domenica 27 luglio 2025

Serie di donne in giallo - 27 luglio 2025

Non parliamo della signora televisiva, ma di una cinquina di trame che hanno protagoniste donne che indagano. E donne italiane. Abbiamo infatti Vani Sarca (seconda puntata), Cristina Macallè (prima), Libera Cairati (decima), Lolita Lobosco (undicesima) e Sara Morozzi (settima).

Tutte letture con una sufficienza d’affetto, sia per le quattro scrittrici che per l’unico scrittore, che tra l’altro è quello più noto ed acclamato. E tutte, chi già chi poi, in procinto di essere serializzate anche in televisione.

Alice Basso “Scrivere è un mestiere pericoloso” Garzanti euro 6,90

[A: 27/07/2021 – I: 27/02/2025 – T: 28/02/2025] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 339; anno: 2016]

VS2

Continuiamo con il secondo libro delle avventure di Silvana Cassandra Sarca detta Vani, prodotto esimio e godibile uscito dalla penna di Alice Basso. Forse a volte un po’ troppo cerebrale per avere un successo alla Alessia Gazzola (eppure lo avrebbe meritato) è un altro libro di facile fruibilità, anche se la trama “quasi” gialla è abbastanza scontata.

Per chi non avesse seguito la mia prima trama su Alice, ricordo che Vani è una ghostwriter, anche decisamente brava nel suo mestiere, dotata infatti di una forte capacità di empatizzare con le persone, di capirne le modalità espressive. Una dote che le ha consentito, oltre allo sviluppo del suo mestiere, di diventare l’aiutante preferita del Commissario Romeo Braganza. Anzi di essere nominata addirittura sua assistente.

Strano infatti è il rapporto tra i due, divisi da un congruo numero di anni, ma con il Commissario che certo diventa il mentore di Vani (le fa anche fare, giustamente, un corso di autodifesa) ma che, durante i momenti comuni, sembra essere percorso da qualche cosa di più che un affetto simil paterno. Filo rosso che arriva anche dalle parti di Vani, tant’è che, pur con degli alti e bassi, e con dei fidanzamenti e sfidanzamenti, la nostra non sa se dar retta alla pelle che la porta verso (l’insopportabile, per me) Riccardo, o la testa che la riporta da Romeo.

Comunque la trama diventa interessante quando l’esimio editore di Vani, il supponente Enrico Fuschi, la coinvolge in una scrittura difficile anche per una ghostwriter affiatata. Si tratta infatti di scrivere un libro di ricordi e ricette sulla base di quanto le viene narrato dalla signora Irma Envrin, per una vita la cuoca principale della famiglia Giay Marin. Una nota famiglia di stilisti, colpita anni prima da una vicenda delittuosa: il fratello minore, Aldo, in un impeto d’ira uccide il maggiore, Adriano, al tempo direttore generale della casa di mode, succeduto al padre Armando. Aldo reo confesso sconta una lunga pena, mentre a gestire il tutto rimane la moglie di Adriano, Delia Visconti Bligny.

La difficoltà per Vani non è scrivere dei ricordi, ma inserire le giuste ricette visto che lei, ostinatamente, non ha la più pallida idea di cosa sia la cucina, gli ingredienti, le cotture e tutto il circo mangereccio. Fortuna che c’è il Commissario che, oltre ad essere un fine poliziotto, è anche un raffinato gourmet, che insegnerà i rudimenti della cucina  Vani. Introducendola ai misteri dei sapori dello scalogno o all’esistenza di prodotti alimentari come il topinambur.

Il tutto sarebbe poco giallo se fin dal primo colloquio tra Irma e Vani, la felice ma un po’ svampita ottuagenaria non confessasse candidamente di essere stata lei ad uccidere Adriano. Da qui comincia tutto l’andirivieni tra casa Giay Marin e casa Braganza, la prima per intervistare Irma, aiutata dalla padrona di casa Delia, la seconda per impratichirsi di cucina e discutere con il commissario le impreviste ed improbabili storie che narra Irma.

Non vi sto a tediare con tutte le agnizioni che a poco a poco escono dai racconti. La tresca tra il vecchio patron e Irma stessa, una seconda possibile tresca tra Irma ed il giardiniere, le ipotesi, probabili ma da verificare, che Aldo sia figlio di Irma, il debole che Adriano aveva per tutte le donne (eufemismo per dire che era un puttaniere impenitente), l’affetto che Aldo aveva per tutte le persone di casa, ed in particolare per Delia (pur se mai sconfinato in qualcosa d’altro), la consolazione che Delia stessa aveva nelle attenzioni di Aldo.

Fatto sta che la scoperta di una serie di libri di Milton Erickson, un ipnoterapeuta americano realmente esistito, portano Vani ad ipotizzare e realizzare il quadro risolutivo dell’indagine. Che rimane appunto un po’ monca, in mancanza di morti recenti ed altre attività immediatamente criminose.

Fortunatamente il tutto è condito da una serie di prove empatiche di Vani come consulente poliziesco, nonché una lunga e trasversale storia che coinvolge l’affetto e la protezione che Vani prova ed esercita verso la giovane Morgana, la simpatica dark del piano di sopra che chiede aiuto alla nostra ghost di scriverle dei testi affinché possa far colpo sul ragazzo di cui si sta innamorando. Qui, in modo sghembo, c’è anche l’aiuto che le dà il tredicenne Ivano, nipote di Braganza, che riesce ad accenderle una luce sull’universo espressivo degli under 16. E devo dire che questa parte giovanilista, pur breve, è più interessante del resto.

Insomma come ho detto e continuo a dire, Alice ha una bella scrittura, le storie di Vani sono gradevoli, peccato che questa seconda puntata si arrugginisca un po’. Speriamo nel futuro…

“Stai sempre a leggere, leggere, leggere! Per carità, nessuno dice che leggere non vada bene, ma tu stai esagerando! Sembra che non t’interessi nient’altro! Esistono anche le persone, diamine!” (90)

Alessia Gazzola “Questione di Costanza” TEA euro 5

[A: 22/08/2021 – I: 12/05/2025 – T: 14/05/2025] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 343; anno: 2019]

CM1

Erano anni (tre) che non leggevo di Alessia Gazzola, per cui, a valle dell’uscita della serie televisiva, ho deciso di dare una chance a questo “Questione di Costanza”.  Non so se la successiva opera seriale della nostra (mi riferisco a Miss Bee) sia migliore, ma questa (in tre volumi, di cui questo è il primo) non mi ha convinto né in scrittura né nella sua riproposizione televisiva.

L’ossatura della trama è presto delineata intorno al personaggio principale, Costanza Macallé (dove dal cognome capiamo subito l’origine sicula, e poi verremmo a sapere che in effetti è messinese). Pochi anni prima dell’inizio della storia (tre nel libro, qualcuno in più nella fiction) ha un breve incontro di sesso a Malta con tal Marco. Scoperto che Marco è ben fidanzato, lo manda a quel paese, senza prenderne gli estremi. Ovvio che si ritrovi incinta, che decida di tenere la piccola Flora e, aiutata dalla famiglia, riesce anche a laurearsi in medicina.

Non trovando posti come anatomo patologa, si adatta a fare la rider per Messina, fino a che non vince un posto a tempo determinato (un anno) presso l'Istituto di Paleopatologia dell'Università di Verona. Fortuna vuole che proprio a Verona viva la sorella minore, Antonietta, psicologa alle prime armi. Anche se il rapporto tra le due diventa subito velatamente conflittuale: Antonietta pragmatica e organizzata, Costanza impulsiva e sognatrice.

Il lavoro all’Università consiste nello studiare malattie antiche, ma tutto viene stravolto dal ritrovamento, negli scavi di un convento, di uno scheletro con una treccia di capelli rossi in mano. Partono subito ricerche a tappeto, nonché ipotesi della nostra Costanza che non esita a costruire castelli in aria a tutto tondo. Alla fine, con Alessia che usa salti temporali in corsivo, Costanza e l’equipe universitaria ricostruisce una storia intorno al ritrovamento.

Seguiamo così la storia (inventata) di due figlie naturali di Federico II: Selvaggia di Staufen, andata in sposa al terribile Ezzelino III da Romano (tanto terribile che Dante lo colloca all’Inferno nel girone dei violenti) e Biancofiore, di cui invece non si sa nulla. Le invenzioni di Alessia sono la zoppia di Biancofiore fatta cadere di cavallo da Selvaggia, nonché l’esistenza di tal Aldegar von Dannenberg. Quest’ultimo si sarebbe invaghito di Biancofiore, ma, essendo vicino al papato, viene ucciso come traditore. Con tutta una serie di possibili eventi legati al fatto che Federico e la sua progenie erano rossi di capelli.

Seppur questa è una storia interessante e ben congeniata, se vi si inseriscono gli intarsi delle lotte di potere a livello universitario, si costruiva una decente storia. Ma Alessia vuole un po’ strafare, mettendoci qualche zeppa che rimandi alle “love story” alla Alice Allevi. Così, con pochi indizi e molta fortuna, rintraccia il Marco padre per caso, ora architetto in quel di Milano. Facendo nascere tutta una serie di momenti “quasi”. Il quasi padre che quasi si innamora della donna di cui si doveva innamorare, anche se è quasi sposato. Insomma, tutta una fase di “caduta nel rosa”, che non risolvono la vicenda, sia perché non creano empatia con i personaggi, sia perché non suscitano possibili momenti ironici.

Insomma, i soliti due binari tipici della nostra Gazzola: una parte extra testuale (in Alice erano indagini poliziesche, in Costanza ricerche storiche intriganti) ed una parte da vivere (in Alice le storie prendere e lasciare con Claudio Conforti, in Costanza le tensioni e le indecisioni con Marco Erdély de Verre, che a me già dal nome mi sta antipatico). Forse solo l’idea dell’intreccio tra le due parti è quella che da un po’ di sostanza al testo. Con l’idea, ad esempio, che possiamo imparare dalla storia (vero Luciano?) o quella che bisogna guardare indietro per andare avanti.

I messaggi di Alessia sono quindi al solito molto lineari. Ci si interroga su cosa si voglia davvero nella vita, e su quanto si è disposti a lottare per ottenerlo. Purtroppo a messaggi chiari non corrisponde una scrittura avvincente. Se ci chiediamo, come sembra farlo Costanza, come fare a diventare adulti senza smettere di sognare, Alessia non ci dà risposte convincenti. Tanto che tutto il castello che costruisce alla fine converge in un finale che non finisce. Troppo facile capire che ci sono altre puntate. Dove spero si riesca a far sparire il quasi padre Marco che è di una antipatia e supponenza direi totale.

Antipatia che personalmente ho ritrovato amplificata nella serie tv, dove il Marco in questione è interpretato da Marco Rossetti, che trovo semplicemente inutile. Comunque questo ci permette di saltare dal libro alla serie, sottolineando che ci sono più differenze che similitudini, quasi si fosse capito, durante la sceneggiatura, che il testo era debole. Così il cadavere da maschile diventa femminile, Biancofiore da sorella diventa figlia, Marco vive a Verona e non a Milano, e le lotte universitarie hanno interpreti di spessore maggiore.

Personalmente, non mi sono piaciuti né la serie né il libro, anche se devo riconoscere lo stimolo storico ad andare a ritrovare la storia di Ezzelino il terribile ed i pochi accenni esistenti su Selvaggia.

Rosa Teruzzi “La giostra delle spie” Sonzogno 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

[A: 27/05/2025 – I: 29/05/2025 – T: 30/05/2025] && +  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno: 2025]

LC10

Praticamente un anno dopo l’ultimo episodio esce un nuovo romanzo della “Miss Marple del Giambellino”, come viene chiamata la simpatica Libera Cairati, fioraia a tempo pieno e detective a tempo perso, insieme alla madre Iole ed all’amica giornalista Irene, detta la Smilza.

Rosa Teruzzi, da brava “giallista giardiniera”, come si definisce, prende e riprende a piantare i suoi personaggi, cercando di capire, attraverso le loro possibili evoluzioni, quale sia la possibile evoluzione della trama. Confezionando così un libro discreto, anche se, personalmente, lo trovo un filino al di sotto dei precedenti.

Precedenti ai quali si lega in maniera un po’ troppo da feuilleton francese dell’Ottocento. Che il non volume delle storie di Libera e socie si chiudeva con la nostra fioraia alle prese con un avvelenamento da petali di fiore imbevuti di un veleno (l’aconitina), dovuti ad un bouquet recapitatole in ospedale, dove era ricoverata in seguito alle vicende del non volume stesso (cui rimando senza ripeterle). Petali che avevano inciso le lettere “P E R A C”. Dove non ci vuole certo un Bartezzaghi per tirarne fuori il vero messaggio (CREPA).

Tutto questo decimo episodio, quindi, ruota intorno alla ricerca di chi sembra voler del male alla nostra Libera, in un balletto (più che in una giostra) dove tutti spiano tutti, con inseguimenti, pedinamenti, foto rubate, vocali nascosti, ed altre spionerie, che ci porteranno alla fine del libro, ma non alla fine delle avventure, che le ultime pagine lasciano aperto non uno spiraglio ma una voragine di possibilità per altre avventure.

Se su questo torneremo, anche se quest’aspetto poliziesco è forse il più debole ed il meno appassionante del romanzo, quello che rimane sempre vivo nella nostra immaginazione è il muoversi dei personaggi piantati da Rosa. Anche se, pure qui, ci sono momenti alti e bassi in ognuno di loro, non sempre all’altezza dell’ironia che li dovrebbe caratterizzare.

Visto che questa volta è Libera al centro delle attenzioni, che si deve trovare il suo possibile attentatore, potrebbero venir meglio alla luce i comprimari. Mamma Iole, ad esempio, sempre sopra le righe, nonostante i suoi settant’anni, e sempre coinvolgendo il suo vecchio amore hippie Diego (che per un po’ era stato anche sospettato di essere il padre di Libera, ma che sappiamo invece essere un ladro, da alcuni episodi precedenti, chiamato “Gatto con gli Stivali”, che rubava agli usurai). Sarà lei, con una sua foto malandrina a scagionare un possibile coinvolgimento di Libera stessa in un tentativo di omicidio.

Molto in ombra c’è la figlia Vittoria, di cui vediamo solo (e ne capiamo) il rimpianto di non essere compresa né dalla madre né dalla nonna. In media luz stanno i nostri amati pennivendoli dello scandalistico “La Città”. Il capo, il Cagnaccio, ha sempre idee interessanti per pubblicare storie pruriginose, anche quando non c’è che fuffa. Ma ha anche la capacità di far lavorare gli altri. Sia le nostre tre donne, che l’impareggiabile Smilza, cui qui si aggiunge il fotografo Angelo detto Piè Veloce, il mago dei pedinamenti.

In ombra anche, ma vorrebbe uscire alla luce, c’è il cuoco Furio, che continua a fare una corte spietata a Libera, senza grossi passi avanti. Anche se lei, pur non cedendo alle sue attenzioni, non è insensibile né ai manicaretti, né al fatto, comunque, di essere corteggiata. Mentre è sensibile alla corte di lunga durata del commissario Gabriele, con cui sappiamo ha passato una bella vacanza toscana. Con, tuttavia, una piccola frenata: Gabriele non è insensibile al fascino delle donne, avendo avuto una relazione con la collega Nadia, ed essendo concupito (velatamente) dalla PM Mimma.

Quindi, lo sforzo della squadra poliziesco-investigativa è tutto teso a trovare chi si cela nell’ombra (che è anche il soprannome della persona che vediamo agire in qualche veloce capitolo). Un’Ombra che non aveva realmente intenzione di uccidere Libera (la dose di veleno era sotto le dosi letali). Forse la voleva incastrare, come sembra in tutta la macchinazione che vede Libera incolpata di un incidente stradale, da cui sarà mamma Iole a tirarla fuori. Inciso: incidente che serve a togliere di mezzo, almeno nel futuro, una delle spasimanti di Gabriele.

Tra inseguimenti ed agnizioni, si capisce che forse Libera è un incidente collaterale di una strategia più ampia. Di cui scopriremo almeno il 75%, mentre il resto si capisce sia rimandato ad un futuro romano.

Riassumendo, allora, sempre una buona atmosfera milanese, scorci cittadini ben costruiti, una media di personaggi godibile, senza però incisività forte o momenti che rimandano ad altro. Certo, ci sono anche alcune citazioni (tra cui quella della bellissima poesia di Nazim Hikmet), ma mancano quei giochi di rimando letterario che in altri episodi erano ben graditi. Qui, alla fine, rimane solo un gioco di canzoni con Lucio Battisti. Avrà un senso che mi è sfuggito?

Gabriella Genisi “Una questione di soldi” Sonzogno 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

[A: 27/05/2025 – I: 05/06/2025 – T: 06/06/2025] && +  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 2025]

LL11

Sono passati due anni e mezzo dall’ultima avventura scritta di Gabriella Genisi per le avventure del commissario Lolita Lobosco, periodo che la scrittrice ha utilizzato per raffinare le sceneggiature della serie televisiva e per maturare uno o più nuovi episodi della nostra Lolita. Dovendo, tra l’altro, trovare il modo di inventarsi un nuovo filo rosso, visto che tutti i primi episodi erano pervasi dalla tensione volta alla ricerca di capire chi fosse stato l’esecutore materiale dell’omicidio del padre.

Devo dire che, pur non raggiungendo i fasti dei primi episodi, questa pausa di riflessione è servita alla scrittrice per immettersi in un nuovo filone di tormentoni che, se non calano le vendite, promette di seguirci per lunga tratta. Intanto, come all’inizio, le ricette sono relegate a poche paginette, e sono, finalmente, complementari alla narrazione (e non viceversa).

Inoltre, proprio per quel bisogno di far tornare Lolita in primo piano, è lei, con i suoi tormenti sociali ed esistenziali, che torna in primo piano, che torna ad essere protagonista delle storie, sia pubbliche che private. Rispetto poi alle derive televisive, sia il vice Forte che il simpatico Esposito sono di nuovo sullo sfondo, complici di qualche battuta e di qualche idea, ma non più, per ora, anche loro al centro. Centro dove si piazza invece la sorella Carmela, con tutto l’odio-amore verso Lolita. E dove penso (dato lo schema del libro) comparirà primo o poi anche Nunzia (soprattutto nella magistrale interpretazione di Lunetta Savino).

Mentre la parte poliziesca, pur con la solita dovizia di particolari (che noi ormai abituati a CSI non possiamo farci mancare) è abbastanza esile, e soprattutto, decodificabile in poche battute.

La morta è una direttrice di banca che risulta defenestrata (nel senso ungherese del termine, coniato nel ’56). Omicidio o suicidio? Come far risaltare le luci e le ombre della morta?

Sposata con un pesce lesso (che per l’appunto Pesce fa di cognome), lei che invece ama lusso ed avventura, si comprende che abbiano scelto di separare le loro scelte di vita. Anche se il marito rimane rancoroso, così come odiosa risulta la cognata (su cui torniamo in finale per incisi esteriori). Inoltre, come per tutte le persone di cui si parla bene, anche in banca non è che fosse proprio in palma di mano. Laddove invece risultava fosse per faccendieri, grandi e piccoli. Come l’odioso Carlo Cadavere o il lontano cugino Michele.

Se uniamo i tratteggi dei personaggi al titolo chiarificatore, abbiamo motivi, modalità e colpevole posti in palmo di mano.

Ma è tuttavia la parte privata quella che più è di interesse, nonché foriera di successive uscite. C’è la parte genitoriale di Lolita, che è assente nella forma (lei si avvia ai cinquanta) ma che potrebbe essere riscattata nella sostanza, laddove c’è un ragazzo in cerca di affido, sponsorizzato alquanto dall’amica Marietta. C’è la parte di rapporti, visto che Giovannimio si era allontanato (o lo era stato?), che qui ci si distrae con uno splendido vedovo sessantenne. Ma Marietta spinge sempre al riavvicinamento tra Lolita e Giovannimio, cosa che invece noi vedevamo non proprio di buon occhio.

Tuttavia, l’elemento di rottura degli equilibri è la somiglianza fatale tra Lolita e la morta. Tanto che si affacciano alcuni interrogativi non banali: c’è stato un errore e si voleva far del male a Lolita? O le due in realtà sono gemelle separate alla nascita? Con questa eventualità che, se confermata, è uno dei motivi della possibile maggior visibilità della madre Nunzia e della eventualità quasi certa di nuovi episodi.

Detto quindi il solito bene delle descrizioni della bella città di Bari, nonché del cammeo trasversale quando Lolita fa una “calorosa” telefonata a Salvo Montalbano (ricordandoci poi che Luisa Ranieri, l’interprete di Lolita, è la moglie di Luca Zingaretti, l’interprete di Montalbano), ci sono due ultimi elementi che mi piace ricordare, uno esogeno e l’altro endogeno.

Il primo riguarda una sensazione più volte espressa nel corso del testo, e che ho ben presente date le mie visitazioni frequenti alla letteratura giapponese. Si tratta di quel sentimento che anche la nostra scrittrice etichetta come Natsukashii. Un temine che si potrebbe tradurre come “nostalgia felice” per aver vissuto una lontana esperienza il cui senso di pienezza e di gioia rimane per sempre nel cuore.

Il secondo si è concretizzato a pagina 85, dove Lolita paragona l’odiosa Santina Pesce a Férula Trueba de “La casa degli spiriti” di Isabel Allende. Fatto sta che pochi giorni prima di questo ho finito di leggere “Il mio nome è Emilia del Valle”, un prequel proprio di quel libro. Coincidenze da ricordare.

Maurizio De Giovanni “Il pappagallo muto. Una storia di Sara” Rizzoli euro 19 (in realtà, scontato a 18,95 euro)

[A: 27/05/2025 – I: 09/06/2025 – T: 10/06/2025] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 237; anno: 2025]

SM7

Torniamo, dopo due anni, ad avere il piacere di leggere una storia di Sara Morozzi, confezionata dalla bella penna di Maurizio De Giovanni. Purtroppo, il giudizio sulla serie rimane costante: belle premesse, una buona presa di coralità, ma una scrittura poco coinvolgente, in particolare in queste ultime uscite, dove, restando l’insopportabile altalena tra passato e presente, avendo correttamente deciso che il corsivo è irritante, rimane la sospensione di lettura, laddove sembra di non riuscire ad interpretare in quale momento di trama ci troviamo.

Tra l’altro, in queste poco più di duecento pagine la trama in quanto tale, lo spunto noir è esile e quasi soltanto un pretesto narrativo. Che porta al solito “non lieto fine” (ma neanche cattivo), cioè quella piccola sospensione che ci fa dire che questo episodio ha avuto un termine, ma che prima o poi ci sarà dell’altro.

Con buona pace del caro scrittore, seppur poi la costruzione del romanzo ha una sua solidità, l’assunto iniziale, quello che dà il via al pensiero di scrivere, si gioca intorno ad una barzelletta non dico datata, ma forse era datata anche ai tempi di mio nonno Arturo (e non vi dico di quand’era l’arzillo vecchietto che ho pure conosciuto).

Si tratta di quel tormentone di un signore che vuole comprare un pappagallo, ed il negoziante, per ogni esemplare, aumenta il prezzo magnificando la parlantina dell’animale ed il numero di lingue che conosce. Fino ad arrivare all’esemplare più costoso, che però non parla. Ma costa tanto perché gli altri pappagalli lo chiamano maestro. Detto ciò, già tutto l’impianto è noto e scoperto (e comunque la barzelletta viene detta per esteso, quindi nessuna anticipazione).

Allora, i personaggi di contorno sono sempre gli stessi (Viola, Teresa, Andrea, Pardo e Boris), cui si aggiunge una nuova recluta del Servizio, la giovane Bianca. Giovane, quindi tecnologica e ben determinata. Che deve rispondere ad un capo, chiamato “Principe” che ci piace molto poco, ma che, soprattutto, deve risolvere il mistero di una riunione che potrebbe essere il prodromo di una serie di attività illecite e di mazzette compiacenti.

Ma i nuovi “mafiosi” sono anch’essi tecnologici, anzi super; quindi, per intercettarli Bianca suggerisce l’uso della vecchia guardia, quella che sa leggere le labbra e captare i movimenti. Parliamo ovviamente di Sara e di Andrea. Che si collocano nel ristorante per scoprire i misteri. Dove ci sono i faccendieri, ma soprattutto c’è una persona che non deve essere visto, che non parla, che è il “pappagallo muto”.

Peccato che prima di poter comunicare quello che ha capito, Sara e Andrea vengono investiti di proposito, con Andrea che finisce in coma e Sara che, pur ferita, riesce ad occultarsi. Da qui, la parte thriller classica da un lato e la parte dolente e “psicologica” dall’altro.

Questa seconda parte, che i più osannano come magistrale introspezione, è per me la più debole, anche come costruzione. C’è un lungo dialogo, in un limbo tra sogno e realtà, dove Andrea in coma parla ma soprattutto ascolta Massimiliano, il loro vecchio capo, morto da anni di tumore. Capite bene come possa essere debole tutto ciò. Certo è un dialogo d’amore (avevamo sempre pensato che Andrea avesse un amore forte per il suo capo), ma è un dialogo tra un morto ed un moribondo. Serve ad esplorare qualche risvolto delle personalità degli uomini. Serve a far capire che, forse, Andrea muore. Ma soprattutto serve, in un barlume di risveglio, a far sì che Sara legga il labiale di Andrea e capisca come e dove deve dirigere le sue indagini per risolvere il mistero.

In parallelo al dialogo che non mi è piaciuto, Sara e la sua squadra, usando tutto l’usabile, cercano di venire a capo dei misteri. Del perché la riunione, delle sue conseguenze, ma soprattutto perché hanno tentato di uccidere i due anziani dei Servizi (tanto anziani che ormai stavano in panchina). Tra momenti ad alto rischio, situazioni confuse, dubbi su chi sia amico di chi (ma anche con alcune scene familiari dovuto all’impareggiabile Boris), quella frase di Andrea permette a Sara di trovare il filo della trama nera.

Non è importante sapere tutto e seguire tutto. Ovvio che Sara troverà il pappagallo, ma è anche ovvio, per quanto detto all’inizio, che non sarà un finale da giallo classico. Magari con il pappagallo che si trasforma in fenice.

Il lavoro di Maurizio è comunque, tolto il discorso epidemico della trama pura e semplice, quello di impostare su due filoni i suoi ragionamenti. Da un lato il senso di “famiglia”, intensa come luogo in cui si coagulano affetti non solo dovuti ai legami di sangue. Il luogo dell’amicizia e del rispetto reciproco. Il luogo dove le relazioni diventano legami, che rimangono nel corso degli anni, anche non alimentati da una frequentazione quotidiane, ma che esistono per sempre. E non è retorico, che io ne so.

L’altro filone è quello dell’avanzare degli anni. Quel bisogno interiore di sapere di essere utili anche quando non si è più giovani. C’è nei personaggi di De Giovanni una conoscenza ed una dinamicità interiore che non possono essere messi da parte, che continuano anche arrivati “alla terza età”. Quindi, se c’è bisogno di sentirsi utili, c’è anche la consapevolezza di poter dare agli altri qualcosa. Che loro prenderanno se servirà, se verrà capita, ma intanto c’è.

Voglio finire per svelare il lato nascosto del “romanziere d’appendice”, che collega le sue storie, ma, appunto, in modo molto delicato e poco appariscente. Il precedente episodio della serie (“Sorelle”) terminava con la frase “Ci fosse stato il sole…”. “Il pappagallo muto” comincia con “Un raggio di sole si faceva strada attraverso il finestrone”.

È vero, vi ho lasciato un’altra settimana “in bianco”, sia di trame che di citazioni. Per le seconde, ci affidiamo ad un florilegio di autori, tutti poco vicini alle trame gialle.

Cominciamo dall’unico italiano, Niccolò Ammaniti che in “Io e te” esplicita una paura comune a molti: “Bisogna essere molto sicuri di sé per fare le battute in pubblico.” (19)

Anche il britannico David Nicholls mi dà un consiglio che ho impiegato anni a comprendere, laddove in “One day” ricorda: “Stava scoprendo ancora una volta che lettura e scrittura non sono la stessa cosa.” (183)

Finiamo con due premi Pulitzer. L’australiana Geraldine Brooks ne “I custodi del libro” mi ricorda sia la mia passione per il caffè che quella per una trama ben congeniata: “La decina di tazze di caffè turco che mi erano state servite nel corso della giornata avevano contribuito a tenermi sveglia.” (22) “Un lavoro ben fatto è quello che non lascia tracce.” (43)

Mentre l’americano Andrew Sean Greer ne “La storia di un matrimonio” mi ha fatto pensare con: “C’è forse libertà più grande che dimenticarsi la propria casa?” (135)

Ma soprattutto con altri due pensieri:

“Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo, e anche se non dovremmo stupirci quando scopriamo che non è vero, ci si spezza il cuore lo stesso. È la scoperta più difficile, non tanto sull’altro, quanto su noi stessi. Vedere che la nostra vita è una nostra invenzione; l’abbiamo scritta noi e ci abbiamo creduto. La sensazione che ho provato quella sera …. è stata di tremenda solitudine.” (52)

“Non si può stare ad aspettare che la gente capisca sé stessa: si aspetterebbe per sempre. Metà della vita è sapere cosa vuoi” (196)

Per la prima affermazione, il bianco è stato quello del Monte che abbiamo contornato in una settimana di grande relax nella fine aria valdostana. Una settimana fresca, per cui posso abbracciarvi con calore.

lunedì 14 luglio 2025

Ritardi noti - 14 luglio 2025

Come molti hanno saputo, ho passato un’intensa settimana nel grande Nord islandese, per cui mi scuso dei ritardi nelle spedizioni, dovute anche ad un po’ di fuso orario.

Rimediamo, fino ad un certo punto, con la collana dei gialli italiani dei Fratelli Frilli, con tre opere da brutte a molto brutte e due al contrario di sufficienza, anche se risicata. Tutti di autori non molto noti al grande pubblico, e per questo, forse, con maggior interesse da parte mia ad esplorarne il buono ed il brutto.

Ippolito Edmondo Ferrario “Il banchiere di Milano” Corriere Gazzetta 43 euro 7,99

[A: 27/03/2024 – I: 02/03/2025 – T: 03/03/2025] &      

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 280; anno: 2021]

Eccoci ad un nuovo romanzo noir italiano uscito in prima battuta presso i Fratelli Frilli editore e poi ripubblicato in questa collana edita da RCS media. Non conoscevo l’autore, Ippolito Edmondo Ferrario, che risulta essere un “cinquantino” milanese con all’attivo un discreto numero di libri e romanzi a fumetti. Che io non conoscevo né alla luce di questa prova, penso di essere interessato a conoscere.

Certo, la scrittura è di buon livello, ed anche la trama ha degli aspetti interessanti. Ma nel complesso non riesce a prendere, non si riesce ad empatizzare con un personaggio della trama. Essendoci poi alcuni punti che rimangono in un certo senso oscuri o quanto meno poco interpretabili razionalmente.

È un affresco, in fondo, di un Milano quasi come potrebbe essere. Ed è di sicuro un affresco di come possono intrecciarsi finanza e malavita nell’intricato mondo contemporaneo.

Alla vigilia delle elezioni per il sindaco di Milano, che saranno vinte inaspettatamente dall’outsider Villa (ricalcato marginalmente da figure assimilabili a “5 stelle” verso destra), pare possa venire alla luce un qualche scandalo edilizio. Cui potrebbero venir coinvolti Paolo Fumagalli, esperto commercialista, e Matteo, imprenditore edile e suo sodale. Per sventare il colpo Paolo va in Svizzera, fa strane operazioni finanziarie, ma al ritorno viene rapito e accidentalmente muore. L’operazione finanziaria di Paolo è comunque andata a buon fine, estromettendo Matteo da tutte le risorse economiche.

Matteo è anche legato alla mafia locale dei potenti fratelli Surace, che stanno modificando le loro attività spostandole dallo spaccio di droga verso investimenti finanziari nella moda e nel mattone. Ovvio che in questa operazione sia coinvolto il Villa di cui sopra. E occhio vigile dei Surace è anche Giorgio, ex-servizi segreti ed ora a capo di una società di security. Giorgio aveva anche l’occhio lungo, avendo capito il ruolo di mago della contabilità di Paolo, riuscendo a diventare l’amante di Elisabetta, la moglie di Paolo.

A questo punto, il nostro autore (e siamo già ad un quarto del libro) introduce quello che deve diventare il centro della trama (e che poi verrà riproposto in altri tre romanzi) Raoul Sforza, detto “il banchiere nero”. Ferrario ne tratteggia il personaggio con forti chiaroscuri. Banchiere con profonde radici nella finanza, viene da una gioventù probabilmente eversiva e legata alla parte più nera della politica. Implicato in molti processi politici ne viene sempre fuori pagando fior di avvocati. Ora è un maturo signore (tra i cinquanta e i sessanta direi), grande appassionato di arte (possiede fior di collezioni di quadri) ma soprattutto di musica (fanatico dei Rolling Stones, grande conoscitore della musica degli anni ’70, suonatore di chitarre d’autore, ma anche intenditore di musica classica).

Sforza viene coinvolto nella trama da Viola, la figlia di Paolo, che le aveva scritto di rivolgersi al banchiere in caso di morte. Da lì parte uno strano rapporto tra i due, anche perché Viola ricorda a Raoul un suo amore di gioventù. Il banchiere, una vera potenza nel campo delle manovre “ai limiti”, fa in modo che Viola riscatti la polizza a suo favore frutto del furto finanziario di Paolo verso Matteo e soci, che i soldi spariscano nei meandri dei paradisi finanziari, trovando anche il modo di farli tornare alla luce tramite fittizie vendite di quadri d’autore.

Tutto ciò sarebbe ben fuori un noir classico se non che: Elisabetta Fumagalli circuisce eroticamente un banchiere svizzero per sapere dove siano finiti i soldi, Matteo, da lei edotto, fa confessare il banchiere e lo uccide, Giorgio, che li ha seguiti, capisce tutto ed uccide Matteo. Quindi Giorgio rapisce Viola per ricattare Raoul ed avere i soldi, ma Raoul con un passaggio che è dei meno riusciti all’interno della trama, riesce ad avere la meglio su tutti. Il libro finisce con una bella visione di Raoul e Viola, solo amici per via dell’età, nel buon retiro di Bonassola (cui l’autore regala un paio di cammei turistici molto ben costruiti).

Molti però rimangono gli interrogativi sospesi. Cosa c’è scritto nelle carte di Paolo che può mettere nei guai il Villa delle prime pagine? E come si lega ciò ai Surace? Inoltre, le ragioni che adduce il memo di Paolo per convincere Viola ad affidarsi a Raoul sono di una disarmante labilità. Infine il modo in cui Raoul risolve il tutto implica un salto quantico nella logica dello scritto che non sono riuscito a capire.

Insomma, ci sono morti, agguati, trame intricate, ma senza essere né un hard boiled né un thriller puro e duro. Ci sono allusioni ed inizi di storie che rimangono sospese qua e là. C’è la richiesta dell’autore di una “suspension of belief” che è esattamente il contrario di quanti si aspetta il lettore di un romanzo. Inoltre, personalmente, il personaggio di Raoul Sforza non mi suscita un etto di empatia, anche se confesso di aver seguito con interesse i suoi passaggi rock. Ma è un po’ poco per risollevare le sorti di un libro poco convincente. Tanto che ve ne ho parlato più del lecito, visto non credo abbiate intenzione di leggerlo.

Roberto Negro “Bocca di rosa” Corriere Gazzetta 42 euro 7,99

[A: 20/03/2024 – I: 21/04/2025 – T: 23/04/2025] &&       

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 173; anno: 2010]

Roberto Negro, astigiano del ’60, dopo una lunga e buona carriera negli organi di polizia, ha affrontato alcune decisioni fondamentali: è andato a vivere a Perinaldo, in provincia di Imperia, ha gestito per alcuni anni un ristorante, ma soprattutto ha cominciato il suo percorso di scrittura, che lo ha presto portato sul lato “noir” della vita. D’altra parte, qualcosa del suo lavoro non poteva non rimanergli.

Nasce così il personaggio del commissario Scichilone, di cui non viene mai detto il nome, con la prima indagine che si intitola, guarda caso, “Il tesoro di Perinaldo”. Qui siamo già alla sesta indagine del commissario, motivo per cui alcune cose rimangono non dette (forse erano nei primi libri, forse vanno proprio ignorate). Ne conosciamo solo la passione per il rum, e la tenacia nel perseguire le idee che prima o poi sfoceranno in qualche rivelazione o agnizione per la soluzione del caso. Che spesso, poi, ha un epilogo “alla Maigret”, dove un conto è la verità ed un conto è la giustizia.

Qui abbiamo una storia che ha un inizio trent’anni addietro. Ci sono dei “passatori” che, visto che siamo a Villatella, non lontano dal confine, si adoperano per far passare clandestinamente persone verso la vicina Francia. Luigi ed Ernesto da anni fanno il mestiere, ma non sanno che la polizia li tiene d’occhio. Quando però fanno irruzione per arrestarli non trovano né loro né Maria, la moglie di Ernesto, ma solo tanto sangue. Per terra in cucina, solo la piccola Matilde. Un mistero che la polizia non riesce a risolvere.

Nel tempo presente, in quel di Ventimiglia (di cui Villatella ora è una frazione) si aggirano nuovi problemi e nuovi misteri. Legati soprattutto all’affascinante presenza di una avvenente signorina del mestiere che (visto che siamo in Liguria e che De André era molto amato) pensa bene di prendere il nome d’arte di “Bocca di Rosa”. Quando però viene trovato il suo cadavere è il momento che Scichilone deve entrare in campo.

Nelle pieghe del racconto, prima di andare avanti, vengono ricavati momenti esotici, per cui ci impegnano a seguire anche le vicende di un ormai anziano signore, che da molto tempo si è ritirato a vivere nel lontano e bucolico mondo dello Sri Lanka. E lo seguiamo anche nel suo viaggio di ritorno verso l’Italia.

Intanto il nostro commissario comincia a scoprire gli altarini che giravano intorno alla giovane morta. Si scopre un giro di escort di alto livello, gestito da tal Rita. Si scopre un assiduo cliente di tale giro, il commercialista Renato, in odore di diventare sindaco del luogo. Peccato che sia stato ripreso in scene molto hard dalla giovane poi morta. Giovane che ha chiesto per il suo silenzio delle somme spropositate a tutti e due i personaggi.

Che hanno tutte le carte in regola per desiderare la morte di Bocca di Rosa. Nel corso delle indagini, tuttavia, anche Renato muore, questa volta palesemente suicida. Cosa che farebbe pendere quindi per un omicidio, un pentimento ed un suicidio. Ovviamente, e nonostante abbia tutta la questura contro, Scichilone sente odore di bruciato in questa ricostruzione. Un bruciato che diventa fumo denso quando, scoperta nei suoi giri “irregolari”, la signora Rita decide di confessare tutte le sue malefatte. Da cui però esclude il suo coinvolgimento nelle morti. Non solo, fornendo prove che neanche Renato poteva farne parte. Il commercialista aveva solo paura di scandali ed altro, in particolare per il terrore che gli incuteva il terribile suocero. Tanto che se non è suicidio, di certo il suocero ci ha messo lo zampino.

La soluzione arriva, anche un po’ banale, come banale si trova ad essere lo svelamento della figura dell’emigrato asiatico. C’è di tutto un po’. Ma la trama nera, alla fine, risulta un po’ banalotta. Meglio ci si ritrova in qualche passaggio descrittivo dei monti franco-italiani. Ed un po’ nel vissuto cittadino dei paesi frontalieri. Tuttavia, la soluzione finale viene un po’ “a muzzo”, ed i vari personaggi indagatori, Scichilone in primis, non fanno un’eccelsa figura.

È molto probabile che, in fondo, lo scrivere di Negro, dopo tanta polizia, pur muovendosi nell’ambito poliziesco, sia più rivolto alle persone coinvolte ed alle loro storie. Cui, con un piccolo autocompiacimento, il nostro aggiunge un tocco alla Hitchcock. Non nel senso del giallo, ma per quel vezzo che il regista aveva di fare un piccolo cammeo in ogni suo film. Così, ad un bar in cui un cameriere lo serve con accuratezza, il nostro commissario chiede come ti chiami. E lui risponde “Roberto Negro”…

“Nei singhiozzi dell’uomo c’era tutta la solitudine ed il senso di abbandono di chi, nella pensione, aveva scoperto solo l’inutilità della propria esistenza.” (78)

Armando D’Amaro “Nero Dominante. Genova, 1938” Corriere Gazzetta 38 euro 7,99

[A: 21/02/2024 – I: 25/04/2025 – T: 27/04/2025] & e ½       

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 176; anno: 2017]

Armando D’Amaro, laureato in giurisprudenza e dedito all’attività forense, ad un certo punto rivolge la sua attenzione verso la scrittura, ed in particolare alle trame poliziesche. Genovese doc, per questa attività, e per il respiro più calmo che si ottiene in riva al mare, si sposta a vivere a Calice Ligure, dove sapremmo poi vivono anche i genitori del suo personaggio più longevo, il commissario Boccadoro, di cui qui abbiamo la prima indagine. Se poi andate a spulciare l’ottimo catalogo dei Fratelli Frilli, ne troverete un buon numero.

Il marchio distintivo della sua scrittura è quella di utilizzare molto la mescolanza tra finzione e realtà, inserendo anche, nel corso del testo, note esplicative e rimandi, quasi che si fosse davanti ad un saggio piuttosto che ad un’opera di fantasia. Un elemento divertente e, tutto sommato, utile ad una maggiore comprensione del testo. Così come utili sono le note finali sui personaggi del testo, dove, con abile perizia, ci dà conto dei veri e dei falsi, ma con lo stesso tono declaratorio, così che (a parte quelli noti) si fa fatica a separare i due livelli.

L’altro tentativo che l’autore fa con questo testo è di descrivere “dal di dentro”, modi quotidiani della vita nell’era fascista. Soprattutto sui due livelli estremi. Il modo in cui si enfatizzava il regime, in special modo nei momenti pubblici. E la vita scolastica, dove, esaltandone le passioni in mille subdoli modi, si operava il tentativo di fidelizzare i giovani al fascio. Con momenti collettivi, di sport, di marce, di esibizioni teatrali, e simili eventi corali. Il tutto sotto l’attenta regia dell’ideatore di tutto ciò, Achille Starace.

Così da un lato abbiamo la vita privata della famiglia Boccadoro, dove oltre al nostro commissario (che tra l’altro è il principale narratore delle storie di questo libro), abbiamo la moglie Elena, angelo del focolare, le figlie Gina, seria e posata, e Irma, terremoto di attività ed insofferente alle regole. Ci sarebbe anche Umberto, l’ultimo nato, ma è ancora troppo piccolo. Nella vita familiare vediamo in particolare i momenti di convergenza e di scontro tra Irma e le rigide strutture scolastiche.

Sul fronte esterno e più generale, abbiamo davanti un ben preciso momento della storia del fascismo italiano, ed anche dei componenti della famiglia Mussolini. Siamo a maggio del 1938, e Mussolini si appresta ad effettuare una visita officiale a Genova. Che ha come soprannome “La Superba”, ma che a volte viene anche chiamata “La Dominante (dei mari)”. Ecco così spiegato il titolo. Siamo a Genova, ed una serie di iniziative propagandistiche fasciste, giustificano il titolo di “Nero Dominante”, con un gioco di parole leggibile a veri livelli di profondità.

In particolare, ci stiamo avvicinando al 14 maggio 1938, giorno in cui Mussolini sbarca nel porto di Genova, per effettuare una visita officiale di quattro giorni.

La storia prende quindi il via da un condannato a morte (che verrà fucilato poche settimane dopo la fine del libro) che avverte Boccadoro di un possibile attentato ai danni del DUCE. Boccadoro non è uomo d’azione, ma di sicuro è uomo di riflessione, con un atteggiamento pronto a recepire anche piccoli segnali discrepanti, cosa che gli consente una discreta libertà d’azione (ha ottenuto molti successi e le autorità ne terrà conto).

Quindi, abbiamo Boccadoro che da un lato si mette sulle tracce di tal Ippolito, cui pare si debba la millanteria dell’attentato e della protezione in alte sfere che ha (o avrebbe). Dall’altro deve organizzare la messa in sicurezza dei quattro giorni genovesi del Duce. In tutto ciò dovendosi anche rapportare ai Servizi Segreti italiani, i cui interventi sono dall’autore dipinti con parole che si addicono grandemente ad atteggiamenti mafiosi. C’è una piccola trama laterale coinvolgente una statua di marmo che il Duce deve inaugurare, che serve solo a dare altre pennellate al fine di verosimigliare il romanzo.

Il tentativo di attentare al Duce è facilmente sventato, ma alla ricerca dei retroscena che subito si palesano, Boccadoro comincia ad intravedere la possibile complessità di tutta la vicenda. È un momento difficile per Mussolini ed il fascismo. L’autarchia rende sempre più insofferente il popolo italiano medio. Così come il progressivo avvicinamento tra Italia e Germania. Ci sono elementi di governo (o ad esso vicino) che vedrebbero meglio un avvicinarsi invece a paesi democratici, Regno Unito in particolare. Esemplare precipuo, Galeazzo Ciano.

Ma ce ne sono altri, invece, che sono sempre più convinti della necessità di avere l’alleato tedesco al fianco. Spingendosi inoltre ad introdurre momenti ed espressioni peculiari atti a tipicizzare il fascista italico. In particolare, si distingue in quest’opera il non eccelso Achille Starace, che introduce il saluto romano, il sabato fascista, l’utilizzo del “voi” e della lana autoctona sarda detta “orbace”.

Boccadoro entra nei meccanismi dell’attentato e, con le sue riflessioni a volte quasi miracolose, comprende che è tutta una cortina di fumo. Il mandante facilmente indicato in Galeazzo Ciano è probabilmente un tentativo (di chi? Lo scoprirete solo leggendo) si dare una scossa a Ciano che si stava avvicinando troppo agli inglesi, ma soprattutto di dimostrare che il Partito Nazionale Fascista era guidato da incapaci che andrebbero rimossi. Ovviamente il segretario del PNF al tempo è proprio Achille Starace.

Insomma, i meccanismi gialli sono abbozzati senza riuscire a coinvolgere il lettore nella ricerca della verità. I frequenti passaggi di prospettiva tra varie situazioni e momenti diversi, in particolare quando Boccadoro non è presente, non rendono agevole seguire tutta la vicenda in modo più compatto. Ed anche la non-fiction fascista è solo filologicamente interessante, mentre per il filo della trama, è abbastanza poco congrua con tutto il resto. Forse troppe attività legali sono rimaste nella penna dell’autore.

Antonio Caron “Il gatto con il numero di telefono” Corriere Gazzetta 54 euro 7,99

[A: 12/06/2024 – I: 29/04/2025 – T: 30/04/2025] && e ½       

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 177; anno: 2006]

Antonio Caron, come ho scritto in una precedente trama, ci ha lasciato solla soglia dei suoi ottant’anni. Giornalista di buon piglio, sballottato in varie sedi norditaliane, comincia a scrivere di gusto e di buon rendimento quando al fine si stabilisce in quel di Bogliasco, a metà strada tra Genova e Portofino. È qui che riesce a canalizzare la sua scrittura (anche se da buon giornalista sa ben trattare le parole), dando alla fine vita al suo personaggio principale, Sebastiano Vitale.

Nella prima indagine, il piemontese non ancora sessantenne Caron, mette in scena al centro dell’azione il buon Vitale, meridionale con moglie molto simpatica e collaborativa, che risulta essere ancora brigadiere. Per poi essere presto promosso maresciallo, ruolo che ricoprirà per quasi tutti i romanzi della serie. Laddove solo nel penultimo, se non vado errato, viene promosso luogotenente. Mentre nell’ultimo, che è stato pure il precedente da me letto, sta strenuamente cercando di andare in pensione.

Purtroppo, sarà prima Caron che Vitale a lasciarci.

Qui, nella lodevole collana per lungo tempo pubblicata per i tipi del Corriere, venendo a riprendere il folto e ben fornito catalogo dei Fratelli Frilli, si continua con quell’andar per vati luoghi italici. Che era una delle caratteristiche, anche se molto concentrata su Roma, che aveva molti anni fa un’altra degna nonché minore casa editrice; per l’appunto la romana Round Robin.

In questo girovagare, per motivi non inerenti alla professione, Vitale si ritrova in quel di Mantova (comunque una delle tante sedi del Caron giornalista). In visita parentale, laddove con la moglie doveva fare una visita ai parenti di lei. Ma Vitale, ormai lo sappiamo, ha la dote sopraffina di incappare sempre in qualche mistero. Dove sfoggia un po’ di doti intellettive per arrivare alla soluzione (non a caso Caron era un grande ammiratore di Simenon), ma soprattutto, ci dà modo di passeggiare, con lui e la moglie Marisa, per le strade e le bellezze della cittadina lombarda (di cui ricordo una bellissima visita che facemmo al Palazzo Te ed al Palazzo Ducale).

Il gancio dell’azione è di una casualità disarmante. Amanti degli animali, la nostra coppia in vacanza incontra un gatto sperduto. Che però ha collare con numero di telefono ed indirizzo. Provano a chiamare, e, a risposta mancante, si recano sul posto. Constatando l’assenza della padrona di casa. Ma anche uno strano messaggio lasciato in segreteria, riguardante dei numeri da giocare a lotto, messaggio lasciato da una voce che Vitale riconosce: un cieco che vende biglietti fortunati davanti alla Cattedrale.

Da qui si susseguono tante ed improbabili vicende. I biglietti vincenti, stampati su foglietti di carta, venivano dati al cieco da tal Melissa Monfort di Villarosa, ricca ereditiera americana, vedova del defunto signore di Villarosa. Ed era il cieco che li dava, inconsapevole tramite, a Elide, la padrona del gatto con il telefono. Le cose si complicano quando Elide viene trovata morta in un canale. Mentre pochi giorni dopo, Melissa, invischiata in una delle tante sette religiose americane, nonché in lite con la cognata per questioni ereditarie, viene anch’essa rinvenuta senza vita, per un colpo d’arma da fuoco.

L’improbabile storia messa in piedi da Caron, vede il nostro Vitale scoprire tanti altarini, uno dopo l’altro. I numeri vincenti erano stampati su fogli di carta che contenevano informazioni militari segrete. Elide, ex donna di mondo, nonché a sua volta invischiata in strane speculazioni, spediva i numeri via posta, in modo che potessero arrivare a terroristi nazionali e internazionali, che pare avessero intenzione di organizzare un feroce attentato in America (nella scrittura siamo solo cinque anni dopo l’undici settembre).

Compaiono sulla scena, allora, gli strani rappresentanti della setta religiosa, un terrorista internazionale di grosso calibro, che da tempo si accompagnava a Melissa, nonché agenti della CIA da tempo sulle tracce del possibile attentato e dei loro organizzatori.

Insomma, ci sono tutta una serie di concatenazioni che porteranno Vitale, con la sua solita intuitività a volte quasi da sensi paranormali, a trovare l’omicida di Elide ed a ruota, a sventare gli attentati, ad arrestare il terrorista per omicidio, ed a trovare una spiegazione coerente per tutto quello che succede. Peccato che il gatto del titolo, pur avendo dato il via alla sarabanda di azioni che portano alla soluzione del caso, non entri nella vicenda, se non nel finale, dove viene giustamente affidato alla vicina di casa di Elide.

Pur rimanendo il piglio giornalistico di buona fattura (che tra l’altro evita quei fastidiosi meccanismi di flash-back ora tanto in voga), la storia rimane troppo casualmente collegata non solo per essere avvincente, ma anche solo per essere godibile. Rimangono a tener su il morale di noi avidi lettori, le passeggiate mantovane, le digressioni culinarie. Nonché un elemento, questo si casuale, che ad un certo punto viene detto l’Elide sia nata il 7 febbraio. Cosa che fa balzare subito in testa l’invio di fervidi auguri al mio amico Emilio.

Maria Masella “Il dubbio” Corriere Gazzetta 49 euro 7,99

[A: 09/05/2024 – I: 18/06/2025 – T: 19/06/2025] && e ½       

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 211; anno: 2004]

Seconda avventura del commissario Antonio Mariani, ed in sottordine poi vedremo perché, della moglie Francesca Lucas iniziati ad uscire dalla penna di Maria Masella nel 2002. Ne avevo tramato dopo aver letto il primo, e devo dire che non ne avevo parlato benissimo. Non tanto per l’intreccio, che aveva una sua ragion d’essere, quanto per i personaggi (i due di cui sopra) nonché la fatica di leggere un libro di più di 200 pagine suddiviso in soli 5 capitoli.

Qui devo dire abbiamo recepito alcune critiche, per cui i capitoli sono diventati 21 per 210 pagine, e soprattutto, visto che c’è un andamento temporale, ogni capitolo si occupa di un giorno (o di una notte). Sono leggermente migliorati i personaggi, anche se, per il mio gusto letterario, Francesca acquista dei punti, Antonio un po’ meno. Forse anche per una mia inveterata antipatia per i traditori seriali. Sappiamo dal pregresso che Antonio ha spesso e volentieri intrapreso incontri sessuali fuori del matrimonio. Magari mentendo (?) a sé stesso dicendo di amare sempre la moglie. Fatto sta che, e con ragione, Francesca l’ha mandato via.

Peccato che ci sia una figlia di mezzo, la piccola Manu. Antonio, anche in queste pagine, mostra attaccamento verso la figlia, mentre ha un atteggiamento che non condivido neanche in una virgola verso la moglie. Certo, qui non ci sono tradimenti, anzi ci sono momenti in cui i due sembrano avvicinarsi (forse anche troppo). Tuttavia, Antonio non smette mai i panni del marito geloso e sospettoso. Un modo di essere che può essere foriero solo di brutte conseguenze. Che forse non vedremo qui, ma immagino potranno riempire la ventina di titoli dedicati al commissario.

Peccato, che dal punto di vista dell’indagine e della scrittura è di sicuro una degna confezione, con un qualche tocco di mistero e di suspence che non guastano. Ma il risultato complessivo è comunque appesantito dall’insopportabilità del modo di affrontare la vita privata da parte del nostro.

La trama inizia con molta lentezza. Andando a trovare un collega ferito in quel di Cuneo, questi gli confessa che, in un’indagine per il suicidio di Gualtiero Airoldi, traduttore dal tedesco, ha visto, in un album di foto, quella di Francesca. Il suicidio pare proprio assodato, ma Antonio comincia ad essere roso dalla gelosia. Che rapporto c’erano tra Airoldi e sua moglie?

L’unica cosa che scopre è la presenza di un soldato di leva, laureando in tedesco, che frequentava l’Airoldi. E forse potrebbe avere notizie sulla possibile tresca. Ma il ragazzo viene trovato morto, con le mani legate dietro la schiena, e la faccia affogato nel fango. Il mistero si infittisce, che sia a Genova che nei dintorni delle zone liguro-piemontesi, vengono trovati altri corpi uccisi con modalità analoga al soldato di Cuneo.

Le uniche sostanziali differenze sono che al soldato pare le mani siano state legate post-mortem, e che le altre persone morte sembrerebbero essere gay o comunque legate al mondo omosessuale. Il tutto poi sembra collegarsi alla morte in un incidente stradale di due persone, una gay dichiarata ed una gay nascosta, con moglie e figli. Uno scandalo che ha colpito una zona che comunque è di competenza di Mariani. Che, nel corso degli avvicinamenti a Francesca, ne parla e ne ragiona con lei, arrivando, con i suggerimenti della moglie, a tracciare una possibile trama.

Trama che però non giustifica né la morte del soldato né il suicidio di Airoldi. Il commissario Mariani troverà anche il modo di capire il perché ed i modi di queste due morti, andando anche alla radice degli omicidi seriali dei cripto-gay. E rimanendo anche ferito nel concitato finale. Finale che gli porta una notizia aggiuntiva della vita di Francesca, che, nelle intenzioni della moglie, dovrebbe portare ad una distensione dei rapporti, mentre nella contorta mente del commissario porta ancora acqua al mulino dei sospetti.

Maria Masella ha un’indubbia capacità nella gestione dei dialoghi, nonché nel tirare fuori elementi di riflessione. I rapporti tra le persone, al di qua ed al di là del sesso, la gelosia personale e professionale, la frustrazione di essere un uomo mediocre in un mondo di persone che, invece, sembrano realizzarsi e portare avanti la vita verso i propri obiettivi e i pubblici riconoscimenti. Tra questi, il ragionamento colpisce proprio il tasto della gelosia professionale: fino a dove può far spingere un uomo?

Una domanda che in me ha ovviamente una risposta ben diversa da quella ipotizzata da Masella. Come diversa è anche la posizione sulla gelosia personale, che trova poco spazio nel mio orizzonte: quando si ama, si ama in modo totale. Se nascono crepe, non si ama più.

Anche se in ritardo, è pur sempre la prima trama del mese, motivo per cui vi sorbite anche le classifiche delle letture del mese di aprile. Sedici letture che non si elevano sopra la media, senza nessun acuto, e con l’unico tonfo nel nero di Genova di cui parlo anche sopra.

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Elda Lanza

La cliente sconosciuta

Repubblica Anima Noir

8,90

2,5

2

Haruki Murakami

Prima persona singolare

Corriere

9,90

3

3

Jessica Fellowes

Scandalo in casa Mitford

Repubblica Anima Noir

8,90

2

4

Clive Cussler & Justin Scott

Il Cecchino

TEA

9,90

2

5

Gaspare Grammatico

Le Spine Del Ficodindia

Repubblica Mistero Noir

8,9

3

6

Haruki Murakami

La città e le sue mura incerte

Einaudi

s.p.

3

7

Isaka Kotaro

La vendetta del professor Suzuki

Repubblica Profondo Noir

8,90

3

8

Massimo Pigliucci

Come essere stoici

Repubblica Filosofia Viva

9,90

2

9

Romano De Marco

Se la notte ti cerca

Repubblica Noir

8,90

2

10

Andrea Pomella

Vite nell’oro e nel blu

Einaudi

21

3

11

Paolo Di Paolo

Lontano dagli occhi

Feltrinelli

12

2,5

12

Roberto Negro

Bocca di rosa

Corriere Gazzetta

7,99

2

13

Emi Yagi

Il diario geniale della signorina Shibata

Repubblica Giappone

8,90

3

14

Armando D'Amaro

Nero dominante. Genova, 1938

Corriere Gazzetta

7,99

1,5

15

Barry Gifford

Cuore selvaggio

Corriere Americana

8,90

3

16

Antonio Caron

Il gatto col numero di telefono

Corriere Gazzetta

7,99

2,5

 

Confesso di essere ancora un po’ stanco, tra viaggio e fuso, per cui niente citazioni, e solo un ricordo, sempre presente, della forza della natura islandese. Geyser, cascate, ghiacci e rocce, tutte da vedere (e questa volta con un clima fantastico). E comunque, anche in ritardo, vi invio queste trame, che anche la settimana prossima non ci sarò. Un abbraccio pieno della natura del Nord.