Maurizio De Giovanni “In fondo al tuo cuore
– Inferno per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 15 (in realtà scontato a
1,80 euro)
[A: 07/07/2017 – I: 09/05/2019 – T: 11/05/2019]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 518; anno 2014]
Ormai
ben nota è la mia passione per la coppia Ricciardi-De Giovanni, sin dalle prime
uscite pubblicate con delle bellissime copertine dalle edizioni Fandango. Con
questa siamo arrivati alla settima puntata, sempre ben ambientata in una Napoli
ricostruita alla perfezione. Una Napoli degli anni ’30, anzi qui siamo ancora
più precisi, che la vicenda inizia il 14 luglio, dato che tutta la città si sta
preparando alla festa per la Madonna del Carmine del 16 luglio. Non ci sono
sorprese nell’impianto generale, popolato dai soliti personaggi che abbiamo
imparato a conoscere, ed anche amare nei libri precedenti. Ricciardi in primis,
bel commissario dagli occhi verdi, che non riesce ad uscir fuori dalla
maledizione di sentire le ultime parole dei morti ammazzati. Cosa che lo aiuta
di certo nelle indagini (a patto di saperle interpretare), ma che lo tormenta
durante i suoi giri cittadini, dove ad ogni angolo incontra fantasmi che gli
parlano. Qui assistiamo al passaggio di consegne tra la sua governante e nume
della casa Rosa, ormai anziana, che, accorgendosi del possibile termine della
sua vita, designa la nipote Nelide come sua sostituta. Nelide cilentana
semi-analfabeta, seppur nella sua rozzezza (e scarsa bellezza) sarà in grado di
prendere in pieno l’eredità di Rosa. Poi ci sono gli amori di Ricciardi: la
bella Enrica, insegnante e mancina, cui il nostro non riesce a dichiararsi, e
che, per mitigare il dolore di questo (forse) non corrisposto amore scappa per
l’estate in quel di Ischia, e Livia, la donna dell’alta società, vicina alle
alte gerarchie fasciste, anche lei innamorata ma sicuramente non corrisposta.
Non possono mancare poi i due alter-ego che servono a Ricciardi per pensare
durante le indagini: l’anatomo-patologo donnaiolo e poco fascista, e il
brigadiere Maione, questa volta invischiato anche in problemi personali, dovuti
ai pochi denari che entrano in una famiglia che cresce, tanto che la moglie
Lucia accetta di nascosto lavori di sartoria, ma che lui invece immagina tradirlo
con chissà chi. Su questo plot di relazioni standard, anche se in evoluzione,
si innesta la vicenda gialla, o presupposta tale. La caduta da ventidue metri,
dalla finestra dell’ufficio, del professor Tullio Iovine del Castello,
direttore della cattedra di ginecologia al Policlinico della Regia Università
di Napoli, con cui si apre il libro. Questo è solo l’inizio di una discesa
verso gli inferi di tutte le vicende del romanzo. Iovine che dice (nel
passaggio a fantasma registrato da Ricciardi), “Sisinella e l’amore”. Da dove
parte l’indagine poliziesca. Chi è Sisinella? Perché ci sono due anelli di
simile fattura ma di diversa grandezza? Mettendo in moto le solite indagini
casa per casa, vediamo uscir fuori vediamo la fredda e calcolatrice vedova
della vittima, il giovane malavitoso Peppino il Lupo, la passionale e ingenua
Sisinella, il fedele orafo Coviello. Sarà quest’ultimo a fare un po’ di luce
sulle finalità degli anelli. Sarà una gita ai piedi del Vesuvio a scoprire
Sisinella e la sua vita. Sarà anche l’aiuto di Bambinella, il trans amico di
Maione, ad instradare Ricciardi verso la soluzione. Ma come sappiamo, non è il
giallo quello che interessa De Giovanni. È l’ambiente, è Napoli, sono i rapporti
tra i vari personaggi, è la scrittura stessa quella che fa il libro. Laddove
nel triangolo amoroso Ricciardi-Enrica-Livia, si inserisce il quarto lato:
l’ufficiale tedesco Manfred, da Enrica incontrato ad Ischia e che di lei si
prende. Suscitando nel nostro un duplice problema: gelosia e voglia di farsi da
parte. Vedremo come si evolverà questo rettangolo amoroso. Laddove Ricciardi
sta a lungo al capezzale di Rosa, per accompagnarla nella sua discesa verso
l’altro. E tutti gli altri rivoli narrativi, dove anche io confesso di amare questa
parte della sua scrittura, questa serializzazione della storia, questo seguire
i personaggi nel corso giornaliero delle loro evoluzioni personali e di
rapporti. Quello che sempre meno coinvolge, invece, sono i lunghi intarsi
soggettivi, spesso fatti risaltare dai capitoli in corsivo. Che sono lunghi, un
po’ pesanti, non sempre funzionali alla trama. Nonché alcune digressioni,
queste però in italico, con dei ritornelli reiterati, spesso dedicati
all’assunto del titolo. L’inferno, in questo caso. O la discesa verso. O i
sentimenti “infernali” di Ricciardi verso Manfred, di Ricciardi verso Rosa, di
Rosa nel suo delirio in punto di morte con la madre di Ricciardi. Sono parti
che a me continuano a piacere sempre meno, ma dove invece De Giovanni sembra
indulgere sempre più. Ripeto, e sono d’accordo, De Giovanni non è solo un
giallista, ma un narratore che, partendo quindici anni fa da una piccola idea,
nel tempo è riuscito a farla diventare una piccola gemma, che contorna, così
come qui fa Coviello, di tante piccole luminose pietre preziose. Il risultato
finale, pur sempre interessante, ora non è più all’altezza dei primi libri. Ma
io continuerò a leggerne.
Maurizio De Giovanni “Anime di vetro –
Falene per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 14,50 (in realtà scontato a
1,75 euro)
[A: 07/07/2017 – I: 12/05/2019 – T: 16/05/2019]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 441; anno 2015]
Come
sa chi ha letto le precedenti storie, ci ritroviamo in un nuovo capitolo della
vita e delle avventure di Luigi Ricciardi, Barone di Malomonte, commissario di
polizia nella Napoli degli anni ’30. Devo subito dire che le storie di
Ricciardi stanno calando di libro in libro. E solo il mio imperituro amore per
il commissario fa sì che non precipitino oltre il non descrivibile. Non è che
ci sia qualche elemento nuovo, ma le storie decollano poco. Ma soprattutto è il
contorno, le vicende del rettangolo amoroso che nella mente dello scrittore
dovrebbero tenere banco, ma che non riescono ad avvincere il mio io lettore. Certo,
qui sembra che Ricciardi sia più uomo che commissario, anche se l’indagine pur
atipica, c’è. Diciamo atipica, perché il caso con cui si deve cimentare è in
effetti una storia che sembra già chiusa. Bianca Borgati dei marchesi di Zisa,
contessa Palmieri di Roccaspina lo convince ad occuparsi di un caso di cui si
sa praticamente tutto. Si tratta della morte dell’avvocato Ludovico Piro, in
realtà usuraio, ucciso ben tre mesi prima. Dell’assassinio si autoaccusa il
marito della Contessa, e la polizia non indaga e chiude le indagini. Ma Bianca
non è convinta, nonostante le parole del marito Romualdo Palmieri, Conte di
Roccaspina. Che non vuole neanche essere aiutato. Muovendosi con i soliti piedi
di piombo, anzi con più piombo ancora, dato che l’indagine era stata svolta da
altri poliziotti, Ricciardi si avvede che c’è qualcosa di poco chiaro. Quindi,
pur nell’ombra, si indaga. Ricciardi non riuscirà, fino alla fine, a vincere le
resistenze di Romualdo, ma riuscirà, con l’aiuto del fido Maione e della trans
Bambinella, a delineare un quadro alternativo. Perché, se è vero che Romualdo è
indebitato sino al collo con Piro (che tra l’altro ha comperato i debiti di
gioco del conte), è anche vero che si delinea tra Romualdo e qualcun altro (o
meglio altra) una storia d’amore. Una storia che l’usuraio, conosciutala, cerca
di stroncare sul nascere. Una storia che consente al conte di fare un
sacrificio, in effetti inutile ai fini della storia stessa, ma utile per far sì
che la sua vita non finisca bruciata. Chi ha ucciso Piro non ne pagherà la
colpa, ma questa è una storia diversa. Che su questo motivo, su questa falena
(quella che uccide l’usuraio) si intrecciano altre storie, che cercano di
allontanare “palommella” (cioè falena in dialetto) dal fuoco che la brucerà.
C’è Bianca, figura dura e conseguente, diritta nella sua povertà, che a fatica
riesce solo a consentire al suo grande amico, il conte Marangolo, di aiutarla.
Ma solo perché il conte si sta avvicinando alla fine. Bianca ha una dignità
estrema, cosa che non può non far breccia nella mente di Ricciardi. Poi c’è
Livia, che, sempre più abbandonata, cerca in ogni modo di riconquistare il
nostro, ma tra i due non c’è più feeling. Tanto che Livia, messa ben da parte,
non trova altra scusa che accusare Ricciardi di omosessualità, cosa ben grave
nel ventennio fascista. Sarà il conte Marangolo, che, scoperta l’accusa, fa in
modo che una bugia di Bianca (che confessa un inventato adulterio con
Ricciardi) salvi il commissario. C’è anche un’altra persona che si salva,
perché il teutonico maggiore Manfred Kaspar von Brauchitsch, inviato di stanza
a Napoli solo per fare la spia sugli armamenti navali degli italiani, viene
bruscamente congedato da Enrica, dopo che, con fatica e con la mano sul cuore,
il padre di lei la convince a seguire il proprio cuore (con buona pace di
Susanna Tamaro). Tanto che (miracolo…) nelle ultime righe pare che il nostro
commissario capisca che forse sarebbe meglio con qualche dubitativo fare
qualcosa, invece di aspettare sulla riva del fiume che passino tutti i morti. Non
resta che ricordare il ruolo sempre più intenso anche dell’alter ego di
Ricciardi, il brigadiere Maione, con tutti i suoi tormenti, ma anche con
quell’amore gigante verso la moglie. Qua e là c’è anche Nelide, che sta
prendendo seriamente e caparbiamente il posto della povera Rosa. Il titolo,
infine, viene spiegato con capitoli in corsivo dedicati alla musica ed alla
storia della canzone “Palomma ‘e notte” di Salvatore Di Giacomo: essa fa
riferimento a un uomo che cerca di respingere una falena per evitare che arrivi
a bruciarsi con la fiamma della candela che la sta attirando, ma finisce col
bruciarsi lui stesso la mano. Lasciamo a chi è interessato i commenti ed i
rimandi del testo e del contesto. Io dico soltanto che, se la canzone ha un
significato per la trama del romanzo, sarebbe stato quanto meno indice di
serietà editoriale rivedere i riferimenti riportati in fondo al libro, dove le
pagine con il testo della canzone sono citate con riferimento ad una edizione
diversa, con pagine più grandi, e che quindi non servono a riferire nulla.
Infine, al solito, De Giovanni continua ad infarcire il testo con capitoli che
nulla aggiungono alla trama, anzi rischiano di farci perdere il ritmo del
testo. E sappiamo tutti che il ritmo è fondamentale. Ad esempio, avrei abolito
completamente il capitolo 46 a pagine 385 (il riferimento è corretto, ho
ricontrollato più volte). Insomma, Ricciardi non posso, non riesco a lasciarlo,
ma quanta strada s’è fatta dai tempi di Fandango…
“Nulla è insuperabile, con un po’ di buona
volontà. La felicità si conquista, non si può attenderla come se fosse dovuta.”
(331)
Maurizio De Giovanni “Serenata senza nome –
Notturno per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 14,50
[A: 21/08/2018 – I: 17/05/2019 – T: 18/05/2019]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 415; anno 2016]
Iniziamo
allora questa nuova puntata della saga napoletana degli anni Trenta da due
elementi distinti e collegati. Poiché nel titolo si parla di “Serenata”, poiché
spesso si canta nel testo, le canzoni sono un leit motiv cui vale la pena
spendere subito due parole. Una per ricollegarsi alle lamentele precedenti, che
un editor meno distratto avrebbe riesaminato ed aggiornato i riferimenti
inseriti nel finale. Al solito, fanno riferimento ad un’altra edizione.
Peccato! L’altra per ricordare due canzoni che, pur nella mia giovane età,
risuonavano in casa quando mio padre faceva la doccia. E che sono poi rimasti
nella mia testa, ritornelli svagati di un tempo che fu. Si tratta delle
bellissime “Come pioveva” cantata da Achille Togliani e “Parlami d’amore Mariù”
con la voce di Vittorio De Sica. Indimenticate le parole del primo, dove ogni
volta ripenso al mio primo amore (“Ed io pensavo ad un sogno lontano, / a una
stanzetta d’un ultimo piano, / quando d’inverno al mio cuor si stringeva. /
Come pioveva, come pioveva!”). scolpite nel mio cuore e dedicate a chi io so le
seconde (“Dimmi che illusione non è / Dimmi che sei tutta per me! / Qui sul tuo
cuor non soffro più”). Ma bando ai ricordi personali, e veniamo alla serenata
del testo, a quel motivo sottile, quella “Voce ‘e notte” che Vincenzo Sannino
cantava alla sua amata Cettina quando erano giovani e spensierati, prima della
Guerra (ovviamente la Grande). Ma Vincenzo è senza arte né parte, non trova
lavoro, e decide che l’unica soluzione è emigrare, per poi tornare, ricco e
felice, nella sua Napoli. Così va in America, così diventa Vinnie, così diventa
un pugile di fama mondiale. Sempre con l’idea di tornare, anche se a Napoli le
cose sono andate su altre pieghe. Colpito da un dolore insormontabile (uccide
un avversario), non si riprende più e torna. Ma trova Cettina sposata ad un
turpe usuraio, che si è appropriato dei beni di famiglia, del negozio di
tessuti, della vita di Cettina, del fratello di lei, del cugino. Torna, e
subito si cade nella brace del sospetto. Che pochi giorni dopo, anzi poche
notti dopo, Costantino Irace, il marito di Cettina, viene trovato morto,
ucciso, sembra, da una gragnola di colpi. Ed è ovvio che Vinnie è il primo
sospettato, che la Polizia fascista vuole incastrare anche perché, nonostante
le pressioni del Duce, non vuole più combattere sul ring. Sarà Ricciardi, anche
lui poco ben visto dal Regime, uscito, come abbiamo da poco visto, dall’accusa di
omosessualità, a trovare il bandolo della matassa. In mezzo a molti sospetti. Sarà
forse proprio Vinnie l’assassino del marito
della donna da lui amata? Sarà Nicola Martuscelli, il mediatore con cui Irace
aveva appuntamento al porto per concludere un grosso affare? Sarà il rivale
Merolla, un negozio più in là, da Irace ridotto al prossimo fallimento, forse
quello che ha il maggior movente? Sarà Jack Biasin il manager di Vinnie, per
aiutare l’amico? Sarà Michelangelo Taliercio, socio di Irace e fratello di
Cettina, stretto dalle morse dell’usuraio? Sarà l’avvocato Capone, cugino di
Cettina, da sempre innamorato di Cettina? Sarà Cettina stessa, non dimentica
dell’antico amore? Vi lascio scoprire con calma e pazienza (e qualche pagina di
troppo) i fili della trama, in questo che per i nostri eroi è un ottobre
piovoso e tetro (“così piangeva…”). E poi ci sono le altre trame, che sarebbe
riduttivo definire secondarie. C’è Bambinella e il suo amore per Gustavo
Donadio, detto ‘a Zoccola, messo in pericolo dai malavitosi del Rione e salvato
da una idea grandiosa del brigadiere Maione (nonostante l’epidemia influenza
che colpisce la sua famiglia). C’è il ricevimento grandiosa della marchesa
Bianca Bartoli, forse una nuova fiamma di Ricciardi 8° forse no, ma Bianca è
quella più simile, più vicina al momento al sentire del nostro commissario).
C’è il compito spionistico che l’agente Falco affida a Livia, compito che la
allontana, finalmente, da Ricciardi e l’avvicina al teutonico pretendente della
bella Enrica. Ci sono i piccoli cammei della nuova tata Nelide, della sua
cucina, e delle iniziative che, nell’ombra, sta preparando. Infine, ci sono i
preparativi per il compleanno di Enrica, momento in cui Manfred finalmente si
dichiarerà e che Enrica, con lo sgomento di tutti (meno che del padre e di
Ricciardi) rifiuterà. Guardando una finestra, pensando che illusione non è. non
ci facciamo mancare neanche la piccola macchietta del dottor Modo e del suo
cane. Dietro a tutti, però, c’è sempre lui, con i suoi tormenti, con le sue
indecisioni, con le sue paure. Tuttavia, De Giovanni sembra inserire qua e là
qualche barlume di speranza. Insomma, al solito, poco sugo nella storia
principale (anche se c’è molto fumo), tanta capacità di scrittura (e che si può
negare?), ma un prodotto che mantiene ancora una volta un profilo basso.
“Forse diamo per scontata una cosa finché
non la perdiamo.” (407)
Maurizio De Giovanni “Rondini d’inverno –
Sipario per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 14 (in realtà scontato a
10,50 euro)
[A: 25/11/2018 – I: 19/05/2019 – T: 22/05/2019]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 348; anno 2017]
Con
questo ulteriore libro, si conclude un altro “capitolo” delle storie del
commissario Ricciardi scritte da De Giovanni. Che il Nostro, come fosse un
Oulipo redivivo, si impone regole tutte sue, con la capacità di seguirle.
Queste “Rondini” chiude quella che potremmo chiamare “trilogia delle canzoni”.
Iniziata con “Palomma ‘ notte” che risuonava in “Anime di vetro”, continuata con
“Voce ‘e notte” contrappunto di “Serenata senza nome” e terminata qui, con
questa “Rundinella” il cui svolgere seguiamo in “Rondini d’inverno”. D’altra
parte, Napoli è (anche) musica, e non ci si poteva tirare indietro. I giorni
scorrono lenti nel calendario dei nostri eroi degli Anni Trenta, anche se qui,
ad esempio, gli inserti in corsivo sono di anni ed anni dopo, ed appartengono,
in ogni caso, a quasi un’altra storia. Siamo nei giorni post-natalizi, e si
respira la solita aria stanca di questi giorni. Per movimentarla, De Giovanni
decide di fare un mega “flash-back”, che comincia con un “Ho sparato al
commissario Ricciardi”. Cosa che ci mette subito in apprensione, visto che
nelle parole dell’autore la saga del Commissario sta andando scemando (alla fine,
dovrebbero uscire altri due libri, e poi basta), e stavamo già nervoselli se
l’uscita di scena (o termine della serie) fosse culminata con la morte del
commissario. Così non sarà (ancora), ma la sparatoria servirà (anche) a far
uscire alla luce qualche altro elemento, di novità e, almeno nel mio
immaginario, di serenità. Intanto, questa volta tra tanti rivoli e rivoletti,
le storie, come nei più navigati seriali, sono due. La minore la liquidiamo
subito, anche se impegnerà a lungo il brigadiere Maione. Che viene colpito, indirettamente,
il dottor Modo, che, pur nella sua scontrosità, aveva trovato rifugio sereno in
una bella prostituta, presentatasi ora in ospedale massacrata di botte.
Assisteremo ad una serie di pensieri del buon dottore, che ci lasciano sempre
freddini, e vedremo come questi ed il buon Raffaele risolveranno il caso, anche
se non riusciranno a salvare la bella Lola. Il mistero principale, invece, si
addensa su di una tragedia che avviene a teatro. Per l’esattezza allo Splendor,
un teatro di media risonanza, dove tutti gli spettatori dello spettacolo “Ah
l’amour”, attendono il numero finale, la sceneggiata di “Rundinella”, una
canzone popolarissima e piena di significati. La musica sarà suonata da Elia
Meloni e Aurelio Pittella, un giovane destinato a diventare qualcuno. Sul
palco, Michelangelo Gelmi e la sua bellissima ma soprattutto assai giovane
moglie, Fedora Marra. L’amico traditore, solo sul palco – come ci tiene a
specificare l’uomo che introduce il numero – Pio Romano, completa la scena. Il
dramma è che la pistola di Gelmi non è a salve come ci si aspettava, ed è una
pallottola vera quella che toglie la vita alla bella Fedora. Non ci sono dubbi
che a sparare sia il marito attore in declino. Ma fu lui a caricare la pistola?
Il commissario Ricciardi, che ha sempre un sesto senso, capisce che i conti non
tornano, che se è pur vero che la moglie lo aveva tradito, e che lui era uscito
scosso dal camerino della bella Fedora, addirittura in lacrime, non può essere
tutto così semplice come si prospetta. Quindi, dagli che ridagli, interroga,
guarda, scava. C’è la guardarobiera che non sembra proprio dire sempre la
verità. C’è il mandolinista Attilio, bravo, eclettico, ma che guarda troppo
spesso verso la morta Fedora. C’è Italia, l’amore di Attilio, ma anche figlia
della guardarobiera e di un invalido di guerra. Invalido perché si buttò
davanti a Gelmi e lo scoppio di una bomba l’ha ridotto di molto male. Ma
l’attore se n’è sempre disinteressato. Sarà che Attilio forse aveva una tresca
con Fedora? Se n’è accorto Michelangelo? Se n’è accorta Italia? Certo per Gelmi
sarebbe semplice fingere di aver sbagliato a caricare la pistola. Come
altrettanto sarebbe semplice per Italia, coperta dalla madre. Alla fine,
Ricciardi disvela l’enigma, basandosi anche sulle ultime parole, quelle del
Fatto, come lo chiama lui. A chi si è rivolta Fedora dicendo “Amore della mia
vita”? La scoperta del mistero porta a quel colpo di pistola che apre il libro.
Porta Ricciardi, malmesso, in ospedale. Porta Nelide a convincere Enrica ad
andarlo a trovare, mentre Livia e Bianca scivolano nell’ombra. Porta il nostro
commissario a chiedere al signor Colombo il permesso di frequentare la figlia.
Ed era ora, dopo dieci libri che ci fanno sospirare. Fortuna che almeno questa
volta hanno rivisto correttamente i riferimenti alle canzoni. Dove brilla uno
dei tanghi più belli che abbia mai sentito, e di cui ho parlato e commentato il
testo in un libro di Osvaldo Soriano, ed ho sentito, in Calle Florida a Baires,
in un CD di Carlos Gardel: “Caminito”. Bellissimo. Ma torniamo al testo, a De
Giovanni che si ostina a dilungarsi in parentesi a volte gratuite. Alla storia
del mandolinista in corsivo, che sembra coeva a quella di Ricciardi, ma che si
svolge in realtà decine di anni dopo (ma lo scopriremo solo nell’epilogo). Una
domanda finale: come mai, dopo il capitolo “Epilogo” c’è un capitolo “XL”?
Misteri dell’editing. Aspettiamo ora gli ultimi due (credo) romanzi con
Ricciardi, augurandoci che De Giovanni non ci dia qualche altra brutta sorpresa.
“Gli attori … erano persone particolari,
dagli strani processi mentali. La finzione, ripetuta giorno dopo giorno,
entrava loro nel sangue convincendoli che nella realtà le tragedie potessero
assumere gli stessi contorni che avevano sulla scena.” (53)
“Gli altri non se ne rendono conto, pensano
[che noi attori] siamo persone normali che fanno un mestiere particolare.
Invece è il contrario, siamo persone particolari che fanno un mestiere
normale.” (141)
Essendo, anche se già siamo quasi a fine mese,
solo alla seconda trama, i miei affezionati lettori sanno che li delizio con un
extra, questa volta dedicato ai libri lunghi, ma molto lunghi (anche se poi
dedicherò una puntata speciale ai libri lunghissimi).
Si
stanno precisando i contorni di questo autunno che avanza. I lavori volgono al
termine, anche se sempre nuove iniziative casarecce prendono piedi. Sperando che
la pioggia si circoscriva a pochi episodi, andiamo avanti costruendo,
costruendo e costruendo.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2019
Di libri lunghi ne ho letti
assai, e questi sono solo quelli giudicati meglio. Ma tornerò con quelli
veramente lunghi
SCORAGGIATI DALLE DIMENSIONI
CURA: Darci un taglio
Se siete scoraggiati dai libri
spessi come mattoni, vi negherete qualcuna delle più coinvolgenti letture che
l’uomo conosca. Per superare il blocco dividete il libro in sezioni, dalle
dimensioni più gestibili. Se si tratta di un libro con la copertina rigida,
mettetelo in posizione verticale e guardate giù: vedrete che le pagine sono
divise in un certo numero di «segnature», che vengono poi cucite insieme.
Leggete una segnatura per volta. Le pagine dei tascabili invece sono incollate
al dorso e possono essere affrontate con maggiore disinvoltura; vi servirà una
scorta di mollette per i panni per tenere insieme i fogli sparsi.
All’improvviso, il mattone si è trasformato in una dozzina di opuscoli - ognuno
delle dimensioni di un racconto lungo, e che quindi non intimidisce più. Non
fate troppo gli schizzinosi sui fogli sparsi, comunque. Una volta che li avete
letti, buttateli via. A noi piace l’idea di far volare allegramente le pagine,
una per una, fuori dal finestrino di un treno in corsa (anche se raccomandarvi
di imbrattare a quel modo la massicciata sarebbe da irresponsabili). In
entrambi i casi, il libro diventerà più esile mentre lo leggete, e così avrete
il sopravvento su di lui. E molto meglio avere una copia de “Il ragazzo
giusto”, che esista ormai solo nella vostra testa, di un’edizione intatta ma
destinata a essere usata come fermaporta.
I DIECI MIGLIORI LIBRI SPESSI
COME MATTONI
Saul
Bellow “Herzog”
Jaume
Cabré “Le voci del fiume”
Stefano
D’Arrigo “Horcynus Orca”
Umberto
Eco “Il nome della rosa”
Yukio
Mishima “Il mare della fertilità”
Elsa
Morante “La storia”
Thomas
Pynchon “L’arcobaleno della gravità”
Isaac
B. Singer “La famiglia Moskat”
Lev
Tolstoj “Guerra e pace”
David
Foster Wallace “Infinite Jest”
Bugiardino
Allora, sebbene compaia in molte
mie note, non ho mai letto D’Arrigo, mi sono sempre rifiutato, se non
costretto, di leggere Mishima, non ho ancora capito se mi piacciono i fratelli
Singer, e, soprattutto, è da molto poco che, per una serie di ragioni
personali, ho cominciato a leggere qualcosa di David Foster Wallace. Eco, Pynchon
e Tolstoj fanno parte della mia giovinezza, e quindi qui non ne parlo più.
Rimangono allora Bellow, Cabré, Morante, a cui aggiungerò in una prossima
puntata i “miei” romanzi lunghi.
Saul Bellow “Herzog” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 10 giugno 2012]
L’ultimo
libro cominciato nel 2011 e finito ora, quindi ancora con le informazioni
“vecchio stile” rispetto alle modifiche introdotte quest’anno. Anche se lo
meriterebbe di essere additato ad esempio, che ho impiegato circa 2 settimane,
e forse un po’ di più, per leggere questo libro, assolutamente,
incontrovertibilmente palloso. Volete soffrire? Volete vanificare tutto gli
sforzi di una buona lettura? Mettetevi Herzog sottobraccio, ed avrete questo ed
altro. Ora Saul Bellow è decisamente ebreo, e non nel modo “scanzonato” alla
Woody, ma in quello triste e pensoso dei classici ebrei americani. Era anche
(che è morto sei anni fa, a 90 anni), un letterato a tutto tondo, docente,
compilatore di enciclopedie, ed altri buoni elementi di cultura. E tutto questo
si riflette e pesantemente in questo libro che scrive sulla soglia dei 50 anni.
Ne fa, in un certo senso, una somma etero - biografica ed epigona. Cioè la
vicenda di Moses Herzog per molti versi ricalca alcuni passi della sua storia
(in effetti, Saul come Moses all’epoca è reduce da 2 divorzi, e dall’avere un
figlio ed una figlia dalle sue due divorziate mogli). E ricalca la sua storia
intellettuale. Herzog è un erudito che ha scritto un interessante ed acclamato
libro sul Romanticismo. E che cerca di rinverdirne i fasti. Quindi non ci vedo
nulla di strano che Bellow cerchi di esorcizzare i suoi problemi del momento
riversandoli nella scrittura. Ne esce però un librone di più di 400 pagine
illeggibili. Perché illeggibile? Perché Herzog è (vuol mostrare di essere) un
sapiente, è in crisi, ed allora scrive, pensa, mugugna, fa stupidaggini. Ma
cosa scrive? Scrive lettera a tutti, agli amici, alle ex-mogli, a personaggi
contemporanei (compreso il Presidente Americano), a personaggi del passato (soprattutto
a Nietzsche e Kierkegaard), ed anche alcune righe a Dio. E Bellow vuol far
vedere di essere un tuttologo, ed in queste lettere butta dentro tutta la sua (e
non è poca) cultura. Ed Herzog pensa, si arrovella di tutto, ricorda il padre
morto e i suoi contrasti. I contrasti con la famiglia. E con l’ultima moglie.
In un delirio quasi da psicopatico. Facendo stupidaggini, come girare con una
rivoltella carica, ed avere un incidente di macchina. Prende un treno, arriva
da alcuni amici, ma si sente insofferente, ed invece di presentarsi per la
cena, esce dalla finestra, e con l’aereo torna a casa. Cerca di sfuggire alla
bella Ramona, che però esalta il suo lato sessuale (anche se Bellow rimane
distante dagli abissi esaltati e depressivi di Philip Roth). Herzog sa anche
tutto, che portando allo zoo l’ultima figlia le spiega tutto di pesci e
tartarughe come se fosse uno zoologo di rango. Ed altre e continue amenità, in
tutti i suoi rapporti interpersonali. Ad ognuno parla come se fosse quello il
suo campo, come se fosse il più esperto di. Solo una cosa non gli riesce:
tenere in ordine le case in cui vive, riparare lampadine, aggiustare tubature
ed altre attività manuali (mi ricorda qualcosa…). Non che non sia in grado di
farle: è un tuttologo e se ci si mette riesce anche a dipingere di verde un
pianoforte. Magari ci mette un anno e ci rimette la salute. E dopo tutto questo
andare, girare, parlare, psicanalizzare, impazzire, si sdraia nella sua casa di
campagna e forse medita una calma per il suo futuro. Ma allora cosa c’è che non
va? Non va, cioè non mi va la presupponenza dello scrittore che vuol far vedere
quanto è bravo, talmente bravo che 10 anni dopo gli daranno anche un Nobel
dedicato alla sua “alta comprensione umana”. Tuttavia, non coinvolge. Una
cavalcata del genere, nel mondo e nella crisi di un uomo di mezz’età pieno di
problemi poteva indurre in un’identificazione, in un’empatia. Invece, ad ogni
lettera non vedo l’ora che finisca. Ad ogni incontro, mi aspetto un moto di
atteggiamento umano. E via e via. Nulla. Mai nulla. Avevo tuttavia deciso di
portarlo a termine, per capire, per vedere. Non so se ho capito, ma ho visto (e
lo sospettavo) che Bellow non mi piace. Ho letto con più scioltezza i
“Prolegomeni di ogni futura metafisica che si presenterà come scienza” di Kant!
Torniamo a letture più coinvolgenti, vi prego.
“Dunque, lei è un uomo sano – non ha più
vent’anni, ma è forte.” (21)
“Poteva anche pensarsi un moralista, ma la
forma dei seni in una donna aveva grande importanza per lui.” (24)
“Aveva un debole per gli intellettuali
pasticcioni con forti impulsi morali.” (39)
“La luce non viaggia a 300 mila km al
secondo solo per permetterci di vedere mentre ci pettiniamo.” (64)
“Spinoza: è dell’uomo desiderare che anche
gli altri gioiscano del bene di cui noi godiamo, non di costringere gli altri a
vivere secondo il nostro modo di pensare” (153)
“Una volta era un giovane stupidello, e …
adesso stava diventando un vecchio stupidello.” (232)
“Lui pensò … a come, invecchiando, era
diventato vano, terribilmente narcisistico, a come soffriva senza dignità.”
(243)
Jaume Cabré “Le voci del fiume” Beat euro 13 (in realtà, scontato a
11,70 euro)
[tramato il 1° novembre 2016]
Era
tra i libri consigliati dalle mie simpatiche dottoresse in libropatie, in
quanto “spesso come un mattone”. Di questa patologia ne parlerò a suo tempo.
Per ora mi resta il libro che ho letto con grande piacere, anche se, diciamolo,
non è una lettura facile. Non per la mole, tuttavia (anche se potete constatare
quante serate abbia impiegato per “digerirlo”). Ma per la particolare scrittura
di Cabré, che mescola passato e presente dell’azione con un cocktail che spesso
lascia disorientati. Si passa dall’uno all’altro tempo del romanzo sovente
senza alcuna soluzione di continuità. Si racconta un avvenimento del 1975, ad
esempio, e si scivola inavvertitamente a collegarlo con altre azioni
intrecciatesi trenta anni prima. Questo, spesso, mi ha confuso e spaesato.
Almeno fino a che non si decide di lasciarsi trasportare dalle acque del
Panamo, il fiume che scorre a valle della città di Torena, nel comprensorio di
Sort, circa duecento chilometri a nord di Barcellona, sulle prime pendici dei
Pirenei. Il fiume del titolo originale, che, essendo un fiume spagnolo e per di
più ignoto, è stato omesso dal titolo italiano (non sia mai che si riesca a
fare un’operazione filologicamente corretta). Cabré con questo suo volumone
prova a recuperare memorie antiche e ad imbastire una storia di quelle
“ottocentesche”, con amori, tradimenti, impegni politici, morti, comunisti,
franchisti, santi e monsignori. Ma come detto, non essendo uno scrittore alla
Jane Eyre, mescola il tutto sul piatto della sua scrittura. Devo dire, che,
alla fine, se si abbandona un po’ la resistenza alle novità, è anche piacevole
cullarsi con il rumore del fiume, e mettersi lì a seguire, anche, le onde della
memoria. Alla fine, è come un racconto del nonno intorno al camino. Che
comincia una storia, ne collega ad un’altra, poi ad un’altra, e poi, forse,
riprende il filo iniziale. Lasciando che la memoria di ognuno ricostruisca il
suo proprio senso alla vicenda. Di un grande parallelo, almeno inizialmente ed
intenzionalmente. Jordi e Tina sono da anni andati a vivere a Torena,
insegnanti nella stessa scuola. Laici, tendenzialmente agnostici, amanti del
multiculturalismo. Nelle pieghe del racconto iniziale, la loro vita è ad una
svolta. Tina si accorge di aver (probabilmente) un tumore al seno, scopre che Jordi
la tradisce, ed il figlio Arnau le rivela che ha deciso di entrare in
monastero. Il tutto mentre Tina stessa prepara, con le colleghe, una mostra sui
60 anni della scuola di Torena. Tra una foto e l’altra, scopre anche un
nascondiglio segreto in un’aula scolastica, dove è nascosto il diario di uno
dei primi maestri di Torena, Oriol Fontelles. Oriol che si era trasferito a
Torena con la moglie Rosa incinta. Oriol che insegna e dipinge. Oriol che viene
preso in mezzo dagli schiaccianti meccanismi delle piccole e meschine vendette,
personali e pubbliche, che venivano consumate in quegli anni bui. Perché Torena
è il regno dei Vilabrù, e quando si dice Vilabrù si dice Elisenda, il motore di
tutta la vicenda. Elisenda che durante la Guerra Civile ha visto giustiziare
dai Repubblicani il padre ed il fratello, ed ha giurato vendetta. Strumento
della vendetta Valentì Targa, sindaco di Torena e falangista della prima ora.
Che uccide ad uno ad uno gli autori dell’eccidio Vilabrù. Ma quando arriva
Oriol, Elisenda sente qualcosa cambiare. Nasce in lei un inspiegabile
sentimento verso questo timido maestro. Che Vicentì coinvolge nelle sue trame.
E per stanare uno degli ultimi “cattivi”, non esita a mentire al paese,
indicando Oriol come delatore, e non esita ad uccidere il figlio di Ventura.
Una morte che sconvolge Oriol. Una morte che allontana la sua Rosa incinta per
sempre da lui. Lui che trova sì l’amore in Elisenda, ma nello stesso tempo
inizia a fare il doppio gioco, aiutando i ribelli nella loro, purtroppo fallimentare,
guerra di liberazione. Fino a che, stritolato dai meccanismi della guerra
stessa, non viene scoperto dai falangisti, ed ucciso prima che Elisenda riesca
ad intervenire. La nostra decide allora che deve mettere su di un altare Oriol
ed il loro amore, inventandosi tutta una storia inverosimile di devozione al
Tabernacolo della Chiesa di Torena, ed al martirio di Oriol da parte dei
comunisti. Nello stesso tempo, riceve casualmente una telefonata da Barcellona
dove muore anche Rosa, lasciando solo il figlio di Oriol. Inserita nella
vendetta e nell’espiazione, allora, adotta il piccolo e lo cresce come suo. E
dopo la guerra, da spietata donna d’affari, prima estromette il marito (che
morirà presto d’infarto) poi continuerà ad accumulare montagne di denaro, con
l’unico scopo di corrompere tutto e tutti per la causa del “suo” Oriol. Che
verrà fatto Venerabile prima e Beato poi. In tutto questo si re-inserisce la
dimenticata Tina di cui sopra, quella che scopre il diario di Oriol, dove
questi descrive la vera storia della sua vita, del suo amore per Elisenda,
della sua lotta contro Valentì ed i falangisti. Tina cerca riscontri, trova
anche le testimonianze della vera morte di Oriol. Ma sarà sempre ostacolata da
Elisenda e dai suoi scagnozzi. Chi vincerà? La verità o il denaro? Qualcuno,
oltre a noi ostinati lettori, saprà la vera storia di un povero maestro preso
da ingranaggi più grandi di lui? Qualcuno capirà che nei momenti bui, non tutti
riescono ad essere degli eroi. Quanti compromessi furono fatti in quei
terribili venti anni, dal 1930 al 1950? E quanto se ne trascinò anche dopo?
Cabré fa una lunga denuncia, non salvando nessuno. Perché tutti sono stritolati
dal motore della storia. Non si salvano i cattivi puri come Valentì e compagni.
Non si salvano gli incerti come Oriol. Non si salva la dura Elisenda, il cui
unico sprazzo d’umanità fu proprio l’amore per Oriol. Non si salva Tina, anche
lei presa da meccanismi che non riesce a comprendere. Forse solo Jaume il
marmista coltiverà il ricordo di quello che fu, e sarà triste per sempre. Se mi
avete seguito fin qui, adesso andate a leggere il libro, dove tutte queste
carte che ho messo in fila sono mescolate e distribuite con ordine sparso,
eppure alla fine accattivante. È un libro doloroso, ma mi ha fatto pensare. E
vi pare poco?
Elsa Morante “La storia” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 22 luglio 2012]
Un libro denso, complicato (tanto
che sembra semplice, e questo è uno dei pregi della scrittura della Morante). E
pervaso, alla fine, di un assoluto pessimismo. I piccoli della terra saranno
sempre schiacciati: dai grandi, dai furbi, dai cattivi, ma soprattutto dalla
Storia, quella con la S maiuscola. Nelle seicento pagine del libro seguiamo la
storia di 6 anni della vita di Ida Ramundo, maestra calabrese trasferitasi a
Roma negli anni ’30. La capacità della Morante è quella di introdurre
personaggi, seguirli, farne digressioni, poi ritornare nel corso principale
delle cose. Poi gli stessi magari li ritroveremo più in là, in altre occasioni
e vicende. Ma avendoli ben dipinti, non abbiamo problemi a riconoscerli, ed a
non perderci nella folla delle cose che riempiono la vita di Ida e dei suoi
figli. Seguiamo così le vicende giovanili di Ida, la sua nascita da un’ebrea veneta,
il matrimonio con il marito, il trasferimento a Roma, la nascita del figlio
Nino, la giovinezza di Nino negli anni rombanti del fascismo. E poi la morte
del marito, il vivere sola con quel figlio che cresce nel quartiere di San
Lorenzo (ripercorrendo un po’ le strade della sua giovinezza romana), la paura
della solitudine, lo stupro subito da un soldato tedesco di passaggio (che
morirà in Africa poche pagine dopo), la nascita di Useppe. E poi la vita,
scandita anno per anno da bollettini di aggiornamento degli avvenimenti della
Storia, che servono da controcanto a quelli della storia che stiamo seguendo. E
quindi la partenza di Ninuzzo per il fronte interno, il bombardamento alleato
di San Lorenzo, con la morte del cane Blitz, la distruzione della casa di Ida,
il suo rifugiarsi in quel di Pietralata (allora quasi campagna). E passa l’8
settembre, facciamo la conoscenza dell’anarchico Carlo-Davide, il ritorno di
Nino passato con i partigiani. Tutti i personaggi del casone di Pietralata (con
la bella figura di Eppetondo, come Useppe chiama il vecchio Giuseppe secondo, e
la dura descrizione della sua morte per mano dei fascisti), i va e vieni di
Nino, le paure di Ida di essere riconosciuta come ebrea. Ma non lo sarà, e
riuscirà a tornare verso la città, finendo in quel di Testaccio (vero enclave
della giovinezza morantiana). Finisce la guerra, Nino dopo un po’ d’animo
ribelle, si dedica a traffici ai margini della legalità, insieme al suo nuovo
cane Bella. Cane che, quando Nino muore in un incidente d’auto, diventa il nume
tutelare di Useppe e di Ida. Ritroviamo Davide, che scopre le droghe e si
sucida lentamente (così come avrebbe voluto fare Elsa, senza riuscirci).
Troviamo le passeggiate romane di Useppe e Bella, fino a che Useppe non viene
colpito dal “grande male”, ed anche lui muore, con Ida che impazzirà dal dolore
e Bella che dovrà essere abbattuta perché non avrebbe più lasciato il
piccolino. Insomma, muoiono tutti! Ma seppur nella prima parte, nei primi
quattro anni di guerra, la descrizione e la parola si fanno forti e
coinvolgenti, tutte le ultime duecento pagine sono faticose. Piene di proclami
(velati o meno) contro il potere e le sue degenerazioni. Molto anarchiche così
come lo era Elsa (tra l’altro zia della Laura cinematografica). Si fa soprattutto
fatica a seguire lo sproloquio di cinquanta pagine che accompagna gli ultimi
gesti di Davide. Certo, bell’esercizio di stile, ma dal contenuto veramente
ingarbugliato. Di certo, in ogni caso, preferisco la sua scrittura a quella di
suo marito Moravia (di cui ho già parlato, e discretamente male). Sarà lunga e
lenta (tanto che ho faticato quasi tutto il mese di maggio per arrivare alla
fine), ma non ti abbandona, anche nei momenti più involuti. Ma alla fine tutto
questo pessimismo un po’ mi disturba, ed il giudizio mio personale e finale volge
più verso il basso. Sarà la vita, ma ogni tanto un sorriso, ci vuole, no?
“Era nata … sotto il segno del Capricorno, che inclina all’industria,
alle arti e alla profezia, ma anche, in certi casi, alla follia e alla
stoltezza.” (25)
Conclusioni
Sono d’accordo che siano lunghi,
non sono d’accordo che siano mattoni, né tanto meno che sia sufficiente
suddividerli in fascicoli per velocizzarne la lettura.
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