domenica 17 febbraio 2013

Au revoir - 17 febbraio 2013


Arrivederci Francia, con questa tornata che esaurisce (per ora) il lotto di libri francesi comperati durante le trasferte (ormai lontane) presso la Comunità Europea. Con alcuni miei punti “cari”, uno scritto di Schmitt ed uno di Fermine (anche se non all’altezza di altri). Un libro sull’Eritrea martoriata dalla carestia, ed un nuovo (per l’Italia) detective. Non grandi altezze, ma comodi altopiani.
Maxence Fermine « Amazone » Le livre de poche euro 6,15 (in realtà, scontato con FNAC BXL a 5,85 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 23/09/2012 – T: 27/09/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 220; anno 2004]
Premesso che ho sempre un debito forse incolmabile con l’autore per quelle prime letture della trilogia dell’amore (Apicoltore, Neve e Violino Nero) che mi hanno spinto ad imbarcarmi in questa vicenda di trame, i nuovi capitoli della sua avventura letteraria non sempre mi convincono allo stesso modo. Né mi coinvolgono allo stesso modo. Come ricordavo nell’ultimo “Billard Blues” (aggravato tra l’altro da essere una raccolta di racconti). Qui torniamo al romanzo. Ed al romanzo in cui l’amore è una componente portante di tutta la trama. Peccato che ormai la scrittura di Fermine si sia completamente “bariccata”. Purtroppo non nel senso dell’invecchiamento in fusti di rovere (le cataratte da 25 litri). Ma nel senso che ricalca il modulo espressivo dell’esimio torinese. Sospensione della frase. Introduzione di nuovi personaggi come se ci si conoscesse da sempre. Per poi fermarsi, quasi fare un flash-back per dare un tutto tondo al personaggio appena entrato. Gusto dell’ellissi. E della falsa anticipazione. Ti dico che di questo ne parlerò dopo, intanto lo annuncio, ne dico qualche parola, in pratica ti invoglio, come una piccola operazione di marketing letterario. Ed infine, dedizione al luogo altro. Non so, città inglesi o americane per Baricco, o giungle esotiche per Fermine. E qui spezzo invece una lancia in favore dei nostri autori. Infatti, a volte si sentono critiche nei suoi confronti un po’ salgariane: perché parli di Amazzonia, caro Maxence, senza esserci stato a lungo; forse è meglio che ne parli chi la conosce bene. Ma si tratta di un’Amazzonia della mente, di un luogo altro. Certo, se vogliamo possiamo localizzarlo, laggiù, tra Brasile, Colombia e Venezuela, vicino ad un’esistente Manaus e lontana da Belem di favola (e non a caso, che Belem in portoghese sta per Betlemme, e forse Maxence l’ha scelto apposta). Come di una favola tratta l’intera storia imperniata sull’improbabile ma possibile esistenza di Amazone Steinway, un pianista nero che suona un pianoforte bianco lungo le acque rosse del Rio Negro. Le brevi pagine di Fermine cominciano proprio con l’arrivo dell’improbabile pianista nella cittadina brasiliana di Esmeralda. Proseguendo poi, con quelle tappe “à la Baricco”, presentandoci il barista svizzero José Cerveza, il colonnello Aurelio Rodriguez, l’indiano Yamonomami Manes. Per poi farci tutta la storia di Amazone, del suo grande sogno d’amore per la meticcia, nonché lettrice di tarocchi, Camila Alves. Dell’amore, dell’arrivo del piano bianco, e di tutti i rivoli di storie e storiette che si dipartono. Seguendo quel filo delle sette tappe verso la felicità (forse) che ad un certo punto arrivano al negro tra capo e collo. Il nessun luogo da raggiungere, l’attesa dello smeraldo, la foresta amazzonica, la follia ed il sogno. Costellando le scarne pagine di tutti questi mini-racconti, che alla fine compongono un mini-romanzo, mini in senso minimale non piccolo che sempre 200 pagine sono. Che come tutti i romanzi del nostro ruota intorno alle domande fondamentali dell’esistenza: quale è il senso della vita, quale è il senso e la forma dell’amore, ed altri massimi sistemi. Fermine gioca sempre sull’assolutismo, non esistono mezze misure. Aureliano l’apicoltore quando ama, ama e quando raccoglie il miele, quello fa. Così Amazone, quando suona il piano. Che ha appreso a strimpellare da solo, la cui musica nota dopo nota, giorno dopo giorno, gli entra talmente nel sangue che lui “è” la sua musica. E tutti lo amano perché amano la sua musica. Ed il tocco del suo pianoforte bianco sarà per sempre nell’Amazzonia brasiliana. Niente grigi nei personaggi al centro. Grigi sono i co-protagonisti (a volte), oppure sfumati. Comunque alla fine non risulta del livello della trilogia. Anche perché ritorna troppo sulle modalità poetiche delle descrizioni. Ed alla fine risulta poco innovativo. Certo, l’amore totale di Amazone per Camila ci coinvolge perché sempre bello è questo tipo di amore. Ma ci si aspettava qualcosa in più.
“Quand j’ai un rêve en tête, je fais tout pour le réaliser.” [Quando ho un sogno nella testa, faccio di tutto per realizzarlo.] (112)
Guillaume Prévost « La valse des gueules cassées » 10/18 euro 8,65 (in realtà, scontato con FNAC BXL a 8,35 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 03/10/2012 – T: 10/10/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 278; anno 2010]
Dopo più di un anno di letargo, sono approdato a questo libro preso in quel di Bruxelles per festeggiare il compimento di un grande progetto europeo, ora purtroppo sepolto da burocrati ed affini. Diamo intanto due connotazioni. Le edizioni “10/18” sono un editore di economici francese, che ha un intero settore dedicato alle storie di detective, ed è un bel catalogo (non entriamo qui nel dibattito sull’editoria nazionale, che ci porterebbe lontano). Prévost, invece, è un autore non molto noto in Italia, se non per una serie di tre volumi usciti per la Sellerio or già è molto tempo, in cui usava la tecnica di mescolare fatti storici, o para-storici, con storie poliziesche. Così assistiamo ad un’inchiesta nel 1855 di Jules Verne, ad una nel 1514 di Leonardo da Vinci, fino ad una del 6 d.C., dove indovinate un po’ chi è uno dei protagonisti della storia che si svolge in Palestina… Queste tracce mi avevano incuriosito, così, avuto in mano un suo nuovo libro, ho avuto una gradita sorpresa. Non siamo più sul versante meta-poliziesco, ma poliziesco tout-court. Anzi si annuncia come il primo volume di una saga che ha per protagonista un neo-ispettore di polizia, dal curioso nome di François-Claudius Simon. L’interessante ambientazione è quella di una Parigi appena uscita dalla Prima Guerra mondiale. Siamo, infatti, nel 1919. Questo dà modo al nostro autore di imbastire una storia che ha tutti i connotati del poliziesco classico, ma che contiene anche piccoli accenni, pennellate di colore. E pennellate delicate, ma ben fatte. Non siamo nelle sbracature alla Corrado Augias che tenta di fare lo storico usando il poliziesco (ricordo ai miei distratti lettori la trilogia dedicata ai primi del Novecento ad un poliziotto fratello dello Sperelli di dannunziana memoria, dove più che i misteri si aveva a cuore l’ambiente). Qui il contesto è usato per quello che è, e non ci si può esimere quindi, en passant, né di citare il grande avvenimento di cronaca di quegli anni, l’arresto ed il processo del famigerato Henri Landru, né il grande avvenimento di storia, visto che nei giorni del romanzo i grandi della terra si riunivano a Versailles per decidere le sorti europee degli anni a venire. Ma questi sono lo sfondo del quadro dove si muove il nostro François. Anche lui reduce dalla guerra, e dolorosamente (ferito alla testa, con qualche nebbia di battaglia che ogni tanto compare). Con una storia alle spalle che andiamo scoprendo a poco a poco (abbandonato dalla madre, adottato dai preti, poi soldato, ora ispettore). Appena inserito nella “Brigata Anticrimine” appena sorta al Quai des Orfevers (di maigrettiana memoria), viene preso sotto le ali dell’ispettore capo, e coinvolto nelle morti misteriose di alcuni personaggi, ritrovati con la faccia massacrata a colpi di bastone di ferro, quasi a volerli rendere irriconoscibili. Il tutto legato ad una (falsa) rapina di un trafficante in diamanti. Nell’inchiesta aiutato anche da un suo coetaneo anche lui reduce, cui entra in amicizia strana, per poi scoprirne le simpatie socialiste e, soprattutto, una sorella più giovane e ben indipendente. Cui non tarderà di innamorarsi, riuscendo quindi ad inserire anche qualche lato umano alla vicenda generale. Vicenda che si complica, perché tutti gli indizi portano nell’ambiente dei reduci di guerra, magari dei mutilati. O comunque laddove la guerra ha un suo ruolo ben importante. Insomma, un bell’affresco, non a livelli di categorie superiore (come il primo Montalbano), ma sicuramente ben scritto. E ben svolto, tanto che la soluzione del caso, cui François arriverà ostacolato da tutti, lascia leggermente sorpresi. Una bella trovata per cucire i casi ed arrivare al colpevole. Tant’è che le ultime cento pagine le ho bevute avidamente, non riuscendo a staccarmene. È uscito da poco anche in italiano (con il titolo “Il Valzer degli sfregiati”), sebbene non per un noto editore, ma per i tipi di “Leone editore” in Milano, presso cui è uscito anche il secondo episodio, sempre giocato sull’onda della musica (dopo questo valzer ha scritto il “Ballo dello squartatore”). Aspettando il terzo (la “Quadriglia dei maledetti”).
Eric-Emanuel Schmitt « Concerto à la mémoire d’un ange » Livre de poche s.p. (regalo di A)
[A: 15/08/2012 – I: 09/11/2012 – T: 10/11/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 216; anno 2010]
La cosa migliore, senza dubbio, sono le ultime pagine del « Diario » di Schmitt, in cui racconta il modo in cui è nato questo libro, la genesi di alcuni passi, le sue riflessioni. Il libro in sé, pur interessante e con alcuni spunti che tratterò, ha il primo grande pregio di essermi stato donato inaspettatamente in una libreria di Lisbona dal sapore francese (per gli amanti della precisione, la Fnac del Chiado). Il secondo, è quello di avermi insegnato (e vedete che non si smette mai di imparare) la differenza tra una raccolta di racconti, ove si collazionano testi dell’autore, solo perché sono scritti dalla stessa penna, da un libro di racconti, dove gli stessi hanno una genesi ed un’unità di intenti trasversale. Come questo (così come ci spiega il Diario), nato intorno all’idea di un cambiamento, di una modificazione del proprio agire, di fronte ad un qualche atto esterno. E questo esplorano i quattro pezzi di bravura del testo. Il primo (“L’avvelenatrice”) ruota intorno alla strana figura dell’anziana Marta, accusata di aver avvelenato i suoi tre mariti per ereditarne le fortune, ma uscita innocente dal processo. Non entro nelle descrizioni collaterali (anch’esse piene di spunti, come l’utilizzo mediatico dell’orrore, e via discorrendo). Ma la nostra Marta entra in crisi quando incontra il nuovo prete del paese, a cui in confessione ammette gli assassinii. Da qui la lotta verbale tra il prete che vuole ripulirne la coscienza facendola confessare pubblicamene, e Marta che rimane sulle sue posizioni, ritenendo la vicenda solamente una questione privata. Ovviamente non vi dirò (né qui né negli altri) quale sarà lo scioglimento della vicenda. Il secondo (“Il ritorno”) è invece incentrata sul lungo processo interiore che si fa il marinaio Greg, un “tosto” canadese sempre in giro per i mari del mondo, meccanico su grandi navi. Lavoro che gli consente di mantenere la sua famiglia (moglie e quattro figlie), residente a Vancouver (questo solo perché, come ci confessa Schmitt alla fine, il racconto l’ha scritto in Canada durante una tournée promozionale). Durante il ritorno a casa, arriva un messaggio a Greg: “Vostra figlia è morta!”. Poi le comunicazioni cessano per il cattivo tempo, ed allora seguiamo il susseguirsi dei giorni in attesa dell’arrivo, in cui Greg passa in rassegna le sue figlie, il modo con cui le tratta quando sta a casa, il voler bene all’una piuttosto che all’altra. L’augurarsi, o il temere, che sia morta quella piuttosto che questa. Il ritrovarsi ben presto come davanti ad uno specchio, ed interrogarsi non solo sulle figlie ma su tutta la propria vita. Un crescendo angoscioso, che seguiamo con lo stesso spirito smarrito di Greg. Che dilemma! Il terzo è quello che dà il titolo al libro, perché il nocciolo è quello che fece scaturire in Schmitt l’idea. Abbiamo due giovani musicisti, sui vent’anni, uno, Chris, pianista ed arrivista, l’altro, Axel, violinista ed etereo, quasi incurante del mondo, capace di suonare in modo divino il concerto del titolo (che tra l’altro non è un pezzo facile, composto da Alban Berg poco prima della sua morte, quasi fosse un suo requiem personale). Per una serie di circostanze, che non stiamo qui a narrare, Chris vede Axel in pericolo di vita, mentre sta annegando. Ma per vincere il suo premio, ne fugge, incurante di cosa possa accadere. Passano venti anni, e ritroviamo Axel che, non morto ma paralizzato, diventa uno squalo del commercio, e finalmente ritrova Chris, che, colpito dalla propria cattiveria, ha deciso di dedicarsi agli altri, diventando aiuto in una scuola per ragazzi difficili e fisioterapista per anziani. Da lì nasce il confronto, appunto di due vite cui un avvenimento ha sconvolto l’esistenza, invertendone il corso. Ma, direi, non cambiando i loro caratteri. Che Chris mette la stessa tenacia nell’aiutare gli altri come prima la usava per primeggiare. Sarà un confronto duro, che non potrà che mettere in luce tutti gli aspetti di questa conflittualità del cambiamento. L’ultimo infine (“Un amore all’Eliseo”) rischiava di essere una parodia di Carlà e Sarkò, ma fortunatamente Schmitt riesce ad usare altre armi. C’è il Presidente francese con una bella moglie. Ma lui la tradisce. Lei non lo ama più e conosce non pochi altarini che lo possono mettere in difficoltà. Assistiamo alla loro lotta senza esclusione di colpi, ma anche senza che ne trapeli nulla all’esterno. E poi l’elemento di rottura. Catherine si ammala di tumore. Il Presidente briga per un secondo mandato e lei si ricovera in clinica per terapie forse inutili. E lì scrive un libro misterioso. Cosa conterrà? Lo smascheramento del fedifrago? Elementi di un riscatto morale? Chi ne verrà cambiato? In tutti i racconti, poi, compare, ad un certo punto, la figura di Santa Rita. Vuoi un santino, vuoi un testo, vuoi una statuetta. E trasversalmente apprendiamo anche la figura di questa santa delle cause impossibili (consona ai testi, ma che a me rimanda anche ad uno studio di avvocati a lei dedicato che incontrai in Bolivia lo scorso anno). Certo, in Schmitt è sempre presente quel rapporto con il divino, che affascina la mente ed intriga il pensiero. Lui non nega, anzi afferma con forza, la sua cristianità. Ed affronta a piè sospinto l’impasse tra determinismo celeste e volontà umana. Ma non disdegna (forse non qui, ma in quasi tutte le sue opere) di utilizzare lo stesso metro di indagine verso le altre religioni (ricordo il bellissimo “Ciclo dell’invisibile”, con l’analisi progressiva di passaggi sull’islam, sull’ebraismo, sul cattolicesimo, sullo zen, sulla meditazione). Ma anche se non eccellentissimo, anche questo l’ho trovato un testo da leggere. E su cui tornare per meditare appunto sulla domanda relativa ai cambiamenti. Ed anche su quella di fermarsi, nella nostra caotica vita, ogni tanto a pensare che poi, questa, è la vita che stiamo vivendo. Non un'altra.
« Quand devenons-nous celui que nos devons être? » [Quando diventiamo colui che dobbiamo essere ?] (124)
« Il en est des destins comme des livres sacrés : c’est la lecture qui leur donne un sens. Le livre clos reste muet ; il ne parlera que lorsqu’il sera ouvert ; et la langue qu’il emploiera sera celle de celui qui s’y penche … Les faits sont comme les phrases du livre, ils n’ont pas des sens par eux-mêmes, seulement le sens qu’on leur prête. » [Il destino è come per i libri sacri: la lettura dà loro un senso. Il libro chiuso rimane in silenzio, parlerà solo quando sarà aperto, e il linguaggio che utilizzerà sarà quello di chi vi si dedica ... I fatti sono come le frasi nel libro, non hanno senso da sé stesse, ma solo il significato che viene loro attribuito.] (190)
« Je suis sensible à une chose dont j’entends peu parler : la juste taille d’un livre … Chaque histoire a une densité propre qui exige un format d’écriture adapté. » [Sono sensibile a qualcosa di cui sento poco parlare: la giusta dimensione di un libro ... Ogni storia ha un peso specifico che richiede un formato adatto di scrittura.] (210)
« À vingt ans, nous sommes le produit de notre éducation mais à quarante ans … le résultat de nos choix. » [A venti anni, siamo il prodotto della nostra educazione, ma a quaranta ... il risultato delle nostre scelte.] (212)
Jean-Christophe Rufin « Asmara et les causes perdues » Folio euro 7,10
[A: 02/02/2012 – I: 11/02/2013 – T: 15/02/2013]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 299; anno 2001]
Mi aspettavo, dato l’autore ed il possibile contesto, un libro diverso. Non che quello che ho trovato in queste pagine non sia interessante, ma non mi ha coinvolto, commosso, motivato, come altro che ho letto di questo strano personaggio, dottore, scrittore, vagabondo e ambasciatore, e comunque da sempre impegnato in società ed azioni umanitarie (dal servizio civile come ginecologo in Tunisia, ad attivista in Eritrea alla fine dei ‘70, a presidente di Medici Senza Frontiere, poi fondatore di Action contre la faim negli anni ’80 e ’90, nonché redattore di svariati dossier sulla carestia nel mondo, l’anti-semitismo, ed altre piaghe). In effetti, speravo di trovare ancora le gesta del farmacista del negus, come nei due primi romanzi che ho letto. D’altronde anche questo si muove negli altopiani etiopici ed eritrei, laddove si spera che ci condurrà prima o poi il nostro spirito vagabondo, ma l’autore intende inviarci un messaggio, e, come spesso nei romanzi a tesi, in alcuni punti risulta un po’ forzato. O meglio, meno scorrevole: si deve arrivare ad un assunto, e si forza un po’. Certo Rufin è maestro nel saper utilizzare la scrittura (non a caso nel 2008 entra nell’Académie Française) e di sicuro conosce sia l’Eritrea che le organizzazioni umanitarie. Imbastisce così una storia che si dovrebbe reggere su un doppio binario: il romanzo in prima persona, a mo’ di diario che ci narra Hilarion Grigorian, armeno d’Eritrea, e le vicende di una non meglio identificata organizzazione umanitaria (del tipo Emergency, per intenderci). Siamo nel 1985 ed Hilarion, nato con il secolo, sta senza particolari sussulti avviandosi alla fine della sua vita. Una vita intensa, dove ha visto morire due figli, una moglie, ha visto le sue terre invase dagli italiani negli anni trenta (italiani che vi rimarranno “insabbiati”, termine locale che indica gli invasori che decidono di rimanere sul posto), ed ha passato la vita ad esercitare il mestiere di trafficante d’armi, commerciando un po’ con tutti, dittatori e rivoluzionari, destre e sinistre. In questo crepuscolo di vita, ha uno sprazzo di vitalità in seguito all’arrivo di Grégoire, un logista di un’ONG, che viene ad impiantare un ospedale negli altopiani eritrei dell’interno. Hilarion fa in modo di coinvolgerlo al fine, come dice ad un certo punto, di “studiarne i comportamenti come un entomologo”. Lo circonda di attenzioni, gli fornisce supporto, poi consiglio. Lo blandisce e lo spia. Lo aiuta ma cerca anche di guidarne la giovane irruenza ponendo ostacoli al suo cammino. Hilarion sa (ma non lo dice) perché l’ONG è ben accetta in questo anno di grande carestia. I dittatori etiopi, dalla lontana Addis Abeba, hanno sfruttato lo sfruttabile, ed hanno poca credibilità. La terra del Sud non da più frutti ed è sovrappopolata. La terra del Nord è semideserta e potrebbe essere sfruttata. Allora imbastiscono un grande gioco di deportazione tra le diverse zone, con la scusa della carestia. E per coprirsi con foglie di fico cercano di coinvolgere appunto le ONG, che, adoperandosi per alleviare la fame, acconsentono di fatto, alle deportazioni. Hilarion sa tutto questo, ma non ne parla. Come sa che Grégoire ha un legame con una bella etiope. O che la dottoressa in capo se la intende con un ras locale. O l’infermiere ha più amici tra i ribelli che tra le forze governative. Non fa nulla. E guarda i soldati ufficiali rapire la bella Esther e tutte le donne degli occidentali, perché tutte le ONG sarebbero intenzionate a denunziare i complotti della capitale. Mette allora in contatto Grégoire con il capo dell’esercito, e i due arrivano ad un compromesso: l’ONG resta in cambio della liberazione di Esther. Da qui la storia si fa un po’ moscia, che Rufin mette in mezzo intrighi e morti (d’altra parte li ha di certo vissuti sul campo nei suoi decenni sui vari fronti umanitari). L’esercito occupa l’ospedale. I ribelli lo liberano, ma tengono Grégoire in ostaggio. Fin a che tutto si risolve con la partenza di tutti gli stranieri, e con il nostro Hilarion di nuovo solo ed in attesa di raggiungere moglie e figli. Il lato romanzo è abbastanza ben articolato, anche se non coinvolge moltissimo. Il lato ONG è sviluppato meno bene, pur tuttavia ponendo delle domande cruciali, che credo Rufin abbia affrontato per molti anni: fino a dove c’è compromissione tra ONG e stati ospitanti? Se le azioni delle ONG tendono a coprire misfatti governativi, fino a quando è possibile mantenersi neutrali? Emergency aveva trovato una via d’azione in tutto ciò, impiantando ospedali e curando i malati, da qualsiasi parte provengano. Ma anche lì, e le cronache ce lo dimostrano, non sempre è stato facile mantenere questo equilibrio. Fatto sta che, con il senno di poi, sappiamo che quello narrato è poi l’inizio della guerra d’indipendenza eritrea, che si concluderà con la divisione dall’Etiopia più di dieci anni dopo. Resta questo romanzo-tesi di Rufin, che preferisco quando separa i due piani, con i romanzi puri, come l’Abissino, o con i saggi dedicati ai problemi della fame nel mondo. Leggibile, ma, come detto all’inizio, mi aspettavo qualcosa di meglio. E con un ultimo punto di critica: a pag. 42 l’autore sostiene che gli italiani insabbiati mangiano a pranzo un formaggio chiamato caccia-cavallo, quando ben sappiamo che il vero nome è cacio-cavallo!!!
“Nous, marchand d’armes, ne cherchons pas à influencer le cours des événements. Nous n’avons jamais eu ni protégé, ni idéal, ni ambition propre. Nous sommes au cœur de l’Histoire, sans la faire. Comme les humanitaires.” [Noi, trafficanti di armi, non cerchiamo di influenzare il corso degli eventi. Non abbiamo mai avuto né protetti, né ideali, né ambizione. Siamo nel cuore della Storia, senza farla. Come le organizzazioni umanitarie.] (114)
“Grégoire m’a cité un proverbe éthiopien … Si tu es habile de tes mains, tu seras esclave ; si tu es habile de la langue, tu seras roi.” [Gregorio mi ha citato un proverbio etiope ... Se sei bravo con le mani, sarai schiavo, se sei bravo con la lingua, sarai re.] (126)
Essendo ancora (e felicemente) in trasferta, mi scuso se qualche indirizzo qua e là salta. Come detto ho cercato di sincronizzare tutto, ma la fretta è stata cattiva consigliera. Ma i lavori procedono alla grande, e si avranno presto novità. Speriamo anche altrove.

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