Ebbene sì, eccoci di nuovo qui
alle prese con alcuni protagonisti “di lungo corso”, che da anni seguiamo nelle
loro alterne vicende. La Grecia del commissario Charitos, l’Inghilterra dell’ispettore
Lynley, l’America dell’anatomo-patologa Kay Scarpetta e la Spagna dell’ispettrice
Petra Delicado. Purtroppo, sebbene le loro vicende mi appassionino e come un “serial
addicted” non mi faccio mancare nuove puntate, queste, devo riconoscere si
collocano generalmente nella parte bassa della scrittura e del mio gradimento.
Petros Markaris “Prestiti scaduti” Bompiani euro 10,90 (in realtà,
scontato 8,18 euro)
[A: 15/07/2012– I: 26/05/2013 – T: 29/05/2013]
[tit. or.: greco; ling. or.: Ληξιπρόθεσμα Δάνεια; pagine:
383; anno 2011]
Tornano
sulla scena, dopo un po’ che lo avevo lasciato in disparate, il commissario
Charitos e le vicende greche. Markaris è sempre stato attento all’attualità
(non a caso è stato a lungo sceneggiatore di Angelopoulos) e l’impronta dei
suoi “libri d’attualità” è stata sempre quella di tener presente l’ambiente in
cui si muovevano i suoi personaggi. Il suo è un tentativo insomma di coniugare
una critica sociale mutuata dagli antesignani svedesi (in prima fila con la
coppia Sjöwall & Wahlöö) ed un’ambientazione mediterranea (sul filo del
primo Camilleri). In questo romanzo (il penultimo della serie ad ora uscito) si
cala sempre più nella realtà greca. Ed allora come non permeare tutto il
romanzo dello scontento, del malessere che vive la società greca. In questo c’è
purtroppo un grande scollamento tra i due registri del libro: perché se la
critica sociale, l’analisi economica basata sul quotidiano dà spunti di
riflessione, la trama poliziesca che dovrebbe tenere su il resto, fungere da
collante alla storia, è un po’ strampalata. Cioè, più che strampalata, quasi estremizzata
a tal punto da non suscitare neanche quel minimo di empatia da renderla
accettabile. Infatti, il filo conduttore è l’uccisione di una serie di
personaggi legati al mondo delle banche (un banchiere in pensione, un gestore
di fondi a rischi, un analista, un gestore di recupero crediti), tutti passati
a fil di spada. Metodo a dir poco inusuale, che ci vuole abilità ed anche
spazio di manovra per decapitare qualcuno nettamente e con un solo colpo di
spada. Il nostro commissario è ben spiazzato, anche perché si trova a
combattere una fronda interna che vorrebbe le morti commissionate da qualche
“terrorista”. Ma più che terrorista, sembra un Robin Hood cattivo, che quasi
voglia farsi catturare per gridare la sua verità. Che comincia a mandare
proclami, volantini, messaggi mediatici. Ed è seguendo questo capo della
matassa, che, filo dopo filo, Charitos riesce a risalire al capo iniziale, a
chi, come, quando e perché ha deciso questa campagna verso “gli affamatori del
popolo greco”. Devo dire che le motivazioni che adduce il Robin Hood del Pireo
non mi convincono moltissimo. Non per la situazione precipua greca, che quella
è ben dipinta e con vivezza. Ma per la sequenzialità dalle motivazioni iniziali
fino alle azioni ultime. Ma non è questo il punto forte del romanzo. Se ci
fosse solo la trama poliziesca, come dicevo prima, il giudizio sarebbe sceso ai
minimi storici per Markaris. Nel romanzo, più che altro, viene fuori un quadro
della Grecia degli ultimi anni. Del suo declino, delle scelte sbagliate fatte
dai diversi governi, dal rapporto con l’Unione Europea (mentre noi ce la
prendiamo genericamente con la Germania, loro attaccano direttamente i
commissari, indicando i cattivi con il nome collettivo di troika). Vediamo (o
meglio leggiamo ed intuiamo) la difficoltà di sbarcare il lunario, la mancanza
di posto fisso (così come sta subendo Caterina la figlia di Kostas), i
tentativi della moglie Adriana di arrangiarsi (ascolta la radio prima di fare
la spesa, e va nei supermercati che annunciano sconti). E la rabbia, che il commissario
ogni volta che si aggira per la città è bloccato da una qualche manifestazione.
Poi viene anche la rassegnazione, come a seguito degli annunci
sull’allungamento dell’età lavorativa (che mi ricorda anche qualcosa di
nostrano). Nonché tutti i “topos” caratteristici del mondo greco. In primo
luogo il traffico (anche senza cortei), che pure qui, praticamente ogni
capitolo inizia con qualche descrizione di percorsi da fare per evitare
imbottigliamenti. E poi i ventisette diversi modi di prendere il caffè. Buono,
anche se a volte pedante, l’inserimento di discussioni sulla situazione economica
che servono da un lato a far procedere l’indagine, dall’altro (ma meglio e con
più efficacia) a tentare una spiegazione all’andamento della crisi, come
concomitanza di fattori endogeni. Che alle ruberie tipiche di regimi “faciloni”
(che fa rima con …), si mescolano lo strapotere e la voglia di monetizzazione
degli eserciti finanziari. Ne viene di certo fuori un quadro poco allegro, che
Markaris chiude senza nessun compiacimento e senza nessun ottimismo. Andrebbe
meglio bilanciare le due anime del racconto, cosa che qui non succede. Lasciamo
il dubitativo, e lanciamo un bel salvagente al popolo greco, affinché non
affondi. Una sola domanda al pur ottimo Andrea De Gregorio, ed a tutti quelli
che sanno di greco. Si cita ad un certo punto (pag. 204) una voce di dizionario
dove vengono equiparati il termine requisire e trattenere, senza però spiegarne
se etimologicamente (in greco) hanno affinità. Mi lascia, infatti, perplesso
che come frase per spiegare il termine requisire (in termini di denaro) si
faccia riferimento ad una frase di Ippocrate che parla di “trattenere il respiro”.
Boh!
Elizabeth George “Questo corpo mortale” TEA euro 10 (in realtà,
scontato a 8,50 euro)
[A: 15/07/2012– I: 05/06/2013
– T: 09/06/2013]
[tit. or.: This Body of Death; ling. or.: inglese; pagine: 654; anno 2012]
Speravo
qualcosa di più dall’interminabile libro di miss George, che è sempre una
patita di libri super lunghi, con storie che si accavallano su storie, anche se
con l’intento di trovare un filone che (prima o poi) le unifichi in un corpus
unico. Tra l’altro, dopo la sbandata di tre o quattro romanzi fa dove, a causa
della tragica morte dell’amata moglie, sembrava la serie destinata alla
chiusura, con un po’ di fatica e di mestiere, la George sta cercando
(riuscendoci) di rimettere il tutto nei binari “normali”. Ed anche qui, sir
Thomas Lynley fa un ulteriore (quasi definitivo) passo per tornare nelle forze
di Scotland Yard. Purtroppo la storia è viziata da una strutturazione alla
Stephen King, non tanto per il versante horror, quanto per quel modo di
scrivere e rimandare tipo “Il corpo”, quel racconto da cui fu tratto il film “Stand
by me”, per cui si inserisce una storia antica, spezzettata in tanti capitoli distanziati
tra loro, per dare senso e respiro alla storia che stiamo seguendo. Per darne
spiegazioni, a volte marginali, a volte sostanziali. anche se qui si capisce
dalla seconda pagina questa trama secondaria. Ci sono dei ragazzi undicenni,
sbandati, che commettono un efferato crimine verso un bimbo. Saranno presi e condannati,
ma si capisce che uno di loro è il Gordon che fa da perno alla vicenda. Chi dei
tre sia, lo scopriremo alla fine (un punto per la George), tuttavia è ben
chiaro che Gordon vive lì nell’Hampshire sotto copertura, anche se ormai sono
passati almeno venti anni dai fatti antichi. Sul versante moderno, si scopre
che la convivente di Gordon viene trovata uccisa in un cimitero di Londra.
Jamima che se ne era andata improvvisamente (forse ha saputo del passato di
Gordon?), anche avendo scoperto un tesoro di monete antiche nella villa in cui
loro vivono. La situazione quindi si spezza in due, da un lato il narrato
nell’Hampshire, dove compare una bella signorina che fa la corte a Gordon, suscitando
perplessità sia in Merry (l’amica del cuore di Jamima che non si da pace della
morte) sia in Rob (il fratello di Jamima). Dall’altro le indagini che partono a
Londra, coordinate dalla squadra di Lynley, affidata però ad un nuovo comandante,
il sovraintendente Isabella Archer. Qui si apre una parentesi, perché ci immergiamo
nei problemi della quasi quarantenne ispettrice, brava ma un po’ “arrivista”,
ma soprattutto dedita a tenersi su con un numero infinito di bottigliette di
vodka. Non siamo dalle parti delle cupe sbornie di Rebus (che la George cita en
passant), ma solo nel mostrare debolezze del personaggio. Che tuttavia chiede a
Lynley di tornare in squadra. Creando non pochi problemi ai sergenti vari, non
ultima la nostra Barbara, sempre malvestita ma sempre pronta ad intuizioni
folgoranti. E la squadra di Londra indaga sulla vita londinese di Jamima, e sui
suoi amori, l’italiano Paolo e il dongiovanni Frazer. Compare anche uno strano
tipo di schizofrenico paranoide, che sembra poter incarnare il capro espiatorio
tipo. La George qui mescola molto le carte, cercando di indirizzarci verso
questo o quello, ma senza riuscirci, che capiamo bene chi possa esserci dietro
tutte queste manovre. Ed è ovviamente Lynley che avrà l’intuizione giusta,
anche se penerà non poco a trovare il modo di far uscire fuori prove certe dei
fatti. Tutto ovviamente condito dalle decisioni sballate della Archer che
sembrano mandare nel pallone le indagini. Ritroviamo anche di sfuggita i
coniugi St. James anche se in una parte minore, ma che riescono a fornire le
prime prove al nostro. Ed entriamo anche nelle problematiche personale della
Archer, che il marito ha allontanato da casa e dai figli proprio per il suo
alcoolismo. Dispiace, personalmente, che si intraveda una possibile storia tra
Isabella e Thomas. Ma forse è solo sesso. Quando tutto sembra perduto, Barbara
a New Forest nell’Hampshire (sembra un posto interessante, da vedere se esiste)
riesce a sventare una possibile tragica fine della storia. E Lynley, sfruttando
il fatto che non erano stati avvertiti dalle autorità sulla natura del “caso
Gordon”, riesce a salvare il posto alla neo-sovrintendente. Vedremo in futuro
come si evolveranno le storie, anche se (in uno dei tanti rivoli) capiamo che
Barbara (che aveva un penchant verso un immigrato) non andrà molto avanti su
quel lato. Ma la squadra si ricostruisce, anche se Lynley ne sarà solo il vice.
Comunque, troppe pagine e troppa carne al fuoco. Qualche taglio ne avrebbe
migliorato la fruibilità. Nel gioco dei contrari (visto che sto abbondando di
particelle avversative) sono comunque discretamente soddisfatto della lettura.
Chissà se un giorno riuscirò a compilare una storia degli ispettori e dei commissari
di polizia della letteratura poliziesca.
Patricia Cornwell “Autopsia virtuale” Mondadori euro 13 (in realtà,
scontato a 9,75 euro)
[A: 01/09/2012– I: 13/06/2013
– T: 16/06/2013]
[tit. or.: Port Mortuary; ling. or.: inglese; pagine: 369; anno 2010]
Siamo
tornati ai livelli più bassi dello scrivere della nostra pur sempre ben volute
Patricia. Come scrissi commentando una sua prova di due – tre romanzi fa, ogni
tanto sembra che si voglia di forza far uscire qualcosa, anche se sono poche e
confuse le idee. Tanto per far rimanere vigili gli estimatori della dottoressa
Scarpetta e delle sue avventure. Ci troviamo così tra le mani un romanzo che, a
ben guardare, sembra non avere né capo né coda. Intanto (e siamo alle solite)
il titolo italiano è lontano anni luce dalla storia in sé. Infatti, se è pur
vero che in qualche laboratorio (soprattutto per le forze armate) stiano
sperimentando apparati per effettuare autopsie senza “invadere” il corpo (con
uso di tomografie, risonanze ed altre strumentazioni computerizzate
all’avanguardia) e che se ne accenna nelle prime pagine del libro, il resto del
romanzo è più incentrato sul “Porto Obitorio”, cioè sul luogo (o i luoghi) di
raccolta dei cadaveri. Sia nella prima parte, dove viene fatto un accenno alle
autopsie fatte sui cadaveri reduci dalle zone di guerra, e sia nel resto del
romanzo, che si sposta sul Centro messo in piedi da Kay in quel di Boston,
sempre con l’aiuto di militari, FBI e sponsor vari. Tra l’altro, le quasi
quattrocento pagine si svolgono in circa 48 ore (senza che i protagonisti
vadano mai a dormire). La Scarpetta sono sei mesi che lavora a Dover per
l’Esercito, analizzando i cadaveri di guerra. Ed il suo centro, nelle mani del
suo vice Jack, sembra vada a rotoli. Tanto che la nipote Lucy ed il buon Marino
la prelevano da Dover, la riportano a casa, dove si trova ad affrontare alcune
morti sospette nonché la scomparsa del suo vice. Siamo a febbraio, e ci sono
stati: un atleta massacrato a novembre e ritrovato nelle acque del fiume, un
bambino ucciso con una sparachiodi ed un morto per ora ignoto che muore in un
parco, e che comincia a sanguinare 12 ore dopo nella cella frigorifera del
Centro. Kay viene chiamata per cercare di capire dove mettere le mani, ma si
scontra con milioni di reticenze. Lucy non vuole far sapere a Marino di alcuni
aggeggi robotizzati che circondano l’ultimo morto. Marino coinvolge l’Esercito
senza avvertire Kay. Infine Benton, il marito tanto amato, la tallona, le sta
vicino ma sembra sapere molto più di quello che dice e fa molto più di quello
che sappiamo. Intanto, io da lettore esterno, avevo supposto fin dalle prime
battute che fosse intervenuto nella morte dell’ignoto qualche fattore
criogenico che avesse congelato qualcosa che poi, sciogliendosi, ha dato luogo
al sanguinamento post-mortem. Non vi dico come, ma è proprio così (e la
Cornwell ce lo dice 200 pagine dopo che l’avevamo capito). Inoltre la
dottoressa Scarpetta non fa che lamentarsi per tutto il romanzo: il suo vice
l’ha tradita, e lei si lamenta, Lucy sparisce, e lei si lamenta, Marino si comporta
male (come al solito, direi) e lei si lamenta, il marito è reticente, e lei si
lamenta. E tutto questo lamentarsi è di una pallosità ingombrante. Tante che fa
perdere il filo del ragionamento. Perché cercando di seguire gli avvenimenti in
presa diretta, si saltano passaggi logici, ci si trova di fronte a soluzioni
semplici ma non spiegate e senza capire come si è arrivati sin lì. Non c’è neanche
un momento catartico, dove l’autore onnisciente si ferma, prende per mano il lettore
e gli spiega il casino che ha messo in piedi. Perché la Cornwell cerca di
chiudere nodi e fili vari aperti magari una decina di libri prima, le morti in
Sudafrica che Scarpetta ha dovuto “subire” ed a cui non si è mai rassegnata. Il
vice Jack che ha voluto al suo fianco ma non si capisce perché, dato che è uno
psicopatico della bell’acqua. Intanto, Lucy, dopo alcune battute, si eclissa inaspettatamente
e non ne vediamo più traccia. Benton porta Kay a casa di Jack dove quest’ultimo
giace morto, e la nostra vi trova l’FBI coordinato, guarda un po’, da Marino
(ma non era inaffidabile?). Un guazzabuglio. Poi si viene a scoprire che Jack
da giovane è stato “violentato” da una donna trentenne, ora rinchiusa in un
carcere criminale. Che insieme hanno fatto una figlia che pare anch’essa un po’
labile. Il morto poi tutti (meno Kay) sapevano essere il figliastro di un
premio Nobel contrario alla politica belligerante americana. E che lavorava in
un laboratorio segreto dove stavano studiando e costruendo mini-droni per
guerre future. Una confusione che metà basta. Ma se alla fine scopriamo chi ha
ucciso le tre persone di cui sopra, non si capisce perché costruirci sopra un
romanzo, se non per tentare di chiudere appunto elementi vari lasciati appesi.
E lasciarci l’amaro in bocca, che tra Kay e Benton le cose sono di nuovo sul
nero spinto (ma che l’hai fatto tornare a fare, cara Cornwell, se poi ci lasci
in questa totale confusione?). E, ultimo e ripeto, la scrittura è affannosa,
illogica e completamente avulsa dall’idea che qualcuno stia leggendo queste
pagine per trovarci un senso. Mi sembra un libro inutile. Ed ho il sospetto che
anche il prossimo, se ci rifacciamo al passato dove ci vogliono almeno due
romanzi per tornare a galla, sarà da criticare. Magari ancora più aspramente.
D’altra parte, ultimamente ero stato troppo buono, ed avevo sempre cercato di
trovare elementi positivi. Qui no. Non leggetelo. Ah, un’ultima chicca
dell’edizione Mondadori: a pagina 43 si cita Annie Lennox e la sua bellissima
canzone “No more I-love-you’s”, peccato salti l’apostrofo facendo diventare i
“Non ci sono più i ti amo” un banale e dialettale “Non ve amo più”. (!!)
“Non potrei biasimarlo se gli pesassero le
rinunce che ha fatto e le complicazioni che gli causo io.” (182)
Alicia Gimenez-Bartlett “Gli onori di casa” Sellerio s.p. (regalo della
mamma)
[A: 10/02/2013– I: 19/06/2013 – T: 21/06/2013]
[tit. or.: Nadie quiere saber; ling. or.: spagnolo; pagine: 511;
anno 2013]
Eccoci
infine all’ultima prova uscita della nostra cara scrittrice spagnola ed
imperniata sul personaggio di Petra Delicado. Questo perché altro è di lei
uscito (saggi e/o recuperi di vecchi libri pre-Petra), che per ora non sono
entrati nella mia libreria. Presentimento di appesantimento della scrittura dopo
i cinquanta (sessanta?), non so. Fatto sta che anche questo, pur essendo
gradito e tutto sommato scorrevole nonostante le 500 pagine, non è che sia
tornato ai vertici delle migliori imprese della coppia investigativa spagnola.
Comunque, visto che siamo in vena di critica, cominciamo anche a chiederci
perché “nessuno vuole saperlo” diventa in italiano “gli onori di casa”. Il
primo ha una forte attinenza con lo svolgimento della vicenda, che (alla stregua
dei miglior serial di Fox Crime) prende in mano un vecchio caso, chiuso ma non
completamente risolto. Il secondo rimane un mistero. Gli onori di casa li fa
l’ospite che riceve qualcuno. E non è certo il morto che li fa, essendo morto
da cinque anni. Né li fa Marcos, l’attuale marito di Petra, che nella prima
parte si comporta come un rimbambito, per poi rinsavirsi e fare le coccole
nella seconda parte (senza spiegare né l’uno né l’altro comportamento). Non li
fa Petra quando riceve i figli di Marcos (e diventa sempre più interessante il
rapporto con la piccola Marina). Non li fa Julieta, la prostituta che si
accompagnava con il morto, che aveva tentato di drogarlo per permettere al suo
complice di entrare e rapinare; ma poi ci scappa il morto, Julieta si fa tre
anni per favoreggiamento, e quando esce viene ritrovata da Petra, ma subito dopo
uccisa. Non li fa Franco Catania il presunto (o reale) killer del vecchio, poi
dell’amante di Julieta ucciso a Marbella mentre lei era in carcere, poi di Julieta,
e poi tenta anche con Petra. Non li fa la camorra, che dopo un lungo percorso
coordinato tra la polizia italiana e quella spagnola, si capisce e si dimostra
essere alla base dei loschi traffici del morto, quando con la sua azienda
tessile in declino, cerca di risalire la china riciclando denaro; ma se c’era dietro
la camorra, perché avrebbe dovuto uccidere la gallina dalle uova d’oro? Né li
fa la polizia italiana, ed in particolare il commissario Maurizio Abate il
coordinatore della parte di vicenda che si svolge a Roma (e su cui torneremo),
anche se (dopo l’ovvia iniziale scaramuccia con quell’essere delicato del
nostro ispettore Petra) il loro lavoro congiunto porta alla scoperta del covo
di Catania, all’uccisione di questi da parte della camorra, alla scoperta del
magazzino di riciclaggio al Pigneto, ed all’arresto della banda italiana e
dell’ex-amministratore del morto in Spagna. Non li fa la seconda moglie del
morto, che è solo quella che chiede di riaprire il caso, perché vuole andarsene
da Barcellona avendo fatto di tutto per capire (e che alla fine si ritirerà in
Galizia, con l’anziano giudice dell’indagine che va in pensione e la segue). Né
infine lo fanno le tre figlie del morto: Nuria, comandante in capo, dura
dentro, ma con delle fragilità improvvise, Elisa, la seconda fuggita in America
a fare la psicologa, e Rosario, la piccola, completamente in balia dei sentimenti,
che scoppia in lacrime al volar di una mosca. La vicenda, purtroppo, è di una
limpidezza quasi banale, e si può prevedere sin dall’inizio che l’intreccio che
sembra inestricabile, dipende dal fatto appunto che è un intreccio. Basta
isolare le singole vicende per trovare la soluzione, cui (mi dispiace dirlo
ancora una volta) si può arrivare già verso pagine 300, a valle di uno dei
tanti interrogatori, dopo il quale Petra si pone delle domande. Anche noi
lettori, che però, al contrario di lei, diamo anche una risposta ed una
soluzione. Perché Petra è anche impegnata a capire sia i suoi rapporti con
Marcos, sia la sua attrazione (non fatale, per fortuna) con Maurizio. Da questo
lato andrà tutto bene, facendo sesso dove serve e amore dove ce n’è bisogno.
Rimane ancora quell’unico neo della Roma di cartolina, che forse è la migliore
se vista con gli occhi dello stupito vice-commissario Garzon, e quando si parla
di centro storico, di Colosseo, e di ricche mangiate di amatriciana (ma non si
può, senza cadere nel ridicolo, domandarsi seriamente la differenza tra questa
e gli spaghetti al ragù!!). Diventa un mondo probabilmente non visto, se si
passa alle vicende che si svolgono al Pigneto o a Centocelle. Che sono irreali
e sembrano solo nomi su di una mappa di Google. Quindi, per concludere, un
prodotto debole, che acquista simpatia per l’amore verso i personaggi, e per
quei piccoli spunti che Alicia, sempre mi da e per i quali sentitamente
ringrazio.
“La sua intelligenza cerca un senso … ma il
più delle volte la vita non ce l’ha.” (119) [qui si imita Vasco Rossi!]
“Tutti noi facciamo qualcosa per compensare
psichicamente le sofferenze che abbiamo patito in passato, così come cerchiamo
di cancellare gli errori che abbiamo commesso.” (129)
“Per questo mi sono sposato, per voler bene
e farmi voler bene.” (145)
“La vita è così, ti sorprende ad ogni passo.
E quando ormai credi di conoscerne i segreti, puoi rischiare di perderti nel
suo labirinto.” (193)
“O l’amore o la libertà, le due cose insieme
non si possono avere.” (347) [sicuro?]
“L’essere umano è fatto così… d’inverno
rimpiango il caldo dell’estate e in estate mi piacerebbe avere freddo. In città
sogno il verde della campagna e appena mi trovo in mezzo ai fiori voglio andare
al cinema … come se non volessi saperne di essere completamente felice.” (489)
Si sta
chiudendo anche questo mese di ottobre (si è vero che mancano dieci giorni, ma
poco spazio avrò di tramare molto) pieno di compleanni e feste. E mentre ci
immergiamo già nei pensieri della possibile grande festa per mia madre nel
prossimo anno, teniamo testa agli ultimi strascichi di quella citata nell’ultima
trama. Volutamente confuso come i libri tramati
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