Graham Greene “Il terzo
uomo” Sellerio s.p. (regalo di Raul&Vivi)
[A: 22/11/2021 – I: 16/02/2022 – T: 18/02/2022] - &&&&
[tit. or.: The Third Man; ling. or.: inglese; pagine: 206; anno 1950]
Non scopriamo certo ora Graham Greene, né
tanto meno ci può giungere nuovo il film strettamente connesso a questo testo.
Quello che però non possiamo non sottolineare è l’eccellente prodotto che
abbiamo sottomano. Il cui piacere è aumentato dalla conoscenza cinematografica.
Quindi qui abbiamo alcuni piani diversi su
cui ragionare per apprezzare la grandezza dello scrittore: il romanzo in sé, la
genesi del testo, l’eventuale confronto con il film (su cui si tornerà a
lungo), la scrittura in sé, i personaggi ed il clima dell’opera.
Come apprendiamo dalla postfazione dello
stesso Greene, e dai due commenti (quello iniziale, poco incisivo, di Ben
Pastor, e quello finale, meglio strutturato, di Domenico Scarpa), l’autore
viene incaricato di scrivere una base per una sceneggiatura di un film.
Partendo da una sua idea (dieci righe su di un taccuino), calandola nella
realtà viennese del dopoguerra, piena di spie e di intrighi, Greene scrive
questo testo, che il regista Carol Reed trasformerà nel bellissimo film che
conosciamo. Poi, un paio d’anni dopo, modificando solo qualche passo, ma
lasciando inalterate le varianti rispetto al film, Greene fa uscire il romanzo.
Che ora possiamo leggere, a distanza di
settanta anni, senza più essere influenzati dal film, dagli attori (che ricordo
erano Orson Wells, Joseph Cotten e Alida Valli), dal clima. Lo leggiamo per
quello che è, un romanzo che ci fa tornare nella Vienna mutilata del
dopoguerra, nell’ambiente da guerra fredda che si respirava, e, soprattutto,
nell’analisi dei rapporti umani sottesi alla vicenda.
Una vicenda, in sé, abbastanza scarsa e
lineare. Rollo Martins, squattrinato autore di romanzi western, si reca a
Vienna su invito del suo amico Harry Lime. Ma vi arriva solo per assistere al
suo funerale. Ma la morte in seguito ad un incidente d’auto sembra sospetta,
tanto che Rollo decide di indagare da solo sulla morte di Harry, scontrandosi
con il capo della polizia, il colonnello Calloway. Si mette in contatto con i
presunti amici di Harry, l’austriaco Kurtz ed il medico tedesco Winkler. Ma
soprattutto con Anna Schmidt, la ragazza di Harry.
Con le sue mosse, i suoi colloqui, individua
una falla: sul luogo sembrano presenti tre e non due uomini. Chi è il terzo
uomo, quello del titolo? Interroga a lungo Anna, verso cui nasce un suo
sentimento. Dopo varie peripezie, che tralasciamo per brevità, incontra Harry,
che non è morto. I due hanno un lungo colloquio girando sulla ruota del Prater
di Vienna.
Che non convincono Rollo, forte anche delle
rivelazioni di Calloway. Per questo organizza una trappola con Calloway, con
conseguente fuga ed inseguimento nelle fogne, e con morte finale di Harry
(anche qui, se non ricordate, leggete che Greene ci fa arrivare al punto con la
sua maestria). Il romanzo, iniziato con il funerale del finto Harry, si chiude
con quello del vero Harry. E Rollo ed Anna si allontanano dal cimitero,
sottobraccio.
Greene usa al meglio le armi della
scrittura: cambi di vista, iati temporali, personaggi che raccontano scene poi
riprese in soggettiva. Un maestro della scrittura. Che riesce anche a
riportarci, a più di settant’anni dai fatti, sulla scena viennese. Le case
diroccate, le forze vittoriose che si spartiscono il controllo della città, il
mercato nero (Harry era implicato nel traffico di penicillina contraffatta), il
Prater, l’Hotel Sacher e gli altri Caffè Viennesi. Ma anche sui personaggi. Il
serio colonnello di Scotland Yard Calloway che cerca di tirare le fila e narra
le parti salienti della trama. Il trentaseienne Harry Lime, impiegato
nell’Ufficio Rifugiati, medico e iniziatore dei loschi traffici. L’austriaco
Kurtz, sodale di Harry, vive nel settore russo, e già questo ci insospettisce.
Il dottor Winkler, collezionista di reliquie religiose, e longa manus verso gli
ospedali. L’attrice Anna Schmidt, dal volto sincero, e forse ignara dei
traffici di Harry. E poi lui, Rollo, l’amico di sempre, con un pessimo rapporto
con le donne. Ma che, camminando ignaro per il mondo, smuove mari e monti, e
trova il bandolo di una matassa che tutte le Intelligence presenti a Vienna non
erano riusciti a trovare.
Una delle scene “inutili” alla trama, ma
funzionali al romanzo, è un dibattito che un promotore letterario organizza al
British Council di Vienna, avendo scambiato Rollo, che per i suoi western
utilizza lo pseudonimo di B. Dexter, con un esimio scrittore di nome Benjamin
Dexter. Le discussioni sul romanzo che lì si svolgono danno un tocco di
leggerezza che solo Greene riesce ad inserire nei suoi romanzi, anche quelli
più pensosi.
Ultimo punto che vorrei toccare è ancora sul
rapporto tra film e romanzo. Visto che il personaggio di Rollo, inglese, deve
essere impersonato da Joseph Cotten, americano, vengono cambiate sequenze di
battute che fanno perdere un po’ il senso dell’ambiente. Anche perché, Greene
non vede di buon occhio gli amici di oltreoceano, trattando male anche i
Servizi Segreti americani. E poi, Rollo sembra un nome un po’ stupido per gli
americani, così che il nome viene cambiato in Holly. Ma noi stiamo parlando del
libro, ed il libro è ben fatto, ben costruito e magistralmente trattato dal
grande Graham Greene.
“Non ci abituiamo mai al fatto di essere
meno importanti per gli altri di quanto loro non lo siano per noi.” (27)
Michele Caccamo “Fili di rame e d’amore. Dal
diario inesistente di Anna Coleman Ladd” Elliot s.p. (libro in dono per la
partecipazione al “Torneo Letterario Robinson”)
[A: 14/03/2022 – I: 14/03/2022 – T:
15/03/2022] & e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 118; anno:
2021]
Introduzione comune al torneo: era da tempo
immemorabile (mi pare più di un anno), che scrissi a Giorgio Dell’Arti per
propormi come lettore e giurato in una delle tante edizioni dei tornei da lui
organizzati per la testa “Robinson” del gruppo GEDI. Finalmente, sono stato
contattato, e questo è uno dei due libri che mi sono stati proposti per lettura
e giudizio, chiedendomi di rispondere entro due settimane. Capite bene che,
data la mia velocità di lettura (accentuata dal periodo pandemico), ho letto i
due libri in due giorni.
Qui,
allora, parliamo del libro del poco più che sessantenne poeta ed editore
Michele Caccamo. Una vita da sempre dedicata (anche) all’editoria, ed una buona
(mi si dice, visto che io poco ne so) produzione poetica. Animo e scrittura
poetica che emergono con forza in questo breve scritto, cui l’autore cerca di
da dare una duplice valenza. Da un lato, riproporci una figura poco nota della
storia mondiale, quella della scultrice Anna Coleman Ladd, che intraprese,
negli anni della Prima Guerra mondiale, un’opera meritoria e poco ricordata. In
tempi in cui ancora lontana era la chirurgia plastica, Anna, con calchi, fili
di rame ed altro materiale, cercava di ricostruire i lineamenti facciali di
persone uscite deturpate da scontri a fuoco, ed altre ferite di guerra.
Utilizzando
il registro di un diario inesistente (come dice il sottotitolo), Caccamo ci
presenta tante microstorie di persone deturpate dalle ferite. Descritte con una
crudezza giustamente corrispondente agli orrori di una guerra insensata, allora
come ora. Queste mini-storie sono forse la parte migliore del libro, pur se
brevi ed in un certo senso, slegate tra loro.
Il
secondo lato, quello che dovrebbe dare un senso alla ricostruzione, è invece
quello che ne fa precipitare giudizi e gradimenti. Qui, la scrittura si fa
molto “svolazzante”, a volte troppo ellittica, richiamo (anche) alle radici
poetiche dell’autore. Che ci porta in un futuro di poco posteriore all’oggi,
dove la lezione pandemica portata all’eccesso, convince un inusitato governo
mondiale, a modificare i tratti somatici di ognuno, quasi a far indossare una
mascherina covid, che standardizzi l’espressione di ciascuno, frenandone slanci
vitali ed altro.
Per
fare ciò, si deve anche riscrivere la storia passata, come vediamo fare ai due
protagonisti che, cancellando librerie e biblioteche, ritrovano il famoso
diario inventato di Anna. Tuttavia, il modo di scrivere, le idee, il clima di
controllo totale, rimandano troppo facilmente a Orwell e Bradbury, senza,
ovviamente, raggiungere la loro profondità. Finendo per essere un’operazione
molto velleitaria e poco riuscita. Non prende, non coinvolge. Anche il modo di
dire, di agire, di parlare dei futuribili controllori delle maschere è quanto
mai respingente.
Insomma,
se la storia di Anna è interessante, ed encomiabile lo sforzo di farla uscire
dall’oblio, il testo complessivo che ne viene fuori non risulta agile, e,
soprattutto, non se ne capiscono le motivazioni profonde. Se Caccamo ci vuole
dire che, nei guasti attuali, stiamo precipitando in un baratro da “Grande
Fratello”, da una parte è ovvio, dall’altra non aggiunge nessuna pietruzza alla
comprensione ed alla decodifica del mondo.
Poiché
infine, mi si chiedeva un giudizio per il torneo, ve lo riporto, laddove, è
vero, dico cose come le sopracitate, ma mi fa piacere condividerlo con voi.
Due evidenti errori che si poteva evitare in stampa. La storia di Jerome finisce a pagina 75, poi il nome ricompare a pagina 79, ma si sta parlando di Igor. Quindi, a pagina 92, la frase “sono strumenti potenti di ri-civilizzazione potenti” non mi pare sensata (qualche potenti di troppo).
Pietro De Santis “C’era una città” Armando
editore s.p. (regalo dell’autore)
[A: 13/04/2022 – I: 18/04/2022 – T:
19/04/2022] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 78; anno:
2022]
Anche se come vedete sopra, è l’autore
stesso, nonché amico, che mi regala i suoi libri, il mio giudizio, di lettura,
di gradimento, di riuscita, resta sempre imparziale. Leggo Pietro come leggo
Vargas, commento Pietro come commento Auster.
Sgomberato quindi il campo da favoritismi ed
indulgenze, ma anche da rivincite verso una persona che riesce a scrivere, al
contrario di altri, devo dire che, pur ritenendo questo un buon libro, nel suo
genere, purtroppo non è il mio, di genere. Certo, l’autore ci dà due
avvertimenti, diretti ed indiretti, su come affrontare il libro. C’è il
sottotitolo, “Una fiaba contemporanea”, e quindi non ci dobbiamo aspettare né
un romanzo, né quelle pennellate di personaggi presenti in altri suoi scritti.
E c’è l’editore, “Armando editore”, discendente in filo diretto dalla casa
editrice fondata dal Professor Armando Armando che da sempre pubblica editoria
per ragazzi e saggistica di indubbio interesse.
Allora, immergiamoci nella fiaba, facciamo
conto di tornare bambini e cerchiamo di muoverci tra le parole di Pietro. Per
noi adulti, infatti, i passaggi sono chiari: descriviamo un mondo ideale,
iperuranico, commettiamo un peccato (originale?) ed il nostro mondo decade,
rimanendo nelle teste quel che c’era un dì. Ricordo che rimane negli anziani,
poi nelle storie, poi si mescola con pensieri inventati. Quindi, la risalita,
il riscatto che viene dai bambini (e da chi altro se no?). Che non a caso sono
due, un maschio ed una femmina, come dei novelli Adamo ed Eva. Non lo sono, ma
possono salvarci, visto che si chiamano Miriam, cioè Maria madre di Gesù, e
Matteo, che vuol dire dono di Dio. Così dalla caduta al riscatto. Non per
tornare al mondo di prima, ma per approdare ad un mondo nuovo che sappia del
vecchio e si protenda verso il futuro, rispettoso della natura e di tutto ciò
che ci circonda.
Ma questa è la storia degli adulti. La
storia è (soprattutto) per i bambini, per farli ragionare sull’oggi, ricordando
loro (in modo non pedante) l’esistenza di uno ieri diverso. Migliore? Forse no.
Di sicuro, ci ricorda Pietro, la possibilità che esista un modo per “pulire”
l’oggi, per renderlo ecologicamente compatibile. E non è un caso che i nostri
eroi, per poter costruire quel mondo, non possano che passare per il sonno. Un
sonno che dura sei mesi o un sogno che dura altrettanto? Un sonno/sogno che mi
riporta a “I fiori blu” di Queneau che ci ricordava nel risvolto del libro: "secondo
un celebre apologo cinese, Chuang-tzé sogna d'essere una farfalla; ma chi dice
che non sia la farfalla a sognare d'essere Chuang-tzé?”
La fiaba, poi, tocca tanti altri punti, che
sarebbe interessante, quando se ne parla con i bambini (ma forse anche con gli
adulti), approfondire. La questione della provenienza (non uso il termine
“razza” che potrebbe fuorviare) che Matteo ha gli occhi a mandorla e Miriam la
pelle scura. La plastica che ci invada. I bambini, riuniti in bande, che mal si
comportano (e si sa che una banda non è solo la somma degli individui che la
compongono). Il rapporto dei ragazzi con la scuola, amore e odio che spesso
deriva (anche) dal distorto modo di porsi dei genitori piuttosto che degli
insegnanti. Per non dimenticare le canzoni che inframezzano il racconto,
rimandandoci alle fiabe cantate che sempre il nostro autore ha prodotto.
Pietro, forse, semplifica troppo la sua
scrittura, per adeguarsi alla dimensione fiaba. Ma non può certo dimenticarsi
di sé stesso, del suo retroterra. Così che, certo, spiega l’uso della parola
“incarnato” che di certo non è di facile utilizzo. Ma poi continua ad
utilizzarla (sperando che i bimbi ne ricordino). E se avesse usato
“carnagione”?
Un secondo trappolone per i bimbi distratti
viene, ad esempio, quando dice che gli antichi avevano inventato due cose
utili. La prima, e lo dice, è il calendario. La seconda, ma non lo sottolinea,
è la scrittura. Di certo, un ragazzo sta lì che aspetta, e Pietro si diverte
alla sua curiosità. Per cercare il capello nell’uovo (un pelo è troppo poco),
direi che, come veniva fuori anche dalle nostre discussioni, più che di
calendario, si inventò a contare, si pensarono i numeri. E contando, cosa di
più semplice che pensare ai giorni che passano, e quindi arrivare al
calendario?
Due menzioni finali. Uno per l’autore
(ignoto seppur citato) dei disegni che accompagnano il testo. Disegni semplici,
quasi “infantili”, che nella loro giovinezza trovano il modo di non stonare con
il tono della fiaba. La seconda è per Mirko, cui auguriamo di poter arrivare a
vedere un mondo più portato al rispetto reciproco (mi raccomando, Pietro, mai
parlare di tolleranza), e che per ora notiamo, casualità o causalità, ha un
nome in M, come Miriam e Matteo.
Ben fatto, professore.
Alphonse de Lamartine “Graziella” Nutrimenti
s.p. (Regalo di Benedetta)
[A: 07/05/2022 – I: 18/05/2022 – T: 19/05/2022]
- &&&
+
[tit. or.: Graziella; ling. or.: francese; pagine: 142; anno 1852]
Nell’anno in cui Procida è eletta “capitale
italiana della cultura 2022”, ricevo questo sentito regalo, a valle della
visita isolana di Benedetta. Omaggio gradito, nonché pensieri solari rivolti
alle lontanissime gite tra Baia e Lucrino (con vista sul Monte di Procida).
Come molti discreti conoscitori della
letteratura francese, avevo sempre e soltanto associato Lamartine alla poesia,
derivandone il buon giudizio dalla preparazione alla maturità passata sui testi
di Francesco De Sanctis. Sapevo anche, seppur in via meno informata, della sua
presenza sul piano politico. Poco o nulla ricordavo della produzione in prosa.
Di cui qui abbiamo un esempio interessante e pieno di spunti, quasi fosse un
compendio delle tematiche romantiche dell’Ottocento.
C’è il “Grand Tour”, con Goethe nella
memoria, laddove il giovane Alphonse parte per un viaggio che doveva portarlo
principalmente in Toscana, poi allargatosi prima a Roma e poi a Napoli. C’è,
grande, il sentimento dell’amicizia che sorge spontanea tra i giovani di mente
aperta. Con l’amico con cui parte dalla Francia, con un pittore presso cui
alloggia a Roma, con una cantante che gli farà da guida nella città eterna, con
un amico di collegio casualmente incontrato a Napoli e con cui legherà moltissimo.
C’è il sentimento di libertà e di patriottismo, che nasce dalle frequentazioni
romane, per poi sbocciare al sole di Napoli, al contatto con la vita dei
pescatori.
E proprio dai pescatori nasce anche lo
schema narrativo spesso e volentieri riproposto all’epoca, del naufragio in
mare, della lotta contro l’avversa natura, nonché della salvezza, faticosa e
felice, sull’isola procidana.
A Procida, nell’umile casa di nonno Andrea,
ne conosce la famiglia, ed in particolare la bella e spontanea nipote Graziella.
Qui, lo scrittore sviluppa un altro duplice elemento romantico. Dal naufragio
della barca si sono salvati solo due libri. Uno lo leggono Alphonse ed il suo
amico, rinforzando, al bisogno, il loro amore per la libertà. Si tratta delle
“Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo. L’altro, usato per intrattenere la
famiglia procidana, è tradotto all’impronto da Alphonse. Si tratta di Paolo e
Virginia di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre, una storia di amore bello
e sfortunato, che ha l’unico vero risultato di far a sua volta innamorare la
bella Graziella.
Qui comincia una seconda parte più melensa e
meno avvincente. Ci sono i turbamenti di Alphonse, che rimasto solo per la
partenza dell’amico, si avvicina sempre di più a Graziella. C’è Graziella che, non
tanto inconsciamente, sente crescere un sentimento verso il bel ventenne. Fino
a che una richiesta di matrimonio rompe l’equilibrio, ed in una notte di amore
(platonico, ovvio, che alla carne si arriverà più di cento anni dopo), i due
avvicinano ed avvinghiano i loro cuori. Anche se il rapporto è nei fatti
sbilanciato. Alphonse, ricco e francese, prima o poi dovrà tornare in patria.
Graziella, povera anche se bella, non potrà che rimanere nel Golfo.
Così Alphonse parte e promette a Graziella
di tornare. Ma non sarà così, neanche quando riceverà una di lei lettera che
gli comunica la malattia (tisi, ovvio) e la sua imminente morte. Cosa che
puntualmente si avvera. Il poeta porterà sempre con sé la lettera in ricordo
del suo primo amore, ma quando anni dopo tornerà a Napoli non troverà più
traccia né di Graziella, né della famiglia di nonno Andrea.
La scrittura (redatta da un Lamartine
sessantenne che ricostruisce la memoria della sua giovinezza, che il testo
risulta redatto intorno alla metà degli anni ’40 dell’Ottocento, poi pubblicato
in volume nel 1852) è già piena delle sensazioni forti dei romanzi coevi. Ma
resta un po’ ingenua, anche se alcuni descrizioni ne danno gran forza: l’isola
di Procida, il Vesuvio, la vita quotidiana a Napoli, quando si parla di sera,
al fresco delle terrazze. E come già rilevato, se nella prima parte i punti
forti del romanticismo sorreggono il testo, la seconda parte risulta meno
avvincente. Tanto che Flaubert ne parla come di un’opera poco riuscita. Tant’è.
Se volete, infine, non tanto rendere omaggio
a Lamartine, quanto alle grandi capacità della televisione italiana di
sessant’anni fa, vi consiglio di cercare, nelle Teche Rai, lo sceneggiato
“Graziella” con Corrado Pani nei panni di Lamartine, ma soprattutto con una
stupenda Ilaria Occhini in quelli di Graziella.
“Come stupirsi … se i più sublimi scenari
del creato siano contemplati dai viaggiatori con occhi così diversi? … Lo
spettacolo è nello spettatore.” (102)
Maxence Fermine “Il palazzo delle ombre”
Bompiani euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)
[A: 23/02/2022 – I: 12/07/2022 – T: 14/07/2022] - &&& ---
[tit. or.: Le
Palais des ombres; ling. or.: francese; pagine: 221; anno 2014]
Incominciamo con il tributare un doveroso
omaggio all’autore ed a chi, ormai quasi venti anni fa, me lo fece scoprire. Fu
allora, in uno dei momenti postumi ad alcune svolte significative, che la mia
amica Chiara mi disse di leggere un libro “L’apicoltore” di un certo Maxence Fermine.
Fu amore a prima vista con l’autore. Che non ha mai scritto cose dirompenti,
mantenendo sempre un tono pacato. Ma non cessando mai di interrogarsi (ed
interrogarci) sul senso della vita, sui sogni che accompagnano il nostro
procedere dalla vita alla morte, le passioni che tutti abbiamo ed il loro modo di
entrare nella nostra vita, a volte per migliorarla, a volte per metterci in
seria difficoltà.
Lo stile di Fermine, di cui credo di aver
letto in questi anni sei o sette libri, rimane proprio per quanto sopra detto,
sempre simile a sé stesso. Non eccelso ma neanche stancante, si legge con
facilità, e, se riusciamo a lasciare andare i nostri freni, ci conduce in giro
per mondi e situazioni che ci fanno riflettere.
Lo stesso impianto emozionale si ritrova in
questa storia che ci porta agli inizi degli anni ’60, e dove seguiamo le
vicissitudini di Nathan Tanner. Figlio di un romanziere di buon successo, Hugo,
che lo aveva comunque lasciato dai nonni quando, nel ’32, a tre anni, muore in
un incidente automobilistico la madre Rebecca. Lo zio Hadrien, nonché fratello
di Hugo, scompare a Buchenwald nel ’43. Mentre Hugo, dal ’46 al ’51 sforna sei
romanzi di discreto successo, che gli consentono di proseguire la sua vita non
particolarmente dura.
Nathan, una volta cresciuto, trova la sua
dimensione come costruttore di marionette. Un mestiere certo non proprio
redditizio, ma che gli dà da vivere. E consente all’autore di discettare a
lungo sulla vita, sulle marionette, e su chi tira i fili.
Lo scatenarsi del racconto avviene quando
Nathan riceve una lettera da Hugo che gli annuncia il proprio suicidio, nonché
il fatto che gli lascia in eredità il Palazzo da lui comprato nel ’30: il
Palazzo delle Ombre, una costruzione architettonicamente complicata, di cui si
dicono stranezze (soprattutto fantasmi e morti sospette). A patto però che
riesca a trovare il manoscritto del suo ultimo scritto, di cui gli editori
parlano da decenni, ma che nessuno ha letto.
Il romanzo si riempie di piccoli misteri e
di personaggi, a volte solari, a volte misteriosi. Tra i primi c’è la
violinista Anna, vicina di casa, cui Nathan si confida, si accompagna nelle
spedizioni all’ombroso palazzo, e di cui sospettiamo da subito che possa finire
con un loro coinvolgimento sentimentale.
Tra i secondi c’è un losco editore che non
si arrende alla perdita del manoscritto, ed un personaggio ombroso (tale
palazzo…) che si aggira misteriosamente, prendendo il nome del primo
proprietario del palazzo, un argentino morto suicida negli anni ’20.
Le fila (della trama e delle marionette) si
intrecciano e si intersecano con le scritture, del padre, di Nathan, e di altri
(mica vi posso dire tutto), costringendo Nathan a fare un lungo viaggio intorno
a sé stesso, ricostruendo, a volte inventando, la sua storia familiare. Ma
Nathan è buono ed alla fine il suo amore e la sua passione riuscirà a portare
il romanzo verso una fine congruente.
Rimane, dal punto di vista narrativo, la
costruzione interna del palazzo, con le sue stanze nascoste, i suoi automi
meccanici, ed altre piccole cose che servono a tirare fili… Sempre con quella
leggerezza calviniana che, appunto, ripeto e concludo, non sarà eccelsa, ma è
per me un buon ausilio di lettura nei momenti pensosi.
Personalmente, infine, non posso che
ringraziare l’autore per avermi fatto tornare con la mente in alcuni luoghi
della mia adolescenza parigina. Il Père-Lachaise, dove anch’io come Nathan mi
rilassavo in passeggiate, alla ricerca delle tombe famose. Ricordo rue de
Lesseps, ma i palazzi con torrioni ed altre invenzioni architettoniche li
ricordo più spostate sotto Pigalle. E soprattutto rue des Barres, e tutta la
zona del basso Marais fino a quello che ora è il centre Pompidou, ma che per me
(e per Nathan) era la zona delle Halles. Proust e le sue madeleine ci fanno un
baffo.
“Dopo una certa età, non si torna più
indietro.” (15)
“Bisogna guardare avanti per continuare a
vivere … Non sono d’accordo … Il passato fa parte del presente e costruisce il
nostro futuro.” (114)
Prima
trama di un mese post-estivo, e quindi vi sorbite l’elenco delle massicce
letture del mese di giugno. Dove spiccano due Simenon d’annata e svetta un
ricordo personale dovuto ad uno dei miei tanti cugini. Di converso, sempre
verso il fondo, precipitano i pochi attraenti libri robinsoniani.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Ragnar
Jónasson |
Fuori
dal mondo |
Marsilio |
9,50 |
3 |
2 |
Martin Walker |
Grand Prix |
Repubblica
Noir |
7,90 |
2 |
3 |
Ian Stewart |
I numeri uno |
Le Scienze |
15 |
3,5 |
4 |
Gaetano
Savatteri |
Il
lusso della giovinezza |
Sellerio |
14 |
3 |
5 |
Ann-Marie
MacDonald |
Chiedi
perdono |
Corriere
– Saghe |
7,90 |
2 |
6 |
Piergiorgio
Pulixi |
Lo
stupore della notte |
Corriere
Profondo Nero |
7,90 |
2 |
7 |
Georges
Simenon |
Pioggia
nera |
Repubblica |
9,90 |
4 |
8 |
Brigitte Glaser |
Morte sotto spirito |
Repubblica
Noir |
7,90 |
2,5 |
9 |
Georges
Simenon |
Il
viaggiatore del Giorno dei Morti |
Repubblica |
9,90 |
3,5 |
10 |
Ricardo Piglia |
Solo per Ida Brown |
Repubblica
Noir |
7,90 |
3 |
11 |
Adriano
Ossicini |
Gli
esami non finiscono mai... ma chi l'ha detto! I ragazzi del '49 |
Youcanprint |
s.p. |
4 |
12 |
José
Saramago |
Le
intermittenze della morte |
Feltrinelli |
9,50 |
3,5 |
13 |
Mirko Zilahy |
È così che si uccide |
Corriere
Thriller |
7,90 |
3 |
14 |
Georges
Simenon |
La
vedova Couderc |
Repubblica |
9,90 |
4 |
15 |
Ragnar
Jónasson |
La
donna del faro |
Repubblica
Noir |
8,90 |
3,5 |
16 |
Haruki Murakami |
La strana biblioteca |
Corriere |
9,90 |
2 |
17 |
Silvio
Danese |
In
pace con la pancia |
Sonzogno |
s.p. |
1 |
18 |
Haruki
Murakami |
Gli
assalti alle panetterie |
Corriere |
9,90 |
2,5 |
19 |
Enrico
Brizzi |
Una
notte sull’alpe della luna |
Repubblica
Montagna |
9,90 |
3 |
20 |
Simone
Alliva |
Fuori
i nomi |
Fandango |
s.p. |
1 |
Come dicevo incipiando questo testo, molti e nuovi sono i compagni di viaggio che spero ci terranno compagnia in queste letture. Se vi piacciono, continuerete a riceverne; se vi stufate, mandatemi una mail, e sarete esentati da nuovi invii.
Intanto, anche questa come scadenza periodica,
vi riporto un frase sulla memoria del troppo presto scomparso scrittore sardo Sergio Atzeni che ci ammoniva in un bel libro di Sellerio, “Il figlio di Bakunin”: “sui fatti si deposita il velo della
memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola [sinonimo di “rende
leggendario”, ripreso da Atzeni da “Horcynus Orca” di D’Arrigo dove venne usato
per la prima volta. N. mia] il narrare dei protagonisti, non meno che i
resoconti degli storici” (153).
Visto che ho scritto troppo, per ora taccio, che si scriverà di più e meglio nel futuro. Quindi un arrivederci alla prossima scrittura.
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