domenica 4 settembre 2022

Pietro e il Super Week - 04 settembre 2022

Una settimana piena di ottime letture: un bellissimo Graham Greene che mi riporta al bellissimo film con Orson Wells, un Lamartine caro al mio vecchio francesismo ed ai regali che adoro, un accogliente Fermine che mi riporta agli albori della mia scrittura. In mezzo, un dimenticabile libro proposto da Robinson ed un libro, bello, interessante, da leggere del mio amico Pietro. A lui ed a tutti i miei nuovi lettori dedico questo fine settimana, dove a quest’ultimi consiglio di leggere le note finali che forse spiegano qualcosa (o forse no).

Graham Greene “Il terzo uomo” Sellerio s.p. (regalo di Raul&Vivi)

[A: 22/11/2021 – I: 16/02/2022 – T: 18/02/2022] - &&&&

[tit. or.: The Third Man; ling. or.: inglese; pagine: 206; anno 1950]

Non scopriamo certo ora Graham Greene, né tanto meno ci può giungere nuovo il film strettamente connesso a questo testo. Quello che però non possiamo non sottolineare è l’eccellente prodotto che abbiamo sottomano. Il cui piacere è aumentato dalla conoscenza cinematografica.

Quindi qui abbiamo alcuni piani diversi su cui ragionare per apprezzare la grandezza dello scrittore: il romanzo in sé, la genesi del testo, l’eventuale confronto con il film (su cui si tornerà a lungo), la scrittura in sé, i personaggi ed il clima dell’opera.

Come apprendiamo dalla postfazione dello stesso Greene, e dai due commenti (quello iniziale, poco incisivo, di Ben Pastor, e quello finale, meglio strutturato, di Domenico Scarpa), l’autore viene incaricato di scrivere una base per una sceneggiatura di un film. Partendo da una sua idea (dieci righe su di un taccuino), calandola nella realtà viennese del dopoguerra, piena di spie e di intrighi, Greene scrive questo testo, che il regista Carol Reed trasformerà nel bellissimo film che conosciamo. Poi, un paio d’anni dopo, modificando solo qualche passo, ma lasciando inalterate le varianti rispetto al film, Greene fa uscire il romanzo.

Che ora possiamo leggere, a distanza di settanta anni, senza più essere influenzati dal film, dagli attori (che ricordo erano Orson Wells, Joseph Cotten e Alida Valli), dal clima. Lo leggiamo per quello che è, un romanzo che ci fa tornare nella Vienna mutilata del dopoguerra, nell’ambiente da guerra fredda che si respirava, e, soprattutto, nell’analisi dei rapporti umani sottesi alla vicenda.

Una vicenda, in sé, abbastanza scarsa e lineare. Rollo Martins, squattrinato autore di romanzi western, si reca a Vienna su invito del suo amico Harry Lime. Ma vi arriva solo per assistere al suo funerale. Ma la morte in seguito ad un incidente d’auto sembra sospetta, tanto che Rollo decide di indagare da solo sulla morte di Harry, scontrandosi con il capo della polizia, il colonnello Calloway. Si mette in contatto con i presunti amici di Harry, l’austriaco Kurtz ed il medico tedesco Winkler. Ma soprattutto con Anna Schmidt, la ragazza di Harry.

Con le sue mosse, i suoi colloqui, individua una falla: sul luogo sembrano presenti tre e non due uomini. Chi è il terzo uomo, quello del titolo? Interroga a lungo Anna, verso cui nasce un suo sentimento. Dopo varie peripezie, che tralasciamo per brevità, incontra Harry, che non è morto. I due hanno un lungo colloquio girando sulla ruota del Prater di Vienna.

Che non convincono Rollo, forte anche delle rivelazioni di Calloway. Per questo organizza una trappola con Calloway, con conseguente fuga ed inseguimento nelle fogne, e con morte finale di Harry (anche qui, se non ricordate, leggete che Greene ci fa arrivare al punto con la sua maestria). Il romanzo, iniziato con il funerale del finto Harry, si chiude con quello del vero Harry. E Rollo ed Anna si allontanano dal cimitero, sottobraccio.

Greene usa al meglio le armi della scrittura: cambi di vista, iati temporali, personaggi che raccontano scene poi riprese in soggettiva. Un maestro della scrittura. Che riesce anche a riportarci, a più di settant’anni dai fatti, sulla scena viennese. Le case diroccate, le forze vittoriose che si spartiscono il controllo della città, il mercato nero (Harry era implicato nel traffico di penicillina contraffatta), il Prater, l’Hotel Sacher e gli altri Caffè Viennesi. Ma anche sui personaggi. Il serio colonnello di Scotland Yard Calloway che cerca di tirare le fila e narra le parti salienti della trama. Il trentaseienne Harry Lime, impiegato nell’Ufficio Rifugiati, medico e iniziatore dei loschi traffici. L’austriaco Kurtz, sodale di Harry, vive nel settore russo, e già questo ci insospettisce. Il dottor Winkler, collezionista di reliquie religiose, e longa manus verso gli ospedali. L’attrice Anna Schmidt, dal volto sincero, e forse ignara dei traffici di Harry. E poi lui, Rollo, l’amico di sempre, con un pessimo rapporto con le donne. Ma che, camminando ignaro per il mondo, smuove mari e monti, e trova il bandolo di una matassa che tutte le Intelligence presenti a Vienna non erano riusciti a trovare.

Una delle scene “inutili” alla trama, ma funzionali al romanzo, è un dibattito che un promotore letterario organizza al British Council di Vienna, avendo scambiato Rollo, che per i suoi western utilizza lo pseudonimo di B. Dexter, con un esimio scrittore di nome Benjamin Dexter. Le discussioni sul romanzo che lì si svolgono danno un tocco di leggerezza che solo Greene riesce ad inserire nei suoi romanzi, anche quelli più pensosi.

Ultimo punto che vorrei toccare è ancora sul rapporto tra film e romanzo. Visto che il personaggio di Rollo, inglese, deve essere impersonato da Joseph Cotten, americano, vengono cambiate sequenze di battute che fanno perdere un po’ il senso dell’ambiente. Anche perché, Greene non vede di buon occhio gli amici di oltreoceano, trattando male anche i Servizi Segreti americani. E poi, Rollo sembra un nome un po’ stupido per gli americani, così che il nome viene cambiato in Holly. Ma noi stiamo parlando del libro, ed il libro è ben fatto, ben costruito e magistralmente trattato dal grande Graham Greene.

“Non ci abituiamo mai al fatto di essere meno importanti per gli altri di quanto loro non lo siano per noi.” (27)

Michele Caccamo “Fili di rame e d’amore. Dal diario inesistente di Anna Coleman Ladd” Elliot s.p. (libro in dono per la partecipazione al “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 14/03/2022 – I: 14/03/2022 – T: 15/03/2022] & e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 118; anno: 2021]

Introduzione comune al torneo: era da tempo immemorabile (mi pare più di un anno), che scrissi a Giorgio Dell’Arti per propormi come lettore e giurato in una delle tante edizioni dei tornei da lui organizzati per la testa “Robinson” del gruppo GEDI. Finalmente, sono stato contattato, e questo è uno dei due libri che mi sono stati proposti per lettura e giudizio, chiedendomi di rispondere entro due settimane. Capite bene che, data la mia velocità di lettura (accentuata dal periodo pandemico), ho letto i due libri in due giorni.

Qui, allora, parliamo del libro del poco più che sessantenne poeta ed editore Michele Caccamo. Una vita da sempre dedicata (anche) all’editoria, ed una buona (mi si dice, visto che io poco ne so) produzione poetica. Animo e scrittura poetica che emergono con forza in questo breve scritto, cui l’autore cerca di da dare una duplice valenza. Da un lato, riproporci una figura poco nota della storia mondiale, quella della scultrice Anna Coleman Ladd, che intraprese, negli anni della Prima Guerra mondiale, un’opera meritoria e poco ricordata. In tempi in cui ancora lontana era la chirurgia plastica, Anna, con calchi, fili di rame ed altro materiale, cercava di ricostruire i lineamenti facciali di persone uscite deturpate da scontri a fuoco, ed altre ferite di guerra.

Utilizzando il registro di un diario inesistente (come dice il sottotitolo), Caccamo ci presenta tante microstorie di persone deturpate dalle ferite. Descritte con una crudezza giustamente corrispondente agli orrori di una guerra insensata, allora come ora. Queste mini-storie sono forse la parte migliore del libro, pur se brevi ed in un certo senso, slegate tra loro.

Il secondo lato, quello che dovrebbe dare un senso alla ricostruzione, è invece quello che ne fa precipitare giudizi e gradimenti. Qui, la scrittura si fa molto “svolazzante”, a volte troppo ellittica, richiamo (anche) alle radici poetiche dell’autore. Che ci porta in un futuro di poco posteriore all’oggi, dove la lezione pandemica portata all’eccesso, convince un inusitato governo mondiale, a modificare i tratti somatici di ognuno, quasi a far indossare una mascherina covid, che standardizzi l’espressione di ciascuno, frenandone slanci vitali ed altro.

Per fare ciò, si deve anche riscrivere la storia passata, come vediamo fare ai due protagonisti che, cancellando librerie e biblioteche, ritrovano il famoso diario inventato di Anna. Tuttavia, il modo di scrivere, le idee, il clima di controllo totale, rimandano troppo facilmente a Orwell e Bradbury, senza, ovviamente, raggiungere la loro profondità. Finendo per essere un’operazione molto velleitaria e poco riuscita. Non prende, non coinvolge. Anche il modo di dire, di agire, di parlare dei futuribili controllori delle maschere è quanto mai respingente.

Insomma, se la storia di Anna è interessante, ed encomiabile lo sforzo di farla uscire dall’oblio, il testo complessivo che ne viene fuori non risulta agile, e, soprattutto, non se ne capiscono le motivazioni profonde. Se Caccamo ci vuole dire che, nei guasti attuali, stiamo precipitando in un baratro da “Grande Fratello”, da una parte è ovvio, dall’altra non aggiunge nessuna pietruzza alla comprensione ed alla decodifica del mondo.

Poiché infine, mi si chiedeva un giudizio per il torneo, ve lo riporto, laddove, è vero, dico cose come le sopracitate, ma mi fa piacere condividerlo con voi.

Due evidenti errori che si poteva evitare in stampa. La storia di Jerome finisce a pagina 75, poi il nome ricompare a pagina 79, ma si sta parlando di Igor. Quindi, a pagina 92, la frase “sono strumenti potenti di ri-civilizzazione potenti” non mi pare sensata (qualche potenti di troppo).

Pietro De Santis “C’era una città” Armando editore s.p. (regalo dell’autore)

[A: 13/04/2022 – I: 18/04/2022 – T: 19/04/2022] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 78; anno: 2022]

Anche se come vedete sopra, è l’autore stesso, nonché amico, che mi regala i suoi libri, il mio giudizio, di lettura, di gradimento, di riuscita, resta sempre imparziale. Leggo Pietro come leggo Vargas, commento Pietro come commento Auster.

Sgomberato quindi il campo da favoritismi ed indulgenze, ma anche da rivincite verso una persona che riesce a scrivere, al contrario di altri, devo dire che, pur ritenendo questo un buon libro, nel suo genere, purtroppo non è il mio, di genere. Certo, l’autore ci dà due avvertimenti, diretti ed indiretti, su come affrontare il libro. C’è il sottotitolo, “Una fiaba contemporanea”, e quindi non ci dobbiamo aspettare né un romanzo, né quelle pennellate di personaggi presenti in altri suoi scritti. E c’è l’editore, “Armando editore”, discendente in filo diretto dalla casa editrice fondata dal Professor Armando Armando che da sempre pubblica editoria per ragazzi e saggistica di indubbio interesse.

Allora, immergiamoci nella fiaba, facciamo conto di tornare bambini e cerchiamo di muoverci tra le parole di Pietro. Per noi adulti, infatti, i passaggi sono chiari: descriviamo un mondo ideale, iperuranico, commettiamo un peccato (originale?) ed il nostro mondo decade, rimanendo nelle teste quel che c’era un dì. Ricordo che rimane negli anziani, poi nelle storie, poi si mescola con pensieri inventati. Quindi, la risalita, il riscatto che viene dai bambini (e da chi altro se no?). Che non a caso sono due, un maschio ed una femmina, come dei novelli Adamo ed Eva. Non lo sono, ma possono salvarci, visto che si chiamano Miriam, cioè Maria madre di Gesù, e Matteo, che vuol dire dono di Dio. Così dalla caduta al riscatto. Non per tornare al mondo di prima, ma per approdare ad un mondo nuovo che sappia del vecchio e si protenda verso il futuro, rispettoso della natura e di tutto ciò che ci circonda.

Ma questa è la storia degli adulti. La storia è (soprattutto) per i bambini, per farli ragionare sull’oggi, ricordando loro (in modo non pedante) l’esistenza di uno ieri diverso. Migliore? Forse no. Di sicuro, ci ricorda Pietro, la possibilità che esista un modo per “pulire” l’oggi, per renderlo ecologicamente compatibile. E non è un caso che i nostri eroi, per poter costruire quel mondo, non possano che passare per il sonno. Un sonno che dura sei mesi o un sogno che dura altrettanto? Un sonno/sogno che mi riporta a “I fiori blu” di Queneau che ci ricordava nel risvolto del libro: "secondo un celebre apologo cinese, Chuang-tzé sogna d'essere una farfalla; ma chi dice che non sia la farfalla a sognare d'essere Chuang-tzé?”

La fiaba, poi, tocca tanti altri punti, che sarebbe interessante, quando se ne parla con i bambini (ma forse anche con gli adulti), approfondire. La questione della provenienza (non uso il termine “razza” che potrebbe fuorviare) che Matteo ha gli occhi a mandorla e Miriam la pelle scura. La plastica che ci invada. I bambini, riuniti in bande, che mal si comportano (e si sa che una banda non è solo la somma degli individui che la compongono). Il rapporto dei ragazzi con la scuola, amore e odio che spesso deriva (anche) dal distorto modo di porsi dei genitori piuttosto che degli insegnanti. Per non dimenticare le canzoni che inframezzano il racconto, rimandandoci alle fiabe cantate che sempre il nostro autore ha prodotto.

Pietro, forse, semplifica troppo la sua scrittura, per adeguarsi alla dimensione fiaba. Ma non può certo dimenticarsi di sé stesso, del suo retroterra. Così che, certo, spiega l’uso della parola “incarnato” che di certo non è di facile utilizzo. Ma poi continua ad utilizzarla (sperando che i bimbi ne ricordino). E se avesse usato “carnagione”?

Un secondo trappolone per i bimbi distratti viene, ad esempio, quando dice che gli antichi avevano inventato due cose utili. La prima, e lo dice, è il calendario. La seconda, ma non lo sottolinea, è la scrittura. Di certo, un ragazzo sta lì che aspetta, e Pietro si diverte alla sua curiosità. Per cercare il capello nell’uovo (un pelo è troppo poco), direi che, come veniva fuori anche dalle nostre discussioni, più che di calendario, si inventò a contare, si pensarono i numeri. E contando, cosa di più semplice che pensare ai giorni che passano, e quindi arrivare al calendario?

Due menzioni finali. Uno per l’autore (ignoto seppur citato) dei disegni che accompagnano il testo. Disegni semplici, quasi “infantili”, che nella loro giovinezza trovano il modo di non stonare con il tono della fiaba. La seconda è per Mirko, cui auguriamo di poter arrivare a vedere un mondo più portato al rispetto reciproco (mi raccomando, Pietro, mai parlare di tolleranza), e che per ora notiamo, casualità o causalità, ha un nome in M, come Miriam e Matteo.

Ben fatto, professore.

Alphonse de Lamartine “Graziella” Nutrimenti s.p. (Regalo di Benedetta)

[A: 07/05/2022 – I: 18/05/2022 – T: 19/05/2022] - &&& +

[tit. or.: Graziella; ling. or.: francese; pagine: 142; anno 1852]

Nell’anno in cui Procida è eletta “capitale italiana della cultura 2022”, ricevo questo sentito regalo, a valle della visita isolana di Benedetta. Omaggio gradito, nonché pensieri solari rivolti alle lontanissime gite tra Baia e Lucrino (con vista sul Monte di Procida).

Come molti discreti conoscitori della letteratura francese, avevo sempre e soltanto associato Lamartine alla poesia, derivandone il buon giudizio dalla preparazione alla maturità passata sui testi di Francesco De Sanctis. Sapevo anche, seppur in via meno informata, della sua presenza sul piano politico. Poco o nulla ricordavo della produzione in prosa. Di cui qui abbiamo un esempio interessante e pieno di spunti, quasi fosse un compendio delle tematiche romantiche dell’Ottocento.

C’è il “Grand Tour”, con Goethe nella memoria, laddove il giovane Alphonse parte per un viaggio che doveva portarlo principalmente in Toscana, poi allargatosi prima a Roma e poi a Napoli. C’è, grande, il sentimento dell’amicizia che sorge spontanea tra i giovani di mente aperta. Con l’amico con cui parte dalla Francia, con un pittore presso cui alloggia a Roma, con una cantante che gli farà da guida nella città eterna, con un amico di collegio casualmente incontrato a Napoli e con cui legherà moltissimo. C’è il sentimento di libertà e di patriottismo, che nasce dalle frequentazioni romane, per poi sbocciare al sole di Napoli, al contatto con la vita dei pescatori.

E proprio dai pescatori nasce anche lo schema narrativo spesso e volentieri riproposto all’epoca, del naufragio in mare, della lotta contro l’avversa natura, nonché della salvezza, faticosa e felice, sull’isola procidana.

A Procida, nell’umile casa di nonno Andrea, ne conosce la famiglia, ed in particolare la bella e spontanea nipote Graziella. Qui, lo scrittore sviluppa un altro duplice elemento romantico. Dal naufragio della barca si sono salvati solo due libri. Uno lo leggono Alphonse ed il suo amico, rinforzando, al bisogno, il loro amore per la libertà. Si tratta delle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo. L’altro, usato per intrattenere la famiglia procidana, è tradotto all’impronto da Alphonse. Si tratta di Paolo e Virginia di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre, una storia di amore bello e sfortunato, che ha l’unico vero risultato di far a sua volta innamorare la bella Graziella.

Qui comincia una seconda parte più melensa e meno avvincente. Ci sono i turbamenti di Alphonse, che rimasto solo per la partenza dell’amico, si avvicina sempre di più a Graziella. C’è Graziella che, non tanto inconsciamente, sente crescere un sentimento verso il bel ventenne. Fino a che una richiesta di matrimonio rompe l’equilibrio, ed in una notte di amore (platonico, ovvio, che alla carne si arriverà più di cento anni dopo), i due avvicinano ed avvinghiano i loro cuori. Anche se il rapporto è nei fatti sbilanciato. Alphonse, ricco e francese, prima o poi dovrà tornare in patria. Graziella, povera anche se bella, non potrà che rimanere nel Golfo.

Così Alphonse parte e promette a Graziella di tornare. Ma non sarà così, neanche quando riceverà una di lei lettera che gli comunica la malattia (tisi, ovvio) e la sua imminente morte. Cosa che puntualmente si avvera. Il poeta porterà sempre con sé la lettera in ricordo del suo primo amore, ma quando anni dopo tornerà a Napoli non troverà più traccia né di Graziella, né della famiglia di nonno Andrea.

La scrittura (redatta da un Lamartine sessantenne che ricostruisce la memoria della sua giovinezza, che il testo risulta redatto intorno alla metà degli anni ’40 dell’Ottocento, poi pubblicato in volume nel 1852) è già piena delle sensazioni forti dei romanzi coevi. Ma resta un po’ ingenua, anche se alcuni descrizioni ne danno gran forza: l’isola di Procida, il Vesuvio, la vita quotidiana a Napoli, quando si parla di sera, al fresco delle terrazze. E come già rilevato, se nella prima parte i punti forti del romanticismo sorreggono il testo, la seconda parte risulta meno avvincente. Tanto che Flaubert ne parla come di un’opera poco riuscita. Tant’è.

Se volete, infine, non tanto rendere omaggio a Lamartine, quanto alle grandi capacità della televisione italiana di sessant’anni fa, vi consiglio di cercare, nelle Teche Rai, lo sceneggiato “Graziella” con Corrado Pani nei panni di Lamartine, ma soprattutto con una stupenda Ilaria Occhini in quelli di Graziella.

“Come stupirsi … se i più sublimi scenari del creato siano contemplati dai viaggiatori con occhi così diversi? … Lo spettacolo è nello spettatore.” (102)

Maxence Fermine “Il palazzo delle ombre” Bompiani euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)

[A: 23/02/2022 – I: 12/07/2022 – T: 14/07/2022] - &&& ---

[tit. or.: Le Palais des ombres; ling. or.: francese; pagine: 221; anno 2014]

Incominciamo con il tributare un doveroso omaggio all’autore ed a chi, ormai quasi venti anni fa, me lo fece scoprire. Fu allora, in uno dei momenti postumi ad alcune svolte significative, che la mia amica Chiara mi disse di leggere un libro “L’apicoltore” di un certo Maxence Fermine. Fu amore a prima vista con l’autore. Che non ha mai scritto cose dirompenti, mantenendo sempre un tono pacato. Ma non cessando mai di interrogarsi (ed interrogarci) sul senso della vita, sui sogni che accompagnano il nostro procedere dalla vita alla morte, le passioni che tutti abbiamo ed il loro modo di entrare nella nostra vita, a volte per migliorarla, a volte per metterci in seria difficoltà.

Lo stile di Fermine, di cui credo di aver letto in questi anni sei o sette libri, rimane proprio per quanto sopra detto, sempre simile a sé stesso. Non eccelso ma neanche stancante, si legge con facilità, e, se riusciamo a lasciare andare i nostri freni, ci conduce in giro per mondi e situazioni che ci fanno riflettere.

Lo stesso impianto emozionale si ritrova in questa storia che ci porta agli inizi degli anni ’60, e dove seguiamo le vicissitudini di Nathan Tanner. Figlio di un romanziere di buon successo, Hugo, che lo aveva comunque lasciato dai nonni quando, nel ’32, a tre anni, muore in un incidente automobilistico la madre Rebecca. Lo zio Hadrien, nonché fratello di Hugo, scompare a Buchenwald nel ’43. Mentre Hugo, dal ’46 al ’51 sforna sei romanzi di discreto successo, che gli consentono di proseguire la sua vita non particolarmente dura.

Nathan, una volta cresciuto, trova la sua dimensione come costruttore di marionette. Un mestiere certo non proprio redditizio, ma che gli dà da vivere. E consente all’autore di discettare a lungo sulla vita, sulle marionette, e su chi tira i fili.

Lo scatenarsi del racconto avviene quando Nathan riceve una lettera da Hugo che gli annuncia il proprio suicidio, nonché il fatto che gli lascia in eredità il Palazzo da lui comprato nel ’30: il Palazzo delle Ombre, una costruzione architettonicamente complicata, di cui si dicono stranezze (soprattutto fantasmi e morti sospette). A patto però che riesca a trovare il manoscritto del suo ultimo scritto, di cui gli editori parlano da decenni, ma che nessuno ha letto.

Il romanzo si riempie di piccoli misteri e di personaggi, a volte solari, a volte misteriosi. Tra i primi c’è la violinista Anna, vicina di casa, cui Nathan si confida, si accompagna nelle spedizioni all’ombroso palazzo, e di cui sospettiamo da subito che possa finire con un loro coinvolgimento sentimentale.

Tra i secondi c’è un losco editore che non si arrende alla perdita del manoscritto, ed un personaggio ombroso (tale palazzo…) che si aggira misteriosamente, prendendo il nome del primo proprietario del palazzo, un argentino morto suicida negli anni ’20.

Le fila (della trama e delle marionette) si intrecciano e si intersecano con le scritture, del padre, di Nathan, e di altri (mica vi posso dire tutto), costringendo Nathan a fare un lungo viaggio intorno a sé stesso, ricostruendo, a volte inventando, la sua storia familiare. Ma Nathan è buono ed alla fine il suo amore e la sua passione riuscirà a portare il romanzo verso una fine congruente.

Rimane, dal punto di vista narrativo, la costruzione interna del palazzo, con le sue stanze nascoste, i suoi automi meccanici, ed altre piccole cose che servono a tirare fili… Sempre con quella leggerezza calviniana che, appunto, ripeto e concludo, non sarà eccelsa, ma è per me un buon ausilio di lettura nei momenti pensosi.

Personalmente, infine, non posso che ringraziare l’autore per avermi fatto tornare con la mente in alcuni luoghi della mia adolescenza parigina. Il Père-Lachaise, dove anch’io come Nathan mi rilassavo in passeggiate, alla ricerca delle tombe famose. Ricordo rue de Lesseps, ma i palazzi con torrioni ed altre invenzioni architettoniche li ricordo più spostate sotto Pigalle. E soprattutto rue des Barres, e tutta la zona del basso Marais fino a quello che ora è il centre Pompidou, ma che per me (e per Nathan) era la zona delle Halles. Proust e le sue madeleine ci fanno un baffo.

“Dopo una certa età, non si torna più indietro.” (15)

“Bisogna guardare avanti per continuare a vivere … Non sono d’accordo … Il passato fa parte del presente e costruisce il nostro futuro.” (114)

Prima trama di un mese post-estivo, e quindi vi sorbite l’elenco delle massicce letture del mese di giugno. Dove spiccano due Simenon d’annata e svetta un ricordo personale dovuto ad uno dei miei tanti cugini. Di converso, sempre verso il fondo, precipitano i pochi attraenti libri robinsoniani.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Ragnar Jónasson

Fuori dal mondo

Marsilio

9,50

3

2

Martin Walker

Grand Prix

Repubblica Noir

7,90

2

3

Ian Stewart

I numeri uno

Le Scienze

15

3,5

4

Gaetano Savatteri

Il lusso della giovinezza

Sellerio

14

3

5

Ann-Marie MacDonald

Chiedi perdono

Corriere – Saghe

7,90

2

6

Piergiorgio Pulixi

Lo stupore della notte

Corriere Profondo Nero

7,90

2

7

Georges Simenon

Pioggia nera

Repubblica

9,90

4

8

Brigitte Glaser

Morte sotto spirito

Repubblica Noir

7,90

2,5

9

Georges Simenon

Il viaggiatore del Giorno dei Morti

Repubblica

9,90

3,5

10

Ricardo Piglia

Solo per Ida Brown

Repubblica Noir

7,90

3

11

Adriano Ossicini

Gli esami non finiscono mai... ma chi l'ha detto! I ragazzi del '49

Youcanprint

s.p.

4

12

José Saramago

Le intermittenze della morte

Feltrinelli

9,50

3,5

13

Mirko Zilahy

È così che si uccide

Corriere Thriller

7,90

3

14

Georges Simenon

La vedova Couderc

Repubblica

9,90

4

15

Ragnar Jónasson

La donna del faro

Repubblica Noir

8,90

3,5

16

Haruki Murakami

La strana biblioteca

Corriere

9,90

2

17

Silvio Danese

In pace con la pancia

Sonzogno

s.p.

1

18

Haruki Murakami

Gli assalti alle panetterie

Corriere

9,90

2,5

19

Enrico Brizzi

Una notte sull’alpe della luna

Repubblica Montagna

9,90

3

20

Simone Alliva

Fuori i nomi

Fandango

s.p.

1

Come dicevo incipiando questo testo, molti e nuovi sono i compagni di viaggio che spero ci terranno compagnia in queste letture. Se vi piacciono, continuerete a riceverne; se vi stufate, mandatemi una mail, e sarete esentati da nuovi invii.

Intanto, anche questa come scadenza periodica, vi riporto un frase sulla memoria del troppo presto scomparso scrittore sardo Sergio Atzeni che ci ammoniva in un bel libro di Sellerio, “Il figlio di Bakunin”: “sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola [sinonimo di “rende leggendario”, ripreso da Atzeni da “Horcynus Orca” di D’Arrigo dove venne usato per la prima volta. N. mia] il narrare dei protagonisti, non meno che i resoconti degli storici” (153).

Visto che ho scritto troppo, per ora taccio, che si scriverà di più e meglio nel futuro. Quindi un arrivederci alla prossima scrittura.

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