Arrivederci Francia, con questa
tornata che esaurisce (per ora) il lotto di libri francesi comperati durante le
trasferte (ormai lontane) presso la Comunità Europea.
Con alcuni miei punti “cari”, uno scritto di Schmitt ed uno
di Fermine (anche se non all’altezza di altri). Un libro sull’Eritrea martoriata
dalla carestia, ed un nuovo (per l’Italia) detective. Non grandi altezze, ma
comodi altopiani.
Maxence Fermine « Amazone » Le livre de poche euro 6,15 (in realtà,
scontato con FNAC BXL a 5,85 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 23/09/2012 – T: 27/09/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 220;
anno 2004]
Premesso che ho sempre un debito
forse incolmabile con l’autore per quelle prime letture della trilogia
dell’amore (Apicoltore, Neve e Violino Nero) che mi hanno spinto ad imbarcarmi
in questa vicenda di trame, i nuovi capitoli della sua avventura letteraria non
sempre mi convincono allo stesso modo. Né mi coinvolgono allo stesso modo. Come
ricordavo nell’ultimo “Billard Blues” (aggravato tra l’altro da essere una
raccolta di racconti). Qui torniamo al romanzo. Ed al romanzo in cui l’amore è
una componente portante di tutta la trama. Peccato che ormai la scrittura di Fermine
si sia completamente “bariccata”. Purtroppo non nel senso dell’invecchiamento
in fusti di rovere (le cataratte da 25 litri ). Ma nel senso che ricalca il modulo
espressivo dell’esimio torinese. Sospensione della frase. Introduzione di nuovi
personaggi come se ci si conoscesse da sempre. Per poi fermarsi, quasi fare un
flash-back per dare un tutto tondo al personaggio appena entrato. Gusto
dell’ellissi. E della falsa anticipazione. Ti dico che di questo ne parlerò
dopo, intanto lo annuncio, ne dico qualche parola, in pratica ti invoglio, come
una piccola operazione di marketing letterario. Ed infine, dedizione al luogo
altro. Non so, città inglesi o americane per Baricco, o giungle esotiche per
Fermine. E qui spezzo invece una lancia in favore dei nostri autori. Infatti, a
volte si sentono critiche nei suoi confronti un po’ salgariane: perché parli di
Amazzonia, caro Maxence, senza esserci stato a lungo; forse è meglio che ne
parli chi la conosce bene. Ma si tratta di un’Amazzonia della mente, di un
luogo altro. Certo, se vogliamo possiamo localizzarlo, laggiù, tra Brasile, Colombia
e Venezuela, vicino ad un’esistente Manaus e lontana da Belem di favola (e non
a caso, che Belem in portoghese sta per Betlemme, e forse Maxence l’ha scelto
apposta). Come di una favola tratta l’intera storia imperniata sull’improbabile
ma possibile esistenza di Amazone Steinway, un pianista nero che suona un
pianoforte bianco lungo le acque rosse del Rio Negro. Le brevi pagine di
Fermine cominciano proprio con l’arrivo dell’improbabile pianista nella
cittadina brasiliana di Esmeralda. Proseguendo poi, con quelle tappe “à la
Baricco”, presentandoci il barista svizzero José Cerveza, il colonnello Aurelio
Rodriguez, l’indiano Yamonomami Manes. Per poi farci tutta la storia di
Amazone, del suo grande sogno d’amore per la meticcia, nonché lettrice di tarocchi,
Camila Alves. Dell’amore, dell’arrivo del piano bianco, e di tutti i rivoli di
storie e storiette che si dipartono. Seguendo quel filo delle sette tappe verso
la felicità (forse) che ad un certo punto arrivano al negro tra capo e collo.
Il nessun luogo da raggiungere, l’attesa dello smeraldo, la foresta amazzonica,
la follia ed il sogno. Costellando le scarne pagine di tutti questi
mini-racconti, che alla fine compongono un mini-romanzo, mini in senso minimale
non piccolo che sempre 200 pagine sono. Che come tutti i romanzi del nostro
ruota intorno alle domande fondamentali dell’esistenza: quale è il senso della
vita, quale è il senso e la forma dell’amore, ed altri massimi sistemi. Fermine
gioca sempre sull’assolutismo, non esistono mezze misure. Aureliano
l’apicoltore quando ama, ama e quando raccoglie il miele, quello fa. Così
Amazone, quando suona il piano. Che ha appreso a strimpellare da solo, la cui
musica nota dopo nota, giorno dopo giorno, gli entra talmente nel sangue che
lui “è” la sua musica. E tutti lo amano perché amano la sua musica. Ed il tocco
del suo pianoforte bianco sarà per sempre nell’Amazzonia brasiliana. Niente
grigi nei personaggi al centro. Grigi sono i co-protagonisti (a volte), oppure
sfumati. Comunque alla fine non risulta del livello della trilogia. Anche
perché ritorna troppo sulle modalità poetiche delle descrizioni. Ed alla fine risulta
poco innovativo. Certo, l’amore totale di Amazone per Camila ci coinvolge
perché sempre bello è questo tipo di amore. Ma ci si aspettava qualcosa in più.
“Quand j’ai un rêve en tête,
je fais tout pour le réaliser.” [Quando ho un sogno nella testa, faccio
di tutto per realizzarlo.] (112)
Guillaume Prévost « La valse des gueules cassées » 10/18 euro 8,65 (in
realtà, scontato con FNAC BXL a 8,35 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 03/10/2012 – T: 10/10/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 278;
anno 2010]
Dopo
più di un anno di letargo, sono approdato a questo libro preso in quel di
Bruxelles per festeggiare il compimento di un grande progetto europeo, ora
purtroppo sepolto da burocrati ed affini. Diamo intanto due connotazioni. Le
edizioni “10/18” sono un editore di economici francese, che ha un intero
settore dedicato alle storie di detective, ed è un bel catalogo (non entriamo
qui nel dibattito sull’editoria nazionale, che ci porterebbe lontano). Prévost,
invece, è un autore non molto noto in Italia, se non per una serie di tre
volumi usciti per la Sellerio or già è molto tempo, in cui usava la tecnica di
mescolare fatti storici, o para-storici, con storie poliziesche. Così assistiamo
ad un’inchiesta nel 1855 di Jules Verne, ad una nel 1514 di Leonardo da Vinci,
fino ad una del 6 d.C., dove indovinate un po’ chi è uno dei protagonisti della
storia che si svolge in Palestina… Queste tracce mi avevano incuriosito, così,
avuto in mano un suo nuovo libro, ho avuto una gradita sorpresa. Non siamo più
sul versante meta-poliziesco, ma poliziesco tout-court. Anzi si annuncia come
il primo volume di una saga che ha per protagonista un neo-ispettore di
polizia, dal curioso nome di François-Claudius Simon. L’interessante
ambientazione è quella di una Parigi appena uscita dalla Prima Guerra mondiale.
Siamo, infatti, nel 1919. Questo dà modo al nostro autore di imbastire una
storia che ha tutti i connotati del poliziesco classico, ma che contiene anche
piccoli accenni, pennellate di colore. E pennellate delicate, ma ben fatte. Non
siamo nelle sbracature alla Corrado Augias che tenta di fare lo storico usando
il poliziesco (ricordo ai miei distratti lettori la trilogia dedicata ai primi
del Novecento ad un poliziotto fratello dello Sperelli di dannunziana memoria,
dove più che i misteri si aveva a cuore l’ambiente). Qui il contesto è usato
per quello che è, e non ci si può esimere quindi, en passant, né di citare il
grande avvenimento di cronaca di quegli anni, l’arresto ed il processo del
famigerato Henri Landru, né il grande avvenimento di storia, visto che nei
giorni del romanzo i grandi della terra si riunivano a Versailles per decidere
le sorti europee degli anni a venire. Ma questi sono lo sfondo del quadro dove
si muove il nostro François. Anche lui reduce dalla guerra, e dolorosamente
(ferito alla testa, con qualche nebbia di battaglia che ogni tanto compare).
Con una storia alle spalle che andiamo scoprendo a poco a poco (abbandonato
dalla madre, adottato dai preti, poi soldato, ora ispettore). Appena inserito
nella “Brigata Anticrimine” appena sorta al Quai des Orfevers (di maigrettiana
memoria), viene preso sotto le ali dell’ispettore capo, e coinvolto nelle morti
misteriose di alcuni personaggi, ritrovati con la faccia massacrata a colpi di
bastone di ferro, quasi a volerli rendere irriconoscibili. Il tutto legato ad
una (falsa) rapina di un trafficante in diamanti. Nell’inchiesta aiutato anche
da un suo coetaneo anche lui reduce, cui entra in amicizia strana, per poi
scoprirne le simpatie socialiste e, soprattutto, una sorella più giovane e ben
indipendente. Cui non tarderà di innamorarsi, riuscendo quindi ad inserire
anche qualche lato umano alla vicenda generale. Vicenda che si complica, perché
tutti gli indizi portano nell’ambiente dei reduci di guerra, magari dei
mutilati. O comunque laddove la guerra ha un suo ruolo ben importante. Insomma,
un bell’affresco, non a livelli di categorie superiore (come il primo
Montalbano), ma sicuramente ben scritto. E ben svolto, tanto che la soluzione
del caso, cui François arriverà ostacolato da tutti, lascia leggermente
sorpresi. Una bella trovata per cucire i casi ed arrivare al colpevole. Tant’è
che le ultime cento pagine le ho bevute avidamente, non riuscendo a
staccarmene. È uscito da poco anche in italiano (con il titolo “Il Valzer degli
sfregiati”), sebbene non per un noto editore, ma per i tipi di “Leone editore”
in Milano, presso cui è uscito anche il secondo episodio, sempre giocato
sull’onda della musica (dopo questo valzer ha scritto il “Ballo dello
squartatore”). Aspettando il terzo (la “Quadriglia dei maledetti”).
Eric-Emanuel Schmitt « Concerto à la mémoire d’un ange » Livre de poche
s.p. (regalo di A)
[A: 15/08/2012 – I: 09/11/2012 – T: 10/11/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 216;
anno 2010]
La
cosa migliore, senza dubbio, sono le ultime pagine del « Diario » di
Schmitt, in cui racconta il modo in cui è nato questo libro, la genesi di
alcuni passi, le sue riflessioni. Il libro in sé, pur interessante e con alcuni
spunti che tratterò, ha il primo grande pregio di essermi stato donato inaspettatamente
in una libreria di Lisbona dal sapore francese (per gli amanti della
precisione, la Fnac del Chiado). Il secondo, è quello di avermi insegnato (e
vedete che non si smette mai di imparare) la differenza tra una raccolta di
racconti, ove si collazionano testi dell’autore, solo perché sono scritti dalla
stessa penna, da un libro di racconti, dove gli stessi hanno una genesi ed
un’unità di intenti trasversale. Come questo (così come ci spiega il Diario),
nato intorno all’idea di un cambiamento, di una modificazione del proprio
agire, di fronte ad un qualche atto esterno. E questo esplorano i quattro pezzi
di bravura del testo. Il primo (“L’avvelenatrice”) ruota intorno alla strana
figura dell’anziana Marta, accusata di aver avvelenato i suoi tre mariti per
ereditarne le fortune, ma uscita innocente dal processo. Non entro nelle
descrizioni collaterali (anch’esse piene di spunti, come l’utilizzo mediatico
dell’orrore, e via discorrendo). Ma la nostra Marta entra in crisi quando incontra il
nuovo prete del paese, a cui in confessione ammette gli assassinii. Da qui la
lotta verbale tra il prete che vuole ripulirne la coscienza facendola
confessare pubblicamene, e Marta che rimane sulle sue posizioni, ritenendo la
vicenda solamente una questione privata. Ovviamente non vi dirò (né qui né
negli altri) quale sarà lo scioglimento della vicenda. Il secondo (“Il
ritorno”) è invece incentrata sul lungo processo interiore che si fa il
marinaio Greg, un “tosto” canadese sempre in giro per i mari del mondo,
meccanico su grandi navi. Lavoro che gli consente di mantenere la sua famiglia
(moglie e quattro figlie), residente a Vancouver (questo solo perché, come ci
confessa Schmitt alla fine, il racconto l’ha scritto in Canada durante una
tournée promozionale). Durante il ritorno a casa, arriva un messaggio a Greg:
“Vostra figlia è morta!”. Poi le comunicazioni cessano per il cattivo tempo, ed
allora seguiamo il susseguirsi dei giorni in attesa dell’arrivo, in cui Greg
passa in rassegna le sue figlie, il modo con cui le tratta quando sta a casa,
il voler bene all’una piuttosto che all’altra. L’augurarsi, o il temere, che
sia morta quella piuttosto che questa. Il ritrovarsi ben presto come davanti ad
uno specchio, ed interrogarsi non solo sulle figlie ma su tutta la propria
vita. Un crescendo angoscioso, che seguiamo con lo stesso spirito smarrito di
Greg. Che dilemma! Il terzo è quello che dà il titolo al libro, perché il
nocciolo è quello che fece scaturire in Schmitt l’idea. Abbiamo due giovani
musicisti, sui vent’anni, uno, Chris, pianista ed arrivista, l’altro, Axel,
violinista ed etereo, quasi incurante del mondo, capace di suonare in modo
divino il concerto del titolo (che tra l’altro non è un pezzo facile, composto
da Alban Berg poco prima della sua morte, quasi fosse un suo requiem
personale). Per una serie di circostanze, che non stiamo qui a narrare, Chris vede
Axel in pericolo di vita, mentre sta annegando. Ma per vincere il suo premio,
ne fugge, incurante di cosa possa accadere. Passano venti anni, e ritroviamo Axel
che, non morto ma paralizzato, diventa uno squalo del commercio, e finalmente
ritrova Chris, che, colpito dalla propria cattiveria, ha deciso di dedicarsi
agli altri, diventando aiuto in una scuola per ragazzi difficili e
fisioterapista per anziani. Da lì nasce il confronto, appunto di due vite cui
un avvenimento ha sconvolto l’esistenza, invertendone il corso. Ma, direi, non
cambiando i loro caratteri. Che Chris mette la stessa tenacia nell’aiutare gli
altri come prima la usava per primeggiare. Sarà un confronto duro, che non
potrà che mettere in luce tutti gli aspetti di questa conflittualità del
cambiamento. L’ultimo infine (“Un amore all’Eliseo”) rischiava di essere una
parodia di Carlà e Sarkò, ma fortunatamente Schmitt riesce ad usare altre armi.
C’è il Presidente francese con una bella moglie. Ma lui la tradisce. Lei non lo
ama più e conosce non pochi altarini che lo possono mettere in difficoltà.
Assistiamo alla loro lotta senza esclusione di colpi, ma anche senza che ne
trapeli nulla all’esterno. E poi l’elemento di rottura. Catherine si ammala di
tumore. Il Presidente briga per un secondo mandato e lei si ricovera in clinica
per terapie forse inutili. E lì scrive un libro misterioso. Cosa conterrà? Lo
smascheramento del fedifrago? Elementi di un riscatto morale? Chi ne verrà
cambiato? In tutti i racconti, poi, compare, ad un certo punto, la figura di
Santa Rita. Vuoi un santino, vuoi un testo, vuoi una statuetta. E trasversalmente
apprendiamo anche la figura di questa santa delle cause impossibili (consona ai
testi, ma che a me rimanda anche ad uno studio di avvocati a lei dedicato che incontrai
in Bolivia lo scorso anno). Certo, in Schmitt è sempre presente quel rapporto
con il divino, che affascina la mente ed intriga il pensiero. Lui non nega,
anzi afferma con forza, la sua cristianità. Ed affronta a piè sospinto
l’impasse tra determinismo celeste e volontà umana. Ma non disdegna (forse non
qui, ma in quasi tutte le sue opere) di utilizzare lo stesso metro di indagine
verso le altre religioni (ricordo il bellissimo “Ciclo dell’invisibile”, con
l’analisi progressiva di passaggi sull’islam, sull’ebraismo, sul cattolicesimo,
sullo zen, sulla meditazione). Ma anche se non eccellentissimo, anche questo
l’ho trovato un testo da leggere. E su cui tornare per meditare appunto sulla
domanda relativa ai cambiamenti. Ed anche su quella di fermarsi, nella nostra
caotica vita, ogni tanto a pensare che poi, questa, è la vita che stiamo
vivendo. Non un'altra.
« Quand
devenons-nous celui que nos devons être? » [Quando diventiamo colui
che dobbiamo essere ?] (124)
« Il
en est des destins comme des livres sacrés : c’est la lecture qui leur
donne un sens. Le livre clos reste muet ; il ne parlera que lorsqu’il sera
ouvert ; et la langue qu’il emploiera sera celle de celui qui s’y penche …
Les faits sont comme les phrases du livre, ils n’ont pas des sens par eux-mêmes,
seulement le sens qu’on leur prête. » [Il destino è come per i
libri sacri: la lettura dà loro un senso. Il libro chiuso rimane in silenzio,
parlerà solo quando sarà aperto, e il linguaggio che utilizzerà sarà quello di
chi vi si dedica ... I fatti sono come le frasi nel libro, non hanno senso da
sé stesse, ma solo il significato che viene loro attribuito.] (190)
« Je
suis sensible à une chose dont j’entends peu parler : la juste taille d’un
livre … Chaque histoire a une densité propre qui exige un format d’écriture
adapté. » [Sono sensibile a qualcosa di cui sento poco parlare: la
giusta dimensione di un libro ... Ogni storia ha un peso specifico che richiede
un formato adatto di scrittura.] (210)
« À
vingt ans, nous sommes le produit de notre éducation mais à quarante ans … le
résultat de nos choix. » [A venti anni, siamo il prodotto della
nostra educazione, ma a quaranta ... il risultato delle nostre scelte.] (212)
Jean-Christophe Rufin «
Asmara et les causes perdues » Folio euro 7,10
[A: 02/02/2012 – I: 11/02/2013 – T: 15/02/2013]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 299; anno 2001]
Mi aspettavo, dato l’autore ed il
possibile contesto, un libro diverso. Non che quello che ho trovato in queste
pagine non sia interessante, ma non mi ha coinvolto, commosso, motivato, come
altro che ho letto di questo strano personaggio, dottore, scrittore, vagabondo
e ambasciatore, e comunque da sempre impegnato in società ed azioni umanitarie
(dal servizio civile come ginecologo in Tunisia, ad attivista in Eritrea alla
fine dei ‘70, a presidente di Medici Senza Frontiere, poi fondatore di Action
contre la faim negli anni ’80 e ’90, nonché redattore di svariati dossier sulla
carestia nel mondo, l’anti-semitismo, ed altre piaghe). In effetti, speravo di
trovare ancora le gesta del farmacista del negus, come nei due primi romanzi
che ho letto. D’altronde anche questo si muove negli altopiani etiopici ed
eritrei, laddove si spera che ci condurrà prima o poi il nostro spirito vagabondo,
ma l’autore intende inviarci un messaggio, e, come spesso nei romanzi a tesi,
in alcuni punti risulta un po’ forzato. O meglio, meno scorrevole: si deve
arrivare ad un assunto, e si forza un po’. Certo Rufin è maestro nel saper
utilizzare la scrittura (non a caso nel 2008 entra nell’Académie Française) e
di sicuro conosce sia l’Eritrea che le organizzazioni umanitarie. Imbastisce
così una storia che si dovrebbe reggere su un doppio binario: il romanzo in
prima persona, a mo’ di diario che ci narra Hilarion Grigorian, armeno
d’Eritrea, e le vicende di una non meglio identificata organizzazione
umanitaria (del tipo Emergency, per intenderci). Siamo nel 1985 ed Hilarion,
nato con il secolo, sta senza particolari sussulti avviandosi alla fine della
sua vita. Una vita intensa, dove ha visto morire due figli, una moglie, ha
visto le sue terre invase dagli italiani negli anni trenta (italiani che vi
rimarranno “insabbiati”, termine locale che indica gli invasori che decidono di
rimanere sul posto), ed ha passato la vita ad esercitare il mestiere di
trafficante d’armi, commerciando un po’ con tutti, dittatori e rivoluzionari,
destre e sinistre. In questo crepuscolo di vita, ha uno sprazzo di vitalità in
seguito all’arrivo di Grégoire, un logista di un’ONG, che viene ad impiantare
un ospedale negli altopiani eritrei dell’interno. Hilarion fa in modo di
coinvolgerlo al fine, come dice ad un certo punto, di “studiarne i
comportamenti come un entomologo”. Lo circonda di attenzioni, gli fornisce
supporto, poi consiglio. Lo blandisce e lo spia. Lo aiuta ma cerca anche di
guidarne la giovane irruenza ponendo ostacoli al suo cammino. Hilarion sa (ma
non lo dice) perché l’ONG è ben accetta in questo anno di grande carestia. I
dittatori etiopi, dalla lontana Addis Abeba, hanno sfruttato lo sfruttabile, ed
hanno poca credibilità. La terra del Sud non da più frutti ed è sovrappopolata.
La terra del Nord è semideserta e potrebbe essere sfruttata. Allora imbastiscono
un grande gioco di deportazione tra le diverse zone, con la scusa della
carestia. E per coprirsi con foglie di fico cercano di coinvolgere appunto le
ONG, che, adoperandosi per alleviare la fame, acconsentono di fatto, alle
deportazioni. Hilarion sa tutto questo, ma non ne parla. Come sa che Grégoire
ha un legame con una bella etiope. O che la dottoressa in capo se la intende
con un ras locale. O l’infermiere ha più amici tra i ribelli che tra le forze
governative. Non fa nulla. E guarda i soldati ufficiali rapire la bella Esther e tutte
le donne degli occidentali, perché tutte le ONG sarebbero intenzionate a
denunziare i complotti della capitale. Mette allora in contatto Grégoire con il
capo dell’esercito, e i due arrivano ad un compromesso: l’ONG resta in cambio
della liberazione di Esther. Da qui la storia si fa un po’ moscia, che Rufin
mette in mezzo intrighi e morti (d’altra parte li ha di certo vissuti sul campo
nei suoi decenni sui vari fronti umanitari). L’esercito occupa l’ospedale. I
ribelli lo liberano, ma tengono Grégoire in ostaggio. Fin a che tutto si
risolve con la partenza di tutti gli stranieri, e con il nostro Hilarion di
nuovo solo ed in attesa di raggiungere moglie e figli. Il lato romanzo è
abbastanza ben articolato, anche se non coinvolge moltissimo. Il lato ONG è
sviluppato meno bene, pur tuttavia ponendo delle domande cruciali, che credo Rufin
abbia affrontato per molti anni: fino a dove c’è compromissione tra ONG e stati
ospitanti? Se le azioni delle ONG tendono a coprire misfatti governativi, fino
a quando è possibile mantenersi neutrali? Emergency aveva trovato una via
d’azione in tutto ciò, impiantando ospedali e curando i malati, da qualsiasi
parte provengano. Ma anche lì, e le cronache ce lo dimostrano, non sempre è
stato facile mantenere questo equilibrio. Fatto sta che, con il senno di poi,
sappiamo che quello narrato è poi l’inizio della guerra d’indipendenza eritrea,
che si concluderà con la divisione dall’Etiopia più di dieci anni dopo. Resta
questo romanzo-tesi di Rufin, che preferisco quando separa i due piani, con i
romanzi puri, come l’Abissino, o con i saggi dedicati ai problemi della fame
nel mondo. Leggibile, ma, come detto all’inizio, mi aspettavo qualcosa di
meglio. E con un ultimo punto di critica: a pag. 42 l’autore sostiene che gli
italiani insabbiati mangiano a pranzo un formaggio chiamato caccia-cavallo,
quando ben sappiamo che il vero nome è cacio-cavallo!!!
“Nous, marchand d’armes, ne
cherchons pas à influencer le cours des événements. Nous n’avons jamais eu ni
protégé, ni idéal, ni ambition propre. Nous sommes au cœur de l’Histoire, sans la faire. Comme les humanitaires.”
[Noi, trafficanti di armi, non cerchiamo di influenzare il corso degli
eventi. Non abbiamo mai avuto né protetti, né ideali, né ambizione. Siamo nel
cuore della Storia, senza farla. Come le organizzazioni umanitarie.] (114)
“Grégoire m’a cité un
proverbe éthiopien … Si tu es habile de tes mains, tu seras esclave ; si
tu es habile de la langue, tu seras roi.” [Gregorio mi ha citato un
proverbio etiope ... Se sei bravo con le mani, sarai schiavo, se sei bravo con
la lingua, sarai re.] (126)
Essendo
ancora (e felicemente) in trasferta, mi scuso se qualche indirizzo qua e là
salta. Come detto ho cercato di sincronizzare tutto, ma la fretta è stata
cattiva consigliera. Ma i lavori procedono alla grande, e si avranno presto
novità. Speriamo anche altrove.
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