Martin Amis “La casa degli incontri” Repubblica Duemila 35 euro 9,90
Martin Amis “La casa degli incontri” Einaudi s.p. (vedi la trama)
[A: 18/09/2017 – I:
22/03/2020 – T: 25/03/2020] - &
[tit. or.: House of
Meeting; ling. or.: inglese; pagine: 220; anno 2006]
Incominciamo con spiegare il “finto” mistero della doppia indicazione.
Nell'agosto del ’19 avevo cominciato a leggere il libro, e lo avevo portato nel
nostro viaggio irlandese. Per una sbadataggine, a me insolita, è rimasto nel B&B
di Sligo. Tornato in Italia ho cercato di ritrovarlo, ma l'editore, dopo due
anni, lo aveva mandato al macero. Tuttavia, dopo lunghe ricerche, sono riuscito
a procurarmene una copia integra, seppur di Einaudi, presso “Il corbaccio”. Ed
è questa che ora ho letto e di cui parlo.
Avevo sempre avuto in mente la famiglia Amis principalmente per il
padre Kingsley e la matrigna Elizabeth Jane Howard. Ma soprattutto del padre
avevo letto e apprezzato i saggi sulla fantascienza, in particolare quello per
me basilare in gioventù sulla definizione delle nuove vie della science-fiction
(“Nuove mappe dell’inferno”). Di Martin invece non avevo letto nulla. Devo dire
che questo primo incontro non è che mi ha dato particolare soddisfazione. L'ho
trovato a volte insopportabile ed a volte illeggibile, con la sua pretesa di
scrivere da russo in soggettiva come internato in un gulag sovietico. Capisco
le due immedesimazioni che l'autore faceva: una con l’esule Nabokov, uno dei
suoi numi tutelari, l'altra con il suo esilio volontario in Uruguay, dopo le
scarse considerazioni ricevute in patria dagli ultimi suoi scritti. Ma questo
non fa di lui un russo, e la visione che dà della parabola sovietica dal 1945
al 2004 è una visione molto occidentale. Certo, Amis confessa di aver letto
molto sulla Russia e sui gulag, e, ciò nonostante, non riesce a darmi la
sensazione di un russo che parla in soggettiva. Ma, come è ovvio, di un
occidentale che tenta di interpretare il mondo sovietico con i suoi occhiali
dell'Ovest.
La storia è un lungo memoir di questo ex-soldato dell'Armata Rossa,
partecipe alla Seconda Guerra Mondiale, violento e stupratore (durante la
guerra). Internato per qualche motivo politico (non chiarissimo) quando da poco
aveva avuto un primo approccio con quella che sarà sempre il faro sessuale
della sua vita, Zoya. Nel campo, collocato oltre il 69° parallelo nord, oltre
la città di Murmansk (quella dove in inverno ci sono 40 giorni in cui non sorge
mai il sole), lo raggiunge il fratellastro minore Lev. E tutto il libro, che
poi sarebbe una specie di lunga lettera dell’autore alla nipote Venus che vive
in America, è incentrato sul rapporto di amore-odio tra i due. Lev, al
contrario del narratore, è brutto, e per di più pacifista. Così che riesce a
sopravvivere nel gulag solo per la protezione del fratello maggiore. Assistiamo
a tutta una serie di capitoli dedicati alla descrizione della vita nel gulag,
al rapporto tra i condannati, e tra questi ed i secondini. Ma è veramente una
sequela di parole che poco prendono. Condite da due fatti epocali: la
confessione, ad un certo punto, di Lev che dice non solo di amare anche lui
Zoya, ma di averla sposata, e la successione dei fatti russi, di cui lì in
Siberia si hanno solo echi lontani. Certo, molto si allenta alla morte di Stalin.
E molto cambia dopo il discorso di Kruscev del ’56. Lev ed il fratello sono
liberati. Lui torna a Mosca. Lev torna con Zoya. E poi Lev divorzia, Zoya sposa
un vecchio letterato passato indenne in tutte le purghe dagli anni Trenta in
poi. Lev si risposa, ha un figlio che morirà in Afghanistan. Fino a che Lev
stesso morirà. Mentre il narratore troverà il modo di fuggire in America dopo
la caduta del Muro. Cercherà di convincere Zoya a venire con lui, senza
successo. Poi, ed è qui che inizia e si chiude il romanzo, torna ottantenne lì
dove era il gulag, facendo quasi un percorso che ricalca idealmente quello dei
campi di sterminio di Carlo Levi. E lì finalmente riesce a leggere la lettera
del fratello che gli descrive il momento saliente della sua (di Lev) vita nel
gulag. La visita, dopo anni di richieste, di Zoya, e la loro riunione nella
“Casa degli Incontri” (quella del titolo), dove marito e moglie potevano avere,
una tantum, un incontro, ed una giornata tutta per loro, con tanto di cibo e
sesso. Ci sarà un interessante finale, che tralascio, ma che non mi ha
risollevato le sorti dello scritto.
Certo, anzi molto probabile, che tutta una serie di passaggi siano
anche paradigmi di avvenimenti altri, messaggi criptati che l'autore lancia
sulla carta e che qualcuno più aduso di me sia alle cose russe che a quelle
inglesi, probabilmente riuscirà a decifrare. Io annoto solo la noia di una
neppur tanto lunga lettura, giustificata solo dalla mia tenace a leggere tutto
quello che è presente nella mia libreria, ed a passare il tempo in questi
giorni di segregazione forzata, indotta da questo malanno epocale che ci sta
affliggendo. Ma ce la faremo: ad uscirne ed a leggere altro.
“Più eri intelligente, più eri candidato alla depressione.” (141)
“Questa cosa, al pari di tutte le altre, non è ciò che sembra; l'unica
certezza è che è peggio di come sembra.” (176)
Nicolai Lilin “Educazione siberiana” Repubblica Duemila 37 euro 9,90
[A: 02/10/2017 – I: 29/03/2020 – T: 31/03/2020] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 412; anno 2009]
Un romanzo interessante scritto da un autore complesso e controverso.
Un moldavo che una quindicina di anni fa si trasferisce dalla natia Tansnistria
nel Nord Italia, dove continua a fare il tatuatore, mestiere a lui congeniale
fin dalla gioventù. E dove concepisce questo libro per raccontare quella che
dovrebbe essere la sua infanzia. Ora, ricercatore più bravi e conoscitori di me
delle cose russe, dicono che come autobiografia è improbabile, tra l'altro,
citando avvenimenti e fatti diversi che sembrano storicamente non verificati.
Ma lo scritto io l'ho letto anche come una trasposizione della realtà come
poteva essere in quel tempo ed in quei luoghi. Da questo punto di vista, mi è
risultata una lettura interessante e con alcuni spunti degni di nota. Che poi
l'autore sia stato davvero un cecchino in Cecenia, un agente segreto in Iran
per poi, ora, vivere in Italia è un dettaglio. Lilin (pseudonimo derivato dal
nome della madre Lilia, piuttosto che dall’impronunciabile cognome
Verzhbitskiy) decide poi di scrivere i suoi testi (questo ed altri sei o sette
libri) in italiano e di bloccare le traduzioni dei suoi libri in russo (forse
per evitare confutazioni o altri motivi di cui poco ci interessa indagare i
motivi).
Il romanzo, comunque, autobiografico o meno, ci immerge nella vita di
una comunità che vive con regole proprie: quella dei “criminali onesti”,
secondo la definizione dello stesso Nicolai. Criminali che hanno un loro codice
di comportamento, che osteggiano l’autorità costituita, siano essi poliziotti
che russi invasori. Che si rapportano in modo variegato con le altre comunità
criminali stanziali nella città natia di Bender. Nicolai (anche indicato con il
diminutivo di Kolima) nasce lì da una famiglia siberiana, lì rifugiatasi
durante le persecuzioni sovietiche degli anni Trenta. Anzi, è tutta una
comunità di siberiani che si installano nella regione, cuscinetto tra la
Moldavia e l'Ucraina. Quindi, benché di nazionalità moldava, l’educazione che riceve
il nostro, è, come dal titolo, siberiana. Cioè, a parte le attività criminali,
rispetto religioso delle icone ortodosse, rapporti familiari caratterizzati da
una obbedienza cieca ai maggiorenni ed agli anziani, soprattutto a quelli
indicati con il termine di “nonno” e di “zio”, che non sono qualifiche
parentali, ma appellativi di rispetto. C'è tutto un rituale nei rapporti umani
tra le persone della comunità che viene descritto con interesse: rispetto delle
persone in difficoltà (mentale o fisica), aiuto reciproco con chi agisce in
nome della comunità (e che poi non riesce a sostentare sé stesso), rispetto
anche delle donne della comunità stessa (non delle altre che possono anche
essere usate come gingilli sessuali). La parte più intrigante è la descrizione
di due caratteristiche peculiari dei siberiani locali: l'uso delle armi e l'uso
dei tatuaggi. Lilin mostra un gran rispetto per le armi, in particolare per il
primo pugnale ricevuto da uno “zio”, e poi dalla prima pistola ricevuta in dono
da un “nonno”. Le armi che vanno deposte quando si entra in una casa siberiana,
accanto alle icone sacre. Ma che vengono usate e spesso nei confronti delle
altre comunità. Ancora più interessante è l'uso dei tatuaggi. Che (e questo è
proprio di molte comunità in giro per il mondo, tipo maori o altro) servono a
raccontare sé stessi, la propria vita, i propri credi. Non sono mai dei disegni
fini a sé stessi, né vengono posti casualmente nel proprio corpo, ma ne seguono
un iter ben preciso. Tanto che lo stesso Lilin, abile nel disegno, diventa un
tatuatore provetto, e che ora, in Italia, ha un proprio atelier di tatuaggi.
Nella scorribanda della vita di Nicolai, quindi, lo seguiamo da dodicenne che
cerca di carpire i segreti degli anziani, sia sui tatuaggi che sulle regole di
vita. Fino ai diciotto anni, quando sarà costretto ad arruolarsi nell’esercito.
Vediamo Nicolai andare in giro con i suoi coetanei, essere coinvolto in risse,
fughe ed altre “amenità” (consegnare messaggi, portare omaggi, salutare parenti
in modo formale, ed altre attività quotidiane). Sino al lungo capitolo in cui,
infarcito di altre storie, ci porta alla ricerca degli autori dello stupro ad
una ragazza autistica della comunità siberiana, con tutte le scaramucce per
trovare i colpevoli, fino alla loro esecuzione brutale.
L’ho trovato, tutto sommato, un libro interessante, anche se, per
apprezzarlo, bisogna fare un bagno di irrealtà: solo così si può percepire come
positivo il modo di vivere dei giovani siberiani. Certo, mi lascia distante
tutto lo sfoggio di brutalità, tutto lo sfidare la vita come non ci fosse un
domani. Per Nicolai ed i suoi compari siberiani, vivere o morire fa parte di un
momento dell'esistenza, scandito dal raggiungimento della consapevolezza delle
proprie azioni, siano esse al di fuori di leggi stabilite. Se si fa questa
sospensione della realtà, risulta un interessante libro di iniziazione ed anche
di amicizia e solidarietà. Altrimenti, la sua crudezza è troppo fuori dal mio
ordine mentale per essere compresa. Per quello che ho percepito, ho gradito. Ma
non andrò per ora a visitare quei luoghi (a parte il fatto che non possiamo
muoverci per ora dalle nostre case).
“L’uomo vive seguendo la ragione, quindi ha bisogno di una parte della
vita per fare sbagli, un'altra per poterli capire, e una terza per cercare di
vivere senza sbagliare.” (83)
Bret Easton Ellis “Lunar Park” Repubblica Duemila 41 euro 9,90
[A: 01/11/2017 – I: 24/04/2020 – T: 26/04/2020] - & +
[tit. or.: Lunar
Park; ling. or.: inglese; pagine: 442; anno 2005]
È il primo libro che leggo di questo che viene considerato uno degli
esponenti di punta di tutta una generazione di scrittori, identificata con il
nome collettivo di “Brat Pack”, includendo altri scrittori come Tana Janowitz e
Jay McInnerney. Una generazione che andava di pari passo con i loro coetanei
attori (Andrew McCarthy e Demi Moore). Ma che devo molto al ceppo primario di
genio e sregolatezza che negli anni ’50 veniva soprannominato Rat Pack (il
Gruppo di Las Vegas con Humphrey Bogart e Lauren Bacall insieme ai loro amici
Frank Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis Jr. e Peter Lawford). E quelli della
Brat Pack si davano (nella vita e nella scrittura) ad analoghe sregolatezze:
cocaina come piovesse, sesso ed altre amenità. Tanto che Ellis viene ricordato
maggiormente per il suo secondo libro, “American Psycho”, che se non avete
letto, ne avete visto il film, o ne avete sentito parlare. Ma non di questo
voglio dire, né dei suoi amici, né di altri divertissement di contorno. Perché
siamo alle prese con un libro, e con una delle peggiori letture che abbia fatto
negli ultimi tempi. Soprattutto perché mi aspettavo momenti di interesse e
coinvolgimento. Dove qui, a parte l'idea di fondo del romanzo, la scrittura, lo
svolgimento ed il finale sono di una noia mortale.
L’idea, infatti, parte da una finta autobiografia, in cui l'autore
ripercorre (con qualche licenza) la genesi dei suoi primi romanzi e della prima
parte della sua vita. Con una (quasi) coincidenza con lo scrittore, tanto che,
ad una lettura disattente, potrebbe sembrare reale. Dopo di che, Ellis comincia
con il narrare quelli che potrebbero essere gli avvenimenti che l’io scrivente
vive in poco più di una settimana, a partire dal 30 ottobre (che un'attenta
ricerca del sottoscritto collocherebbe nel 2003, e non nel 2004 come dice
Wikipedia). Qui c'è la fiction che si svolge su alcuni binari di comunicazione
e di investigazione interiore. Si capisce la fiction dal fatto che lo scrivente
parla di moglie, di bambini suoi, e di bambini della moglie, quando ben sappiamo
(e ce lo dice anche la dedica rivolta al suo compagno morto) che Ellis è
omosessuale. Ma la finzione serve ad investigare il tipo di mondo che un autore
del “Brat Pack” è “obbligato” a percorrere: feste, inviti, riunioni varie,
appuntamenti a Los Angeles per sceneggiature che non andranno a buon fine
(laddove avrebbe dovuto incontrare Harrison Ford), e grandi party a base di
alcool e droghe varie (dove fa la comparsa un cammeo di Jay McInnerney). La
parte preponderante, anche molto onirica purtroppo, è invece dedicata ai
rapporti tra padre e figlio. Una parte reale, laddove ripercorre e non risolve
mai il suo rapporto con il padre Martin. Un padre che divorzia quando Bret ha
18 anni, e che vive una vita sua, che lui non capisce. Si dice (o almeno ne fa trapelare
in altri scritti) che era un padre violento forse base di fondo del personaggio
di Patrick Bateman, il protagonista di “American Psycho”. Una parte fittizia,
laddove cerca di capire come rapportarsi al “finto” figlio suo, Robby, ed alla
sua figliastra Sarah. Ma se della seconda si ha poca traccia, nel rapporto con
il sedicenne (o nella mancanza di rapporto) in realtà cerca di capire, di
approfondire il suo mancato rapporto con suo padre. E se tutto questo fosse
scritto in maniera consequenziale forse si riuscirebbe meglio a seguirne
l’evoluzione. La scrittura di Ellis invece, mescola finto e reale, con puntate
assolutamente folli.
Come il fatto che c'è tutta una sequenza di morti, che ripercorre le
morti da lui descritte in “American Psycho”. E non solo nel libro pubblicato,
ma anche nella prima stesura, che non aveva letto nessuno. Tanto per inserire
elementi gotici nella trama. Che tuttavia rimangono sterili. O tentativi di
dire attraverso altro. Come il fatto, che lì, nell’assurda comunità in cui
vive, cominciano a sparire ragazzi coetanei di Robby. Che qualcuno vuole
uccisi, ma che una sua vicina (allucinata allo stadio finale) vuole sia un
ripercorrere di altre storie. I ragazzi andrebbero a rifugiarsi a “neverland”,
ma non nella città di Elvis, bensì nel mondo adolescente ed onirico a sua volta
di Peter Pan. La scrittura procede molto velocemente, saltando dentro fiumi di
abusi alcolici e di droghe varie, lasciando lo scrivente sempre sfasato
rispetto alle situazioni. E non ci meravigliamo né che non riesca a risolvere i
contrasti con il proprio padre, né che venga abbandonato sia da Robby (fuggito
anche lui verso “neverland”) e di conseguenza anche dalla moglie attrice.
C'è sempre uno sfasamento quindi tra Ellis, il protagonista e il mondo
esterno. Vogliamo parlare di incomunicabilità? Forse troppo facile, dato che
sembra difficile comunicare con un alcolizzato che si ritrova nei posti più
assurdi senza sapere come. E che vede mondi immaginari che il mondo reale non
capisce, non percepisce, non sa. Alla fine, mi è parso decisamente poco
interessante, senza che riuscisse a comunicare sentimenti e sensazioni. Una
grande capacità di scrittura messa al servizio di una trama e di un romanzo
inconsistente. Vorrei solo citare l'unica cosa che mi ha divertito: c'è un
pupazzo maligno che la piccola Sarah chiama Terby, e che letto al contrario ci
porta a “ybret”, cioè un modo colloquiale per dire “why Bret”. Perché Bret? Me
lo chiedo ancora a libro chiuso.
J. R. Moehringer “Il bar delle grandi speranze” Repubblica Duemila 40
euro 9,90
[A: 01/11/2017 – I: 27/04/2020 – T: 30/04/2020] - &&& e ½
[tit. or.: The
Tender Bar; ling. or.: inglese; pagine: 523; anno 2005]
Ovviamente, come tanti, di Moehringer avevo letto la scrittura
dell'autobiografia di André Agassi (per saperne di più potete sempre andare a
recuperare al 24/11/2013), apprezzandone la scrittura. D’altra parte, J.R. (che
chiamerò così per brevità e per volontà sua) è un buon giornalista (il buon non
lo decido io ma il Premio Pulitzer da lui ricevuto nel 2000) ed il modo
scorrevole con cui le pagine girano una dopo l'altra ce lo conferma. Intanto,
spero che qualche anglofilo più agguerrito di me riesca a spiegare meglio il
titolo. Perché so che “Bar Tender” sta per barista, e ricordo che “tender”
dovrebbe riferirsi alla barra su cui si appoggiano i piedi quando si prende
qualcosa in piedi in un pub.
Certo, il “Publicans” della nostra storia, il bar (o pub, meglio)
intorno a cui ruota tutto il romanzo, ha dentro e intorno a sé grandi speranze.
Ma non so se il titolo rispecchia le idee dell’autore. Per ora, mi sono goduto
la scrittura giornalistica dell'autore, che in effetti, scorre e piacevolmente.
In realtà, devo dire che, pensando ad Agassi ed a quanto avevo letto, credevo
fosse un libro di ricordi sportivi, o di sportivi che si ritrovavano in un pub
a parlare del loro passato e del loro futuro. Il libro è diverso, essendo un
lungo biografismo dell’autore dagli otto (circa) ai ventisei anni. E si capisce
allora perché se ne sia innamorato Agassi, laddove la trama di fondo è comunque
il rapporto – conflitto tra J.R. ed il padre. In ogni caso, tolte di mezzo le
mie ed altrui aspettative, è una gradevole lettura in cui seguendo passo passo
la vita di J.R. vediamo anche uno spaccato americano che i meno attenti forse
non conoscono.
In primo luogo, per l'ambientazione del libro. Che si svolge per la
maggior parte non solo dentro il Publicans, ma anche e soprattutto nella città
di Manhasset, che vedete subito non possa essere molto distante da Manhattan,
avendone un’etimologia similare. Ma il quartiere abitativo è anche interessante
non solo come luogo di pendolarismo verso la grande mela, con una bella baia
vicino, ma anche perché luogo deputato delle vicende del “Grande Gatsby” di
Fitzgerald. J.R. ce ne parla ad ogni piè sospinto, ma non è questo il suo
motore della vita. Che rimane la curiosità verso la gente e la capacità, che
aveva anche la nonna ed il magnifico zio Charlie, di narrare. Loro erano
narratori vocali, J.R. riesce a tradurre le magie delle parole in scritti, così
come dovrebbe essere per i bravi giornalisti. Vediamo allora J.R. bambino
seguire la voce del padre che abbandona la famiglia (e fa bene che mi sembra
non sia una bella persona), e che fa il d.j. su varie radio americane. E quando
scompare, a J.R. rimane la voce, tanto che si attacca a “La Voce” per
antonomasia, cioè Frank Sinatra. Dalle prime schermaglie con i nonni, e
staccandosi dalle narrazioni nonnesche e passando alla mitizzazione dello zio.
Con la madre che rimane sempre una bella figura, che non pretenderà mai di
prevaricare il figlio, ma che sarà sempre contenta dei suoi successi (e delle
sue scelte). Frequentando lo zio, J.R. entra in sintonia con il pub. Charlie è
uno dei baristi del grande Steve, l’inventore del pub, e dei miti intorno al
pub, e dei soprannomi alla gente che lo frequenta. Vediamo nel tempo J.R.
andare alle secondarie, frequentare una mitica coppia di librai che lo instradano
sulla strada del vizio di leggere, e che riusciranno a convincerlo ad andare a
Yale. Lo vediamo all’Università laurearsi comunque, anche se sinceramente non è
che abbia ancora capito come funzioni il sistema: ci si laurea e poi ci si
specializza in qualcosa? Boh! J.R. ha comunque per tutto il periodo di Yale (e
per molto tempo) un amore spasmodico per la bella Sydney, amore che non andrà a
buon fine, come molte passioni muliebri di J.R. (anche se poi sposerà la bella
Shannon, di cui nel libro non c'è traccia). Poi va a fare il fattorino al NYT,
sperando di diventare giornalista. Lo vediamo arrancare, scrivere anche buoni
pezzi, ma non riuscire a sfondare. Tanto che alla fine deciderà di lasciare il
NYT e di farsi le ossa in provincia. Che sappiamo aveva già provato essendo la
madre fuggita ad un certo punto in Arizona, e lì rimasta. La fuga gli consente
di ritrovare il cugino McGrew che fuggì per lasciare il baseball. Ed altri
affetti. Anche un finale con ritrovamento e lasciamento del padre. Verso una
carriera nel Los Angeles Times, ed il Pulitzer del 2000.
Ma tutto quanto ho detto è il contorno, che tutto poi, oltre che con
J.R. ruota col Pub ed ai suoi personaggi: Joey D, Puzzolo, Mavaffa, Cager, Bob
il Poliziotto, Peter, Dalton, e tanti altri che non mi ricordo (e che forse non
ha neanche senso ricordare). Che quello che si ricorda è la solidarietà dei
frequentatori del pub, le amicizie, le zingarate, e tutte le bevute. Un
romanzone di formazione, di entrata ed uscita nell’alcool, e di speranze, che
si realizzano, almeno per l'autore. Che magari non sarà al NYT, ma diventerà un
lavoratore della penna, e realizzerà qualche sogno. Magari non tutte le
speranze (e lì vedremo, intorno al Publicans, caderne tante di speranze, quasi
che per far riuscire J.R. tutti gli altri devono perdere). Ripeto, ringrazio la
penna giornalistica di J.R. che fa scorrere le oltre cinquecento pagine
agevolmente, che ci fa anche piombare in una parte del sogno americano che non
molti conoscono: lo spostarsi da uno stato all’altro in cerca di lavoro,
girando per mille chilometri come non per dieci; il pendolarismo; la voglia di
stare con altri, anche se la vicinanza non è amicizia; le separazioni delle
famiglie; gli odi che nascono e non si sopiscono. Insomma, io oltre al pub ci
ho visto un certo tipo d’America, ed una lettura trasversale che non mi è
dispiaciuta. Sono contento, alla fine, che J.R. abbia raggiunto un suo
traguardo.
“Ogni libro rappresenta un momento in cui una persona in silenzio …
cerca di raccontare a noi una storia.” (169)
“Essere soli non ha niente a che fare col numero di persone che si
hanno intorno.” (285)
“Capii che dobbiamo mentire a noi stessi di tanto in tanto, dirci che
siamo forti e capaci, che la vita è bella e il duro lavoro avrà la sua
ricompensa, e poi provare a trasformare le nostre bugie in realtà.” (491)
Siamo proprio al primo week-end di agosto, ed insieme ai saldi, ecco
che commentiamo i 18 libri letti nel mese di maggio. Con due belle fughe in
avanti: il memoir storico-autobiografico di Giorgio Amendola e lo scritto
nordico di Dag Solstad. Mentre precipitano in fondo alle classifiche sia
Lemaitre (di cui non capisco il successo) sia una breve scrittura di Stefan
Zweig, che invece generalmente gradisco.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Andrea Ballarini |
Giallo Viola |
Repubblica Noir |
7,90 |
3 |
2 |
Stefan Zweig |
Notte fantastica |
Repubblica Duemila |
9,90 |
1,5 |
3 |
Andrea Ballarini |
Viola nel Bordeaux |
Repubblica
Noirissimo |
7,90 |
3 |
4 |
Teju Cole |
Città aperta |
Repubblica Duemila |
9,90 |
3 |
5 |
Gianni Simoni |
La scomparsa di De
Paoli |
TEA |
10 |
2 |
6 |
Clive Cussler
& Justin Scott |
Fuga |
TEA |
9,90 |
2 |
7 |
Shifra Horn |
Quattro madri |
Repubblica Duemila |
9,90 |
3 |
8 |
Pierre Lemaitre |
Irène |
Repubblica
Noirissimo |
7,90 |
1 |
9 |
Giorgio Amendola |
Un’isola |
Rizzoli |
s.p. |
4 |
10 |
Sayed Kashua |
La traccia dei
mutamenti |
Neri Pozza |
s.p. |
3 |
11 |
Franco Pulcini |
Delitto alla Scala |
Repubblica
Noirissimo |
7,90 |
2 |
12 |
Chinua Achebe |
Il crollo – Ormai
a disagio |
Mondadori |
s.p. |
3 |
13 |
Dag Solstad |
Timidezza e
dignità |
Corriere Boreali |
8,90 |
4 |
14 |
Leonardo Padura |
Passato remoto |
Repubblica
EmozioneNoir |
7,90 |
3 |
15 |
Wilbur Smith |
Gli angeli
piangono |
Longanesi |
s.p. |
3 |
16 |
Kaho Nashiki |
Un’estate con la
Strega dell’Ovest |
Feltrinelli |
s.p. |
2 |
17 |
Leonardo Padura |
Venti di Quaresima |
Repubblica
Noirissimo |
7,90 |
2 |
18 |
Alicia
Giménez-Bartlett |
Dove nessuno ti
troverà |
Sellerio |
15 |
3 |
Mese d’Agosto, mese di ferie? Domanda legittima, per noi che, come diceva la canzone, passiamo “una vita in vacanza”. Ma c'è chi lavora, e che allora si stacca e si parte. Purtroppo, e lo sapete bene quanto mi manca, niente uscite dai confini. Si va in Sicilia, isola tra le isole, e si tornerà, freschi e riposati, all'ombra della faggeta.
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