Tutte
letture con una sufficienza d’affetto, sia per le quattro scrittrici che per
l’unico scrittore, che tra l’altro è quello più noto ed acclamato. E tutte, chi
già chi poi, in procinto di essere serializzate anche in televisione.
Alice Basso “Scrivere è un mestiere
pericoloso” Garzanti euro 6,90
[A: 27/07/2021 – I: 27/02/2025 – T:
28/02/2025] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 339; anno:
2016]
VS2
Continuiamo con il secondo libro delle
avventure di Silvana Cassandra Sarca detta Vani, prodotto esimio e godibile
uscito dalla penna di Alice Basso. Forse a volte un po’ troppo cerebrale per
avere un successo alla Alessia Gazzola (eppure lo avrebbe meritato) è un altro
libro di facile fruibilità, anche se la trama “quasi” gialla è abbastanza
scontata.
Per chi non avesse seguito la mia prima
trama su Alice, ricordo che Vani è una ghostwriter, anche decisamente brava nel
suo mestiere, dotata infatti di una forte capacità di empatizzare con le
persone, di capirne le modalità espressive. Una dote che le ha consentito,
oltre allo sviluppo del suo mestiere, di diventare l’aiutante preferita del
Commissario Romeo Braganza. Anzi di essere nominata addirittura sua assistente.
Strano infatti è il rapporto tra i due,
divisi da un congruo numero di anni, ma con il Commissario che certo diventa il
mentore di Vani (le fa anche fare, giustamente, un corso di autodifesa) ma che,
durante i momenti comuni, sembra essere percorso da qualche cosa di più che un
affetto simil paterno. Filo rosso che arriva anche dalle parti di Vani, tant’è
che, pur con degli alti e bassi, e con dei fidanzamenti e sfidanzamenti, la
nostra non sa se dar retta alla pelle che la porta verso (l’insopportabile, per
me) Riccardo, o la testa che la riporta da Romeo.
Comunque la trama diventa interessante
quando l’esimio editore di Vani, il supponente Enrico Fuschi, la coinvolge in
una scrittura difficile anche per una ghostwriter affiatata. Si tratta infatti
di scrivere un libro di ricordi e ricette sulla base di quanto le viene narrato
dalla signora Irma Envrin, per una vita la cuoca principale della famiglia Giay
Marin. Una nota famiglia di stilisti, colpita anni prima da una vicenda
delittuosa: il fratello minore, Aldo, in un impeto d’ira uccide il maggiore,
Adriano, al tempo direttore generale della casa di mode, succeduto al padre
Armando. Aldo reo confesso sconta una lunga pena, mentre a gestire il tutto
rimane la moglie di Adriano, Delia Visconti Bligny.
La difficoltà per Vani non è scrivere dei
ricordi, ma inserire le giuste ricette visto che lei, ostinatamente, non ha la
più pallida idea di cosa sia la cucina, gli ingredienti, le cotture e tutto il
circo mangereccio. Fortuna che c’è il Commissario che, oltre ad essere un fine
poliziotto, è anche un raffinato gourmet, che insegnerà i rudimenti della
cucina Vani. Introducendola ai misteri
dei sapori dello scalogno o all’esistenza di prodotti alimentari come il topinambur.
Il tutto sarebbe poco giallo se fin dal
primo colloquio tra Irma e Vani, la felice ma un po’ svampita ottuagenaria non
confessasse candidamente di essere stata lei ad uccidere Adriano. Da qui
comincia tutto l’andirivieni tra casa Giay Marin e casa Braganza, la prima per
intervistare Irma, aiutata dalla padrona di casa Delia, la seconda per
impratichirsi di cucina e discutere con il commissario le impreviste ed
improbabili storie che narra Irma.
Non vi sto a tediare con tutte le agnizioni
che a poco a poco escono dai racconti. La tresca tra il vecchio patron e Irma
stessa, una seconda possibile tresca tra Irma ed il giardiniere, le ipotesi,
probabili ma da verificare, che Aldo sia figlio di Irma, il debole che Adriano
aveva per tutte le donne (eufemismo per dire che era un puttaniere
impenitente), l’affetto che Aldo aveva per tutte le persone di casa, ed in
particolare per Delia (pur se mai sconfinato in qualcosa d’altro), la
consolazione che Delia stessa aveva nelle attenzioni di Aldo.
Fatto sta che la scoperta di una serie di
libri di Milton Erickson, un ipnoterapeuta americano realmente esistito,
portano Vani ad ipotizzare e realizzare il quadro risolutivo dell’indagine. Che
rimane appunto un po’ monca, in mancanza di morti recenti ed altre attività
immediatamente criminose.
Fortunatamente il tutto è condito da una
serie di prove empatiche di Vani come consulente poliziesco, nonché una lunga e
trasversale storia che coinvolge l’affetto e la protezione che Vani prova ed
esercita verso la giovane Morgana, la simpatica dark del piano di sopra che
chiede aiuto alla nostra ghost di scriverle dei testi affinché possa far colpo
sul ragazzo di cui si sta innamorando. Qui, in modo sghembo, c’è anche l’aiuto
che le dà il tredicenne Ivano, nipote di Braganza, che riesce ad accenderle una
luce sull’universo espressivo degli under 16. E devo dire che questa parte
giovanilista, pur breve, è più interessante del resto.
Insomma come ho detto e continuo a dire,
Alice ha una bella scrittura, le storie di Vani sono gradevoli, peccato che
questa seconda puntata si arrugginisca un po’. Speriamo nel futuro…
“Stai sempre a leggere, leggere, leggere!
Per carità, nessuno dice che leggere non vada bene, ma tu stai esagerando!
Sembra che non t’interessi nient’altro! Esistono anche le persone, diamine!”
(90)
Alessia Gazzola “Questione di Costanza” TEA
euro 5
[A: 22/08/2021 – I: 12/05/2025 – T:
14/05/2025] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 343; anno:
2019]
CM1
L’ossatura
della trama è presto delineata intorno al personaggio principale, Costanza
Macallé (dove dal cognome capiamo subito l’origine sicula, e poi verremmo a
sapere che in effetti è messinese). Pochi anni prima dell’inizio della storia
(tre nel libro, qualcuno in più nella fiction) ha un breve incontro di sesso a
Malta con tal Marco. Scoperto che Marco è ben fidanzato, lo manda a quel paese,
senza prenderne gli estremi. Ovvio che si ritrovi incinta, che decida di tenere
la piccola Flora e, aiutata dalla famiglia, riesce anche a laurearsi in
medicina.
Non
trovando posti come anatomo patologa, si adatta a fare la rider per Messina,
fino a che non vince un posto a tempo determinato (un anno) presso l'Istituto
di Paleopatologia dell'Università di Verona. Fortuna vuole che proprio a Verona
viva la sorella minore, Antonietta, psicologa alle prime armi. Anche se il
rapporto tra le due diventa subito velatamente conflittuale: Antonietta
pragmatica e organizzata, Costanza impulsiva e sognatrice.
Il
lavoro all’Università consiste nello studiare malattie antiche, ma tutto viene
stravolto dal ritrovamento, negli scavi di un convento, di uno scheletro con
una treccia di capelli rossi in mano. Partono subito ricerche a tappeto, nonché
ipotesi della nostra Costanza che non esita a costruire castelli in aria a
tutto tondo. Alla fine, con Alessia che usa salti temporali in corsivo,
Costanza e l’equipe universitaria ricostruisce una storia intorno al
ritrovamento.
Seguiamo
così la storia (inventata) di due figlie naturali di Federico II: Selvaggia di
Staufen, andata in sposa al terribile Ezzelino III da Romano (tanto terribile
che Dante lo colloca all’Inferno nel girone dei violenti) e Biancofiore, di cui
invece non si sa nulla. Le invenzioni di Alessia sono la zoppia di Biancofiore
fatta cadere di cavallo da Selvaggia, nonché l’esistenza di tal Aldegar von
Dannenberg. Quest’ultimo si sarebbe invaghito di Biancofiore, ma, essendo
vicino al papato, viene ucciso come traditore. Con tutta una serie di possibili
eventi legati al fatto che Federico e la sua progenie erano rossi di capelli.
Seppur
questa è una storia interessante e ben congeniata, se vi si inseriscono gli
intarsi delle lotte di potere a livello universitario, si costruiva una decente
storia. Ma Alessia vuole un po’ strafare, mettendoci qualche zeppa che rimandi
alle “love story” alla Alice Allevi. Così, con pochi indizi e molta fortuna,
rintraccia il Marco padre per caso, ora architetto in quel di Milano. Facendo
nascere tutta una serie di momenti “quasi”. Il quasi padre che quasi si
innamora della donna di cui si doveva innamorare, anche se è quasi sposato.
Insomma, tutta una fase di “caduta nel rosa”, che non risolvono la vicenda, sia
perché non creano empatia con i personaggi, sia perché non suscitano possibili
momenti ironici.
Insomma,
i soliti due binari tipici della nostra Gazzola: una parte extra testuale (in
Alice erano indagini poliziesche, in Costanza ricerche storiche intriganti) ed
una parte da vivere (in Alice le storie prendere e lasciare con Claudio
Conforti, in Costanza le tensioni e le indecisioni con Marco Erdély de Verre,
che a me già dal nome mi sta antipatico). Forse solo l’idea dell’intreccio tra
le due parti è quella che da un po’ di sostanza al testo. Con l’idea, ad
esempio, che possiamo imparare dalla storia (vero Luciano?) o quella che
bisogna guardare indietro per andare avanti.
I
messaggi di Alessia sono quindi al solito molto lineari. Ci si interroga su
cosa si voglia davvero nella vita, e su quanto si è disposti a lottare per
ottenerlo. Purtroppo a messaggi chiari non corrisponde una scrittura
avvincente. Se ci chiediamo, come sembra farlo Costanza, come fare a diventare
adulti senza smettere di sognare, Alessia non ci dà risposte convincenti. Tanto
che tutto il castello che costruisce alla fine converge in un finale che non
finisce. Troppo facile capire che ci sono altre puntate. Dove spero si riesca a
far sparire il quasi padre Marco che è di una antipatia e supponenza direi
totale.
Antipatia
che personalmente ho ritrovato amplificata nella serie tv, dove il Marco in
questione è interpretato da Marco Rossetti, che trovo semplicemente inutile.
Comunque questo ci permette di saltare dal libro alla serie, sottolineando che
ci sono più differenze che similitudini, quasi si fosse capito, durante la
sceneggiatura, che il testo era debole. Così il cadavere da maschile diventa
femminile, Biancofiore da sorella diventa figlia, Marco vive a Verona e non a
Milano, e le lotte universitarie hanno interpreti di spessore maggiore.
Personalmente,
non mi sono piaciuti né la serie né il libro, anche se devo riconoscere lo
stimolo storico ad andare a ritrovare la storia di Ezzelino il terribile ed i
pochi accenni esistenti su Selvaggia.
Rosa Teruzzi “La giostra delle spie”
Sonzogno 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)
[A: 27/05/2025 – I: 29/05/2025 – T:
30/05/2025] &&
+
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno:
2025]
LC10
Praticamente un anno dopo l’ultimo episodio
esce un nuovo romanzo della “Miss Marple del Giambellino”, come viene chiamata
la simpatica Libera Cairati, fioraia a tempo pieno e detective a tempo perso,
insieme alla madre Iole ed all’amica giornalista Irene, detta la Smilza.
Rosa Teruzzi, da brava “giallista
giardiniera”, come si definisce, prende e riprende a piantare i suoi
personaggi, cercando di capire, attraverso le loro possibili evoluzioni, quale
sia la possibile evoluzione della trama. Confezionando così un libro discreto,
anche se, personalmente, lo trovo un filino al di sotto dei precedenti.
Precedenti ai quali si lega in maniera un
po’ troppo da feuilleton francese dell’Ottocento. Che il non volume delle
storie di Libera e socie si chiudeva con la nostra fioraia alle prese con un
avvelenamento da petali di fiore imbevuti di un veleno (l’aconitina), dovuti ad
un bouquet recapitatole in ospedale, dove era ricoverata in seguito alle
vicende del non volume stesso (cui rimando senza ripeterle). Petali che avevano
inciso le lettere “P E R A C”. Dove non ci vuole certo un Bartezzaghi per
tirarne fuori il vero messaggio (CREPA).
Tutto questo decimo episodio, quindi, ruota
intorno alla ricerca di chi sembra voler del male alla nostra Libera, in un
balletto (più che in una giostra) dove tutti spiano tutti, con inseguimenti,
pedinamenti, foto rubate, vocali nascosti, ed altre spionerie, che ci
porteranno alla fine del libro, ma non alla fine delle avventure, che le ultime
pagine lasciano aperto non uno spiraglio ma una voragine di possibilità per
altre avventure.
Se su questo torneremo, anche se
quest’aspetto poliziesco è forse il più debole ed il meno appassionante del
romanzo, quello che rimane sempre vivo nella nostra immaginazione è il muoversi
dei personaggi piantati da Rosa. Anche se, pure qui, ci sono momenti alti e
bassi in ognuno di loro, non sempre all’altezza dell’ironia che li dovrebbe
caratterizzare.
Visto che questa volta è Libera al centro
delle attenzioni, che si deve trovare il suo possibile attentatore, potrebbero
venir meglio alla luce i comprimari. Mamma Iole, ad esempio, sempre sopra le
righe, nonostante i suoi settant’anni, e sempre coinvolgendo il suo vecchio
amore hippie Diego (che per un po’ era stato anche sospettato di essere il
padre di Libera, ma che sappiamo invece essere un ladro, da alcuni episodi
precedenti, chiamato “Gatto con gli Stivali”, che rubava agli usurai). Sarà
lei, con una sua foto malandrina a scagionare un possibile coinvolgimento di
Libera stessa in un tentativo di omicidio.
Molto in ombra c’è la figlia Vittoria, di
cui vediamo solo (e ne capiamo) il rimpianto di non essere compresa né dalla
madre né dalla nonna. In media luz stanno i nostri amati pennivendoli dello
scandalistico “La Città”. Il capo, il Cagnaccio, ha sempre idee interessanti
per pubblicare storie pruriginose, anche quando non c’è che fuffa. Ma ha anche
la capacità di far lavorare gli altri. Sia le nostre tre donne, che
l’impareggiabile Smilza, cui qui si aggiunge il fotografo Angelo detto Piè
Veloce, il mago dei pedinamenti.
In ombra anche, ma vorrebbe uscire alla luce,
c’è il cuoco Furio, che continua a fare una corte spietata a Libera, senza
grossi passi avanti. Anche se lei, pur non cedendo alle sue attenzioni, non è
insensibile né ai manicaretti, né al fatto, comunque, di essere corteggiata.
Mentre è sensibile alla corte di lunga durata del commissario Gabriele, con cui
sappiamo ha passato una bella vacanza toscana. Con, tuttavia, una piccola
frenata: Gabriele non è insensibile al fascino delle donne, avendo avuto una
relazione con la collega Nadia, ed essendo concupito (velatamente) dalla PM
Mimma.
Quindi, lo sforzo della squadra
poliziesco-investigativa è tutto teso a trovare chi si cela nell’ombra (che è
anche il soprannome della persona che vediamo agire in qualche veloce
capitolo). Un’Ombra che non aveva realmente intenzione di uccidere Libera (la
dose di veleno era sotto le dosi letali). Forse la voleva incastrare, come
sembra in tutta la macchinazione che vede Libera incolpata di un incidente
stradale, da cui sarà mamma Iole a tirarla fuori. Inciso: incidente che serve a
togliere di mezzo, almeno nel futuro, una delle spasimanti di Gabriele.
Tra inseguimenti ed agnizioni, si capisce
che forse Libera è un incidente collaterale di una strategia più ampia. Di cui
scopriremo almeno il 75%, mentre il resto si capisce sia rimandato ad un futuro
romano.
Riassumendo, allora, sempre una buona
atmosfera milanese, scorci cittadini ben costruiti, una media di personaggi
godibile, senza però incisività forte o momenti che rimandano ad altro. Certo,
ci sono anche alcune citazioni (tra cui quella della bellissima poesia di Nazim
Hikmet), ma mancano quei giochi di rimando letterario che in altri episodi
erano ben graditi. Qui, alla fine, rimane solo un gioco di canzoni con Lucio
Battisti. Avrà un senso che mi è sfuggito?
Gabriella Genisi “Una questione di soldi”
Sonzogno 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)
[A: 27/05/2025 – I: 05/06/2025 – T:
06/06/2025] &&
+
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno:
2025]
LL11
Sono passati due anni e mezzo dall’ultima
avventura scritta di Gabriella Genisi per le avventure del commissario Lolita
Lobosco, periodo che la scrittrice ha utilizzato per raffinare le sceneggiature
della serie televisiva e per maturare uno o più nuovi episodi della nostra
Lolita. Dovendo, tra l’altro, trovare il modo di inventarsi un nuovo filo
rosso, visto che tutti i primi episodi erano pervasi dalla tensione volta alla
ricerca di capire chi fosse stato l’esecutore materiale dell’omicidio del
padre.
Devo dire che, pur non raggiungendo i fasti
dei primi episodi, questa pausa di riflessione è servita alla scrittrice per
immettersi in un nuovo filone di tormentoni che, se non calano le vendite,
promette di seguirci per lunga tratta. Intanto, come all’inizio, le ricette
sono relegate a poche paginette, e sono, finalmente, complementari alla
narrazione (e non viceversa).
Inoltre, proprio per quel bisogno di far
tornare Lolita in primo piano, è lei, con i suoi tormenti sociali ed
esistenziali, che torna in primo piano, che torna ad essere protagonista delle
storie, sia pubbliche che private. Rispetto poi alle derive televisive, sia il
vice Forte che il simpatico Esposito sono di nuovo sullo sfondo, complici di
qualche battuta e di qualche idea, ma non più, per ora, anche loro al centro.
Centro dove si piazza invece la sorella Carmela, con tutto l’odio-amore verso
Lolita. E dove penso (dato lo schema del libro) comparirà primo o poi anche
Nunzia (soprattutto nella magistrale interpretazione di Lunetta Savino).
Mentre la parte poliziesca, pur con la
solita dovizia di particolari (che noi ormai abituati a CSI non possiamo farci
mancare) è abbastanza esile, e soprattutto, decodificabile in poche battute.
La morta è una direttrice di banca che
risulta defenestrata (nel senso ungherese del termine, coniato nel ’56).
Omicidio o suicidio? Come far risaltare le luci e le ombre della morta?
Sposata con un pesce lesso (che per
l’appunto Pesce fa di cognome), lei che invece ama lusso ed avventura, si
comprende che abbiano scelto di separare le loro scelte di vita. Anche se il
marito rimane rancoroso, così come odiosa risulta la cognata (su cui torniamo
in finale per incisi esteriori). Inoltre, come per tutte le persone di cui si
parla bene, anche in banca non è che fosse proprio in palma di mano. Laddove
invece risultava fosse per faccendieri, grandi e piccoli. Come l’odioso Carlo
Cadavere o il lontano cugino Michele.
Se uniamo i tratteggi dei personaggi al
titolo chiarificatore, abbiamo motivi, modalità e colpevole posti in palmo di
mano.
Ma è tuttavia la parte privata quella che
più è di interesse, nonché foriera di successive uscite. C’è la parte
genitoriale di Lolita, che è assente nella forma (lei si avvia ai cinquanta) ma
che potrebbe essere riscattata nella sostanza, laddove c’è un ragazzo in cerca
di affido, sponsorizzato alquanto dall’amica Marietta. C’è la parte di
rapporti, visto che Giovannimio si era allontanato (o lo era stato?), che qui
ci si distrae con uno splendido vedovo sessantenne. Ma Marietta spinge sempre
al riavvicinamento tra Lolita e Giovannimio, cosa che invece noi vedevamo non
proprio di buon occhio.
Tuttavia, l’elemento di rottura degli
equilibri è la somiglianza fatale tra Lolita e la morta. Tanto che si
affacciano alcuni interrogativi non banali: c’è stato un errore e si voleva far
del male a Lolita? O le due in realtà sono gemelle separate alla nascita? Con
questa eventualità che, se confermata, è uno dei motivi della possibile maggior
visibilità della madre Nunzia e della eventualità quasi certa di nuovi episodi.
Detto quindi il solito bene delle
descrizioni della bella città di Bari, nonché del cammeo trasversale quando
Lolita fa una “calorosa” telefonata a Salvo Montalbano (ricordandoci poi che
Luisa Ranieri, l’interprete di Lolita, è la moglie di Luca Zingaretti,
l’interprete di Montalbano), ci sono due ultimi elementi che mi piace
ricordare, uno esogeno e l’altro endogeno.
Il primo riguarda una sensazione più volte
espressa nel corso del testo, e che ho ben presente date le mie visitazioni
frequenti alla letteratura giapponese. Si tratta di quel sentimento che anche
la nostra scrittrice etichetta come Natsukashii. Un temine che si potrebbe
tradurre come “nostalgia felice” per aver vissuto una lontana esperienza il cui
senso di pienezza e di gioia rimane per sempre nel cuore.
Il secondo si è concretizzato a pagina 85,
dove Lolita paragona l’odiosa Santina Pesce a Férula Trueba de “La casa degli
spiriti” di Isabel Allende. Fatto sta che pochi giorni prima di questo ho
finito di leggere “Il mio nome è Emilia del Valle”, un prequel proprio di quel
libro. Coincidenze da ricordare.
Maurizio De Giovanni “Il pappagallo muto.
Una storia di Sara” Rizzoli euro 19 (in realtà, scontato a 18,95 euro)
[A: 27/05/2025 – I: 09/06/2025 – T:
10/06/2025] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 237; anno:
2025]
SM7
Tra
l’altro, in queste poco più di duecento pagine la trama in quanto tale, lo
spunto noir è esile e quasi soltanto un pretesto narrativo. Che porta al solito
“non lieto fine” (ma neanche cattivo), cioè quella piccola sospensione che ci
fa dire che questo episodio ha avuto un termine, ma che prima o poi ci sarà
dell’altro.
Con
buona pace del caro scrittore, seppur poi la costruzione del romanzo ha una sua
solidità, l’assunto iniziale, quello che dà il via al pensiero di scrivere, si
gioca intorno ad una barzelletta non dico datata, ma forse era datata anche ai
tempi di mio nonno Arturo (e non vi dico di quand’era l’arzillo vecchietto che
ho pure conosciuto).
Si
tratta di quel tormentone di un signore che vuole comprare un pappagallo, ed il
negoziante, per ogni esemplare, aumenta il prezzo magnificando la parlantina
dell’animale ed il numero di lingue che conosce. Fino ad arrivare all’esemplare
più costoso, che però non parla. Ma costa tanto perché gli altri pappagalli lo
chiamano maestro. Detto ciò, già tutto l’impianto è noto e scoperto (e comunque
la barzelletta viene detta per esteso, quindi nessuna anticipazione).
Allora,
i personaggi di contorno sono sempre gli stessi (Viola, Teresa, Andrea, Pardo e
Boris), cui si aggiunge una nuova recluta del Servizio, la giovane Bianca.
Giovane, quindi tecnologica e ben determinata. Che deve rispondere ad un capo,
chiamato “Principe” che ci piace molto poco, ma che, soprattutto, deve
risolvere il mistero di una riunione che potrebbe essere il prodromo di una
serie di attività illecite e di mazzette compiacenti.
Ma
i nuovi “mafiosi” sono anch’essi tecnologici, anzi super; quindi, per
intercettarli Bianca suggerisce l’uso della vecchia guardia, quella che sa
leggere le labbra e captare i movimenti. Parliamo ovviamente di Sara e di
Andrea. Che si collocano nel ristorante per scoprire i misteri. Dove ci sono i
faccendieri, ma soprattutto c’è una persona che non deve essere visto, che non
parla, che è il “pappagallo muto”.
Peccato
che prima di poter comunicare quello che ha capito, Sara e Andrea vengono
investiti di proposito, con Andrea che finisce in coma e Sara che, pur ferita,
riesce ad occultarsi. Da qui, la parte thriller classica da un lato e la parte
dolente e “psicologica” dall’altro.
Questa
seconda parte, che i più osannano come magistrale introspezione, è per me la
più debole, anche come costruzione. C’è un lungo dialogo, in un limbo tra sogno
e realtà, dove Andrea in coma parla ma soprattutto ascolta Massimiliano, il
loro vecchio capo, morto da anni di tumore. Capite bene come possa essere
debole tutto ciò. Certo è un dialogo d’amore (avevamo sempre pensato che Andrea
avesse un amore forte per il suo capo), ma è un dialogo tra un morto ed un
moribondo. Serve ad esplorare qualche risvolto delle personalità degli uomini.
Serve a far capire che, forse, Andrea muore. Ma soprattutto serve, in un
barlume di risveglio, a far sì che Sara legga il labiale di Andrea e capisca
come e dove deve dirigere le sue indagini per risolvere il mistero.
In
parallelo al dialogo che non mi è piaciuto, Sara e la sua squadra, usando tutto
l’usabile, cercano di venire a capo dei misteri. Del perché la riunione, delle
sue conseguenze, ma soprattutto perché hanno tentato di uccidere i due anziani
dei Servizi (tanto anziani che ormai stavano in panchina). Tra momenti ad alto
rischio, situazioni confuse, dubbi su chi sia amico di chi (ma anche con alcune
scene familiari dovuto all’impareggiabile Boris), quella frase di Andrea
permette a Sara di trovare il filo della trama nera.
Non
è importante sapere tutto e seguire tutto. Ovvio che Sara troverà il
pappagallo, ma è anche ovvio, per quanto detto all’inizio, che non sarà un
finale da giallo classico. Magari con il pappagallo che si trasforma in fenice.
Il
lavoro di Maurizio è comunque, tolto il discorso epidemico della trama pura e
semplice, quello di impostare su due filoni i suoi ragionamenti. Da un lato il
senso di “famiglia”, intensa come luogo in cui si coagulano affetti non solo
dovuti ai legami di sangue. Il luogo dell’amicizia e del rispetto reciproco. Il
luogo dove le relazioni diventano legami, che rimangono nel corso degli anni,
anche non alimentati da una frequentazione quotidiane, ma che esistono per
sempre. E non è retorico, che io ne so.
L’altro
filone è quello dell’avanzare degli anni. Quel bisogno interiore di sapere di
essere utili anche quando non si è più giovani. C’è nei personaggi di De
Giovanni una conoscenza ed una dinamicità interiore che non possono essere
messi da parte, che continuano anche arrivati “alla terza età”. Quindi, se c’è
bisogno di sentirsi utili, c’è anche la consapevolezza di poter dare agli altri
qualcosa. Che loro prenderanno se servirà, se verrà capita, ma intanto c’è.
Voglio
finire per svelare il lato nascosto del “romanziere d’appendice”, che collega
le sue storie, ma, appunto, in modo molto delicato e poco appariscente. Il
precedente episodio della serie (“Sorelle”) terminava con la frase “Ci fosse
stato il sole…”. “Il pappagallo muto” comincia con “Un raggio di sole si faceva
strada attraverso il finestrone”.
È vero, vi ho lasciato un’altra settimana
“in bianco”, sia di trame che di citazioni. Per le seconde, ci affidiamo ad un
florilegio di autori, tutti poco vicini alle trame gialle.
Cominciamo dall’unico italiano, Niccolò Ammaniti che in “Io e te” esplicita una
paura comune a molti: “Bisogna essere molto sicuri di sé per fare le
battute in pubblico.” (19)
Anche
il britannico David Nicholls mi dà un consiglio che ho impiegato anni a
comprendere, laddove in “One day”
ricorda: “Stava scoprendo ancora una volta che lettura e scrittura non sono la
stessa cosa.” (183)
Finiamo con due premi Pulitzer. L’australiana
Geraldine Brooks ne “I custodi del libro” mi
ricorda sia la mia passione per il caffè che quella per una trama ben
congeniata: “La decina di tazze di caffè turco che mi erano state
servite nel corso della giornata avevano contribuito a tenermi sveglia.” (22)
“Un lavoro ben fatto è quello che non lascia tracce.” (43)
Mentre l’americano Andrew Sean Greer ne “La storia di un matrimonio” mi ha fatto pensare con: “C’è forse
libertà più grande che dimenticarsi la propria casa?” (135)
Ma soprattutto con altri due pensieri:
“Crediamo tutti di conoscere la persona che
amiamo, e anche se non dovremmo stupirci quando scopriamo che non è vero, ci si
spezza il cuore lo stesso. È la scoperta più difficile, non tanto sull’altro,
quanto su noi stessi. Vedere che la nostra vita è una nostra invenzione;
l’abbiamo scritta noi e ci abbiamo creduto. La sensazione che ho provato quella
sera …. è stata di tremenda solitudine.” (52)
“Non si può stare ad aspettare che la gente
capisca sé stessa: si aspetterebbe per sempre. Metà della vita è sapere cosa
vuoi” (196)
Per la prima affermazione, il bianco è stato quello del Monte che abbiamo contornato in una settimana di grande relax nella fine aria valdostana. Una settimana fresca, per cui posso abbracciarvi con calore.