domenica 24 novembre 2013

Biostorie (o quasi) - 24 novembre 2014

Non stiamo parlando di scritture OGM o similari. Siamo solo sul versante di scritti che parlano di sé in qualche persona (prima o terza) o che fanno scoprire il primo moto di scrittura (quindi ancora biografico) dello scrittore. C’è la solita vita vissuta in posto d’Italia, che sempre mi affascina, nell’ottima collana di Laterza. C’è tennis e vita nella scrittura interposta di Agassi. C’è il primo libro di un interessante Francesco recami. E c’è l’interposta biografia di Gobetti. Prima di cominciare sottolineo inoltre che metà delle trame viene dal mio ormai già lontano compleanno.
Simone Lenzi “Sul Lungomai di Livorno” Laterza s.p. (regalo collettivo di Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 17/06/2013 – T: 18/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 100; anno 2013]
Ed eccoci ancora qui con un nuovo libretto dell’esimia collana ControMano di Laterza, di cui ho già abbondantemente parlato, ed ovviamente bene. Una collana ben riuscita, con qualche alto e basso come accade un po’ ovunque, ma con uno standard medio di qualità più che accettabile. Qui, con l’esimio Simone Lenzi siamo in quel di Livorno, dopo aver visitato non molti libri fa la Versilia di “Morte dei marmi” (ed in attesa della Firenze di Santoni che non mi decido di acquistare). Risalta anche in queste pagine la tipica arguzia toscana, l’occhio attento al mondo, un po’ di derisione prima per se che per gli altri. Inoltre siamo dalle parti di Virzì (magari del primo, quello di “Ovosodo”) e non è un caso che Lenzi ne abbia sceneggiato un film da un suo romanzo (da “La Generazione” infatti, è stato tratto “Tutti i santi giorni”). Devo dire soltanto che mi aspettavo un piccolo guizzo in più, un elemento come quelli che ogni tanto tira fuori dal cilindro il buon Francesco Piccolo (non a caso anche lui sceneggiatore), per questo alla fine il giudizio generale è di un buon livello standard, senza salire verso i gradini dell’eccellenza. Ma fatte le debite premesse, ci viene restituito un po’ (o anche di più) della città di Livorno e delle sue contraddizioni. Di aver preso il posto di Pisa quando quella marina si insabbiò, ma di essere sempre stata “il porto di Firenze”, e non (come Pisa, invece) un grande impero a sé stante. Vero che Ferdinando I ne fece un ottimo granducato, ma la sua statua con i quattro mori incatenati è e sarà un simbolo contraddittorio della città. Come le tre piccole tappe che Simone ci porta a seguire per la città: Piazza della Vittoria con il recinto dei cani e le vite che la attraversano, i miasmi che salgono dalle viscere della città e dalla sua archeologia industriale (o simile), dove non ci perderemo mai la descrizione della fabbrica abbandonata della Coca-Cola, e poi il Lungomare. Anzi, per riprendere il titolo, e la citazione fantastica di Panella e de “Le cose che pensano” di Battisti (un dolce tedio a sdraio … costeggiai i lungomai). Mi sarebbe piaciuto anche un passaggio più approfondito nell’unico quartiere che conosco bene di Livorno, quello della Venezia, con i suoi canali, con le barchette, con i locali, e con quel carnevale che non scimmiotta la sorella maggiore, ma cerca soltanto di sfruttarne la notorietà in minore. Così scivoliamo, nella calura del fronte del porto, tra le storie dei padroni dei cani che si vedono la sera nel recinto di Piazza della Vittoria (che in realtà si chiamava Piazza Magenta, e con questo nome è conosciuta dai locali, un po’ come Piazza Esedra a Roma), la storia del Monumento di Ferdinando I (e del rapporto con il figlio Cosimo II), la bellissima statua de “Il Pescatore” di Ardenza, posto sul Lungomai a guardare l’Isola di Gorgona (e come ognuno che guarda Gorgona, rimane impietrito; stupenda l’immagine di mettere una sciarpa alla statua d’inverno per il freddo), ed anche quella delle terme, della loro nascita e della loro decadenza. Ma anche le storie di persone, dei livornesi d’altrove, come quella del cuoco trovato in un ristorante a New York, o dei livornesi d’acquisto, come il professore di liceo che cerca di attaccare discorso con i pescatori (e si sente rispondere col ritornello di una canzone popolare “Nel porto di Livorno nun c’è pesci / cosa m’importa bimba se mi lasci”), o di quelli doc, come il calciatore Carlo Lucarelli e la sua complessa parabola. Ed altre ancora, passeggiando tra la varia umanità della cittadina. Certo avrei gradito qualche accenno in più sul romantico mazziniano Francesco Domenico Guerrazzi o il librettista Giovanni Targioni Tozzetti (autore di una poesia celebrativa della sua città natale, dove si celebrano “le bimbe belle, i Quattro Mori e il mare”). Ma anche su altri neanche citati (perché ci dimentichiamo di Amedeo Modigliani? Forse è troppo ingombrante?). Ma Lenzi in ogni caso mi ha restituito il sentimento di una città, e delle sue parti meno pubbliche e più private, e forse per questo a me più care (per non dimenticare il mangiar di pesce). Chissà che non si legga altro di lui. Intanto ho piacevolmente passato qualche ora di metropolitana viaggiando ancora verso i labronici.
“Come Atteone … o G., …, che faceva lunghissime prediche alla sua barboncina Trilly.” (17)
“Di solito, al mattino, non ho memoria di quel che ho sognato la notte. Le rare volte che mi capita resto stupito.” (41)
Andre Agassi “Open. La mia storia” Einaudi s.p. (regalo di ConAllegria)
[A: 07/05/2013– I: 13/06/2013 – T: 19/06/2013]
[tit. or.: Open. An autobiography; ling. or.: inglese; pagine: 496; anno 2009]
Cominciai a sentir parlare di questo libro il 13 novembre del 2011, quando, nella pagina domenicale di Repubblica, Alessandro Baricco cominciò il suo anno di recensioni (quello poi uscito in libro, anch’esso dolce regalo, con il titolo “Una certa idea del mondo”, e che è quella che vi sto proponendo in tutti questi anni, con le mie trame; forse non una certa, ma di certo una mia idea del mondo). E lo cominciò proprio con questo libro, che divenne presto un best-seller, ed ora, due anni dopo, mi è stato regalato dal mitico Roberto (quello allegro, ah ah) in cambio di tre bottiglie di birra perdutesi nelle Poste. E, a lettura effettuata, mi trovo (abbastanza) in accordo sia con il piacere di chi me l’ha donata, sia con le parole di Baricco. Anche se non completamente, che io invece non riesco a scordarmi che il libro l’ha scritto J. R. Moehringer, premio Pulitzer del 2000 con i suoi reportage pubblicati sul Los Angeles Times su di un’isolata comunità dell’Alabama; certo (e Andre lo dice nei ringraziamenti finali), loro si sono messi a parlare davanti ad un registratore. Ed è lì che Agassi ha tirato fuori la sua storia. Ma dalle parole al libro c’è voluto il filtro potente del “ghostwriter”, che ne ha ripulito le frasi, asciugato i sensi, allentato e ristretto nei punti giusti, donandoci una confezione preziosa. Una confezione in cui sentiamo “parlare” Agassi e raccontarci la sua vita, mentre leggiamo quello che ne scrive il padrone della penna. Quindi, fatti gli auguri al redattore, veniamo al libro “in sé”. Che ovviamente è appassionante, per uno sportivo “laterale” come me, sia sul lato sportivo (anche se non indulge in troppi tecnicismi) sia sul lato umano, sulla vicenda che porta il piccolo Andre dal cortile del Nevada ai grandi cortili del tennis ed alle grandi praterie della vita. Un ribelle, si diceva quando era nel pieno dell’attività. Uno che perdeva più punti mandando a quel paese gli arbitri delle partite che direttamente dall’avversario. Scopriamo così che, proprio da quelle costrizioni infantili, dove a 7 anni il padre lo costringe a colpire per ora le palle da tennis sputate da una macchina, arriva ciò che non ha mai espresso: l’odio per il tennis. E poi per il padre, e le ribellioni, verso la famiglia ed il mondo. Ma tutte queste ribellioni (che seguiamo con arguzia sulla carta) lo porteranno poi a confessare, verso la fine della carriera, che in fondo, il tennis, è l’unica cosa che sa fare per guadagnarsi la vita. Intanto lo vediamo crescere, portando avanti le rivincite del padre (un profugo iraniano, eliminato come pugile al primo turno delle Olimpiadi di Londra e di Helsinki). Poi passare all’accademia tennistica (quasi lager) del famigerato Nick Bollettieri. E cominciare a vincere, perché di tennis è bravo. Ma anche fare “lo strano”: capelli da moicano, mechati, hot paints jeans, orecchino. Ed anche a contornarsi a poco a poco di persone sempre più simili a lui: il fratello, l’amico Perry, l’allenatore Brad (Gilbert, per chi non lo conoscesse un tennista di valore), il preparatore atletico Gil. Per ognuno c’è una storia, c’è un momento della vita di Andre che viene fuori (il piacere di mangiare McD, la scivolata verso qualche anfetamina, poi passata, i grandi sperperi di denaro, poi rientrati). Persone piene di sensi (generalmente buoni) e di sensibilità. Seguiamo anche la sua grande storia d’amore con Brooke Shields, che probabilmente ancora risente degli strascichi ribelli giovanili. E poi la ricerca, la conquista e la vita piacevole quando confessa a se stesso di amare Stefanie Graff. Che corteggia, che sposa, con cui fa due figli. E con la quale mette su una serie di iniziative benefiche per dedicarsi “agli altri”. Ecco, qui, con Baricco, mi trovo d’accordo sul fatto che sia un po’ troppo “melenso” il finale buonista (il ribelle che si sposa, mette famiglia e scopre l’altruismo). Certo, è così, ed è questo che vediamo in Agassi (anche fuori dal libro). Ma possibile che tutto il resto si appiani miracolosamente? Che faccia la pace con il padre? Che non pensi di mandare a quel paese un giorno sì e l’altro pure Pete Sampras o Boris Becker? O almeno i giornalisti che continuano a rompere. Ma nel complesso, è una bella storia, proprio per far vedere una storia di chi cerca se stesso, lo trova, e trova la sua vita. Prima o poi.
“A pochi di noi è concessa la grazia di conoscere se stessi, e finché non ci riusciamo, la cosa migliore che possiamo fare è essere coerenti.” (260)
Francesco Recami “L’errore di Platini” Sellerio euro 12
[A: 21/06/2013– I: 26/06/2013 – T: 28/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 111; anno 2006]
Era molto tempo che cercavo in libreria questo primo testo di Recami, di cui ricordo di aver letto e tramato un irrisolto correttore di bozze (suo secondo testo) ed un più gradevole lettore di Maigret. Mi aveva sempre incuriosito il titolo, volendone scoprire identità nascoste senza cercare soluzioni internettiane. Ora, dopo aver pubblicato altri titoli mi dicono di maggior fortuna (se ne leggerà?), la Sellerio rimette in circolazione questo primo testo. Che devo dire è un buon primo libro, per un buon scrittore di atmosfere claustrofobiche, come a me sembra Recami. Una buona scrittura, uno spunto interessante, una pennellata sull’Italia minore degli anni Ottanta. Devo dire che, personalmente, mi ha fatto più volte innervosire, saltare sulla sedia, e cercare di leggerne in fretta le parti meno scorrevoli, quasi a volerne ritrovare un filo dopo avvenimenti che mi sfastidiavano. Intanto, ho subito scoperto che l’errore di Platini è proprio quello, un errore, uno sbaglio fatto dall’impareggiabile mezzala juventina, che condanna ad una sconfitta casalinga la Vecchia Signora. Ma è solo il pretesto, che quell’errore consente ad un mediocre rappresentante di commercio di fare un medio tredici al totocalcio. Medio, perché parliamo “soltanto” di 500 milioni, una vincita buona, ma che non può stravolgere la vita. Può però cambiarla, come la cambia ai due protagonisti, Gianni (il rappresentante) e la moglie Sabrina. Una coppia trista e male assortita, colpita tra l’altro dal grande dolore di avere una figlia di due anni cerebrolesa (mancanza di ossigeno al parto), che curano con dolore ma che non potrà mai guarire. La vincita consente a Recami di descriverci questa provincia italiana (siamo a Viareggio), con le sue piccolezze, le sue meschinità. Gianni e Sabrina non hanno una grande personalità, sono succubi di quello che succede loro intorno, non sono “belli”, non hanno belle idee sul futuro. Sono l’esempio principe di quella classe di mezzo che di lì a poco verrà sedotta dalla sirena berlusconiana (e non è un caso che i due frequentino la festa dell’Avanti). Che fare allora con i soldi? Trovare una sistemazione ospedaliera definitiva per la piccola Marina? Comprare una villa fuori città? Uscire dal mondo dei rappresentanti scalcinati? Investire in borsa? Tante le possibilità che i due esplorano, prima insieme, poi, presi dal vortice dei litigi e delle impossibilità, con Gianni che decide di prendere in mano la situazione. E che fa il nostro? Ovvio, si compra una macchina, una Mercedes 230E, tanto per spazzolare via già un decimo della somma. Ma (come i più smaccati stereotipi ci facevano sapere) l’importante è non divulgare la notizia, che i pescecani sono pronti a spolparti tutto. Continuare la vita di sempre. Gianni e Sabrina tentano, ma più nella testa che nella realtà, tanti nuovi inizi, senza riuscire ad imboccarne alcuno. E rimanendo sempre bloccati dall’accudire alla piccola. Delineandosi loro, si precisano anche le piccole meschinità quotidiane, la mancanza di amore, il rifugiarsi in piaceri più mentali che solitari. Ci si aspetta una qualche catarsi, prima o poi, che li metta di fronte a loro stessi, che nelle difficoltà riescano a tirar fuori un carattere. Recami è abile nel condurre il gioco su questo filo, facendoci intravedere baratri possibili (o che almeno immaginiamo noi lettori “molto” intelligenti) ma senza che i nostri ci caschino. Qualcosa ci sarà (e non vi dico cosa), ma i nostri continueranno ignavi a percorrere le vie della vita. Sabrina rifugiandosi sempre più in improbabili fantasie di successo. Gianni aprendo con una discreta fetta della vincita, un negozio di scarpe in centro (che immaginiamo non avrà vita facile, ma questo avverrà dopo la fine del romanzo). E prenderanno anche una casa nuova, anche se non una villa (che i soldi si assottigliano velocemente). Un libro triste, con echi premonitori che non svelo ulteriormente, con una dolenza dei personaggi (che è quella che mi faceva innervosire). Alla fine, una prima prova che rivelava uno scrittore capace alla penna, pronto per le successive prove. E con quello sguardo sulla vita di tutti i giorni non coperto da mascherine colorate. Ci mostra com’è l’Italia media. E ne dobbiamo tenere conto, senza far finta che sia altra. Un solo appunto per una probabile inesattezza: è da un libro che viene tratto il soggetto de “Il postino suona sempre due volte”, non viceversa (come sembra a pag. 97).
“Non avevano l’ideologia del successo, erano cresciuti in un’epoca intermedia in cui si parlava meno di soldi e di carriera … La storia non li aveva forniti di grinta personale a scopi di lucro. Tuttavia, quelli sì, possedevano tutti gli strumenti pisco-sociologici per riconoscere gli esatti termini di un insuccesso.” (52)
Paolo Di Paolo “Mandami tanta vita” Feltrinelli euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 15/04/2013– I: 19/08/2013 – T: 21/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 158; anno 2013]
Tanto mi era piaciuto il primo libro di Di Paolo, tanto questo mi ha lasciato perplesso. Sarà che nel primo sentivo veramente “la vita”, quella vissuta dal protagonista. Mentre in questo, che la vita la reclama sin dal titolo, tutto mi sembra “artefatto”. Infatti, il progetto del libro si instaura sul binario di ricostruire l’ultimo periodo della vita di Piero Gobetti, quando questi, perseguitato dai fascisti e da loro spesso malmenato, si rifugia a Parigi, lasciando in Italia l’amata moglie Ada. A Parigi, però, la salute di Gobetti non migliora. Ed in seguito ad una brutta bronchite, presto degenerata, nel febbraio del 1926 muore all’ospedale di Neuilly. Di Paolo non ci narra direttamente opere e pensieri di Gobetti, ma, da buon narratore che comunque è, ne affronta le tematiche in modo trasversale, utilizzando un personaggio fittizio, tal Moraldo. Coetaneo di Gobetti, e come lui di Torino, Moraldo ne rimane colpito dall’eloquenza e dal carisma. Vorrebbe avvicinarlo, proporgli una sua collaborazione, anche se l’unica cosa che sa fare è il caricaturista. Saputo della partenza per Parigi, anche Moraldo vi si reca. Qui, Di Paolo ha un bel “coup de theatre”, che gli serve a movimentare la vicenda e chiarire la personalità di Moraldo. Sul treno per Parigi, Moraldo scambia la sua valigia con quella di una fotografa, Carlotta. Queste sono le pagine migliori, quelle dei dubbi, e poi della ricerca di Moraldo. Incontro fatale, quello con Carlotta (non per conseguenze fisiche, fortunatamente). La fotografa, infatti, è uno spirito libero (un po’ in anticipo sui tempi nel ’26), che pur concedendosi a Moraldo, non ne segue i panegirici sentimentali, preferendo, sensatamente, continuare la sua vita che la porterà oltre e altrove. Scopriamo così la vera essenza di Moraldo. Che non sa decidere, che non sa prendere iniziative. Pavido o non convinto di sé? Questo magari lo lasciamo al lettore. Fatto sta, che il nostro perde tutte le occasioni per fare qualcosa di positivo. Continua a riempirsi la testa delle idee gobettiane. Ed almeno in questi accenni, qualcosa esce fuori, soprattutto del Gobetti uomo. Tanto che credo Di Paolo abbia letto con cura e dedizione quello splendido carteggio tra Pietro e Ada (le famose “Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926”; dato che ricordo per i meno adusi alle date che Gobetti quando muore ha solo 25 anni!). E ne abbia riportato l’essenza nei momenti in cui si cala nel “personaggio Gobetti”. Purtroppo non esce invece la forza del pensiero di Gobetti in termini politici. Ci prova, Di Paolo, tenta di usare frasi e pensieri, di ricordare il sodalizio con Montale, di cui Gobetti pubblicò per primo “Ossi di seppia” (con quel verso stupendo “Volarono anni corti come giorni”). Ma non mi arriva quel pensiero. Quello che ne fece un punto di forza del liberalismo degli Anni Venti. Come tacere il suo discendere da Salvemini e Luigi Einaudi. Come tacere la sua amicizia con Gramsci, pur su diversi scenari politici. O la ferocia degli attacchi al fascismo, intensificati a valle dell’uccisione di Matteotti. Noi restiamo dalle parti di Moraldo, che vede ma non prende posizione. Tanto che quando finalmente riuscirà ad incontrare Gobetti al Bois de Boulogne il mese prima della morte di questi, non sarà in grado di fare passi significativi verso una sua emancipazione politica. Tentennamenti che avverte anche Carlotta, che, partente per altri lidi, lo lascerà nella sua eterna indecisione. Così che, finiti soldi e speranze, Moraldo farà tristemente ritorno verso Torino, apprendendo da un giornale letto alla stazione di ritorno della morte di Pietro. Chiediamoci noi, cosa farà Moraldo, ora, dal 1926 in poi. Chissà che, prima o poi, uscirà dalle ombre di se stesso. Qui non ce lo dice Di Paolo, che su questa morte che spegne molta di quella vita che manca, chiude il suo libro. Che, non posso che ribadire, mostra capacità e maturità nello scrivere. Ma che per me indulge troppo in cercare di dire in modo altro, forse non suo, quanto nel primo libro aveva detto in modo diretto. E quello, personalmente, è il tono che preferisco.
“Quando smetti di essere un bambino, non te ne accorgi.” (38)
“Tu hai troppe parole, hai parole per tutto.” (136)
Una settimana senza parlare (anche) di viaggi? Non sia mai. Ed allora ringrazio il mitico gruppo portoghese con il quale ho passato una rilassante anche se umida giornata a Bologna (ed un grazie all’ottimo anfitrione Giorgio). Parlando molto di libri (nella bellissima libreria coop di Eataly) ma ancor più di viaggi da fare per il prossimo anno. Tante città e tanti posti ci hanno condito i tortelli bolognesi. Nella certezza che qualcosa si farà

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