domenica 22 settembre 2019

Poca sufficienza per Ricciardi - 22 settembre 2019


Maurizio De Giovanni “In fondo al tuo cuore – Inferno per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 15 (in realtà scontato a 1,80 euro)
[A: 07/07/2017 – I: 09/05/2019 – T: 11/05/2019] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 518; anno 2014]
Ormai ben nota è la mia passione per la coppia Ricciardi-De Giovanni, sin dalle prime uscite pubblicate con delle bellissime copertine dalle edizioni Fandango. Con questa siamo arrivati alla settima puntata, sempre ben ambientata in una Napoli ricostruita alla perfezione. Una Napoli degli anni ’30, anzi qui siamo ancora più precisi, che la vicenda inizia il 14 luglio, dato che tutta la città si sta preparando alla festa per la Madonna del Carmine del 16 luglio. Non ci sono sorprese nell’impianto generale, popolato dai soliti personaggi che abbiamo imparato a conoscere, ed anche amare nei libri precedenti. Ricciardi in primis, bel commissario dagli occhi verdi, che non riesce ad uscir fuori dalla maledizione di sentire le ultime parole dei morti ammazzati. Cosa che lo aiuta di certo nelle indagini (a patto di saperle interpretare), ma che lo tormenta durante i suoi giri cittadini, dove ad ogni angolo incontra fantasmi che gli parlano. Qui assistiamo al passaggio di consegne tra la sua governante e nume della casa Rosa, ormai anziana, che, accorgendosi del possibile termine della sua vita, designa la nipote Nelide come sua sostituta. Nelide cilentana semi-analfabeta, seppur nella sua rozzezza (e scarsa bellezza) sarà in grado di prendere in pieno l’eredità di Rosa. Poi ci sono gli amori di Ricciardi: la bella Enrica, insegnante e mancina, cui il nostro non riesce a dichiararsi, e che, per mitigare il dolore di questo (forse) non corrisposto amore scappa per l’estate in quel di Ischia, e Livia, la donna dell’alta società, vicina alle alte gerarchie fasciste, anche lei innamorata ma sicuramente non corrisposta. Non possono mancare poi i due alter-ego che servono a Ricciardi per pensare durante le indagini: l’anatomo-patologo donnaiolo e poco fascista, e il brigadiere Maione, questa volta invischiato anche in problemi personali, dovuti ai pochi denari che entrano in una famiglia che cresce, tanto che la moglie Lucia accetta di nascosto lavori di sartoria, ma che lui invece immagina tradirlo con chissà chi. Su questo plot di relazioni standard, anche se in evoluzione, si innesta la vicenda gialla, o presupposta tale. La caduta da ventidue metri, dalla finestra dell’ufficio, del professor Tullio Iovine del Castello, direttore della cattedra di ginecologia al Policlinico della Regia Università di Napoli, con cui si apre il libro. Questo è solo l’inizio di una discesa verso gli inferi di tutte le vicende del romanzo. Iovine che dice (nel passaggio a fantasma registrato da Ricciardi), “Sisinella e l’amore”. Da dove parte l’indagine poliziesca. Chi è Sisinella? Perché ci sono due anelli di simile fattura ma di diversa grandezza? Mettendo in moto le solite indagini casa per casa, vediamo uscir fuori vediamo la fredda e calcolatrice vedova della vittima, il giovane malavitoso Peppino il Lupo, la passionale e ingenua Sisinella, il fedele orafo Coviello. Sarà quest’ultimo a fare un po’ di luce sulle finalità degli anelli. Sarà una gita ai piedi del Vesuvio a scoprire Sisinella e la sua vita. Sarà anche l’aiuto di Bambinella, il trans amico di Maione, ad instradare Ricciardi verso la soluzione. Ma come sappiamo, non è il giallo quello che interessa De Giovanni. È l’ambiente, è Napoli, sono i rapporti tra i vari personaggi, è la scrittura stessa quella che fa il libro. Laddove nel triangolo amoroso Ricciardi-Enrica-Livia, si inserisce il quarto lato: l’ufficiale tedesco Manfred, da Enrica incontrato ad Ischia e che di lei si prende. Suscitando nel nostro un duplice problema: gelosia e voglia di farsi da parte. Vedremo come si evolverà questo rettangolo amoroso. Laddove Ricciardi sta a lungo al capezzale di Rosa, per accompagnarla nella sua discesa verso l’altro. E tutti gli altri rivoli narrativi, dove anche io confesso di amare questa parte della sua scrittura, questa serializzazione della storia, questo seguire i personaggi nel corso giornaliero delle loro evoluzioni personali e di rapporti. Quello che sempre meno coinvolge, invece, sono i lunghi intarsi soggettivi, spesso fatti risaltare dai capitoli in corsivo. Che sono lunghi, un po’ pesanti, non sempre funzionali alla trama. Nonché alcune digressioni, queste però in italico, con dei ritornelli reiterati, spesso dedicati all’assunto del titolo. L’inferno, in questo caso. O la discesa verso. O i sentimenti “infernali” di Ricciardi verso Manfred, di Ricciardi verso Rosa, di Rosa nel suo delirio in punto di morte con la madre di Ricciardi. Sono parti che a me continuano a piacere sempre meno, ma dove invece De Giovanni sembra indulgere sempre più. Ripeto, e sono d’accordo, De Giovanni non è solo un giallista, ma un narratore che, partendo quindici anni fa da una piccola idea, nel tempo è riuscito a farla diventare una piccola gemma, che contorna, così come qui fa Coviello, di tante piccole luminose pietre preziose. Il risultato finale, pur sempre interessante, ora non è più all’altezza dei primi libri. Ma io continuerò a leggerne.
Maurizio De Giovanni “Anime di vetro – Falene per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 14,50 (in realtà scontato a 1,75 euro)
[A: 07/07/2017 – I: 12/05/2019 – T: 16/05/2019] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 441; anno 2015]
Come sa chi ha letto le precedenti storie, ci ritroviamo in un nuovo capitolo della vita e delle avventure di Luigi Ricciardi, Barone di Malomonte, commissario di polizia nella Napoli degli anni ’30. Devo subito dire che le storie di Ricciardi stanno calando di libro in libro. E solo il mio imperituro amore per il commissario fa sì che non precipitino oltre il non descrivibile. Non è che ci sia qualche elemento nuovo, ma le storie decollano poco. Ma soprattutto è il contorno, le vicende del rettangolo amoroso che nella mente dello scrittore dovrebbero tenere banco, ma che non riescono ad avvincere il mio io lettore. Certo, qui sembra che Ricciardi sia più uomo che commissario, anche se l’indagine pur atipica, c’è. Diciamo atipica, perché il caso con cui si deve cimentare è in effetti una storia che sembra già chiusa. Bianca Borgati dei marchesi di Zisa, contessa Palmieri di Roccaspina lo convince ad occuparsi di un caso di cui si sa praticamente tutto. Si tratta della morte dell’avvocato Ludovico Piro, in realtà usuraio, ucciso ben tre mesi prima. Dell’assassinio si autoaccusa il marito della Contessa, e la polizia non indaga e chiude le indagini. Ma Bianca non è convinta, nonostante le parole del marito Romualdo Palmieri, Conte di Roccaspina. Che non vuole neanche essere aiutato. Muovendosi con i soliti piedi di piombo, anzi con più piombo ancora, dato che l’indagine era stata svolta da altri poliziotti, Ricciardi si avvede che c’è qualcosa di poco chiaro. Quindi, pur nell’ombra, si indaga. Ricciardi non riuscirà, fino alla fine, a vincere le resistenze di Romualdo, ma riuscirà, con l’aiuto del fido Maione e della trans Bambinella, a delineare un quadro alternativo. Perché, se è vero che Romualdo è indebitato sino al collo con Piro (che tra l’altro ha comperato i debiti di gioco del conte), è anche vero che si delinea tra Romualdo e qualcun altro (o meglio altra) una storia d’amore. Una storia che l’usuraio, conosciutala, cerca di stroncare sul nascere. Una storia che consente al conte di fare un sacrificio, in effetti inutile ai fini della storia stessa, ma utile per far sì che la sua vita non finisca bruciata. Chi ha ucciso Piro non ne pagherà la colpa, ma questa è una storia diversa. Che su questo motivo, su questa falena (quella che uccide l’usuraio) si intrecciano altre storie, che cercano di allontanare “palommella” (cioè falena in dialetto) dal fuoco che la brucerà. C’è Bianca, figura dura e conseguente, diritta nella sua povertà, che a fatica riesce solo a consentire al suo grande amico, il conte Marangolo, di aiutarla. Ma solo perché il conte si sta avvicinando alla fine. Bianca ha una dignità estrema, cosa che non può non far breccia nella mente di Ricciardi. Poi c’è Livia, che, sempre più abbandonata, cerca in ogni modo di riconquistare il nostro, ma tra i due non c’è più feeling. Tanto che Livia, messa ben da parte, non trova altra scusa che accusare Ricciardi di omosessualità, cosa ben grave nel ventennio fascista. Sarà il conte Marangolo, che, scoperta l’accusa, fa in modo che una bugia di Bianca (che confessa un inventato adulterio con Ricciardi) salvi il commissario. C’è anche un’altra persona che si salva, perché il teutonico maggiore Manfred Kaspar von Brauchitsch, inviato di stanza a Napoli solo per fare la spia sugli armamenti navali degli italiani, viene bruscamente congedato da Enrica, dopo che, con fatica e con la mano sul cuore, il padre di lei la convince a seguire il proprio cuore (con buona pace di Susanna Tamaro). Tanto che (miracolo…) nelle ultime righe pare che il nostro commissario capisca che forse sarebbe meglio con qualche dubitativo fare qualcosa, invece di aspettare sulla riva del fiume che passino tutti i morti. Non resta che ricordare il ruolo sempre più intenso anche dell’alter ego di Ricciardi, il brigadiere Maione, con tutti i suoi tormenti, ma anche con quell’amore gigante verso la moglie. Qua e là c’è anche Nelide, che sta prendendo seriamente e caparbiamente il posto della povera Rosa. Il titolo, infine, viene spiegato con capitoli in corsivo dedicati alla musica ed alla storia della canzone “Palomma ‘e notte” di Salvatore Di Giacomo: essa fa riferimento a un uomo che cerca di respingere una falena per evitare che arrivi a bruciarsi con la fiamma della candela che la sta attirando, ma finisce col bruciarsi lui stesso la mano. Lasciamo a chi è interessato i commenti ed i rimandi del testo e del contesto. Io dico soltanto che, se la canzone ha un significato per la trama del romanzo, sarebbe stato quanto meno indice di serietà editoriale rivedere i riferimenti riportati in fondo al libro, dove le pagine con il testo della canzone sono citate con riferimento ad una edizione diversa, con pagine più grandi, e che quindi non servono a riferire nulla. Infine, al solito, De Giovanni continua ad infarcire il testo con capitoli che nulla aggiungono alla trama, anzi rischiano di farci perdere il ritmo del testo. E sappiamo tutti che il ritmo è fondamentale. Ad esempio, avrei abolito completamente il capitolo 46 a pagine 385 (il riferimento è corretto, ho ricontrollato più volte). Insomma, Ricciardi non posso, non riesco a lasciarlo, ma quanta strada s’è fatta dai tempi di Fandango…
“Nulla è insuperabile, con un po’ di buona volontà. La felicità si conquista, non si può attenderla come se fosse dovuta.” (331)
Maurizio De Giovanni “Serenata senza nome – Notturno per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 14,50
[A: 21/08/2018 – I: 17/05/2019 – T: 18/05/2019] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 415; anno 2016]
Iniziamo allora questa nuova puntata della saga napoletana degli anni Trenta da due elementi distinti e collegati. Poiché nel titolo si parla di “Serenata”, poiché spesso si canta nel testo, le canzoni sono un leit motiv cui vale la pena spendere subito due parole. Una per ricollegarsi alle lamentele precedenti, che un editor meno distratto avrebbe riesaminato ed aggiornato i riferimenti inseriti nel finale. Al solito, fanno riferimento ad un’altra edizione. Peccato! L’altra per ricordare due canzoni che, pur nella mia giovane età, risuonavano in casa quando mio padre faceva la doccia. E che sono poi rimasti nella mia testa, ritornelli svagati di un tempo che fu. Si tratta delle bellissime “Come pioveva” cantata da Achille Togliani e “Parlami d’amore Mariù” con la voce di Vittorio De Sica. Indimenticate le parole del primo, dove ogni volta ripenso al mio primo amore (“Ed io pensavo ad un sogno lontano, / a una stanzetta d’un ultimo piano, / quando d’inverno al mio cuor si stringeva. / Come pioveva, come pioveva!”). scolpite nel mio cuore e dedicate a chi io so le seconde (“Dimmi che illusione non è / Dimmi che sei tutta per me! / Qui sul tuo cuor non soffro più”). Ma bando ai ricordi personali, e veniamo alla serenata del testo, a quel motivo sottile, quella “Voce ‘e notte” che Vincenzo Sannino cantava alla sua amata Cettina quando erano giovani e spensierati, prima della Guerra (ovviamente la Grande). Ma Vincenzo è senza arte né parte, non trova lavoro, e decide che l’unica soluzione è emigrare, per poi tornare, ricco e felice, nella sua Napoli. Così va in America, così diventa Vinnie, così diventa un pugile di fama mondiale. Sempre con l’idea di tornare, anche se a Napoli le cose sono andate su altre pieghe. Colpito da un dolore insormontabile (uccide un avversario), non si riprende più e torna. Ma trova Cettina sposata ad un turpe usuraio, che si è appropriato dei beni di famiglia, del negozio di tessuti, della vita di Cettina, del fratello di lei, del cugino. Torna, e subito si cade nella brace del sospetto. Che pochi giorni dopo, anzi poche notti dopo, Costantino Irace, il marito di Cettina, viene trovato morto, ucciso, sembra, da una gragnola di colpi. Ed è ovvio che Vinnie è il primo sospettato, che la Polizia fascista vuole incastrare anche perché, nonostante le pressioni del Duce, non vuole più combattere sul ring. Sarà Ricciardi, anche lui poco ben visto dal Regime, uscito, come abbiamo da poco visto, dall’accusa di omosessualità, a trovare il bandolo della matassa. In mezzo a molti sospetti. Sarà forse proprio Vinnie  l’assassino del marito della donna da lui amata? Sarà Nicola Martuscelli, il mediatore con cui Irace aveva appuntamento al porto per concludere un grosso affare? Sarà il rivale Merolla, un negozio più in là, da Irace ridotto al prossimo fallimento, forse quello che ha il maggior movente? Sarà Jack Biasin il manager di Vinnie, per aiutare l’amico? Sarà Michelangelo Taliercio, socio di Irace e fratello di Cettina, stretto dalle morse dell’usuraio? Sarà l’avvocato Capone, cugino di Cettina, da sempre innamorato di Cettina? Sarà Cettina stessa, non dimentica dell’antico amore? Vi lascio scoprire con calma e pazienza (e qualche pagina di troppo) i fili della trama, in questo che per i nostri eroi è un ottobre piovoso e tetro (“così piangeva…”). E poi ci sono le altre trame, che sarebbe riduttivo definire secondarie. C’è Bambinella e il suo amore per Gustavo Donadio, detto ‘a Zoccola, messo in pericolo dai malavitosi del Rione e salvato da una idea grandiosa del brigadiere Maione (nonostante l’epidemia influenza che colpisce la sua famiglia). C’è il ricevimento grandiosa della marchesa Bianca Bartoli, forse una nuova fiamma di Ricciardi 8° forse no, ma Bianca è quella più simile, più vicina al momento al sentire del nostro commissario). C’è il compito spionistico che l’agente Falco affida a Livia, compito che la allontana, finalmente, da Ricciardi e l’avvicina al teutonico pretendente della bella Enrica. Ci sono i piccoli cammei della nuova tata Nelide, della sua cucina, e delle iniziative che, nell’ombra, sta preparando. Infine, ci sono i preparativi per il compleanno di Enrica, momento in cui Manfred finalmente si dichiarerà e che Enrica, con lo sgomento di tutti (meno che del padre e di Ricciardi) rifiuterà. Guardando una finestra, pensando che illusione non è. non ci facciamo mancare neanche la piccola macchietta del dottor Modo e del suo cane. Dietro a tutti, però, c’è sempre lui, con i suoi tormenti, con le sue indecisioni, con le sue paure. Tuttavia, De Giovanni sembra inserire qua e là qualche barlume di speranza. Insomma, al solito, poco sugo nella storia principale (anche se c’è molto fumo), tanta capacità di scrittura (e che si può negare?), ma un prodotto che mantiene ancora una volta un profilo basso.
“Forse diamo per scontata una cosa finché non la perdiamo.” (407)
Maurizio De Giovanni “Rondini d’inverno – Sipario per il commissario Ricciardi” Einaudi euro 14 (in realtà scontato a 10,50 euro)
[A: 25/11/2018 – I: 19/05/2019 – T: 22/05/2019] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 348; anno 2017]
Con questo ulteriore libro, si conclude un altro “capitolo” delle storie del commissario Ricciardi scritte da De Giovanni. Che il Nostro, come fosse un Oulipo redivivo, si impone regole tutte sue, con la capacità di seguirle. Queste “Rondini” chiude quella che potremmo chiamare “trilogia delle canzoni”. Iniziata con “Palomma ‘ notte” che risuonava in “Anime di vetro”, continuata con “Voce ‘e notte” contrappunto di “Serenata senza nome” e terminata qui, con questa “Rundinella” il cui svolgere seguiamo in “Rondini d’inverno”. D’altra parte, Napoli è (anche) musica, e non ci si poteva tirare indietro. I giorni scorrono lenti nel calendario dei nostri eroi degli Anni Trenta, anche se qui, ad esempio, gli inserti in corsivo sono di anni ed anni dopo, ed appartengono, in ogni caso, a quasi un’altra storia. Siamo nei giorni post-natalizi, e si respira la solita aria stanca di questi giorni. Per movimentarla, De Giovanni decide di fare un mega “flash-back”, che comincia con un “Ho sparato al commissario Ricciardi”. Cosa che ci mette subito in apprensione, visto che nelle parole dell’autore la saga del Commissario sta andando scemando (alla fine, dovrebbero uscire altri due libri, e poi basta), e stavamo già nervoselli se l’uscita di scena (o termine della serie) fosse culminata con la morte del commissario. Così non sarà (ancora), ma la sparatoria servirà (anche) a far uscire alla luce qualche altro elemento, di novità e, almeno nel mio immaginario, di serenità. Intanto, questa volta tra tanti rivoli e rivoletti, le storie, come nei più navigati seriali, sono due. La minore la liquidiamo subito, anche se impegnerà a lungo il brigadiere Maione. Che viene colpito, indirettamente, il dottor Modo, che, pur nella sua scontrosità, aveva trovato rifugio sereno in una bella prostituta, presentatasi ora in ospedale massacrata di botte. Assisteremo ad una serie di pensieri del buon dottore, che ci lasciano sempre freddini, e vedremo come questi ed il buon Raffaele risolveranno il caso, anche se non riusciranno a salvare la bella Lola. Il mistero principale, invece, si addensa su di una tragedia che avviene a teatro. Per l’esattezza allo Splendor, un teatro di media risonanza, dove tutti gli spettatori dello spettacolo “Ah l’amour”, attendono il numero finale, la sceneggiata di “Rundinella”, una canzone popolarissima e piena di significati. La musica sarà suonata da Elia Meloni e Aurelio Pittella, un giovane destinato a diventare qualcuno. Sul palco, Michelangelo Gelmi e la sua bellissima ma soprattutto assai giovane moglie, Fedora Marra. L’amico traditore, solo sul palco – come ci tiene a specificare l’uomo che introduce il numero – Pio Romano, completa la scena. Il dramma è che la pistola di Gelmi non è a salve come ci si aspettava, ed è una pallottola vera quella che toglie la vita alla bella Fedora. Non ci sono dubbi che a sparare sia il marito attore in declino. Ma fu lui a caricare la pistola? Il commissario Ricciardi, che ha sempre un sesto senso, capisce che i conti non tornano, che se è pur vero che la moglie lo aveva tradito, e che lui era uscito scosso dal camerino della bella Fedora, addirittura in lacrime, non può essere tutto così semplice come si prospetta. Quindi, dagli che ridagli, interroga, guarda, scava. C’è la guardarobiera che non sembra proprio dire sempre la verità. C’è il mandolinista Attilio, bravo, eclettico, ma che guarda troppo spesso verso la morta Fedora. C’è Italia, l’amore di Attilio, ma anche figlia della guardarobiera e di un invalido di guerra. Invalido perché si buttò davanti a Gelmi e lo scoppio di una bomba l’ha ridotto di molto male. Ma l’attore se n’è sempre disinteressato. Sarà che Attilio forse aveva una tresca con Fedora? Se n’è accorto Michelangelo? Se n’è accorta Italia? Certo per Gelmi sarebbe semplice fingere di aver sbagliato a caricare la pistola. Come altrettanto sarebbe semplice per Italia, coperta dalla madre. Alla fine, Ricciardi disvela l’enigma, basandosi anche sulle ultime parole, quelle del Fatto, come lo chiama lui. A chi si è rivolta Fedora dicendo “Amore della mia vita”? La scoperta del mistero porta a quel colpo di pistola che apre il libro. Porta Ricciardi, malmesso, in ospedale. Porta Nelide a convincere Enrica ad andarlo a trovare, mentre Livia e Bianca scivolano nell’ombra. Porta il nostro commissario a chiedere al signor Colombo il permesso di frequentare la figlia. Ed era ora, dopo dieci libri che ci fanno sospirare. Fortuna che almeno questa volta hanno rivisto correttamente i riferimenti alle canzoni. Dove brilla uno dei tanghi più belli che abbia mai sentito, e di cui ho parlato e commentato il testo in un libro di Osvaldo Soriano, ed ho sentito, in Calle Florida a Baires, in un CD di Carlos Gardel: “Caminito”. Bellissimo. Ma torniamo al testo, a De Giovanni che si ostina a dilungarsi in parentesi a volte gratuite. Alla storia del mandolinista in corsivo, che sembra coeva a quella di Ricciardi, ma che si svolge in realtà decine di anni dopo (ma lo scopriremo solo nell’epilogo). Una domanda finale: come mai, dopo il capitolo “Epilogo” c’è un capitolo “XL”? Misteri dell’editing. Aspettiamo ora gli ultimi due (credo) romanzi con Ricciardi, augurandoci che De Giovanni non ci dia qualche altra brutta sorpresa.
“Gli attori … erano persone particolari, dagli strani processi mentali. La finzione, ripetuta giorno dopo giorno, entrava loro nel sangue convincendoli che nella realtà le tragedie potessero assumere gli stessi contorni che avevano sulla scena.” (53)
“Gli altri non se ne rendono conto, pensano [che noi attori] siamo persone normali che fanno un mestiere particolare. Invece è il contrario, siamo persone particolari che fanno un mestiere normale.” (141)
Essendo, anche se già siamo quasi a fine mese, solo alla seconda trama, i miei affezionati lettori sanno che li delizio con un extra, questa volta dedicato ai libri lunghi, ma molto lunghi (anche se poi dedicherò una puntata speciale ai libri lunghissimi).
Si stanno precisando i contorni di questo autunno che avanza. I lavori volgono al termine, anche se sempre nuove iniziative casarecce prendono piedi. Sperando che la pioggia si circoscriva a pochi episodi, andiamo avanti costruendo, costruendo e costruendo. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE  2019
Di libri lunghi ne ho letti assai, e questi sono solo quelli giudicati meglio. Ma tornerò con quelli veramente lunghi
SCORAGGIATI DALLE DIMENSIONI
CURA: Darci un taglio
Se siete scoraggiati dai libri spessi come mattoni, vi negherete qualcuna delle più coinvolgenti letture che l’uomo conosca. Per superare il blocco dividete il libro in sezioni, dalle dimensioni più gestibili. Se si tratta di un libro con la copertina rigida, mettetelo in posizione verticale e guardate giù: vedrete che le pagine sono divise in un certo numero di «segnature», che vengono poi cucite insieme. Leggete una segnatura per volta. Le pagine dei tascabili invece sono incollate al dorso e possono essere affrontate con maggiore disinvoltura; vi servirà una scorta di mollette per i panni per tenere insieme i fogli sparsi. All’improvviso, il mattone si è trasformato in una dozzina di opuscoli - ognuno delle dimensioni di un racconto lungo, e che quindi non intimidisce più. Non fate troppo gli schizzinosi sui fogli sparsi, comunque. Una volta che li avete letti, buttateli via. A noi piace l’idea di far volare allegramente le pagine, una per una, fuori dal finestrino di un treno in corsa (anche se raccomandarvi di imbrattare a quel modo la massicciata sarebbe da irresponsabili). In entrambi i casi, il libro diventerà più esile mentre lo leggete, e così avrete il sopravvento su di lui. E molto meglio avere una copia de “Il ragazzo giusto”, che esista ormai solo nella vostra testa, di un’edizione intatta ma destinata a essere usata come fermaporta.
I DIECI MIGLIORI LIBRI SPESSI COME MATTONI
Saul Bellow              “Herzog”
Jaume Cabré            “Le voci del fiume”
Stefano D’Arrigo       “Horcynus Orca”
Umberto Eco            “Il nome della rosa”
Yukio Mishima          “Il mare della fertilità”
Elsa Morante            “La storia”
Thomas Pynchon       “L’arcobaleno della gravità”
Isaac B. Singer         “La famiglia Moskat”
Lev Tolstoj               “Guerra e pace”
David Foster Wallace “Infinite Jest”

Bugiardino

Allora, sebbene compaia in molte mie note, non ho mai letto D’Arrigo, mi sono sempre rifiutato, se non costretto, di leggere Mishima, non ho ancora capito se mi piacciono i fratelli Singer, e, soprattutto, è da molto poco che, per una serie di ragioni personali, ho cominciato a leggere qualcosa di David Foster Wallace. Eco, Pynchon e Tolstoj fanno parte della mia giovinezza, e quindi qui non ne parlo più. Rimangono allora Bellow, Cabré, Morante, a cui aggiungerò in una prossima puntata i “miei” romanzi lunghi.
Saul Bellow “Herzog” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 10 giugno 2012]
L’ultimo libro cominciato nel 2011 e finito ora, quindi ancora con le informazioni “vecchio stile” rispetto alle modifiche introdotte quest’anno. Anche se lo meriterebbe di essere additato ad esempio, che ho impiegato circa 2 settimane, e forse un po’ di più, per leggere questo libro, assolutamente, incontrovertibilmente palloso. Volete soffrire? Volete vanificare tutto gli sforzi di una buona lettura? Mettetevi Herzog sottobraccio, ed avrete questo ed altro. Ora Saul Bellow è decisamente ebreo, e non nel modo “scanzonato” alla Woody, ma in quello triste e pensoso dei classici ebrei americani. Era anche (che è morto sei anni fa, a 90 anni), un letterato a tutto tondo, docente, compilatore di enciclopedie, ed altri buoni elementi di cultura. E tutto questo si riflette e pesantemente in questo libro che scrive sulla soglia dei 50 anni. Ne fa, in un certo senso, una somma etero - biografica ed epigona. Cioè la vicenda di Moses Herzog per molti versi ricalca alcuni passi della sua storia (in effetti, Saul come Moses all’epoca è reduce da 2 divorzi, e dall’avere un figlio ed una figlia dalle sue due divorziate mogli). E ricalca la sua storia intellettuale. Herzog è un erudito che ha scritto un interessante ed acclamato libro sul Romanticismo. E che cerca di rinverdirne i fasti. Quindi non ci vedo nulla di strano che Bellow cerchi di esorcizzare i suoi problemi del momento riversandoli nella scrittura. Ne esce però un librone di più di 400 pagine illeggibili. Perché illeggibile? Perché Herzog è (vuol mostrare di essere) un sapiente, è in crisi, ed allora scrive, pensa, mugugna, fa stupidaggini. Ma cosa scrive? Scrive lettera a tutti, agli amici, alle ex-mogli, a personaggi contemporanei (compreso il Presidente Americano), a personaggi del passato (soprattutto a Nietzsche e Kierkegaard), ed anche alcune righe a Dio. E Bellow vuol far vedere di essere un tuttologo, ed in queste lettere butta dentro tutta la sua (e non è poca) cultura. Ed Herzog pensa, si arrovella di tutto, ricorda il padre morto e i suoi contrasti. I contrasti con la famiglia. E con l’ultima moglie. In un delirio quasi da psicopatico. Facendo stupidaggini, come girare con una rivoltella carica, ed avere un incidente di macchina. Prende un treno, arriva da alcuni amici, ma si sente insofferente, ed invece di presentarsi per la cena, esce dalla finestra, e con l’aereo torna a casa. Cerca di sfuggire alla bella Ramona, che però esalta il suo lato sessuale (anche se Bellow rimane distante dagli abissi esaltati e depressivi di Philip Roth). Herzog sa anche tutto, che portando allo zoo l’ultima figlia le spiega tutto di pesci e tartarughe come se fosse uno zoologo di rango. Ed altre e continue amenità, in tutti i suoi rapporti interpersonali. Ad ognuno parla come se fosse quello il suo campo, come se fosse il più esperto di. Solo una cosa non gli riesce: tenere in ordine le case in cui vive, riparare lampadine, aggiustare tubature ed altre attività manuali (mi ricorda qualcosa…). Non che non sia in grado di farle: è un tuttologo e se ci si mette riesce anche a dipingere di verde un pianoforte. Magari ci mette un anno e ci rimette la salute. E dopo tutto questo andare, girare, parlare, psicanalizzare, impazzire, si sdraia nella sua casa di campagna e forse medita una calma per il suo futuro. Ma allora cosa c’è che non va? Non va, cioè non mi va la presupponenza dello scrittore che vuol far vedere quanto è bravo, talmente bravo che 10 anni dopo gli daranno anche un Nobel dedicato alla sua “alta comprensione umana”. Tuttavia, non coinvolge. Una cavalcata del genere, nel mondo e nella crisi di un uomo di mezz’età pieno di problemi poteva indurre in un’identificazione, in un’empatia. Invece, ad ogni lettera non vedo l’ora che finisca. Ad ogni incontro, mi aspetto un moto di atteggiamento umano. E via e via. Nulla. Mai nulla. Avevo tuttavia deciso di portarlo a termine, per capire, per vedere. Non so se ho capito, ma ho visto (e lo sospettavo) che Bellow non mi piace. Ho letto con più scioltezza i “Prolegomeni di ogni futura metafisica che si presenterà come scienza” di Kant! Torniamo a letture più coinvolgenti, vi prego.
“Dunque, lei è un uomo sano – non ha più vent’anni, ma è forte.” (21)
“Poteva anche pensarsi un moralista, ma la forma dei seni in una donna aveva grande importanza per lui.” (24)
“Aveva un debole per gli intellettuali pasticcioni con forti impulsi morali.” (39)
“La luce non viaggia a 300 mila km al secondo solo per permetterci di vedere mentre ci pettiniamo.” (64)
“Spinoza: è dell’uomo desiderare che anche gli altri gioiscano del bene di cui noi godiamo, non di costringere gli altri a vivere secondo il nostro modo di pensare” (153)
“Una volta era un giovane stupidello, e … adesso stava diventando un vecchio stupidello.” (232)
“Lui pensò … a come, invecchiando, era diventato vano, terribilmente narcisistico, a come soffriva senza dignità.” (243)
Jaume Cabré “Le voci del fiume” Beat euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)
[tramato il 1° novembre 2016]
Era tra i libri consigliati dalle mie simpatiche dottoresse in libropatie, in quanto “spesso come un mattone”. Di questa patologia ne parlerò a suo tempo. Per ora mi resta il libro che ho letto con grande piacere, anche se, diciamolo, non è una lettura facile. Non per la mole, tuttavia (anche se potete constatare quante serate abbia impiegato per “digerirlo”). Ma per la particolare scrittura di Cabré, che mescola passato e presente dell’azione con un cocktail che spesso lascia disorientati. Si passa dall’uno all’altro tempo del romanzo sovente senza alcuna soluzione di continuità. Si racconta un avvenimento del 1975, ad esempio, e si scivola inavvertitamente a collegarlo con altre azioni intrecciatesi trenta anni prima. Questo, spesso, mi ha confuso e spaesato. Almeno fino a che non si decide di lasciarsi trasportare dalle acque del Panamo, il fiume che scorre a valle della città di Torena, nel comprensorio di Sort, circa duecento chilometri a nord di Barcellona, sulle prime pendici dei Pirenei. Il fiume del titolo originale, che, essendo un fiume spagnolo e per di più ignoto, è stato omesso dal titolo italiano (non sia mai che si riesca a fare un’operazione filologicamente corretta). Cabré con questo suo volumone prova a recuperare memorie antiche e ad imbastire una storia di quelle “ottocentesche”, con amori, tradimenti, impegni politici, morti, comunisti, franchisti, santi e monsignori. Ma come detto, non essendo uno scrittore alla Jane Eyre, mescola il tutto sul piatto della sua scrittura. Devo dire, che, alla fine, se si abbandona un po’ la resistenza alle novità, è anche piacevole cullarsi con il rumore del fiume, e mettersi lì a seguire, anche, le onde della memoria. Alla fine, è come un racconto del nonno intorno al camino. Che comincia una storia, ne collega ad un’altra, poi ad un’altra, e poi, forse, riprende il filo iniziale. Lasciando che la memoria di ognuno ricostruisca il suo proprio senso alla vicenda. Di un grande parallelo, almeno inizialmente ed intenzionalmente. Jordi e Tina sono da anni andati a vivere a Torena, insegnanti nella stessa scuola. Laici, tendenzialmente agnostici, amanti del multiculturalismo. Nelle pieghe del racconto iniziale, la loro vita è ad una svolta. Tina si accorge di aver (probabilmente) un tumore al seno, scopre che Jordi la tradisce, ed il figlio Arnau le rivela che ha deciso di entrare in monastero. Il tutto mentre Tina stessa prepara, con le colleghe, una mostra sui 60 anni della scuola di Torena. Tra una foto e l’altra, scopre anche un nascondiglio segreto in un’aula scolastica, dove è nascosto il diario di uno dei primi maestri di Torena, Oriol Fontelles. Oriol che si era trasferito a Torena con la moglie Rosa incinta. Oriol che insegna e dipinge. Oriol che viene preso in mezzo dagli schiaccianti meccanismi delle piccole e meschine vendette, personali e pubbliche, che venivano consumate in quegli anni bui. Perché Torena è il regno dei Vilabrù, e quando si dice Vilabrù si dice Elisenda, il motore di tutta la vicenda. Elisenda che durante la Guerra Civile ha visto giustiziare dai Repubblicani il padre ed il fratello, ed ha giurato vendetta. Strumento della vendetta Valentì Targa, sindaco di Torena e falangista della prima ora. Che uccide ad uno ad uno gli autori dell’eccidio Vilabrù. Ma quando arriva Oriol, Elisenda sente qualcosa cambiare. Nasce in lei un inspiegabile sentimento verso questo timido maestro. Che Vicentì coinvolge nelle sue trame. E per stanare uno degli ultimi “cattivi”, non esita a mentire al paese, indicando Oriol come delatore, e non esita ad uccidere il figlio di Ventura. Una morte che sconvolge Oriol. Una morte che allontana la sua Rosa incinta per sempre da lui. Lui che trova sì l’amore in Elisenda, ma nello stesso tempo inizia a fare il doppio gioco, aiutando i ribelli nella loro, purtroppo fallimentare, guerra di liberazione. Fino a che, stritolato dai meccanismi della guerra stessa, non viene scoperto dai falangisti, ed ucciso prima che Elisenda riesca ad intervenire. La nostra decide allora che deve mettere su di un altare Oriol ed il loro amore, inventandosi tutta una storia inverosimile di devozione al Tabernacolo della Chiesa di Torena, ed al martirio di Oriol da parte dei comunisti. Nello stesso tempo, riceve casualmente una telefonata da Barcellona dove muore anche Rosa, lasciando solo il figlio di Oriol. Inserita nella vendetta e nell’espiazione, allora, adotta il piccolo e lo cresce come suo. E dopo la guerra, da spietata donna d’affari, prima estromette il marito (che morirà presto d’infarto) poi continuerà ad accumulare montagne di denaro, con l’unico scopo di corrompere tutto e tutti per la causa del “suo” Oriol. Che verrà fatto Venerabile prima e Beato poi. In tutto questo si re-inserisce la dimenticata Tina di cui sopra, quella che scopre il diario di Oriol, dove questi descrive la vera storia della sua vita, del suo amore per Elisenda, della sua lotta contro Valentì ed i falangisti. Tina cerca riscontri, trova anche le testimonianze della vera morte di Oriol. Ma sarà sempre ostacolata da Elisenda e dai suoi scagnozzi. Chi vincerà? La verità o il denaro? Qualcuno, oltre a noi ostinati lettori, saprà la vera storia di un povero maestro preso da ingranaggi più grandi di lui? Qualcuno capirà che nei momenti bui, non tutti riescono ad essere degli eroi. Quanti compromessi furono fatti in quei terribili venti anni, dal 1930 al 1950? E quanto se ne trascinò anche dopo? Cabré fa una lunga denuncia, non salvando nessuno. Perché tutti sono stritolati dal motore della storia. Non si salvano i cattivi puri come Valentì e compagni. Non si salvano gli incerti come Oriol. Non si salva la dura Elisenda, il cui unico sprazzo d’umanità fu proprio l’amore per Oriol. Non si salva Tina, anche lei presa da meccanismi che non riesce a comprendere. Forse solo Jaume il marmista coltiverà il ricordo di quello che fu, e sarà triste per sempre. Se mi avete seguito fin qui, adesso andate a leggere il libro, dove tutte queste carte che ho messo in fila sono mescolate e distribuite con ordine sparso, eppure alla fine accattivante. È un libro doloroso, ma mi ha fatto pensare. E vi pare poco?
Elsa Morante “La storia” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 22 luglio 2012]
Un libro denso, complicato (tanto che sembra semplice, e questo è uno dei pregi della scrittura della Morante). E pervaso, alla fine, di un assoluto pessimismo. I piccoli della terra saranno sempre schiacciati: dai grandi, dai furbi, dai cattivi, ma soprattutto dalla Storia, quella con la S maiuscola. Nelle seicento pagine del libro seguiamo la storia di 6 anni della vita di Ida Ramundo, maestra calabrese trasferitasi a Roma negli anni ’30. La capacità della Morante è quella di introdurre personaggi, seguirli, farne digressioni, poi ritornare nel corso principale delle cose. Poi gli stessi magari li ritroveremo più in là, in altre occasioni e vicende. Ma avendoli ben dipinti, non abbiamo problemi a riconoscerli, ed a non perderci nella folla delle cose che riempiono la vita di Ida e dei suoi figli. Seguiamo così le vicende giovanili di Ida, la sua nascita da un’ebrea veneta, il matrimonio con il marito, il trasferimento a Roma, la nascita del figlio Nino, la giovinezza di Nino negli anni rombanti del fascismo. E poi la morte del marito, il vivere sola con quel figlio che cresce nel quartiere di San Lorenzo (ripercorrendo un po’ le strade della sua giovinezza romana), la paura della solitudine, lo stupro subito da un soldato tedesco di passaggio (che morirà in Africa poche pagine dopo), la nascita di Useppe. E poi la vita, scandita anno per anno da bollettini di aggiornamento degli avvenimenti della Storia, che servono da controcanto a quelli della storia che stiamo seguendo. E quindi la partenza di Ninuzzo per il fronte interno, il bombardamento alleato di San Lorenzo, con la morte del cane Blitz, la distruzione della casa di Ida, il suo rifugiarsi in quel di Pietralata (allora quasi campagna). E passa l’8 settembre, facciamo la conoscenza dell’anarchico Carlo-Davide, il ritorno di Nino passato con i partigiani. Tutti i personaggi del casone di Pietralata (con la bella figura di Eppetondo, come Useppe chiama il vecchio Giuseppe secondo, e la dura descrizione della sua morte per mano dei fascisti), i va e vieni di Nino, le paure di Ida di essere riconosciuta come ebrea. Ma non lo sarà, e riuscirà a tornare verso la città, finendo in quel di Testaccio (vero enclave della giovinezza morantiana). Finisce la guerra, Nino dopo un po’ d’animo ribelle, si dedica a traffici ai margini della legalità, insieme al suo nuovo cane Bella. Cane che, quando Nino muore in un incidente d’auto, diventa il nume tutelare di Useppe e di Ida. Ritroviamo Davide, che scopre le droghe e si sucida lentamente (così come avrebbe voluto fare Elsa, senza riuscirci). Troviamo le passeggiate romane di Useppe e Bella, fino a che Useppe non viene colpito dal “grande male”, ed anche lui muore, con Ida che impazzirà dal dolore e Bella che dovrà essere abbattuta perché non avrebbe più lasciato il piccolino. Insomma, muoiono tutti! Ma seppur nella prima parte, nei primi quattro anni di guerra, la descrizione e la parola si fanno forti e coinvolgenti, tutte le ultime duecento pagine sono faticose. Piene di proclami (velati o meno) contro il potere e le sue degenerazioni. Molto anarchiche così come lo era Elsa (tra l’altro zia della Laura cinematografica). Si fa soprattutto fatica a seguire lo sproloquio di cinquanta pagine che accompagna gli ultimi gesti di Davide. Certo, bell’esercizio di stile, ma dal contenuto veramente ingarbugliato. Di certo, in ogni caso, preferisco la sua scrittura a quella di suo marito Moravia (di cui ho già parlato, e discretamente male). Sarà lunga e lenta (tanto che ho faticato quasi tutto il mese di maggio per arrivare alla fine), ma non ti abbandona, anche nei momenti più involuti. Ma alla fine tutto questo pessimismo un po’ mi disturba, ed il giudizio mio personale e finale volge più verso il basso. Sarà la vita, ma ogni tanto un sorriso, ci vuole, no?
“Era nata … sotto il segno del Capricorno, che inclina all’industria, alle arti e alla profezia, ma anche, in certi casi, alla follia e alla stoltezza.” (25)

Conclusioni

Sono d’accordo che siano lunghi, non sono d’accordo che siano mattoni, né tanto meno che sia sufficiente suddividerli in fascicoli per velocizzarne la lettura. 

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