domenica 10 febbraio 2013

Donne di carnevale - 10 febbraio 2013


Ma non “da carnevale”. Che non c’è niente da ridere in questo quartetto femminile che viene alla ribalta. Son libri veloci, direi agili, si leggono bene, in fretta ma non con fretta. E di diversa uscita. Due ritorni: sempre un buon livello l’inventrice delle minne, anche se qui lascia qualche punto per la vaghezza di alcuni spunti di racconto, meno efficace del primo il racconto lungo di Benedetta Cibrario. Una scoperta, la Veladiano, ed una promessa di miglioramento, la Seminara.
Giuseppina Torregrossa “Panza e prisenza” Mondadori euro 10
[A: 16/09/2012 – I: 30/10/2012 – T: 01/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 189; anno: 2012]
Un libro che mi suscita echi passati, e che regge lettura ed interesse per la prima metà. Poi decade, lasciando alla fine un sapore un po’ di incompiutezza. In ogni caso, nel complesso l’ho trovato dignitoso e leggibile. Con un glossario siculo - italiano finale di cui sarà contenta mia madre che da anni mi chiede un vocabolario di siciliano per poter leggere al meglio il suo amato Montalbano. Cominciamo allora con gli echi passati, che mi ha ricordato, nel suo impianto, un mio vecchio tentativo letterario, un piccolo racconto, contrappuntato, in alcuni punti salienti, non solo da indicazione di piatti, ma anche delle loro ricette. Così come fa la nostra Giuseppina, che la sua decina di piatti in contraltare alla vicenda, ce li narra e ce li spiega (bellissimo quello della pasta con “i sardi a mare”, cioè una pasta con il sugo fatta per i pesci, i sardi, ma che essendo poveri non li abbiamo comperati e sono rimasti in mare). Vicenda che, questa volta, non gira intorno alle minne, come i precedenti romanzi, ma che comunque si àncora e si svolge nella Palermo a lei cara. E diciamo anche a noi, che, a parte il cibo, ci permette di scorrazzare sui Quattro Canti, sulla sfilata di santa Rosalia, sui babbaluci (le lumache), su Ballarò, nella Kalsa, dentro i giardini e sul lungomare (e mentre giriamo, io intanto mi fermo alla bellissima chiesa gotico – catalana di Santa Maria della Catena). E parlando dell’oggi e della Sicilia, non si può che toccare silenzi e malaffare. Lo seguiamo, questo oggi, attraverso la vicenda intrecciata di tre poliziotti: il questore Gaetano Lobianco, l’ispettore Rosario D’Alessandro detto Sasà e il commissario (anzi la commissaria) Maria Teresa Pajno detta Marò. C’è un morto eccellente, un avvocato di quelli palermitani di peso. Che difende mafiosi e mafiosetti, ma che maschera altre attività facendo anche l’avvocato d’ufficio per non abbienti. Insomma, un uomo d’eccellenza. Che viene ucciso a bastonate all’uscita del Palazzo di Giustizia. C’è un latitante che si nasconde (soffiatina mafiosa) in un paese dei dintorni di Palermo. E ci sono loro tre, un’amicizia di ferro, suggellatasi sul campo durante un periodo in cui erano destinati alla caccia dei banditi in Aspromonte. Con Marò che vuole bene ad entrambi, ognuno per un suo lato caratteriale (la forza virile dell’uno e la carnalità dell’altro, e poi discettiamo quale sia il lato migliore), e non sa decidersi con chi intavolare un rapporto, rimanendo quindi insoddisfacentemente sola, seppur ben amicata. Lobianco è l’unico che fa carriera, e cerca di proteggere i suoi due amici, affidando a Marò il caso dell’avvocato ed a Sasà quello del latitante. Entrambi fanno un percorso ortogonale alle indagini ufficiali, scontrandosi con le roccaforti del potere. Entrambi trovano la soluzione ai due misteri, ma non potranno (non vorranno? non riusciranno a?) portare a compimento quanto trovato e dedotto. Entrambi si troveranno inoltre ad affrontare altri macigni, che non sono solo quelli pubblici, ma spesso (ohi quant’è vero) quelli privati. Tra una pasta ed una festa di Santa Rosalia, ribadendo che tra amici, quando si è invitati, si può portare, come da titolo, “panza e prisenza” (espressione dialettale per designare chi, invitato, si presenta a mani vuote), la vicenda srotola fino alla sua fine dolce-amara. Ripeto, la prima parte era decisamente accattivante. E così rimaneva la presenza delle ricette. La seconda scade di tono e di tensione. Porta i nodi a sciogliersi, ma non i capelli a non essere aggrovigliati (immagine confusa per ribadire il ritrovamento della soluzione ma non il perseguimento della sua giusta causa). E questo fa cadere un poco il giudizio complessivo. Anche se gli scritti della palermitana trapiantata a Roma continuano ad essere una gradita scoperta dell’ultimo periodo.
“La salute … l’unico bene che non possiamo comprare.” (99)
Mariapia Veladiano “La vita accanto”  Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 10/11/2012 – I: 14/11/2012 – T: 18/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 163; anno: 2011]
Questo libro l’avevo un po’ messo in una parte della testa, avendolo regalato ma non avendolo preventivamente letto (ed in genere ciò è contrario al mio modo di fare). Trovandolo in offerta, mi sono quindi deciso ad affrontarlo. Ora, devo dire che il giudizio complessivo, pur con alcuni punti “oscuri”, è senz’altro positivo. Per la storia, per il modo di narrarla, per la presa che fa sul lettore. Intanto, segna l’esordio narrativo della scrittrice vicentina, che si aggiudica subito il Premio Calvino con quest’opera. Buon segno, sia il premio, che in genere ha una sua assegnazione non troppo viziata da “gruppi di potere”, sia per il fatto che (ora che scrivo al termine della lettura) l’autrice è e narra di Vicenza, città che non conosco e spero conoscere meglio a breve (ed a valle della mostra alla Basilica Palladiana). I personaggi si aggirano tra case, strade, monumenti e chiese, ma soprattutto lungo il fiume Retrone ed all’ombra del monte Berico. Anche se poi di personaggi ne abbiamo pochi, che tutto ruota intorno all’io narrante, dove seguiamo la storia di Rebecca. Nasce da una famiglia abbiente, ma che ha un grosso problema, sul quale si avviluppano le vicende. È brutta. Ora, si dirà che non solo molti bambini non nascono particolarmente “belli”, ma la sua bruttezza (che ci viene narrata come insormontabile) ne condiziona le vicende. La madre si rifiuta di vederla, di starle accanto. Anzi si chiude in sé, in un mondo tutto suo. Scatenando complessi tali nella povera Rebecca, che non supererà mai. La povera avrà sempre la sensazione di una sua colpa. Ma forse le colpe sono altre. E la madre, verso i dieci anni della nostra, si getta nel Retrone. Brutta che il padre non vuole farla uscire. Lo farà solo costretto per mandarla a scuola. Dove suscita l’orrore dei compagni di classe (ahi la cattiveria dei bimbi). A parte nella grassa Lucilla, con la quale costituirà un sodalizio di mutuo soccorso. Rebecca silente e Lucilla logorroica. Fino a perderla, la buona Lucilla, quando, per cause strane ci scappa un morto, e l’amica sparisce per farsi viva solo anni ed anni dopo, alla chiusura della vicenda. Brutta per la zia Erminia, gemella del padre, che sembra prodigarsi in suo favore, ma con quella carità pelosa, che fa più male che bene. Ed anche la zia ha ed avrà le sue colpe, anche se questa parte viene come lasciata in ombra dalla scrittrice. C’è qualcosa, ma non se ne saprà mai abbastanza. L’unico punto a favore della zia, è lo scoprire l’abilità musicale della piccola Rebecca. Che suona il piano come raramente fanno i suoi coetanei. Che dovrebbe andare al conservatorio, ma ci andrà in ritardo (tanto è brutta, e la vita non la vive ma le scorre accanto). Fortuna che c’è la buona tata Maddalena, l’unica che la protegge da tutti questi cattivi. Anche se a volte, la troppa protezione lascia poco spazio allo sviluppo in proprio del sé “autentico”. E fortuna che c’è la signora De Lellis, madre concertista del suo maestro al conservatorio. Signora che sa più di quello che sembra. Che conosce molto di Vicenza e dei suoi personaggi. Nelle cui grazie entrerà Rebecca, facendosi largo a poco a poco. A furia di suonate e di silenzi. Ed in questo lungo percorso, sempre ai margini della vita, Rebecca riuscirà, bene o male, a ricostruire le sue storie. La storia della madre, che riuscirà a recuperare nel suo ricordo, anche se ormai non c’è più. La storia del padre e della zia, da cui si allontanerà, un giorno definitivamente. La storia di Lucilla, che le tornerà vicino per non lasciarsi amicalmente più. E che le farà dono del futuro, trovando un  modo di coniugare la sua arte con il suo aspetto. Non vi dirò come, un po’ di suspense, e di invogliamento alla lettura, ci vuole. Alla fine, forse, avrei fatto un po’ più di chiarezza, ma va anche bene così (in fondo la scrittrice è lei, non io). La scrittura rende. E la bruttezza diventa archetipo del disadattamento alla vita, dell’assumere molti (troppi) mali su di sé, del percorso interno che ci deve portare a superare i nostri handicap (reali o presunti). Insomma, una buona seppur dolente lettura.
Benedetta Cibrario “Lo scurnuso” Feltrinelli euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 10/11/2012 – I: 23/11/2012 – T: 25/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 188; anno: 2011]
Una prova onesta. La scrittura è quella che si conosce della scrittrice: scorrevole, abbastanza piena di rimandi, con un approccio di empatia verso la vicenda di cui si va narrando. È uno stile che mi risuona, che mi rende piacevole leggere lo scritto. In questo romanzo, che poi sembra più un racconto lungo, od un intreccio di varie situazioni, Benedetta Cibrario offre un (neanche tanto velato) omaggio alle sue radici, alla sua nonna napoletana ed alle storie che si venivano raccontando in gioventù. È quindi uno scritto che sa molto di Napoli, ma lo si affronta con quel carattere un po’ onni-descrittivo che ho gradito nel precedente “Rossovermiglio”. Si parla di un fatto, e poi gli si agganciano spiegazioni e conseguenze. Quello che manca è una continuità di descrittività. Come se si raccontassero alcuni episodi (racconti collegati direbbe Schmitt), ma si lasciano delle zone non chiarite, dei passaggi volutamente celati. Il mondo di cui si narra, almeno per la maggior parte delle pagine, è quello legato ai “pupari”. Un’istituzione, nel Napoletano, come ben ci si accorge facendo delle passeggiate ancora oggi per San Gregorio Armeno. Quegli scultori o quelle botteghe artigiane che confezionavano e confezionano le figure del Presepe. Da quelle classiche (animali, pastori, re magi, oltre al nucleo centrale) a quelle di contorno e scenografiche (il venditore, la campagnola, la signora, e chi più ne ha più ne metta). Seguiamo nella prima fase il decadimento di un puparo classico, Tommaso, che vede infiacchirsi giorno dopo giorno le proprie mani, per troppi anni a contatto con argilla bagnata. E con l’avanzare dell’età. Un artigiano senza troppe pretese, che, per pagamenti insolventi, si vede offrire un ragazzino di bottega, Sebastiano detto Portualle (cioè arancio inteso come albero sicco e lungo in dialetto). Che dimostra un vivo talento nel disegno, che Tommaso non riesce a mantenere per la sua povertà, che vende ad una famosa bottega, dove Sebastiano impara l’arte, si innamora, cresce. Ed alla morte di Tommaso, realizza una cosiddetta “accademia”: cioè un gruppo che va sempre tenuto insieme. Dove c’è lui giovanetto, la bella Maria, e Tommaso dolente sul letto di morte. Un Tommaso che si vergogna della sua miseria, che, come si dice in dialetto, “si fa scuorno”, tanto che il pezzo verrà chiamato “lo scurnuso”. Saltiamo 150 anni, e nella Napoli pre-bellica troviamo un diverso puparo, un riparatore di statuine, cui il mestiere non dà da vivere (per cui fa l’impiegato) e che nel tempo libero si dedica ai presepi. E soprattutto a quello del duca di Albaneta, che tra i suoi pezzi forti ha proprio lo scurnuso. Qui si innesta una diversa vicenda: quella di Giovanni e Annina, popolani e riparatori di statuine; quella del duca, della sua passione per i Presepi (tanto da farne un momento epico nei dintorni del Natale), quello del figlio sposatosi con un’ebrea, e quindi con l’avanzare dei problemi legati al fascismo ed alla guerra; quello del cardinale Belmonte, diventato prete per fuggire dall’oppressa Calabria, e che proprio nei Presepi trova la sua realizzazione. Fino a che il duca, per salvare il figlio è costretto a vendere tutto (presepe e Giovanni) al buon cardinale. Facciamo un salto di altri 50 anni, per ritrovare, unico salvatosi dai bombardamenti su Napoli, lo scurnuso nelle mani di una giovane italo-americana in quel di Sorrento. Niente altro. Solo dei piccoli tocchi d’acquarello. Quello che è mancato, a me, è un filo, una spiega che non facesse cadere nell’oblio Portualle, il duca, o Giovanni. Che invece ad un certo punto scompaiono, vanno in dissolvenza, se fossimo in un film. Rimane un senso piacevole di compagnia, soprattutto pensando allo scurnuso che fa da tramite in tutti questi balzi temporali. Ma avrei preferito qualche parola in più, mentre così rimane sospeso, incompiuto. Soprattutto l’ultima parte, quella “moderna” che non si risolve, e non dona elementi di comprensione. Quindi, ripeto quello che ho detto all’inizio: una prova onesta, ben sviluppata, ma alla fine claudicante. Piacevolmente rileggo solo i punti dove ci si aggira per Napoli, tra Montecalvario e Toledo, i bassi ed il lungomare. Un giorno si riuscirà a parlare ancora di Napoli, dei suoi splendori borbonici e delle sue miserie presenti.
“Una voce interiore le dice che le uniche cose che perdiamo realmente sono quelle che noi stessi consideriamo perdute.” (170)
Elvira Seminara “I racconti del parrucchiere” Gaffi editore euro 7,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 12/01/2013 – T: 17/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 104; anno: 2009]
Un libro di racconti che occupa poco spazio, con punti a favore, fortunatamente, ma anche qualche elemento non direi negativo, ma di poca resa, questo sì. Intanto cominciamo con ringraziare la strana e poco diffusa rivista “Satisfiction”, che alla settima uscita mi segnalò questo libretto. Ne presi atto, anche perché faceva parte di una sezione della rivista che mi aveva incuriosito: “Soddisfatti o rimborsati”. Recensioni: se la critica di Satisfiction ti convince a comprare il libro, ma dopo averlo letto ritieni che l’entusiasmo di Satisfiction ha deluso le tue aspettative, invia una mail che spieghi perché il libro che Satisfiction ti ha segnalato non era veramente “imperdibile e assolutamente da leggere”: Satisfiction ti rimborserà il prezzo di copertina. Con questa premessa, come non leggere? E devo dire che, anche se non imperdibile, sicuramente il libro è da leggere. Secondo punto positivo, le poche note in contro-copertina dell’editore, che rinuncia al copyright, lanciando un “copyleft”, ovviamente per usi non commerciali. Onore ad Alberto Gaffi, quindi, per la coerenza (se poi volete una nota sul copyleft ve ne parlerò un’altra volta che ne diventai esperto durante il GARSS ed anche di questo se ne riparlerà). Infine la giovane autrice di questi racconti coerenti. Anche se sapete che i racconti non sono il mio massimo di lettura, devo riconoscere che a volte c’è del sugo nel leggerne. Soprattutto se, come mi insegna l’amato Schmitt, e come ben fa la scrittrice, sono racconti “coerenti”, legati da un filo comune. Che qui si snoda attraverso le note dei parrucchieri per signora. Tutti e tredici i racconti ne sono toccati. Perché (come nel primo che dà un bel tono alla raccolta) la protagonista fa la sciampista. O perché la signora va dal parrucchiere per tradire il marito. O per farsi i capelli, da gay di mezza età, per andare al funerale del suo amore morto di AIDS. O per cambiare faccia, da immigrata ucraina, per fuggire da una vita da colf verso un’improbabile vite da escort a Parigi. O la signora anziana che si addormenta sotto il casco e fugge con la mente verso amori in realtà mai vissuti. Inutile citarli tutti, mi sembrerebbe un catalogo poco utile, per chi voglia prendere questo libretto e sfogliarlo con calma, senza fretta. Magari tenendola al bagno, vicino ai supplementi dei giornali. Leggendolo come ho fatto io in metropolitana, appoggiato ad una parete per arrivare dall’altra parte di Roma. Come si diceva tutte storie che passano per bigodini e phon, con personaggi per lo più senza nome (a parte Milly la sciampista), ma di cui ricordiamo un particolare, una mancanza di taglio, un colore intenso, un asciugamano sui capelli bagnati. Quello che manca, a volte, è l’intensità. O la drammaticità. Non che non siano intensi o drammatici, ma lo sono a volte in maniera ellittica, con quel vezzo di dire e non dire che assumono spesso giovani autori in cerca di “aura misteriosa sulle parole del nostro cuore” (citazione altra ed altera). Ed anche quella tonalità straniante dove l’attacco del racconto sembra portare verso orizzonti ironici e scanzonati, per poi non farcela e farci piombare verso la dura realtà del quotidiano. Niente ironie, niente sorrisi. Non sembra questo il momento storico per farne. Anzi, la realtà è dura. E tutti ne sembrano dolorosamente consapevoli. Questo l’ultimo punto che non condivido. Questa in fondo mancanza di speranza, caduta delle illusioni, vicoli ciechi che ci avvolgono. Certo, è molto così, cara Elvira, ma anche no. Anche qualcosa di mezzo pieno c’è nel decidere che per consolarci del tradimento coltiveremo basilico in balcone. Magari non sarà risolutivo, ma gli spaghetti al sugo avranno un altro sapore.
Un altro piccolo viaggio italiano (a parte i racconti ultimi) che mi ha fatto (ri-)toccare Palermo, Vicenza e Napoli. E che consiglio a tutti: abbiate tempo per vedere anche la piccola Italia, prima che anch’essa scompaia sotto le prossime colate di cemento. Sperando che nere profezie non si avverino. Ed intanto proseguono lavori e trasferte, con soddisfazione (mia) per entrambi.

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