Horace McCoy “Non si uccidono così anche i
cavalli?” Corriere della sera Gialli Americani 11 euro 6,90
[A: 05/09/2017 – I: 25/01/2019 – T: 25/01/2019] - &&& ½
[tit. or.: They Shoot Horses, Don’t They?; ling. or.: inglese; pagine: 155; anno 1935]
Eccoci allora ad un’altra serie di romanzi
interessanti. Anzi di gialli. Anzi, come dice il titolo della collana “I
classici del giallo americano”. Che leggo in ordine casuale, cominciando da
questo, undicesimo titolo della serie. Vedremo come si sviluppa questa serie, e
come si contrappone all’altra, coeva ma di qua dell’Oceano, del giallo
anglosassone. Qui, ovvio, si passa dalle finezze dell’investigazione
all’hard-boiled o simili invenzioni statunitensi. Sono infine contento di aver
iniziato da questo titolo, sia per l’autore, di cui parleremo più avanti, sia
perché ricordo ancora il bellissimo film che ne trasse Sydney Pollack nel 1969,
con la bellissima seppur non premiata interpretazione di Jane Fonda nella parte
di Gloria. Come ricorderà senz’altro il mio mentore cugino, il film ricevette
invece l’Oscar come miglior attore non protagonista per Gig Young, stano tipo
di attore di cui si potrebbe parlare, ma in altra sede. Tornando allo
scrittore, McCoy, americano del Tennessee, sui trent’anni tenta la fortuna ad
Hollywood. Prima come attore, poi come tuttofare, con scritture,
collaborazioni, attività spesso non pagate. Tutto un bagaglio di esperienze che
metterà a frutto nei suoi primi tre romanzi. Di cui questo è per l’appunto il
primo, datato 1935 (Horace ha 37 anni e qualche mese). Ma non riuscì mai a
sfondare, barcamenandosi nel limbo delle comparsate americane. Per morire d’infarto
a 58 anni, 14 anni prima che Pollack porti al successo una sua storia. In
realtà, il libro non è realmente né un giallo, né un hard-boiled. È uno
spaccato americano, cruento e senza speranza. Basato sull’incontro, casuale, di
due vite disperate ed un po’ ai margini. Dove Gloria è senza speranza, non vede
nessuna via d’uscita alla sua vita e fin dall’inizio, oltre ad essere
scorbutica, antipatica, ed oltraggiosamente sincera, si interroga se la sua
vita ha un senso, se vale la pena vivere ed altre “amenità”. Mentre Robert,
certo senza grandi speranze, coltiva l’idea di poter sfondare. Non come attore,
che non ci si vede, ma come regista. Tanto da seguire con occhi di riguardo
tutte le persone che hanno la fortuna di mettersi da questa parte della macchina
da presa. Il romanzo poi non ci porta a nessuna scoperta o sorpresa, che,
dall’ex ergo di ogni capitolo, sappiamo che Robert sta venendo giudicato per
omicidio di primo grado e ritenuto colpevole, tanto da finire (probabilmente,
anche se non lo vediamo scritto) sulla sedia elettrica. E mentre questi titoli
accompagnano il lettore nel breve excursus, Robert ripercorre in flashback
tutta l’ultima parte della sua vita, a partire proprio dal casuale incontro con
Gloria. Dopo essersi barcamenati alla bell’e meglio per un po’, a Gloria viene
in mente di partecipare ad una maratona di ballo. Una gara senza fine, dove chi
si ferma viene eliminato, sino a che non rimarrà una sola coppia, che si
aggiudicherà la bellezza di mille dollari. Seguiamo così tutte le varie fasi
della maratona, scandite da Rocky, il maestro di cerimonia (quello che frutterà
l’Oscar a Gig Young), che sprona i concorrenti, che cerca, e a volte riesce, a
spupazzarsi qualche ballerina. Che infine ha l’idea vincente e terribile, per
accorciare la gara, di proporre ogni sera un cosiddetto derby, dove le coppie,
in cui l‘uomo ha la donna legata alla vita da una corta corda, sono costrette a
fare una gara di corsa tipo l’australiana del ciclismo su pista. Dove appunto,
ogni sera l’ultima coppia viene eliminata. Nel corso delle varie giornate,
seguiamo le vicende di alcune coppie vicine a Robert e Gloria ed altri elementi
di contorno. Quella del mafioso italiano che viene arrestato. Quella della
coppia incinta. Quella della ragazza minorenne. La lotta per avere degli
sponsor che forniscano vestiti e scarpe di ricambio. Quella della ninfomane che
ceca di andare a letto con tutti i ballerini. Ed altro ancora. Ma non è
importante. Perché importa seguire il pessimismo sempre più accentuato di
Gloria. Che si scaglia verso tutti. Che non ha mai un momento di serenità. Che
non vede nulla nel suo futuro. Al 37° giorno (come l’età di McCoy) per una
serie di motivi la gara viene interrotta. Gloria, come un cavallo cui si è
spezzata una gamba, chiede allora a Robert un gesto di pietà: spararle per
farla finita. McCoy riesce in poche pagine ed in pochi tratti a rappresentare
tutta la crudezza della “Grande Depressione Americana”. Gli anni in cui tutto
andava male, senza speranze e senza economia. Di certo è comunque una scrittura
veloce, di pronta presa, quasi già cinematografica, con pochi e quasi nulli
momenti di riflessione. Ma l’idea, il modo di esporla e la figura di Gloria
meritano senz’altro di portare buoni voti all’autore. Meno Robert e qualche
contorno. Poi, se penso a Pollack, si potrebbe volare ancora più in alto. Ma
questa è veramente un’altra storia.
“Sono stanca di
vivere e ho paura di morire” (103)
Horace McCoy “Un sudario non ha tasche”
Corriere della sera Gialli Americani 14 euro 6,90
[A: 11/09/2017 – I: 30/01/2019 – T: 31/01/2019] - &&&&
[tit. or.: No Pockets in a Shroud; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1937]
Secondo romanzo che leggo di McCoy, e devo
dire che, già avendo constatato la buona prova del primo (pur nel ricordo
mixato con il film di Pollack), questo mi è piaciuto di più, ed ho trovato che,
per il tempo ed il luogo della scrittura, sia veramente un libro interessante.
Spulciando nelle poche note biografiche disponibili nel Web, ho anche avuto la
conferma che una buona traccia del romanzo deriva da esperienze personali di
Horace: dal ’20 al ’30 il nostro è a Dallas come giornalista nel Dallas Journal
(anche di sport) e recita in piccole parti nel Dallas Little Theatre.
Esattamente come il Mike Dolan del romanzo, anche se l’azione viene spostata
nella cittadina di Colton, sperduta nella vallata di San Bernardino in
California. L’edizione italiana, inoltre, ha di certo beneficiato dell’ottima
traduzione di Luca Conti, che ne ha reso fresco il linguaggio, anche con
l’utilizzo di interiezioni non certo usuali (esempio che riporto). Unico
neo/dubbio, oltre quelli strutturali che riporto più avanti, è nel titolo, che
l’autore fa citare a Mike a metà romanzo, quando il giornale è accerchiato
(psicologicamente) da loschi figuri, con il significato che, quando muori, non
ti puoi portare molto con te. Né amori, né denari, né prove. Ma viene citato
come antico proverbio celtico, che forse è vero, ma l’Oxford Dictionary lo
riporta come frase nata alla meta del 1800 (citata per la prima volta in un
giornale di Cleveland nel 1854). I dubbi strutturali vengono dal fatto che
questo romanzo non mi pare possa ascriversi ad un filone “giallo”, né di
ragionamento, né hard-boiled tipico americano di quegli anni. Seguiamo tutte le
avventure giornalistiche di Mike, da quando abbandona il giornale locale, per
fondare una sua rivista che gli permetta di dire tutta la verità, a tutte le
traversie che lui ed i suoi amici subiscono per dire la verità e pestare i
calli ai potenti, locali e non. Certo c’è una dose di violenza, ma non ci sono
investigatori, poliziotti, indagini o altro. Tra l’altro, tutto il romanzo è
incentrato sulle malefatte della vita americana, su cui torneremo, con alcune
punte polemiche forti verso l’Europa. Lo scritto è del 1937, e ci sono diversi
strali che l’autore lancia contro la “resistibile” ascesa di Hitler e
Mussolini, e critiche ai loro comportamenti ed all’acquiescenza mondiale al
riguardo. Non è forse un caso, quindi, che in America fu pubblicato solo nel
1948. La storia, molto basata sul dialogo (e non è un caso, che McCoy in quegli
anni faceva il Ghostwriter sceneggiatore a Hollywood, con una discreta capacità
nell’uso di questa forma espressiva) ci fa seguire le gesta appunto di Mike
Dolan. Che lascia il quotidiano locale, e con l’aiuto della bella Myra e
dell’amico Ed fonda una rivista settimanale dove inizia a denunciare ciò che il
giornale non gli permetteva di fare. Comincia con la corruzione di una squadra
di Baseball che vendeva le partite. Poi prosegue con lo smascherare un medico
abortista, colpevole della morte di alcune ragazze in seguito ad aborti mal
praticati. Questi gli mette sulle tracce il potente boss locale, fratello del
medico, che cerca, anche con le cattive, di fermare l’attività di Mike. Il
colpo finale è la scoperta di una organizzazione modellata sulla falsariga del
Ku Klux Klan, che si arroga il diritto di farsi giustizia da sé. Mike, aiutato
dal suo amico poliziotto Bud, si infiltra nel Klan, ed assiste a scene di
violenza che non può fermare. Ma riesce a fuggire, e, annotando le targhe delle
automobili presenti, si rende conto che i capi del Klan sono i potenti della
città, i corrotti che lui sta mettendo alla berlina sul suo giornale. A questo
punto l’autore poteva optare per tre diversi finali. Uno pessimistico, dove
Mike viene ucciso ed i cattivi trionfano. Uno buonista, in cui, con un articolo
ben strutturato e l’aiuto del poliziotto Bud, i cattivi vengono smascherati e
Mike e Myra proseguono nella loro carriera giornalistica. Uno intermedio, in
cui Bud salva Mike da un attentato, ma, ormai in pericolo di vita, Mike e Myra
decidono di trasferirsi altrove (Los Angeles ad esempio) dove ricominciare la
loro attività di denuncia lontano dai cattivi locali. Quale abbia scelto McCoy
lo lascio a voi lettori. L’altra faccia del libro, oltre a questa forte di
denuncia, è nella descrizione dell’allegra vita dei trentenni americani e della
lotta, sempre infinita, tra le classi agiate e chi “si fa da sé”. Mike viene
dal nulla, ma frequenta tutti. Ed amoreggia a più non posso con tutte le
signore e signorine del luogo. Anche con la segretaria Myra, che però è l’unica
che ha sempre il coraggio di dirgli cosa pensa di lui. Una parte scanzonata,
che un po’ allevia la pesantezza del resto, anche se, pure qui, vengono fuori esempi
di malcostume non poco censurabili (tipo divorzi pagati a suon di quattrini già
il giorno dopo il matrimonio). In fondo, è un libro più complesso di quanto
possa far pensare la sua collocazione storica. Un libro che ci fornisce una
fotografia dell’America degli anni Trenta assolutamente fuori linea con le
scritture omologate del tempo. Se McCoy fosse stato più abile anche con
descrizioni e trame, poteva uscirne un libro da tenere accanto a Scott
Fitzgerald e Hemingway. Non è così, ma è un libro che è giusto segnalare e
leggere.
“Cazzate
… e scusate il francesismo.” (97)
Jim Thompson “I truffatori” Corriere della
sera Gialli Americani 18 euro 6,90
[A: 09/10/2017 – I: 07/03/2019 – T: 08/03/2019] - &&& e ½
[tit. or.: The Grifteers; ling. or.: inglese; pagine: 185; anno 1963]
Un degno scrittore del mondo americano. Una lettura
interessante, forse con qualche annacquatura, dovuta ai quasi sessanta anni del
libro. Ma devo senz’altro convenire che Thompson si colloca ai primi posti del
genere. Anzi, nelle pattuglie di testa della scrittura. Che, a braccetto di
Hammett e Chandler, può andare ovunque. Tanto che anche questa saga sulle
truffe, alla fine risulta essere un libro su di uno spaccato americano. Con
tante belle uscite letterarie. Certo, la fine converge più sul versante nero,
ma così va il mondo. Anche per Jim che scrive questo libro quando da tempo si è
installato in California, per seguire i soldi del mestiere di sceneggiatore.
Dove però di soldi non ne farà mai tanti, almeno in vita. Sia per la sua
produzione considerata migliore, i libri scritti tra la metà dei ’40 e la metà
dei ’50. Sia anche per le sceneggiature, dove avrà difficoltà a farsi
riconoscere i meriti, ma che per me rimarrà indelebile per la parte da lui
avuta in uno dei più bei film antimilitareschi, quel “Sentieri di Gloria” di
Kubrick con la magistrale interpretazione di Kirk Douglas (e che spero Luciano
ricorderà in una mia magistrale lezione universitaria). Questi truffatori sono
ormai nella seconda parte della carriera, già più segnata dai possibili impatti
sul cinema. Anche se bisognerà aspettare il 1990 per vederne il film
(intitolato “Rischiose abitudini”) per la regia di Stephen Frears e le
magistrali interpretazioni di John Cusack,
Anjelica Huston e Annette
Bening. Ma per venire al libro, per buona parte è
veramente uno spaccato di un certo tipo di America. Laddove seguiamo le vicende
ed i modi di vivere dei tre personaggi principali: Roy, sua madre Lilly e la
sua amante Moira. La capacità di Thompson è di farci arrivare, a poco a poco,
al nocciolo dei personaggi. Il primo che dispiega (quasi) tutta la sua essenza
è Roy: venticinquenne, dedito a piccole e grandi truffe. Figlio di Lilly, che
lo ha avuto a 14 anni, cresce nell’ombra della madre, dura e sempre alla
ricerca di denaro, come doveva fare una donna degli anni ’50 senza arte né
parte. Intelligente e svelto, Roy si costruisce un suo modo di vivere, ed
appena può, lascia i lidi materni (del padre nulla si sa). Cominciando con
piccoli trucchi, come quello, stupendo, dei venti dollari: entra in un negozio,
compra caramelle per pochi cent, paga con venti dollari, si fa dare il resto,
poi trova i cent che stava cercando in tutte le tasche, paga con quelli e si fa
ridare i venti dollari. Un trucco che necessita una buona dose di faccia tosta
e di sveltezza di esecuzione. Ma Roy fa anche truffe più in grande, con le
carte, con i dadi, raggirando i gonzi. Tanto da mettere da parte, nel suo
alloggio californiano, cinquantamila dollari. Quando un trucco gli riesce male,
e sta per lasciarci le penne, ecco che entra in scena Lilly, la madre
vagabonda, che si è legata al mondo di scommettitori ed altra gente ai margini.
Lilly lo salva, trovandosi per caso a Los Angeles, dove, per conto di una banda
di malavitosi, ha il compito di drogare le scommesse sui cavalli, puntando in
modo da far scendere le quotazioni dei favoriti e salendo quelle degli
outsiders. Insomma, anche lei vive di espedienti. Peccato che per salvare il
figlio mette in pericolo la sua carriera. Tutto è percorso poi dalla presenza
di Moira, amante più grande di Roy, che sembra solo volerne la parte erotica.
Ma che poi scopriamo essere essa stessa una truffatrice, che aveva vissuto per
anni con un mitico “Cole The Farmer”, uno dei più noti truffatori dell’epoca,
con il quale inscenava grandi truffe edilizie per raccogliere fondi con scene
finali di arrivo di (finta) polizia, ed altri trucchi scenografici. Mentre
Thompson ci narra le vicende dei tre, le loro vite si intrecciano. Intanto,
ognuno scopre che gli altri sono essi stessi truffatori. Ma quando Moira
propone a Roy di unire le loro capacità, questi rifiuta, che vuol rimanere
battitore libero. Moira si vendica denunciando Lilly agli allibratori che
avevano perso soldi per le sue mancate scommesse. Lilly stessa vuole da Roy i
soldi che questi ha racimolato con le sue truffe, per poter fuggire dai cattivi
che le ha scatenato Moira. Nella parte finale, i tre truffatori avranno modo di
spiegare tutte le loro arti, ed alla fine, come in un romanzo alla Christie,
solo una persona ne uscirà viva. Thompson imbastisce un finale duro e senza
speranze, cattive quasi. Ma d’altra parte, come non aspettarselo da uno
scrittore eclettico, che cita, con proposito, Dostokjeski, ed imbastisce una
trama che figlia direttamente dalle tragedie greche. La bravura di Thompson è
di imbastire la trama anche di altri personaggi, tutti interessanti, tutti
particolari. Non ne faccio elenchi o citazioni, ricordo solo l’interessante
figura di Carol, l’infermiera immigrata fuggita dai campi di sterminio di
Dacahu. Un libro duro, non consolatorio, ma che rappresenta, con cruda
esattezza, una parte della vita americana che noi, di qua dell’Oceano, tendiamo
a dimenticare che esista. Veramente una bella penna.
David Goodis “C’è del marcio in Vernon
Street” Corriere della sera Gialli Americani 23 euro 6,90
[A: 13/11/2017 – I: 27/02/2019 – T: 28/02/2019] - && ---
[tit. or.: The Moon in the Gutter; ling. or.: inglese; pagine: 157; anno 1953]
Ora, David Goodis è un onesto scrittore ed anche un
bravo sceneggiatore (come dimenticare “Giungla Umana”, uscio in Italia come “La
fuga” con i mitici Bogart-Bacall?), ma di certo non è un Tennessee Williams o
un Arthur Miller che riescono a tirar fuori l’anima della vita americana
perduta tra sbandati ed altra gente alla deriva. Inoltre, e questo ne è un
esempio, non sempre scrive “noir”. Come in questa “Luna sopra la grondaia”, che
diventa inopinatamente questo marcio in Vernon Street, dato che esce in prima
assoluta negli anni Cinquanta, per i Gialli Mondadori, che avevano bisogno di
un titolo “acchiappa-gonzi” per aumentare le vendite. In effetti, tutto il
libro, breve ed a volte intenso, è basato sulle peripateticità di Bill
Kerrigan, che per tutto il testo, vaga tra il porto, dove lavora (rimandando ad
un grande Marlon Brando di “Fronte del porto”), Vernon street dove abita ed i
luoghi più “puliti” dove cerca di capire se può svoltare la sua vita unendo il
proprio destino con quello di Loretta, donna dei “quartieri alti”. Tutto si
muove nella Philadelphia natia di Goodis, che da lì prende le mosse, con un
retroterra russo-ebraico che affiora di tanto in tanto nelle atmosfere e nei
sensi di colpa. Bill è ossessionato dalla morte della sorella Catherine,
avvenuta alcuni mesi prima. Non è stato mai chiarito il mistero della morte, o
forse solo in parte. Forse Catherine è stata violentata e non ha retto i sensi
di colpa e si è uccisa. Forse chi l’ha violentata l’ha anche uccisa. O forse
anche altro. Ma seppur questa ossessione percorre tutta l’esistenza di Bill,
quello che andiamo scoprendo, pagina dopo pagina, riga dopo riga, è questo
mondo di emarginati che vive nella squallida Vernon Street, e da cui non riesce
ad uscire. Sono ladri, prostitute, ubriaconi all’ultimo stadio. Tutto un fondo
dell’umanità arrivata al capolinea di sé stessa. Intorno a Bill, ruotano gli
altri personaggi del dramma senza speranza. Frankie, il fratello alcolizzato e
schizofrenico, che ricalca (anche se solo da lontano), lo stesso fratello di
Goodis, anche lui malato. Il padre Tom, sempre dietro a qualsiasi donna che
cammina, e sempre in eterno conflitto con la (terza o quarta, ho perso il
conto) moglie Lola, un po’ manesca ma nel fondo con un profondo senso della
giustizia locale. Bella, la figlia di primo letto di Lola, completamente
innamorata di Bill, ed anche completamente gelosa. Di una gelosia che rasenta
la morbosità, e la quasi follia, se per essa si arriva al limite della
soppressione fisica. E poi ci sono i derelitti di Vernon street, spesso
raccolti nell’unico pub locale, a bere ed immaginare altre vite da vivere. Come
l’ex-pittore Mooney, che per vivere ora dipinge le insegne dei negozi, ma che
era innamorato senza speranza di Catherine cui aveva fatto uno dei più bei
ritratti di tutta la città. Su questo corpo di gente che va alla deriva, si
innestano i fratelli Channing, Newton e Loretta. Il primo, molto ma molto
disturbato, attratto dall’abisso di perdizione della strada, dove si reca per
affogare nell’alcool tutti i sui sensi di colpa. Per aver provocato l’incidente
dove sono morti i suoi genitori. Per aver rovinato la vita di tutte le donne
con cui si è sposata. La seconda, spesso per riprendere e portare nei quartieri
alti il fratello. Ma la prima volta che Loretta e Bill incrociano gli sguardi,
nasce un’attrazione fatale ed irresistibile. Bill è soggiogato dalla bellezza
di Loretta, ma è anche conscio delle loro differenze di stili di vita. Forse
potrebbe sfruttarne la diversità per fuggire da Vernon street, e dimenticare la
storia della sorella. Loretta è attratta dalla “veridicità” dell’uomo Kerrigan,
che in fondo è onesto, buono, oltre che un pezzo di marcantonio da non finire
più. I due a lungo fanno schermaglie, si avvicinano e si allontanano. Arrivano
anche a sposarsi (ma Goodis glissa se consumano o meno il matrimonio). Si
arriva così alla scena finale e capitale. Bill è profondamente convinto che
Frankie sia la causa della morte della sorella. Ma nella scena in cui (forse)
cerca di ucciderlo, ha una serie di in-sight. Potrebbe essere stato il pittore
Mooney geloso. Potrebbe essere stato Newton in preda a qualche delirio.
Potrebbe infine essere stata la stessa Catherine, quando capisce che non
riuscirà mai ad uscire da Vernon Street. E qui Bill ha due alternative:
prendere Loretta per mano ed andare via da Vernon street o lasciare Loretta, e
tornare in Vernon Street con Bella. Lascio agli onesti lettori la scoperta
della vera fine, ricordando solo due cose. La scrittura di Goodis, in questo
testo, non è così coinvolgente come avrebbe potuto essere per farne un testo
significativo. Il libro, come molte opere di Goodis, verrà portato sullo
schermo negli anni ’80, ben dopo la morte dell’autore, in un film francese con Gérard
Depardieu nella parte di Bill Kerrigan, Nastassja Kinski in quella di Loretta e
Victoria Abril in quella di Bella. Per la regia di Jean-Jacques Beineix
(sperando che i miei cugini cinefili se ne ricordino).
David Goodis “Sparate sul pianista”
Corriere della sera Gialli Americani 20 euro 6,90
[A: 01/11/2017 – I: 14/03/2019 – T: 15/03/2019] - &&& -
[tit. or.: Down There; ling. or.: inglese; pagine: 204; anno 1956]
Devo dire che, alla fine, David Goodis è
risultato un autore interessante. Non sarà certo un caso allora (e Alessandro
me lo confermerà) che da questo romanzo il grande Truffaut escogita il suo film
“Tirez sur le pianiste” con protagonista Charles Aznavour. Non entro qui nelle
differenze tra il testo e lo schermo, che sarebbe utile in altro spazio. Qui
sottolineo solo come Truffaut abbia utilizzato il titolo con cui uscì la
seconda edizione del libro (non concordata con Goodis) mentre il titolo
originale era quel “Laggiù”. Che si riferisce ovviamente ai bassifondi di
Philadelphia, una location non usuale per un noir americano, che in genere si
svolgono nel 60% dei casi in California e nel 35% a New York. Ma Goodis è
discretamente atipico in queste sue scelte, forse anche perché proprio da Philadelphia
proviene, ed è interessato alle dinamiche della sua città. E dove, dopo un
fertile periodo hollywoodiano, torna per gli ultimi 15 anni della sua vita. Il
periodo di Hollywood, ricordo per i meno attenti, culmina con il magnifico film
“Dark Passage” (in italiano “La fuga”) del 1946 con Humphrey Bogart e Lauren
Bacall. Come, e forse meglio che, nel precedente, si sente l’attenzione di
Goodis ai “suoi” luoghi, e la ricerca non di effetti da “colpo al fegato” del
lettore, ma verso una lenta ma congruente scoperta di cose, fatti, situazioni
ed altro. Ad esempio, qui si comincia con un lungo capitolo in cui seguiamo le
vicende di tal Turley che scappa inseguito da loschi figuri. Per poi capitare
nel losco bar in cui suo fratello Eddie suona il piano. E da quando Eddie
ostacola i due cattivi per far scappare Turley, seguiamo tutta un’altra storia.
Che il libro, in effetti, è imperniato sulla figura di Eddie. Sul mistero che
racchiude in sé questo virtuoso della tastiera che a nessuno dà confidenza. Che
parla poco con Plyne, il gestore del bar, un ex-lottatore ancora in carne. Che
ogni tanto si accompagna con Clarisse, una prostituta dal buon cuore che, in
fondo, tiene a Eddie più di quanto lui comprenda. Che proprio nella mischia
generata dall’arrivo di Turley, scopre l’esistenza “reale” (che fino ad allora
ne aveva vista solo l’ombra) della cameriera Lena. La quale, vistolo in
difficoltà, gli si appiccica (e noi capiamo che in lei nasce un vero
sentimento), e lo aiuta in diversi frangenti. Ma intanto Turley è riuscito a
scappare, mentre i due gangster sono in giro, e riescono a rintracciare Eddie e
Lena, per la delazione di Plyne. Riescono a fuggire, hanno una violenta scena
di svelamento di minacce e tradimenti con Plyne, che muore accidentalmente per
mano di Eddie. Finalmente, i due fuggono nella casa di campagna di Eddie, da
dove lui mosse i primi passi, e dove ritrova Turley e l’altro fratello, il ben
più cattivo Clifton. Fino alla scena clou dell’arrivo dei cattivi, delle
sparatorie, delle morti. Certo non vi dico chi vive e chi muore, che quello che
rende interessante tutto il romanzo non è tanto questo “sovra-plot” noir, ma
tutta la storia di Eddie, che, tra una riga e l’altra, mai in flashback, ma
piuttosto in ricordo, riviviamo e che fa salire il libro di qualche punticino.
Perché i fratelli Lynn vengono da quella casa di campagna. Ma mentre Clifton e
Turley si dedicano a ruberie e truffe varie, Eddie è “la pecora nera” che il
padre, alcolista disoccupato, inizia all’arte pianistica. Per sfuggire il mondo
violento dei Lynn, Eddie si butta a capofitto nella musica, scalando con fatica
diversi gradini da gavetta pura. Poco prima del suo debutto sul palcoscenico
scoppia la guerra, e la sua carriera si ferma. Al ritorno nessuno lo conosce
più, si adatta a dare lezioni di piano, fino ad incontrare una gentile
signorina di cui si innamora. Che gli dà anche la forza di ritentare ad uscire
sulla scena. Fino a trovare un agente vero, che lo prende sotto la sua ala, e
lo fa debuttare alla Carnegie Hall. Ecco che il grande Edward Webster Lynn
sembra aver imboccato la strada giusta. Concerti in America, concerti in
Europa. Ma la moglie incupisce vieppiù. Era una ragazza semplice, che lui pensa
sia oberata dal peso del successo e da ambienti altri. Scoprirà invece che lei
è sommersa da immensi sensi di colpa, per aver ceduto alle lusinghe dell’agente
che le aveva promesso sostegno al marito in cambio di sesso. Un peso che lei,
ad un certo punto, non riesce più a sostenere, e si getta dal piano alto
dell’albergo. Eddie è devastato. Regola i conti con il bieco agente, ma poi si
butta laggiù, a fare il barbone nei bassifondi di Philadelphia. Di abiezione in
abiezione, fino a che, stordito e quasi inebetito, riesce solo a rimettersi,
muto e solitario, al piano di quel pub dove lo troviamo all’inizio. Dove non dà
confidenza a nessuno. Dove vuole portare avanti la sua inutile vita (così ormai
la pensa). Leggete quindi per capire se e come Goodis cercherà di arrivare ad
un finale sensato per la storia. Io credo di sì, forse con qualche sbavatura,
ed un punto negativo per quei pasticci sul titolo. Ma a consuntivo un romanzo
interessante.
Prima domenica di giugno, con la prospettiva
di un mese di poche trame. Ma non possiamo tirarci indietro dalle letture di
marzo, mese molto denso di letture interessanti. Illuminate da Thompson sul
fronte dei gialli e dal gradito libro regalatomi dal mio amico Franco, il
superbo Atlante di Pievani.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
William C. Gault
|
Fuoco incrociato
|
Corriere della sera
Gialli
|
6,90
|
2
|
2
|
William C. Gault
|
Un’esca per la
belva
|
Corriere della sera
Gialli
|
6,90
|
2
|
3
|
Klaus Modick
|
Concerto di una
sera d’estate senza poeta
|
Corriere della Sera
Arte
|
7,90
|
2
|
4
|
Jim Thompson
|
I truffatori
|
Corriere della sera
Gialli
|
6,90
|
4
|
5
|
Paola Mastrocola
|
Non so niente di te
|
Einaudi
|
12,50
|
3
|
6
|
Wade Miller
|
Quattro giorni
di guai
|
Corriere della sera
Gialli
|
6,90
|
2
|
7
|
Wade Miller
|
La scelta del
killer
|
Corriere della sera
Gialli
|
6,90
|
3
|
8
|
Stephanie Cowell
|
La donna col
vestito verde
|
Corriere della Sera
Arte
|
7,90
|
3
|
9
|
David Goodis
|
Sparate sul
pianista
|
Corriere della sera
Gialli
|
6,90
|
2
|
10
|
Telmo Pievani
|
Atlante dell’evoluzione umana
|
Libreria Geografica
|
s.p.
|
4
|
11
|
Gianni Materazzo
|
I labirinti della
memoria
|
Repubblica Italia
Noir
|
7,90
|
2
|
12
|
Chiara Gamberale
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L’isola
dell’abbandono
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Feltrinelli
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16,50
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3
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13
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Michele Catozzi
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Acqua morta
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Repubblica Italia
Noir
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7,90
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2
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14
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Alice Hoffman
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Il matrimonio degli
opposti
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Corriere della Sera
Arte
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7,90
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2
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15
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George Harmon
Coxe
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L’occhio
indiscreto
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Corriere della sera
Gialli
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6,90
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2
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16
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Aldo
Cazzullo
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Giuro
che non avrò più fame
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Mondadori
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s.p.
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2
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Dicevo un giugno di poche trame che si
dovrebbe tornare presto al di là dell’Oceano, come scoprirete se non mi sentirete
la prossima settimana. Anche di molte idee cui mi spingono a riflettere i miei
amici Roberto e Pietro. E vedremo se uscirà qualcosa, oltre le spinte. Mese infine,
di piccoli pensieri privati, dedicati ai miei sempre meno numerosi zii. Ma
bando alla tristezza, vediamo il caldo che avanza.
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