O meglio,
arriva alla quarta puntata, ma non riesce ad elevarsi con scritti
significativi. Di certo è leggibile Fioretti con il suo Caravaggio o Bailey con
il suo Vermeer. Gradevole direi Zuffi ed il suo Durer. Ma di difficile digestione
Ferri ed i Gonzaga. Mentre quasi illeggibile Gatza con il suo… Beh qui è
difficile dire con chi, ne perché. Si spera sempre in un futuro migliore,
allora, per noi e per l’arte.
Mathias Gatza “Il mago della luce” Corriere
della Sera Arte 6 euro 7,90
[A: 01/09/2016 – I: 26/11/2018 – T:
04/12/2018] - &--
[tit. or.: Der Augentäuscher; ling.
or.: tedesco; pagine: 265; anno 2012]
Sono rimasto molto deluso da questa ripresa
della collana del Corriere sull’Arte come romanzo, per una serie elencabile di
ragioni, che vanno tuttavia al di là della storia stessa narrata, che, se
diversamente scritta, articolata e spiegata, avrebbe potuto avere un impatto di
certo migliore. Innanzi tutto, la “cattiveria” del cambio di titolo.
L’originale tedesco puntava (credo, data la mia scarsa familiarità con quella
lingua) sul fascino del personaggio centrale, l’ammaliatore, l’accattivante
Silvius Schwarz. Che, come vedremo, avrà molti e forti contatti con la luce,
eppur tuttavia se l’autore propende per un titolo, sicuramente avrà le sue
buone ragioni. Poi ci sono l’esposizione a più voci del testo e del contesto,
che tuttavia non solo non rendono quanto devono descrivere, ma spesso,
omettendo, a volte rendono quasi poco comprensibile l’andamento della storia.
Infine, la storia stessa, altamente improbabile essa stessa, non tanto nelle
vicissitudini dei protagonisti, quanto nelle scoperte ultime del sunnominato
Schwarz (dove anche per me è facile notare la contrapposizione tra il cognome,
che significa “Nero”, e la ricerca della magia della Luce, essendo il nero,
come ogni buon ottico sa, il collasso di tuti i colori). Ipotizzare
l’invenzione di una macchina para-fotografica intorno al 1670 è di sicuro più
materia da ucronia che della storia. Non solo, ma nella ricerca di mettere
tante frecce al proprio arco, il vezzo della narrazione a più voci, mette in
gioco la nascita delle storie dei diversi attori del romanzo. E se le storie
del XVII secolo, alla fine, ogni tanto hanno momenti interessanti, l’io
narrante del presente è mal rappresentato, risultando altamente antipatico e di
difficile empatia, che invece sarebbe stata la chiave di volta positiva della
storia stessa. Gli assi della storia, allora, sono nel presente le vicende di
uno storico fallito che trova casualmente un primo libretto stampato nel XVII
secolo in cui un misterioso compositore Leopold narra le vicende della vita e
delle opere di un ignoto pittore barocco, appunto Silvius Schwarz. Il nostro,
saputa l’esistenza di altri libretti, parte alla ricerca per ovunque sia
possibile degli stessi, rubando, coinvolgendo la bella Sandra (forse a sua
volta misteriosa ma ad un certo punto questo rivolo si esaurisce come una
dolina carsica), e recuperando non solo i libretti di Leopold, ma anche uno
scambio epistolare tra Silvius e la sua cugina-amante Sophie von Schlosser.
Quindi, noi lettori, vediamo e leggiamo a posteriori le tre diverse direttrici
della storia: la narrazione del presente, i libretti di Leopold e le lettere
tra Silvius e Sophie. I libretti di Leopold narrano la storia di Silvius, del
modo in cui ammalia i suoi coetanei, con i suoi quadri luminosi, che però
scompariranno ad uno ad uno, lasciando nel presente alcune opere di dubbia
attribuzione. Mescolando la storia con morti misteriose e truculente, di cui
non si capisce a prima vista il motivo, di cui sembra essere artefice proprio
Silvius. O forse sono solo momenti della classe dominante, clero in prima
linea, per screditare ed alla fine trovare il modo di annientare le opere e la
vita stessa di Silvius. Per farne luce, il ritrovamento del romanzo epistolare
mette altro sale sulle pietanze: il rapporto tra la cugina, pur sposata, e
Silvius stesso. Il loro amore appassionato. L’opera, unica e finale, di una
lastra con una “fotografia” ante-litteram. Perché Silvius nella sua ricerca
della perfezione capisce che la pittura è solo un metodo espressivo, che fa
risaltare l’artista e le sue idee, non è la realtà dell’immagine, che solo con
una cosa tipo “fotografia” può essere reale ed autentica. Qui si aprirebbe un
baratro di discussione su cosa sia in realtà la fotografia, ma questo è un
dibattito che esula il contesto e le mie forze. Fatto sta che Silvius diventa
anche l’ossessione del povero storico dell’arte, che dedicherà tutta la sua
vita per cercare di cavare fuori il ragno dal suo buco. Ci proverà con questo
testo, ma per me è un fallimento su tutta la linea. Tra l’altro la storia è
infiorettata con voli pindarici su filosofie, arti varie, tra cui la mia amata
matematica, accenni a Spinoza e Cartesio. Un calderone inimmaginabile, e,
purtroppo, alla fine, di difficile e pesante lettura. Per finire, torniamo
sull’idea della collana, sull’arte. Ora, seppur noi concordiamo che tutto può
essere ed è arte, la pittura come la scultura, il disegno come l’architettura,
arrivando, ai giorni nostri ad includervi la fotografia ed il cinema, volendo
fare una collana significativa, ci si sarebbe dovuto attestare sui pilastri
dell’arte. Così in genere vien fatto, passando da Giotto a Vermeer, da Piranesi
a Brunelleschi. E non mi sarei scandalizzato di libri su Nader o su Hitchcock
(avrei apprezzato la riproduzione del magistrale Truffaut). Ma passare per
pseudo arte alchemica inventata e poco documentata ha fatto perdere punti alla
collana ed al romanzo.
“Ho amato tutte le mie donne, una alla
volta. Sono sempre rimasto fedele anche a me stesso.” (71)
Francesco Fioretti “Il quadro segreto di
Caravaggio” Corriere della Sera Arte 10 euro 7,90
[A: 20/09/2016 – I: 05/12/2018 – T: 12/12/2018]
- &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 281; anno 2012]
Finalmente un libro, che almeno nei suoi
contorni generali e nel suo impianto soddisfa sia il dettato della collana, sia
un lettore mediamente esigente come il sottoscritto. Non è compiutissimo, ed
alcune scelte stilistiche mi hanno lasciato dei dubbi sulla loro efficacia. Tuttavia,
ha il pregio di farci calare nel Seicento caravaggesco, ed in tutta quella
congerie di intrecci politici ed economici del tempo. D’altra parte, Fioretti è
un cultore dei tempi antichi e dei grandi personaggi italici. Abruzzese,
laureato in lettere, insegnante nei licei lombardo-marchigiani, è autore, oltre
a saggi inerenti ai suoi studi, di alcuni libri di realtà romanzata. Un paio su
Dante, uno su Leonardo, e questo su Michelangelo Merisi da Caravaggio. Detto
quindi che l’autore ha una buona facilità di scrittura, e che ben si segue il
suo scritto, prima di addentrarci nella trama e nell’opera stessa, faccio
menzione di quell’idea stilistica che sorregge tutto il libro e che è quella
che meno mi ha convinto. Infatti, il libro è in pratica dualizzato: c’è un
capitolo che, in terza persona, narra le vicende del pittore, a partire dal
1604 sino al 1610, mentre il capitolo successivo è in soggettiva, dove
Caravaggio stesso esprime idee, concetti, supposizioni. Queste parti sono le
meno riuscite, che il Caravaggio si esprime con linguaggio moderno, delucidando
le sue scelte di vita e di stile, ma in un modo che alla fine risulta
posticcio. Certo, ben seguiamo sia i suoi tormenti verso i committenti, le sue
scelte di usare popolani come soggetti delle scene bibliche che gli vengono
commissionate. Ma sentirlo discettare dell’America e di altri soggetti stona
alquanto con il tono del volume stesso. Meglio quindi la parte in oggettiva,
dove seguiamo appunto le vicende di vita e di opera in quel periodo finale
della sua vita. Pur se protetto dal cardinal Dal Monte e dal nobile
Giustiniani, trova sempre il modo di invischiarsi in vicende al limite della
legalità. C’è il suo frequentare le donne perdute, di cui Maddalena sarà
l’esempio più importante, anche se gli storici lo fanno più propenso verso tal
Fillide. Si trova immischiato nella strana morte di alcune prostitute, tra cui
Annuccia, che diventerà il soggetto di uno dei suoi quadri più forti, la “Morte
della vergine”, con quel corpo gonfio da gravidanza, e quei popolani sporchi e
laceri che la contornano. Proprio indagando sulla morte, entra in serie
conflitto con la fazione filospagnola, allora ben presente e forte in Roma. In
particolare, con tal Ranuccio Tommasoni, dal quale più volte subisce angherie.
Ma che poi affronterà nel famoso duello della pallacorda, dove Ranuccio ha la
peggio e muore, e Caravaggio, colpito da pesante condanna capitale, sarà costretto
a fuggire da Roma. Vediamo quindi, e capiamo, il suo pellegrinaggio prima a
Napoli, in casa Colonna, poi a Malta, dove cerca di farsi nominare Cavaliere,
senza molto successo. Ma dove dipinge quella stupenda “Decollazione di San
Giovanni Battista” che ebbi il piacere di visitare or son trent’anni nella mia
prima puntata a La Valletta. Nei capitoli oggettivi viene poi descritta
l’ultima parte della vita del nostro. La promessa di aver salva la vita in
cambio di quadri da donare a Scipione Borghese, cardinale, nipote di Papa Paolo
V, nonché spregiudicato collezionista d’arte ed abile committente (sua la
costruzione del palazzo di Villa Borghese a Roma), lo sbarco a Palo dove però
viene fermato mentre i quadri continuano la navigazione verso Porto Ercole, allora
enclave francese in territorio italiano, la fuga per le paludi toscane,
l’arrivo e la morte a Porto Ercole. Qui, basandosi su un piccolo falso storico,
l’autore estrapola una fine diversa. Questa era tutta una messa in scena da
parte del Cardinal Dal Monte, che invece riuscì a traghettare Michelangelo e
Maddalena prima in Spagna e poi in Argentina, dove il pittore morirà di
vecchiaia. Questa leggenda viene sostenuta dalla presenza di un quadro del
Caravaggio (“San Giovanni Battista disteso”) in Argentina nei primi anni del
Novecento. Non entro in questa leggenda, che serve solo a dare una patina di
bellezza alla parte finale della vita di Caravaggio, includendo anche
un’improbabile incontro con Velázquez. Tornando al libro, oltre alle comunque
avvincenti vicende storiche, che mi hanno spinto ad approfondirne in altro
contesto, quello che Fioretti ci rimanda è anche una piccola parte delle scelte
stilistiche di Merisi: l’ombra e la luce, i tagli prospettici, le figure del
popolo. Scelte audaci ma consapevoli. Che rendono gradevole la lettura del
libro, e fanno sì, che, chi ne sia interessato, può andare sull’ottima voce di
Wikipedia dedicata alle opere di Caravaggio, e decifrarne i segreti. Buona
lettura. E buona visione (per i romani, andate a San Luigi dei Francesi, il San
Matteo è superlativo).
“Oggi a Roma … è
diventato difficilissimo vivere bene, in serena armonia, cioè, con la propria
coscienza, se non si è perfettamente idioti.” (107)
Anthony Bailey “Vermeer – Vita di un genio
della pittura” Corriere della Sera Arte 9 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 13/12/2018 – T: 20/12/2018] - &&& e ½
[tit. or.: Vermeer – A View of Delft; ling. or.: inglese; pagine: 243; anno 2001]
Ecco un altro buon esempio del dettato della
collana. Un libro che parla di arte, un libro che ci fa entrare nelle pieghe di
difficile lettura di un pittore agli apici della maestria pittorica ma di cui
poco o nulla si sa della vita. Non è un caso allora che l’autore sia stato per
trenta anni il critico d’arte del “New Yorker”. Infatti, non c’è una sbavatura
storica, né una mancata sottolineatura dell’arte di Vermeer e dell’arte
olandese del Seicento. Tanto che non è un caso che il sottotitolo originale fosse
“Una veduta di Delft” (dal titolo anche di una delle migliori opere di
Vermeer), dato che si parla molto, e con gran proprietà della città olandese,
uno dei centri artistici dell’epoca. Mentre in italiano, l’editore ha pensato
bene di inserire un “Vita di un genio della pittura” che pur coerente con il
personaggio Vermeer, non era nelle (sole) intenzioni dell’autore. Perché si
parla di Vermeer, si parla della sua vita e delle sue opere, se ne sottolinea
la genialità, ma tutto inserito appunto in una lunga storia della città di
Delft, della sua vita, artistica e non, e del suo inserimento nel contesto
storico del Seicento olandese, il cosiddetto “Secolo d’oro”, un periodo durante
il quale il commercio, le scienze e le arti olandesi furono tra le più acclamate
del mondo. Con un lungo corredo bibliografico, che non poteva mancare nella
coda di uno scritto di un autore così ben inserito nel panorama artistico
mondiale. Le vivaci parole di Bailey mi hanno così di colpo riportato alla
Delft che visitammo l’estate del 2017, alla casa del pittore, restaurata e
piena di rimandi storici, nonché le due grandi chiese, la Chiesa Nuova e la
Chiesa Vecchia, la piazza del Mercato. Insomma, un piccolo salto nel recente
passato che di certo favorisce un giudizio positivamente partecipato. In ogni
caso, la bravura di Bailey è proprio quella di portarci in Olanda. Anzi nelle
Province Unite, nella città di Delft con la grande esplosione che ne devastò
gran parte nel 1654. Ma anche con le taverne (una delle quali di proprietà della
famiglia Vermeer, con la Corporazione di San Luca dove afferivano pittori ed
altri artisti, con le piastrelle blu di Delft, assolutamente uniche. Poi ci
sono i vari pittori, che all’epoca ben più noti del nostro erano, come Carel
Fabritius, Pieter de Hooch ed altri, con i mercanti d’arte, con i quadri che
venivano usati per pagare i debiti, con gli scontri religiosi, con la rigidità
protestante degli olandesi, con la guerra franco-olandese del 1672. In effetti
questi sono i due paletti dello scritto di Bailey: il 1654 ed il 1672. Anche
perché la guerra con la Francia si protrasse a lungo, mentre Vermeer muore nel
1675, a soli 43 anni, lasciando moglie, suocera e una decina di figli viventi.
Probabilmente stroncato dallo stress provocato dalla guerra e dalle difficoltà
economiche che ne seguirono. Bailey ha facile gioco nel giostrarsi nel mondo
olandese del tempo, lo fa con grande abilità, anche se, personalmente, ho
trovato leggermente arduo tenere a mente tutti i nomi dei personaggi che
compaiono sulla scena durante i venti anni che descrive. Ma se questo lo lascio
ai lettori più attenti, a quelli un po’ ingenui come me, riporto invece la vita
riparata di Jan Vermeer. Intanto, con quel nome contratto per esigenze di
scrittura (e di firma sui quadri), rispetto all’originale che dovrebbe suonare
come Johannes van der Meer (tanto appunto che firma i quadri con “I V Meer”).
Di lui, esplicitamente, sappiamo la nascita (31 ottobre 1932), il matrimonio
con la cattolica Catherina (aprile 1953), la convivenza con la ricca suocera
Maria Thins (che aiutò spesso la coppia nei momenti difficili), i quattordici
figli nati, ma tre subito defunti, nonché la morte improvvisa il 15 dicembre
1675. Bailey tenta di collocare in questo lasso di tempo i 37 (o 38) quadri di
Vermeer, sottolineando come sia stato un pittore poco prolifico. Ma di una
tecnica impareggiabile. Vermeer è il pittore della borghesia (solo 3 quadri
hanno soggetto religioso), della vita quotidiana, degli oggetti ben disposti
nello spazio, della calma olandese nell’affrontare la vita stessa. Come vediamo
nella “Donna che legge una lettera davanti alla finestra”, ne “La lattaia” e ne
“La merlettaia”, nella “Donna seduta alla spinetta” piuttosto che nella
“Stradina di Delft” o nella “Veduta di Delft”. Bailey è bravissimo (ed io non
posso ripeterne le orme che non ne sarei capace) nel descrivere i colori usati,
le pennellate per rendere le trasparenze (che vengono denominate “bagnato su
bagnato”), l’uso, probabile, di strumenti ottici per inquadrare le scene, la descrizione
degli oggetti usati, culminanti, per me, ne “L’Arte della Pittura”, con la
mappa alla parete, il magistrale candelabro, e le piastrelle in bianco e nero.
C’è anche, e non poteva mancare, l’accenno ai falsi Vermeer, ed alla storia
della fortuna del pittore. Che rimase ignorato per lunghi decenni, fino ad
essere (ri-)scoperto solo alla fine dell’Ottocento. Insomma, un libro che mi ha
portato nel mondo di Vermeer, che mi ha fatto tornare in Olanda, stimolando
anche la voglia di vedere i coevi dell’autore, come quel tale Harmenszoon van
Rijn più comunemente noto con il nome di Rembrandt.
Stefano Zuffi “Apocalisse con figure - Un
viaggio di Dürer” Corriere della Sera Arte 11 euro 7,90
[A: 28/09/2016 – I: 12/01/2019 – T: 16/01/2019]
- &&
e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 266; anno 2014]
Un altro libro della serie sull’arte che, pur
non raggiungendo una piena sufficienza, ha comunque una lettura spigliata ed
alcuni elementi di interesse. Anche per la personalità dell’autore che non solo
è un reputato storico dell’arte, consulente di varie collane editoriali e
redattore di numerose monografie dedicate all’argomento. Ma è anche nato lo
stesso giorno, mese ed anno di mio fratello, cosa che non può che rendermi
benevolo verso di lui. Benevolo in quanto, ad esempio, questo viaggio di o con
Albrecht Dürer, pur facendoci immergere con decisione nell’atmosfera
dell’epoca, non lascia una grossa traccia dell’opera del pittore, incisore
nonché matematico tedesco. L’idea di base del libro è quella di seguire il
grande tedesco in un momento cruciale della sua vita. Sul volgere dei cinquanta
anni, nel pieno della sua notorietà, comincia ad avere dubbi e stanchezze sul
significato e sulla valenza della sua opera. Anche perché, storicamente, è un
momento difficile. Pochi anni prima, Lutero ha affisso le sue 95 tesi sulla
porta della chiesa di Wittenberg, dando fuoco alle polveri che porteranno al
duro scontro nel cattolicesimo, alle scomuniche ed allo scisma della chiesa
luterana. Questo provocherà grandi sommovimenti nel mondo germanico e
nord-europeo in generale. Dürer, di base a Norimberga, si troverà nel pieno di
queste discussioni. Anzi, ora, nel 1520 è in mezzo al guado: guarda con occhio
critico sia il passato cattolico che il futuro protestante, ripensando anche a
tutte le sue opere di carattere religioso. Inoltre, sono più di 25 anni che è
sposato con Agnes Frey, ma dall’unione non sono nati figli, ed è un altro
cruccio dell’uomo. infine, sebbene produca e venda in quantità, è sempre
(sembra) a corto di moneta, tanto che confida nelle promesse di Massimiliano I
di una rendita. Ma ora l’imperatore muore ed il nostro si trova in ambasce. Per
tutta questa serie di ragioni decide di mettersi in viaggio per le terre del
nord, per vedere nuovi paesaggi e nuove opere, per incontrare artisti ed
eruditi, nonché per assistere all’incoronazione di Carlo V al fine di rendere
effettiva la promessa rendita. Per la prima volta (in gioventù spesso Dürer
viaggiò ma in solitario) porta la moglie ed una serva di compagnia. La
preparazione e le quotidianità del viaggio sono forse le parti migliori del
libro quelle che ci fanno fare il viaggio con Dürer mentre seguiamo il viaggio
di Dürer. Le vie d’acqua, i passaggi doganali, i carri, le città piccole
attraversate, sino ad arrivare, dopo un mese di viaggio, in quel di Anversa,
diventata all’epoca uno dei centri economici e culturali della zona. Vediamo le
descrizioni delle campagne, dei volti rudi dei contadini e degli osti
incontrati (anche se i carboncini che dice di aver fatto non risultano nel
catalogo delle sue opere). Vediamo la descrizione delle città, laddove
intrigano alcuni scorci, nascenti all’epoca, ed ora famosi. Maastricht come
crocevia, il porto e la cattedrale di Anversa (che Dürer segue nella sua
inaugurazione del 1521, scalando la torre allora impensabilmente alta ben 123
metri), la piazza grande di Bruxelles, la pala dell’agnello a Gand, i canali di
Bruges e poi Colonia, fino allo sfarzo imperiale dell’incoronazione imperiale
in quel di Aquisgrana del 23 ottobre 1520 (dove finalmente ottenne la conferma
della rendita). Purtroppo, Zuffi non si sofferma troppo sugli incontri di
Dürer, anche se ne cita molti, ma con un fare un po’ troppo “da storico”, che
spesso nomi anche illustri a noi risultano dimenticati o ignoti. Di tutti, mi
rimane Geronimo di Boscoducale (morto 4 anni prima) che forse voi ed io
consociamo meglio con il nome con cui firma le sue opere: Hieronymus Bosch, e
la descrizione di una sua opera. E il pacifico e proficuo incontro con
Desiderio Erasmo da Rotterdam. Certo, Zuffi ogni tanto ci parla di carboncini,
di acquisti di colori, di vendita di incisioni. Tuttavia, non entriamo nel
merito di alcuna opera dell’autore, di alcuna descrizione delle loro genesi.
Quello che Zuffi ci ripropone, anche troppo, è l’elenco di quanto spendeva:
fiorini per cene, stüber per acquisti, heller per i passaggi doganali. Ma se
non sappiamo i rapporti reali con il loro potere d’acquisto ci rendiamo poco
conto cosa significa. Quello che alla fine sappiamo è che la rendita che
ottenne dall’imperatore è di cento fiorini annui, che, nel 1528, anno della
morte, lo ponevano tra le dieci persone più ricche di Norimberga.
Personalmente, conosco poco di Dürer, ma questo libro mi ha dato anche la
spinta a vedere, cercare, e capire di qualche quadro dell’epoca. In anni in cui
da poco muore Leonardo, proprio nel 1520 muore anche Raffaello e Michelangelo
veleggia verso l’apice della sua fama, i fiamminghi producono cose egregie, che
vanno meglio sudiate ed approfondite. Con le parole che riporto, poi, Dürer si
apriva anche al nuovo, tanto da spingersi a vedere ed usare le cose nuove dei
nuovi mondi (in fondo erano gli anni del dopo Colombo, gli anni di Magellano e
di Caboto), tanto da essere punto da una mosca malarica, contraendone il morbo
che lo debiliterà negli ultimi otto anni della sua vita. Insomma, una lettura
gradevole, forse poteva essere migliore, ma rispetto ad alcune pessime uscite
della collana, sicuramente degna.
“Vorrei
… trasferirmi qui in campagna. Ho viaggiato molto in vita mia … ma ora vorrei
stare un po’ tranquillo. (dalle confessioni di Erasmo a Dürer).” (206)
“Voglio
continuare a … portare nel mondo qualche oncia in più di bene e di bello, come
antidoto alla volgarità, alla brutalità di un tempo che sta per scoppiare nelle
mani di chi lo maneggia e lo governa.” (256)
“Ho
capito quanto sia importante avere sempre il gusto del nuovo visto con i nostri
occhi … incontrare, confrontarsi, toccare con mano non è solo un modo per
conoscere gli altri, ma anche il modo migliore per comprendere sé stessi.”
(259)
Edgarda Ferri “Il sogno del Principe – Vespasiano
Gonzaga e l’invenzione di Sabbioneta” Corriere della Sera Arte 34 euro 7,90
[A: 07/03/2016 – I: 18/01/2019 – T: 21/01/2019]
- &&
-
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 265; anno 2015]
Collegandomi a quanto detto relativamente al libro
di Gatza, anche qui siamo un po’ fuori dal seminato. Perché parliamo sì di un
personaggio vissuto e non inventato come nell’altro libro. Ma parliamo anche
della storia di una persona che non era un artista, pur realizzando un’opera
meritoria ed artistica. Come recita il sottotitolo, il libro è incentrato sulla
figura di Vespasiano Gonzaga Colonna. Certo Edgarda ferri è una fine storica,
conoscitrice dell’arte e molto legata al suo territorio. Mantovana, non
nasconde di cercare le radici della sua terra, soprattutto affidandosi a
descrivere e narrare di uno dei periodi di maggior fulgore di quella terra. In
pratica il XVI secolo, con il ducato di Mantova feudo dei Gonzaga, con la
contea ed il ducato di Guastalla ed ovviamente con la storia della città di
Sabbioneta. Anzi, come precisa il titolo, con la sua invenzione. Purtroppo,
però, nell’ambito di un libro sull’arte come un romanzo, è la storia, personale
e pubblica, di Vespasiano che predomina tutto il libro. Della città si hanno
tracce varie durante l’excursus della vita del condottiero e mecenate, con
alcune descrizioni accurate. Ma che alla fine hanno poco peso rispetto alla
preponderante presenza di Vespasiano. Anzi di Vespasiano e della sua terza
moglie, Margherita Gonzaga di Guastalla (nipote di San Carlo Borromeo) che per
tutto il libro, aspettando la morte di Vespasiano, dialogano ripercorrendo la
storia di Vespasiano stesso, e, per inciso, la nascita di Sabbioneta come
“città ideale”. Sarebbe stato interessante, nei lunghi dialoghi fra i due
coniugi così distanti di età e sentimenti, entrare nei motivi della nascita di
Sabbioneta come “nuova Roma”. Certo Vespasiano voleva mantenerne il carattere
di fortezza, circondata da mura, rafforzata da pioppi per tener salda la terra.
E parlare dei suoi monumenti peculiari, di cui alcuni ancor oggi visibili. Come
il Palazzo Grande, la residenza di Vespasiano che lì vi muore. Il Corridor
Grande, la seconda più lunga Galleria italiana dopo quella degli Uffizi, piena
dei marmi antichi che il duca faceva venire ovunque possibile (anche a volte
rischiando di portarvi dei falsi). Il bel Palazzo del Giardino, dove Margherita
amava passeggiare, per questo ripreso e rimodernato sotto la guida di
Bernardino Campi. L’unico di cui si parla qualche riga in più è il Teatro
Olimpico, fino di costruire solo nel 1590, e progettato da Vincenzo Scamozzi.
Vespasiano voleva un teatro che si aprisse alla città intesa essa stessa come
teatro della vita quotidiana. Tanto che questo fu il primo edificio teatrale
costruito appositamente per essere teatro e non altro. E poi le tante chiese.
Ma la nostra scrittrice passa queste note un po’ a volo d’uccello, rimanendo
centrata sulle parole di Vespasiano e sulla sua autobiografia vocale alla terza
moglie. Vespasiano che nasce nel dicembre del 1531, da Luigi “Rodomonte”
Gonzaga e Isabella Colonna (da cui il doppio cognome). Ma il padre muore pochi
mesi dopo. Il signore di Sabbioneta rimane nonno Ludovico, che manda il giovane
a “farsi le ossa” alla corte di Filippo, infante di Spagna ed erede
dell’imperatore Carlo V Asburgo. Proprio quel Carlo di cui abbiamo letto alcune
gesta nel libro precedente su Dürer, la cui vicenda è coeva a questa (o di poco
precedente, visto che Dürer muore un paio di anni prima della nascita di
Vespasiano). Ma l’ambito generale europeo è quello con i re e gli imperatori in
lotte dinastiche, con la Chiesa lacerata dallo scisma luterano. E l’Italia
divisa in ducati e contee a far da vassalli a Spagna ed Austria. Vespasiano si
farà le ossa, sarà sempre sodale di Filippo quando questi diventerà re di
Spagna, accorrendo in suo aiuto spesso e volentieri. Si sposa anche tre volte.
La prima con Diana Folch de Cardona, che lascia spesso sola, che ben presto lo
tradisce, e che lui, al ritorno da una delle tante guerre, uccide insieme al di
lei amante (ma senza lasciare tracce). La seconda con Anna d’Aragona, l’unica
che gli darà figli: Isabella che erediterà il ducato, ma che lo manterrà poco,
e Luigi, unico figlio maschio che lui, in un accesso d’ira per il comportamento
poco rispettoso prende a calci provocandone la morte. La terza con Margherita
Gonzaga dei conti di Guastalla, di trenta anni più giovane, che vediamo nello
scritto essere il suo alter ego vocale. Ma tutta la storia della Ferri è spesso
un elenco di fatti, di cose, di monete, di lasciti. Questo mi ha lasciato
freddo rispetto ad una storia che poteva avere interesse, proprio entrando nel
merito del sogno visionario di Vespasiano. Peccato. E peccato anche per alcuni
svarioni tipografici: a pagina 95 Anna diventa Arma d’Aragona, a pagina 194
Bernardino Campi inizia a lavorare al giardino nel 1882 invece che nel 1582.
Infine, un dubbio che qualche dotto storico saprà togliermi: a pagina 90 si
parla delle caravelle di Colombo a Barcellona, quando a me risulterebbe che la
loro costruzione venne effettuata nel “Puerto de la Ribera” vicino a Siviglia.
Misteri.
Riprendendo
l’ormai consolidata tradizione, ecco che la seconda trama viene accompagnata da
una lunga citazione sui migliori libri per descrivere (o praticare) la fine di
una relazione.
Come
accennavo la settimana scorsa, qui abbiamo un invio ritardato, che i
completamenti della magione sorianese ci hanno impegnati tutta la domenica. Spero
che questa lettura ed il suo allegato vi risollevino dalla tristezza.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2019
In questo maggio di
riconciliazioni e feste, mi piace riandare a libri dedicati alle rotture, con
una doppia indicazione, come suggeriscono le nostre ormai ben lette libro-terapeute.
ROMPERE CON
QUALCUNO
Nick
Hornby “Alta fedeltà”
Come dicono le canzoni, rompere
con qualcuno è difficile - nessuno, tanto chi lascia quanto chi viene lasciato,
dovrebbe subire questa prova da solo. Idealmente, servirebbe un amico che vi
tenga per mano, che sia rimasto a sua volta ferito dalla fine di una relazione
e sappia come ci si sente. Noi vi offriamo la mano di Rob, il fanatico della
musica protagonista dell’inno al pop di Nick Hornby Alta fedeltà. Nel nostro elenco dei migliori romanzi di tutti i
tempi sulla fine di una relazione, si trova al primo posto. Anche se il vinile
può sembrare superato, infatti, l’esperienza, le emozioni, le lezioni e le
verità di questo libro non lo sono.
Per dare un senso alla sua ultima
rottura - con Laura, che viveva con lui - Rob passa in rassegna i suoi cinque
più memorabili fallimenti sentimentali, dal «primo colpo» inflitto dalla
dodicenne Angela Ashworth che, per motivi ancora insondabili, dopo la scuola
aveva deciso di pomiciare con Kevin Bannister invece che con lui, fino
all’umiliazione di Charlie Nicholson, che lo aveva mollato per un certo Marco.
Il lettore ritrova sé stesso in ogni pagina: chi non ha sperimentato la prima
ondata di temporaneo ottimismo - in parte senso di liberazione, in parte
eccitazione nervosa - che sommerge tutti nel periodo immediatamente successivo
a una rottura, solo per essere a sua volta spazzata via da un devastante senso
di perdita quando si raggiunge la consapevolezza che lei o lui non torneranno
più? Chi non si è domandato cosa venga prima, se la musica o la tristezza,
mentre curava il proprio cuore spezzato con «Love Hurts» o «Walk on By»?
Una delle amare verità che Rob
impara è che le rotture non diventano più facili quante più se ne vivono.
«Sarebbe bello pensare che mentre sono invecchiato i tempi sono cambiati, le
relazioni sono diventate più sofisticate, le femmine meno crudeli, la pelle più
coriacea, le reazioni meno confuse, l’istinto più sviluppato...» si lamenta Rob
a trentacinque anni. Eppure, con un po’ di aiuto da parte di Hornby, si può
cercare di fare meglio della volta precedente. La lezione che Rob deve imparare
riguarda l’impegno ma, mentre lo guardate frugare tra i resti dei suoi amori
spezzati, anche voi scoprirete presto qual è quella che riguarda voi. Siete
come Rob a vent’anni, il tipo che reagisce a una rottura interrompendo gli
studi e andando a lavorare in un negozio di dischi (o nell’equivalente
odierno)? Vi tormentate, come il Rob più anziano, accusandovi di essere un
parafulmine che attira i rifiuti - quando anche voi avete infranto la vostra
percentuale di cuori? Il punto di vista di questo romanzo potrà essere
decisamente maschile, e tuttavia presenta modelli che si adattano a molte
rotture, e che potrete utilizzare per aiutarvi a capire il vostro ruolo in ogni
occasione. Le ragazze faranno bene a ricordare a sé stesse che anche i ragazzi
bagnano il cuscino di lacrime. Chi ha subito un rifiuto, inoltre, potrà rifarsi
con la quarantenne che cerca di vendere l’inestimabile collezione di dischi del
marito per sole cinquanta sterline dopo che lui è scappato in Spagna con una
ragazza di ventitré anni, amica della figlia. (Prima che vi venga un’idea
simile, riflettete sulla sorprendentemente controllata risposta di Rob).
Leggete Alta fedeltà e permettete
al vostro cuore di imparare dagli errori di Rob - e dai vostri. Continuate ad
andare dietro al tipo sbagliato di ragazzi/ragazze? Non riuscite a dare al
vostro partner il sostegno di cui ha bisogno? Avete scelto, per la vostra vita
sentimentale, la colonna sonora sbagliata? Rimediate, e questa rottura sarà
l’ultima.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI
SULLA FINE DI UNA RELAZIONE
Julian
Barnes “Il senso di una fine”
Pierre
Choderlos de Laclos “Le relazioni
pericolose”
Elena
Ferrante “I giorni dell’abbandono”
Alicia
Giménez-Bartlett “Vita sentimentale
di un camionista”
Graham
Greene “La fine di una
storia”
Victor
Hugo “Notre-Dame de Paris”
Ian McEwan “Chesil
Beach”
Raymond
Radiguet “Il diavolo in
corpo”
Luis
Sepulveda “Diario di
un killer sentimentale”
A.
B. Yehoshua “Un
divorzio tardivo”
Bugiardino
Il libro di Hornby è stato per
anni un must delle mie letture e dei miei ricordi. Anche per quelle liste su
tutto, che da lì sono entrate nel cult della vita odierna. Degli altri 10 libri
sulla fine di una relazione, ne riporto i tre letti dalla nascita delle trame,
ricordando e ricordandomi che Yehoshua lo lessi agli inizi degli anni 2000, con
soddisfazione (forse uno dei suoi titoli migliori per me). Mentre Green risale
ancora agli anni ’90, e ne ricordo poco. Di Laclos, Hugo e Radiguet possiedo
una versione elettronica che non mi smuovo di leggere. Gli altri due, chissà,
forse arriveranno prima o poi. O forse no! Intanto, inizio con lo stringato
commento sul primo, che inserii nel Natale del 2006 tra i miei libri immortali.
Gli altri tre li riporto in ordine di data di commento.
Nick Hornby Alta fedeltà Guanda 7,50
[tramato
il 24 dicembre 2006]
Il primo Hornby. Mitico per le
sue liste. E per la speranza: chi ci farà un regalo che vale il cambiamento
della propria vita?
Luis Sepúlveda “Diario di un Killer
sentimentale” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato
il 17 marzo 2011]
Primo
titolo del 2011, che inaugura anche un filone di lettura parallelo. Nella prima
metà del decennio, mia madre ha comperato tutta una serie di romanzi allegati a
Repubblica. Molti, ma non tutti, ne avevo letti. Ora ne do una più sistematica
lettura, inaugurando anche la terza linea di commento: indicazione di titolo e
lingua originale. Il romanzo è poco più di un racconto, che raggiunge la
settantina di pagine scritte larghe. Ed è un grazioso divertissement del nostro
amico Luis. Pur nella sua scarna produzione, mi hanno sempre incuriosito i suoi
disegni alambiccati di personaggi ispano – americani (dal primo che lessi, quel
vecchio che leggeva romanzi d'amore). Ed altrettanto cara mi è la sua figura di
attivista della pace, dopo aver attraversato quei momenti atroci del colpo di
stato cileno del ’73 (che ricordo ai più giovani rovesciò cruentemente il
governo Allende il giorno 11 settembre, e Sepúlveda faceva parte delle guardie
personali del Presidente, ed a stento si salvò). In questo breve racconto, fa
una garbata parodia dell’hard boiled americano, prendendo a narratore un killer
a pagamento che, sfortunatamente, si è innamorato di una bellissima ragazza
francese, e (come i più sanno) l’amore e le uccisioni a pagamento non vanno
molto d’accordo. In pochi tratti ed in sette giorni (altra parodia, anche se
molto più velata), il nostro killer fa di tutto. Accetta l’incarico, viene
tradito dalla ragazza, trova e perde più volte tra Madrid, Istanbul e
Francoforte la persona che deve eliminare. Dove andranno a confluire le strade
si sente già dalle prime righe (ed è inutile che il risvolto di copertina ci
ammonisca sulle scoppiettanti sorprese finali), aspettiamo solo di capire come
se la caverà Luis con la storia. Finirà male per il killer, per il contatto,
per la ragazza, per tutti quanti? Ci sarà un happy end o un black end?
Gradevole mi è stato il procedere immaginando i diversi finali possibili, di
volta in volta suggeriti da piccole svolte della narrazione. Quale sia quello
vero lo lascio a chi avrà voglia di leggere il breve racconto. Io mi sono
goduto alcuni passaggi, aerei ed aeroporti, alberghi ed attese, tassisti da
mettere al rogo, terroristi da operetta, poliziotti americani ed altro. Solo in
un punto, esce fuori della cattiveria pura, quando il trafficante di droga
ammette di voler vendere la droga sottocosto in Nord America per poter
distruggere quella vil razza corrotta. È come un rigurgito interno di un fiele
anti-Usa che, data la storia dell’autore, possiamo comprendere. Ma non lo
giustifichiamo, così come lui stesso non lo fa, che altrimenti diversa sarebbe
la sua storia. Ed allegramente ho chiuso questa prima lettura del nuovo anno.
Certo, altri e ben più intriganti scritti, il nostro cileno mi ha riservato in
passato (oltre al già citato vecchio, le storie bellissime della Patagonia) ed
altre spero in futuro (prima o poi troverò la voglia di aggiungere la foto con
assenza che mi attira e mi respinge). Sempre, con immutato affetto.
Julian Barnes “Il senso di una fine” Einaudi euro 10 (in realtà,
scontato a 7,50 euro)
[tramato
l’8 dicembre 2013]
In
genere i miei amici lettori sanno che io sono, fondamentalmente, ottimista.
Penso sempre che ci sia del buono in qualsiasi scrittura. Anche quando stronco,
cerco comunque di trovare possibili appigli di salvataggio. Ed invito sempre
quanto meno ad ipotizzare di leggere anche i libri meno riusciti. Qui no. Qui
non sarò possibilista, ma assolutamente categorico. DOVETE leggerlo. È un libro
stupendo, scritto con capacità e bravura. Insomma, se fossi capace di iperboli,
qui ne consumerei un sacco. E non entro nelle polemiche tra chi ne vede un
capolavoro e chi (e ce ne sono di autorevoli) lo giudica un libro un po’
furbetto. Per me è un libro magistralmente scritto (e ben tradotto da Susanna
Basso, con il che mi redimo da tutte le volte che parlo male dei traduttori).
Che usa con maestria diversi registri (il ricordo, l’umoristico, la
riflessione, il dialogo, l’incognito) dove pur raccontando una storia (che una
storia ben c’è) è di altro che vuole parlare. O almeno parlarne a me. Del
ricordo, delle cose che viviamo, di come le abbiamo vissute, di come le
ricordiamo (e le riviviamo) ora, di quanto ne abbiamo capito. Il protagonista
in soggettiva, narrandoci due spaccati della sua vita (non a caso, il libro si
divide in due parti), ci fa toccare con mano come lui abbia vissuto quei
momenti. E come lui, alla fine, non ne abbia capito molto. Nella prima Tony, il
narratore, ci parla della sua adolescenza, dell’amicizia con Adrian, ragazzo
che lui reputa più intelligente, e della nascita e fine della loro amicizia. Il
primo punto di discussione forte lo hanno quando un loro coetaneo si impicca
dopo aver messo incinta una ragazza, e loro si interrogano sulla difficoltà
filosofica di sapere esattamente cosa sia successo. Poi Università diverse,
Tony si mette con Veronica, e ci narra un difficile week-end trascorso con lei,
che porta alla fine della loro storia. E prima della laurea, Adrian gli scrive
che si è messo lui con Veronica. Ma Tony non risponde. Alcuni mesi dopo viene a
sapere che Adrian si è suicidato. Nella seconda parte Tony, sessantenne e verso
la fine dei suoi interessi vitali, divorziato e con una figlia poco presente,
riceve una lettera della madre di Veronica che, morendo, gli lascia il diario
di Adrian. Ciò lo porta a riprendere contatto con Veronica, e, parlando e
scontrandosi con lei, comincia a riprendere in considerazione tutta la storia
narrata nella prima parte. Questi incontri e la lettura del diario lo portano a
comprendere fino in fondo quanto Veronica gli dice sin dal primo momento (“Tu
non hai mai capito nulla di quello che succede”). Ed alla fine gli si parerà
dinanzi non la verità, ma un’interpretazione dei fatti diversa, esplicativa,
sorprendente. Come ci passa davanti tutta la vita pensando di aver compreso, e
poi capiamo che abbiamo interpretato tutto in maniera errata. Non è un caso che
il titolo del libro, Barnes lo riprende da un saggio del 1967 di Frank Kermode,
dove il critico inglese attraverso la disamina di opere letterarie aveva
l’obiettivo di scoprire come “dare un senso ai modi in cui cerchiamo di dare un
senso alla nostra vita”. Barnes esemplifica questa frase con queste 150 pagine
in cui abbiamo modo di leggere nel capitolo “Uno” (di 50 pagine) come Tony
interpretasse il proprio mondo. E poi di capire nel capitolo “Due” (lungo il
doppio) come tutto quello che aveva interpretato Tony era altro. Ma questo
avrebbe cambiato la vita di Tony? O di Adrian? O di Veronica? Questo l’assillo
che mi ha tormentato per tutto il libro. E che, con tutta sincerità, tormenta
sempre i miei pensieri. Quanto quello che capiamo della nostra vita, ha un
senso per sé. E come ci condiziona nella nostra vita e nei rapporti con gli
altri. Un bel libro, che ti scatena la voglia di parlare. Ma forse è meglio
fermarsi qui. Buona lettura.
“Era un cauto somaro non dotato
dell’inventiva indispensabile alla vera ignoranza.” (7)
“Un’altra delle nostre paure: che la Vita
potesse rivelarsi diversa dalla Letteratura. Prendi i nostri genitori, erano
forse materiale letterario? Tutt’al più, potevano ambire al ruolo di astanti,
di spettatori, far parte di un fondale umano contro il quale avvenivano le cose
reali, quelle che contano davvero.” (16)
“La storia … è fatta dei ricordi dei sopravvissuti,
la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori, né a
quella dei vinti.” (58)
“Il ricordo è ciò che pensavamo di aver
dimenticato.” (65)
“All’improvviso mi sembra che una delle
differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani,
ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso
per gli altri.” (82)
“[Dopo che sarò morto] non pensate male di
me, ricordatemi con favore. Dite in giro che mi volevate bene, che vi piacevo,
che non ero un bastardo. Anche se, magari, niente di tutto questo è vero.”
(108)
Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[tramato
il 29 novembre 2015]
È
il secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha
lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere,
di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia, ogni tanto non
riesco ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece,
generalmente, mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su
argomento analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è
invece qualcosa nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si
riesca a leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra
lettore e pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche
personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la
pagina scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta
durezza. Una coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8
anni e Ilaria di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto,
abbandona Olga e famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di
Olga nelle peggiori paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui
non ci si risolleva più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a
farci sentire il dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella
mente di Olga. E ad ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non
capisce i motivi di Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o
sodali nella cerchia delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più
difficoltà a gestire i figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era
stato voluto da Mario, ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente
avventate. Urla, dice parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di
una quindicina di anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso
la quarantina). Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di
testa. Pensa di potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista
Carrano. Fallendo anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul
fuoco. Si scorda di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta
di casa, e spesso non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del
libro e della pazzia, laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non
dico alla normalità, ma quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci
sono formiche in casa, e Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri
dedicati alla sua vita con Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente,
Gianni ha un attacco di febbre e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche
sulla fronte (le solite idee pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la
chiave si blocca e la porta non si apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui
male, anche lui vomita, e Olga trova l’insetticida mangiato dal povero cane.
Ancora più panico, si urla dalle finestre, il telefono non funziona (il
cellulare perché scaraventato giorni prima contro il muro, il fisso, non
avendolo pagato, è stato sospeso). Come chiamare il veterinario? Come chiamare
un medico? Come comperare la Tachipirina per il malato?. Come chiamare anche il
povero Carrano, per essere aiutate? Parlo al femminile che le uniche persone
ancora vigili sono proprio Olga ed Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o
ci si salva o si muore. Fortunatamente, ma un po’ casualmente nella scrittura,
Olga si salva. Non si salva il povero Otto, che muore avvelenato
dall’insetticida. Si salvano (almeno parzialmente) i figli: di sicuro dalla
febbre, ed in parte dalle “pazzie” materne. Un po’ perché ricominciano le
scuole, un po’ perché cominciano a frequentare il padre. Che all’inizio sembra
contento, poi capisce che anche quello è un onere. E come tutte le persone che
scelgono le vie più facili, anche se meno intelligenti, comincia a manifestare
segni di indolenza. Olga, invece, alleggerita da questi pesi di cui si era auto
caricata, ricomincia a vedere la luce. Accetta il suo ruolo di “abbandonata”,
non pensa più al suicidio, e più distesa con i figli, si dispiace (ma in fondo
è sollevata) della morte di Otto, e comincia a frequentare, con molta
leggerezza il musicista del piano di sotto. Ripeto, la scrittura della
Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non riesco ad entrarci bene. Al
solito, penso sia il problema di punti di vista maschili-femminili, dove non è
facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga verso il fondo della pazzia, mi
risulta altrettanto semplicistica la risalita verso la “normalità”. Comunque,
un forte libro sulla fine dell’amore tra due persone supposte mature. Dove, e
non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille è il maschio che si perde dietro
a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la scrittrice. Quindi, donne,
leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei
bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno
rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)
Conclusioni
Non so per le rotture, se siano
questi i libri indicati. So, e sottolineo, e l’ho detto in tutte le sedi in cui
ne ho parlato, che ritengo il libro di Barnes uno dei miei fari di lettura e di
vita.
Nessun commento:
Posta un commento