Il sogno del Principe – Vespasiano Gonzaga e l’invenzione di Sabbioneta” Corriere della Sera Arte 34 euro 7,90
[A: 07/03/2016 – I: 18/01/2019 – T: 21/01/2019] - && -      
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 265; anno 2015]
Collegandomi a quanto detto relativamente al libro di Gatza, anche qui siamo un po’ fuori dal seminato. Perché parliamo sì di un personaggio vissuto e non inventato come nell’altro libro. Ma parliamo anche della storia di una persona che non era un artista, pur realizzando un’opera meritoria ed artistica. Come recita il sottotitolo, il libro è incentrato sulla figura di Vespasiano Gonzaga Colonna. Certo Edgarda ferri è una fine storica, conoscitrice dell’arte e molto legata al suo territorio. Mantovana, non nasconde di cercare le radici della sua terra, soprattutto affidandosi a descrivere e narrare di uno dei periodi di maggior fulgore di quella terra. In pratica il XVI secolo, con il ducato di Mantova feudo dei Gonzaga, con la contea ed il ducato di Guastalla ed ovviamente con la storia della città di Sabbioneta. Anzi, come precisa il titolo, con la sua invenzione. Purtroppo, però, nell’ambito di un libro sull’arte come un romanzo, è la storia, personale e pubblica, di Vespasiano che predomina tutto il libro. Della città si hanno tracce varie durante l’excursus della vita del condottiero e mecenate, con alcune descrizioni accurate. Ma che alla fine hanno poco peso rispetto alla preponderante presenza di Vespasiano. Anzi di Vespasiano e della sua terza moglie, Margherita Gonzaga di Guastalla (nipote di San Carlo Borromeo) che per tutto il libro, aspettando la morte di Vespasiano, dialogano ripercorrendo la storia di Vespasiano stesso, e, per inciso, la nascita di Sabbioneta come “città ideale”. Sarebbe stato interessante, nei lunghi dialoghi fra i due coniugi così distanti di età e sentimenti, entrare nei motivi della nascita di Sabbioneta come “nuova Roma”. Certo Vespasiano voleva mantenerne il carattere di fortezza, circondata da mura, rafforzata da pioppi per tener salda la terra. E parlare dei suoi monumenti peculiari, di cui alcuni ancor oggi visibili. Come il Palazzo Grande, la residenza di Vespasiano che lì vi muore. Il Corridor Grande, la seconda più lunga Galleria italiana dopo quella degli Uffizi, piena dei marmi antichi che il duca faceva venire ovunque possibile (anche a volte rischiando di portarvi dei falsi). Il bel Palazzo del Giardino, dove Margherita amava passeggiare, per questo ripreso e rimodernato sotto la guida di Bernardino Campi. L’unico di cui si parla qualche riga in più è il Teatro Olimpico, fino di costruire solo nel 1590, e progettato da Vincenzo Scamozzi. Vespasiano voleva un teatro che si aprisse alla città intesa essa stessa come teatro della vita quotidiana. Tanto che questo fu il primo edificio teatrale costruito appositamente per essere teatro e non altro. E poi le tante chiese. Ma la nostra scrittrice passa queste note un po’ a volo d’uccello, rimanendo centrata sulle parole di Vespasiano e sulla sua autobiografia vocale alla terza moglie. Vespasiano che nasce nel dicembre del 1531, da Luigi “Rodomonte” Gonzaga e Isabella Colonna (da cui il doppio cognome). Ma il padre muore pochi mesi dopo. Il signore di Sabbioneta rimane nonno Ludovico, che manda il giovane a “farsi le ossa” alla corte di Filippo, infante di Spagna ed erede dell’imperatore Carlo V Asburgo. Proprio quel Carlo di cui abbiamo letto alcune gesta nel libro precedente su Dürer, la cui vicenda è coeva a questa (o di poco precedente, visto che Dürer muore un paio di anni prima della nascita di Vespasiano). Ma l’ambito generale europeo è quello con i re e gli imperatori in lotte dinastiche, con la Chiesa lacerata dallo scisma luterano. E l’Italia divisa in ducati e contee a far da vassalli a Spagna ed Austria. Vespasiano si farà le ossa, sarà sempre sodale di Filippo quando questi diventerà re di Spagna, accorrendo in suo aiuto spesso e volentieri. Si sposa anche tre volte. La prima con Diana Folch de Cardona, che lascia spesso sola, che ben presto lo tradisce, e che lui, al ritorno da una delle tante guerre, uccide insieme al di lei amante (ma senza lasciare tracce). La seconda con Anna d’Aragona, l’unica che gli darà figli: Isabella che erediterà il ducato, ma che lo manterrà poco, e Luigi, unico figlio maschio che lui, in un accesso d’ira per il comportamento poco rispettoso prende a calci provocandone la morte. La terza con Margherita Gonzaga dei conti di Guastalla, di trenta anni più giovane, che vediamo nello scritto essere il suo alter ego vocale. Ma tutta la storia della Ferri è spesso un elenco di fatti, di cose, di monete, di lasciti. Questo mi ha lasciato freddo rispetto ad una storia che poteva avere interesse, proprio entrando nel merito del sogno visionario di Vespasiano. Peccato. E peccato anche per alcuni svarioni tipografici: a pagina 95 Anna diventa Arma d’Aragona, a pagina 194 Bernardino Campi inizia a lavorare al giardino nel 1882 invece che nel 1582. Infine, un dubbio che qualche dotto storico saprà togliermi: a pagina 90 si parla delle caravelle di Colombo a Barcellona, quando a me risulterebbe che la loro costruzione venne effettuata nel “Puerto de la Ribera” vicino a Siviglia. Misteri.
Riprendendo l’ormai consolidata tradizione, ecco che la seconda trama viene accompagnata da una lunga citazione sui migliori libri per descrivere (o praticare) la fine di una relazione.
Come accennavo la settimana scorsa, qui abbiamo un invio ritardato, che i completamenti della magione sorianese ci hanno impegnati tutta la domenica. Spero che questa lettura ed il suo allegato vi risollevino dalla tristezza.  

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO  2019
In questo maggio di riconciliazioni e feste, mi piace riandare a libri dedicati alle rotture, con una doppia indicazione, come suggeriscono le nostre ormai ben lette libro-terapeute.

ROMPERE CON QUALCUNO

Nick Hornby             “Alta fedeltà”
Come dicono le canzoni, rompere con qualcuno è difficile - nessuno, tanto chi lascia quanto chi viene lasciato, dovrebbe subire questa prova da solo. Idealmente, servirebbe un amico che vi tenga per mano, che sia rimasto a sua volta ferito dalla fine di una relazione e sappia come ci si sente. Noi vi offriamo la mano di Rob, il fanatico della musica protagonista dell’inno al pop di Nick Hornby Alta fedeltà. Nel nostro elenco dei migliori romanzi di tutti i tempi sulla fine di una relazione, si trova al primo posto. Anche se il vinile può sembrare superato, infatti, l’esperienza, le emozioni, le lezioni e le verità di questo libro non lo sono.
Per dare un senso alla sua ultima rottura - con Laura, che viveva con lui - Rob passa in rassegna i suoi cinque più memorabili fallimenti sentimentali, dal «primo colpo» inflitto dalla dodicenne Angela Ashworth che, per motivi ancora insondabili, dopo la scuola aveva deciso di pomiciare con Kevin Bannister invece che con lui, fino all’umiliazione di Charlie Nicholson, che lo aveva mollato per un certo Marco. Il lettore ritrova sé stesso in ogni pagina: chi non ha sperimentato la prima ondata di temporaneo ottimismo - in parte senso di liberazione, in parte eccitazione nervosa - che sommerge tutti nel periodo immediatamente successivo a una rottura, solo per essere a sua volta spazzata via da un devastante senso di perdita quando si raggiunge la consapevolezza che lei o lui non torneranno più? Chi non si è domandato cosa venga prima, se la musica o la tristezza, mentre curava il proprio cuore spezzato con «Love Hurts» o «Walk on By»?
Una delle amare verità che Rob impara è che le rotture non diventano più facili quante più se ne vivono. «Sarebbe bello pensare che mentre sono invecchiato i tempi sono cambiati, le relazioni sono diventate più sofisticate, le femmine meno crudeli, la pelle più coriacea, le reazioni meno confuse, l’istinto più sviluppato...» si lamenta Rob a trentacinque anni. Eppure, con un po’ di aiuto da parte di Hornby, si può cercare di fare meglio della volta precedente. La lezione che Rob deve imparare riguarda l’impegno ma, mentre lo guardate frugare tra i resti dei suoi amori spezzati, anche voi scoprirete presto qual è quella che riguarda voi. Siete come Rob a vent’anni, il tipo che reagisce a una rottura interrompendo gli studi e andando a lavorare in un negozio di dischi (o nell’equivalente odierno)? Vi tormentate, come il Rob più anziano, accusandovi di essere un parafulmine che attira i rifiuti - quando anche voi avete infranto la vostra percentuale di cuori? Il punto di vista di questo romanzo potrà essere decisamente maschile, e tuttavia presenta modelli che si adattano a molte rotture, e che potrete utilizzare per aiutarvi a capire il vostro ruolo in ogni occasione. Le ragazze faranno bene a ricordare a sé stesse che anche i ragazzi bagnano il cuscino di lacrime. Chi ha subito un rifiuto, inoltre, potrà rifarsi con la quarantenne che cerca di vendere l’inestimabile collezione di dischi del marito per sole cinquanta sterline dopo che lui è scappato in Spagna con una ragazza di ventitré anni, amica della figlia. (Prima che vi venga un’idea simile, riflettete sulla sorprendentemente controllata risposta di Rob).
Leggete Alta fedeltà e permettete al vostro cuore di imparare dagli errori di Rob - e dai vostri. Continuate ad andare dietro al tipo sbagliato di ragazzi/ragazze? Non riuscite a dare al vostro partner il sostegno di cui ha bisogno? Avete scelto, per la vostra vita sentimentale, la colonna sonora sbagliata? Rimediate, e questa rottura sarà l’ultima.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI SULLA FINE DI UNA RELAZIONE

Julian Barnes                        “Il senso di una fine”
Pierre Choderlos de Laclos       “Le relazioni pericolose”
Elena Ferrante                       “I giorni dell’abbandono”
Alicia Giménez-Bartlett            “Vita sentimentale di un camionista”
Graham Greene                     “La fine di una storia”
Victor Hugo                           “Notre-Dame de Paris”
     Ian McEwan                           “Chesil Beach”
Raymond Radiguet                 “Il diavolo in corpo”
Luis Sepulveda                      “Diario di un killer sentimentale”
A. B. Yehoshua                      “Un divorzio tardivo”

Bugiardino

Il libro di Hornby è stato per anni un must delle mie letture e dei miei ricordi. Anche per quelle liste su tutto, che da lì sono entrate nel cult della vita odierna. Degli altri 10 libri sulla fine di una relazione, ne riporto i tre letti dalla nascita delle trame, ricordando e ricordandomi che Yehoshua lo lessi agli inizi degli anni 2000, con soddisfazione (forse uno dei suoi titoli migliori per me). Mentre Green risale ancora agli anni ’90, e ne ricordo poco. Di Laclos, Hugo e Radiguet possiedo una versione elettronica che non mi smuovo di leggere. Gli altri due, chissà, forse arriveranno prima o poi. O forse no! Intanto, inizio con lo stringato commento sul primo, che inserii nel Natale del 2006 tra i miei libri immortali. Gli altri tre li riporto in ordine di data di commento.
Nick Hornby Alta fedeltà Guanda 7,50
[tramato il 24 dicembre 2006]
Il primo Hornby. Mitico per le sue liste. E per la speranza: chi ci farà un regalo che vale il cambiamento della propria vita?  
Luis Sepúlveda “Diario di un Killer sentimentale” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 17 marzo 2011]
Primo titolo del 2011, che inaugura anche un filone di lettura parallelo. Nella prima metà del decennio, mia madre ha comperato tutta una serie di romanzi allegati a Repubblica. Molti, ma non tutti, ne avevo letti. Ora ne do una più sistematica lettura, inaugurando anche la terza linea di commento: indicazione di titolo e lingua originale. Il romanzo è poco più di un racconto, che raggiunge la settantina di pagine scritte larghe. Ed è un grazioso divertissement del nostro amico Luis. Pur nella sua scarna produzione, mi hanno sempre incuriosito i suoi disegni alambiccati di personaggi ispano – americani (dal primo che lessi, quel vecchio che leggeva romanzi d'amore). Ed altrettanto cara mi è la sua figura di attivista della pace, dopo aver attraversato quei momenti atroci del colpo di stato cileno del ’73 (che ricordo ai più giovani rovesciò cruentemente il governo Allende il giorno 11 settembre, e Sepúlveda faceva parte delle guardie personali del Presidente, ed a stento si salvò). In questo breve racconto, fa una garbata parodia dell’hard boiled americano, prendendo a narratore un killer a pagamento che, sfortunatamente, si è innamorato di una bellissima ragazza francese, e (come i più sanno) l’amore e le uccisioni a pagamento non vanno molto d’accordo. In pochi tratti ed in sette giorni (altra parodia, anche se molto più velata), il nostro killer fa di tutto. Accetta l’incarico, viene tradito dalla ragazza, trova e perde più volte tra Madrid, Istanbul e Francoforte la persona che deve eliminare. Dove andranno a confluire le strade si sente già dalle prime righe (ed è inutile che il risvolto di copertina ci ammonisca sulle scoppiettanti sorprese finali), aspettiamo solo di capire come se la caverà Luis con la storia. Finirà male per il killer, per il contatto, per la ragazza, per tutti quanti? Ci sarà un happy end o un black end? Gradevole mi è stato il procedere immaginando i diversi finali possibili, di volta in volta suggeriti da piccole svolte della narrazione. Quale sia quello vero lo lascio a chi avrà voglia di leggere il breve racconto. Io mi sono goduto alcuni passaggi, aerei ed aeroporti, alberghi ed attese, tassisti da mettere al rogo, terroristi da operetta, poliziotti americani ed altro. Solo in un punto, esce fuori della cattiveria pura, quando il trafficante di droga ammette di voler vendere la droga sottocosto in Nord America per poter distruggere quella vil razza corrotta. È come un rigurgito interno di un fiele anti-Usa che, data la storia dell’autore, possiamo comprendere. Ma non lo giustifichiamo, così come lui stesso non lo fa, che altrimenti diversa sarebbe la sua storia. Ed allegramente ho chiuso questa prima lettura del nuovo anno. Certo, altri e ben più intriganti scritti, il nostro cileno mi ha riservato in passato (oltre al già citato vecchio, le storie bellissime della Patagonia) ed altre spero in futuro (prima o poi troverò la voglia di aggiungere la foto con assenza che mi attira e mi respinge). Sempre, con immutato affetto.
Julian Barnes “Il senso di una fine” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[tramato l’8 dicembre 2013]
In genere i miei amici lettori sanno che io sono, fondamentalmente, ottimista. Penso sempre che ci sia del buono in qualsiasi scrittura. Anche quando stronco, cerco comunque di trovare possibili appigli di salvataggio. Ed invito sempre quanto meno ad ipotizzare di leggere anche i libri meno riusciti. Qui no. Qui non sarò possibilista, ma assolutamente categorico. DOVETE leggerlo. È un libro stupendo, scritto con capacità e bravura. Insomma, se fossi capace di iperboli, qui ne consumerei un sacco. E non entro nelle polemiche tra chi ne vede un capolavoro e chi (e ce ne sono di autorevoli) lo giudica un libro un po’ furbetto. Per me è un libro magistralmente scritto (e ben tradotto da Susanna Basso, con il che mi redimo da tutte le volte che parlo male dei traduttori). Che usa con maestria diversi registri (il ricordo, l’umoristico, la riflessione, il dialogo, l’incognito) dove pur raccontando una storia (che una storia ben c’è) è di altro che vuole parlare. O almeno parlarne a me. Del ricordo, delle cose che viviamo, di come le abbiamo vissute, di come le ricordiamo (e le riviviamo) ora, di quanto ne abbiamo capito. Il protagonista in soggettiva, narrandoci due spaccati della sua vita (non a caso, il libro si divide in due parti), ci fa toccare con mano come lui abbia vissuto quei momenti. E come lui, alla fine, non ne abbia capito molto. Nella prima Tony, il narratore, ci parla della sua adolescenza, dell’amicizia con Adrian, ragazzo che lui reputa più intelligente, e della nascita e fine della loro amicizia. Il primo punto di discussione forte lo hanno quando un loro coetaneo si impicca dopo aver messo incinta una ragazza, e loro si interrogano sulla difficoltà filosofica di sapere esattamente cosa sia successo. Poi Università diverse, Tony si mette con Veronica, e ci narra un difficile week-end trascorso con lei, che porta alla fine della loro storia. E prima della laurea, Adrian gli scrive che si è messo lui con Veronica. Ma Tony non risponde. Alcuni mesi dopo viene a sapere che Adrian si è suicidato. Nella seconda parte Tony, sessantenne e verso la fine dei suoi interessi vitali, divorziato e con una figlia poco presente, riceve una lettera della madre di Veronica che, morendo, gli lascia il diario di Adrian. Ciò lo porta a riprendere contatto con Veronica, e, parlando e scontrandosi con lei, comincia a riprendere in considerazione tutta la storia narrata nella prima parte. Questi incontri e la lettura del diario lo portano a comprendere fino in fondo quanto Veronica gli dice sin dal primo momento (“Tu non hai mai capito nulla di quello che succede”). Ed alla fine gli si parerà dinanzi non la verità, ma un’interpretazione dei fatti diversa, esplicativa, sorprendente. Come ci passa davanti tutta la vita pensando di aver compreso, e poi capiamo che abbiamo interpretato tutto in maniera errata. Non è un caso che il titolo del libro, Barnes lo riprende da un saggio del 1967 di Frank Kermode, dove il critico inglese attraverso la disamina di opere letterarie aveva l’obiettivo di scoprire come “dare un senso ai modi in cui cerchiamo di dare un senso alla nostra vita”. Barnes esemplifica questa frase con queste 150 pagine in cui abbiamo modo di leggere nel capitolo “Uno” (di 50 pagine) come Tony interpretasse il proprio mondo. E poi di capire nel capitolo “Due” (lungo il doppio) come tutto quello che aveva interpretato Tony era altro. Ma questo avrebbe cambiato la vita di Tony? O di Adrian? O di Veronica? Questo l’assillo che mi ha tormentato per tutto il libro. E che, con tutta sincerità, tormenta sempre i miei pensieri. Quanto quello che capiamo della nostra vita, ha un senso per sé. E come ci condiziona nella nostra vita e nei rapporti con gli altri. Un bel libro, che ti scatena la voglia di parlare. Ma forse è meglio fermarsi qui. Buona lettura.
“Era un cauto somaro non dotato dell’inventiva indispensabile alla vera ignoranza.” (7)
“Un’altra delle nostre paure: che la Vita potesse rivelarsi diversa dalla Letteratura. Prendi i nostri genitori, erano forse materiale letterario? Tutt’al più, potevano ambire al ruolo di astanti, di spettatori, far parte di un fondale umano contro il quale avvenivano le cose reali, quelle che contano davvero.” (16)
“La storia … è fatta dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori, né a quella dei vinti.” (58)
“Il ricordo è ciò che pensavamo di aver dimenticato.” (65)
“All’improvviso mi sembra che una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani, ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri.” (82)
“[Dopo che sarò morto] non pensate male di me, ricordatemi con favore. Dite in giro che mi volevate bene, che vi piacevo, che non ero un bastardo. Anche se, magari, niente di tutto questo è vero.” (108)
Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[tramato il 29 novembre 2015]
È il secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere, di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia, ogni tanto non riesco ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece, generalmente, mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su argomento analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è invece qualcosa nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si riesca a leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra lettore e pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la pagina scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta durezza. Una coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8 anni e Ilaria di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto, abbandona Olga e famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di Olga nelle peggiori paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui non ci si risolleva più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a farci sentire il dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella mente di Olga. E ad ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non capisce i motivi di Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o sodali nella cerchia delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più difficoltà a gestire i figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era stato voluto da Mario, ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente avventate. Urla, dice parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di una quindicina di anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso la quarantina). Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di testa. Pensa di potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista Carrano. Fallendo anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul fuoco. Si scorda di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta di casa, e spesso non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del libro e della pazzia, laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non dico alla normalità, ma quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci sono formiche in casa, e Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri dedicati alla sua vita con Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente, Gianni ha un attacco di febbre e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche sulla fronte (le solite idee pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la chiave si blocca e la porta non si apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui male, anche lui vomita, e Olga trova l’insetticida mangiato dal povero cane. Ancora più panico, si urla dalle finestre, il telefono non funziona (il cellulare perché scaraventato giorni prima contro il muro, il fisso, non avendolo pagato, è stato sospeso). Come chiamare il veterinario? Come chiamare un medico? Come comperare la Tachipirina per il malato?. Come chiamare anche il povero Carrano, per essere aiutate? Parlo al femminile che le uniche persone ancora vigili sono proprio Olga ed Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o ci si salva o si muore. Fortunatamente, ma un po’ casualmente nella scrittura, Olga si salva. Non si salva il povero Otto, che muore avvelenato dall’insetticida. Si salvano (almeno parzialmente) i figli: di sicuro dalla febbre, ed in parte dalle “pazzie” materne. Un po’ perché ricominciano le scuole, un po’ perché cominciano a frequentare il padre. Che all’inizio sembra contento, poi capisce che anche quello è un onere. E come tutte le persone che scelgono le vie più facili, anche se meno intelligenti, comincia a manifestare segni di indolenza. Olga, invece, alleggerita da questi pesi di cui si era auto caricata, ricomincia a vedere la luce. Accetta il suo ruolo di “abbandonata”, non pensa più al suicidio, e più distesa con i figli, si dispiace (ma in fondo è sollevata) della morte di Otto, e comincia a frequentare, con molta leggerezza il musicista del piano di sotto. Ripeto, la scrittura della Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non riesco ad entrarci bene. Al solito, penso sia il problema di punti di vista maschili-femminili, dove non è facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga verso il fondo della pazzia, mi risulta altrettanto semplicistica la risalita verso la “normalità”. Comunque, un forte libro sulla fine dell’amore tra due persone supposte mature. Dove, e non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille è il maschio che si perde dietro a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la scrittrice. Quindi, donne, leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)

Conclusioni

Non so per le rotture, se siano questi i libri indicati. So, e sottolineo, e l’ho detto in tutte le sedi in cui ne ho parlato, che ritengo il libro di Barnes uno dei miei fari di lettura e di vita.


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