In base ad alchimie misteriose,
lo scorso mese di giugno mi è capitato di leggere in fila quattro diversi
saggi. Sarà che a valle del mio compleanno in molti hanno pensato: visto che
legge romanzi, regaliamogli saggi. Io accetto, leggo e commento. Perché son
saggi di sicuro interesse ma di resa alterna. Letti, e qui riportati, in un
ordine cronologico, che, casualmente, ne ripercorre un ordine di gradimento.
Dal primo che riporto, cercando di dare un senso concreto alle mie pesanti critiche
verso il libro (l’unica cosa carina, oltre alle prime righe, è l’immagine del
titolo). Per poi salire all’olandese ed alle sue cronache dal mondo dei
minareti. Passaggio obbligato Enzo Bianchi, molto presente e capace sempre di porre domande e
problemi. Per poi finire, quasi ad inaugurare quattro mesi di intensi viaggi,
con il bel saggio sulla poetica della geografia. Con il quale, ora, come detto,
si chiude una stagione, in attesa di aprirne una nuova.
Elémire Zolla “Verità segrete esposte in evidenza” Marsilio s.p.
(regalo di Maria)
[A: 07/05/2013– I: 23/05/2013 – T: 03/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 180;
anno 1990]
Comincio
subito con ringraziare Zolla per l’unica cosa veramente positiva che ho tratto
da questo primo e probabilmente unico suo libro che leggerò. La descrizione di
quei luoghi “magici”, o comunque pieni di fascino, che conosco e vorrei
rivedere come Pienza, o che non conosco ancora e che vorrei visitare come
Lucignano in Valdichiana, Valsanzibio degli Euganei o la Pieve di Corsignano.
Dopo di che, sgomberiamo il campo da alcuni luoghi comuni che mi portavo
appresso senza sapere né aver letto nulla di Zolla. Pensavo fosse francese, ed
invece è italiano e nato a Torino. Pensavo fosse una mente oscura della destra,
e, sebbene non abbia nessuna prova, la direzione della Rusconi con Augusto Del
Noce porterebbe in quella direzione. Pensavo fosse criptico ed esoterico:
confermo. È criptico, esoterico, anche se innegabilmente colto, e capace di
collegamenti inattesi e spiazzanti tra luoghi e culture diverse. Fatte queste
premesse, devo dire a fine della lettura che il libro non mi è piaciuto. E
proprio per quell’aria di sapere molto, e di farlo calare dall’alto. Certo non
entro nel merito dei problemi che solleva lungo le quasi duecento pagine, dove
si collegano orienti e occidenti, saltando dal buddismo all’islam, ed
innescando lunghe peripezie filologiche sull’origine dei nomi. E quindi sul
loro travasarsi, di cultura in cultura, portandosi appresso significati e modi
di essere. Soprattutto non posso entrare in tutta quell’aria di alchimia
negromantica, dove dal comportamento e dalle lucide follie di esseri disparati
(e a volte disperati), discendono riflessioni che, seppur dotte, non penetrano
la corazza della mia basica ignoranza. Socratica, se vogliamo, ma sempre
ignoranza. Quindi non vi tedierò sugli arcani del potere, sull’esoterismo e la
fede, sull’illuminismo e le avanguardie da rigettare in toto. Mi fermo soltanto
su alcuni punti che forse mi hanno colpito, o forse su cui il suo eloquio ha
fatto scattare lampadine inattese. Il primo, e più palese (e ne vedremo subito
il senso), è proprio il nocciolo del libro. Uno sfoggio di cultura porta
l’autore dall’analisi del sincretismo iniziale, alla conclusione che le verità
più segrete sono talvolta quelle messe più in evidenza. Dovendo quindi fare uno
sforzo di discernimento, noi umani limitati, per coglierle e comprenderle. Con
molta semplicità, l’aveva già dimostrato quel piccolo capolavoro di scrittura
datato più di cento anni fa, partorito dalla penna eclettica di Edgar Allan
Poe. “La lettera rubata” ci fa capire che il luogo migliore per nascondere ciò
che non vogliamo far vedere, è proprio davanti a tutti. Appunto, una lettera
tra le lettere. Quindi rendere palese l’evidenza. Sta sempre nell’occhio di chi
guarda (e cerca) cogliere questa verità. Che diventa segreta soltanto per chi
ne ha paura. Il secondo ed ultimo punto, nasce proprio dallo spunto iniziale
sul sincretismo, e su quella valenza, a volte negativa che sembra darne Zolla.
Ma forse confondendolo, inconsciamente, con l’eclettismo. A meno nel senso
primitivo del termine. Perché era l’eclettico che, come ne deriva dal termine
greco, sceglie. E cosa sceglie? Sceglie qualcosa, tra le più disparate
sorgenti, al fine di armonizzarle in un unico diverso. Prende quello che
ritiene, giudica buono da buddismo, islamismo, ebraismo, cristianesimo, e via
citando, e passando da religioni e fedi, a schemi filosofici, illuministi,
romantici, marxiani ed altro. Ognuno può avere dei connotati buoni, positivi.
Uniamoli, ecletticamente, traendo il meglio da tutto. Ma è quello che hanno
cercato i sikh da un lato ed i baha’i dall’altro. Senza riuscirci. Cadendo,
come dice Zolla, nel sincretismo degenere. Perché anche qui, se risaliamo
all’etimologia, come in altre parti fa lo stesso Zolla, risaliamo al greco ed
al significato di “coalizione cretese” (appunto sincretismo) dove opposte
fazioni gettavano alle ortiche le loro differenze per coalizzarsi contro un
nemico comune. Mi sembra quasi di vedere il governissimo di Letta… Un ultimo
punto negativo, non del testo ma del contesto, viene dal panegirico finale di
Grazia Marchianò, che sembra soltanto teso a tessere lodi della bravura e delle
idee di Zolla, cosa pur lodevole, se non sapessimo che la Marchianò di Zolla è
stata l’ultima moglie. Per finire cito qualche brano qua e là preso del libro,
non solo quelli in cui mi rispecchio, ma soprattutto quelli che mi hanno fatto
innervosire (e ne commenterò il perché).
“Un motto di Bodhidharma era: - Non
fondatevi sui testi!; purché si rammenti che questa esclamazione è nient’altro
che un testo.” (24)
“L’immaginare e l’imitare semanticamente si
sovrappongono (in cinese xiang vale per entrambi) … risalendo alla radice
indo-europea ‘mei’ … da cui scaturisce il sanscrito maya (l’apparenza).” (69)
[è come con i numeri, dove con un po’ di pazienza riesco a dimostrare che tutto
deriva da un numero e tutto porta ad un altro]
“I sapienti sognavano per il popolo intero e
allestivano come spettacoli i loro sogni; da quest’atto di carità originò il
teatro.” (80)
“La contemplazione d’una persona, d’un
paesaggio, si esprime cogliendone … la forma formante di quelle forme formate;
sentendola all’interno di una forma formata, si accede alla sua radice nel mondo
delle essenze formatrici.” (102) [non credo che avrei potuto dire meglio… e se
parlassimo di forme di formaggio?]
“Il significato è … lo stesso che esprimono
i canti delle sciamane coreane, sulle cui labbra udii … parafrasi di
Empedocle.” (134) [è così oltre francese, inglese, spagnolo, russo e tedesco,
il nostro conosce il coreano, altrimenti come avrebbe fatto ad interpretarne il
canto, mi domando io che non decifro neanche i canti in italiano…]
Cees Nooteboom “Il suono del suo nome” Ponte alle Grazie s.p. (regalo
di Silvia)
[A: 07/05/2013– I:
03/06/2013 – T: 08/06/2013]
[tit. or.: Het geluid van Zijn naam; ling. or.: nederlandese; pagine: 238; anno 2012]
Avevo
incontrato il nome di questo ottantenne autore olandese sfogliando qua e là il
catalogo di Iperborea, ma non avevo fino ad ora avuto occasione di leggerne.
Scopro così, e con piacere, un autore poliedrico, certamente interessato alle
cose del mondo, come testimonia buona parte della sua produzione legata ai
viaggi. Dato che oltre che romanziere, saggista e poeta, il suo nome (quello di
Cees, cioè) è legato a racconti e resoconti dei suoi giri intorno al mondo.
Questa, intanto, collegata alla produzione itinerante, è purtroppo una
“compilation”, come direbbero i cultori della musica. Purtroppo, anche se
l’olandese volante cerca, in una comunque interessante postfazione di dare un
senso unitario al libro. Certo, un senso lo può dare il sottotitolo italiano
(“Viaggi nel mondo islamico”), anche se le note di Nooteboom toccano si Marocco
e Tunisia, ma anche Cordova e Benares. Forse meglio restare sul titolo, che, in
effetti, un elemento unificante può essere il suono del nome di Allah, che
risuona in Africa come in Asia come in Europa. Purtroppo, anche, perché i
“pezzi” dei viaggi sono (generalmente) discretamente datati, visto che
originano con un viaggio nell’Iran pre-Khomeini (intorno al 1975) e nel Maghreb
dei primi anni ’60. Poi ci saranno il Mali, l’India, di nuovo il Marocco, e la
Spagna. Da un lato, quindi, c’è come una sensazione di “archeologica
viaggiatrice”, quando ripercorrendo Marocco e Tunisia dal ’60 al ’65, rivedo
quanto scoprii trenta e più anni dopo. E quanto spero di rivedere molto presto.
L’arrivo a Casablanca e l’architettura francese, ma poi le città imperiali, la
piazza grande di Marrakech, l’Hotel Mamunia (dove dieci anni fa non mi fecero
entrare perché … in calzoni corti!). La penna sagace, con quella lievità che
solo i poeti sanno dare al narrato, mi porta poi verso le due punte estreme del
Marocco: M’Hamid nel pieno deserto e giù, verso Sud, verso Tan Tan e oltre.
Rivedo la mia auto solcare le piste pre-desertiche, e poi saltare il deserto e
ritrovarsi sul fiume Niger, tra Bamako e Timbuctù. Ahi che dolore pensare di
aver visto quel mondo, e che ora qualcosa viene distrutta da barbari iconoclasti.
Ahi che piacere pensare di vedere Tangeri, e forse un domani Keirouan. Ma
ritrovarsi anche a pensare alla cacciata degli Arabi dalla Spagna, a Granata e
all’Alhambra, a Cordova, ed altro ancora. E ricordare l’umanità di quegli arabi
che salvarono per noi la cultura antica (senza le loro traduzioni avremmo perso
del tutto Platone ed Aristotele…) ma che nessun flusso intellettuale attuale
riesce a farci ricollegare. E mentre penso agli arabi di Spagna visti dagli
arabi, ricordo quel libro di Maalouf che mi illuminò sulle crociate viste dalla
parte del feroce Saladino. E certo ancora, ricordo le mosche di Delhi, il
contrasto con il Forte Rosso, lo sfarzo dei Moghul. Ma Cees, come feci io, poi
si rinvoltola in Benares, nei ghat, nelle pire, nel Gange e nelle sue tristi
morti (chissà se l’autore è mai andato a Pashupatinath… lì si che avrebbe
apprezzato contrasti di vita e morte). Il senso di tutto ciò è quello che si
predica in molti da anni: culture diverse, mondi diversi, ognuno con la sua
specificità, dove si dovrebbe imparare il rispetto reciproco e la comprensione
(sincretistica) del meglio delle diverse culture. Nooteboom ha il suo occhio
attento, e capisce, subito (ricordo che il suo viaggio in Marocco lo fa a 27
anni e le sue note sono da condividere a 50 anni dalla scrittura) il mondo in
onore di quel nome. Ad un certo punto dice che questa architettura è disumana:
lo condividiamo, nel pieno senso del termine. Non contiene umani (l’islam è
iconoclasta) ed ha bellezze che trascendono l’umano (vogliamo parlare del Taj
Mahal? dell’Alhambra?). C’è un passo interessante nella post-fazione (che
chissà perché in italiano viene indicata come capitolo a sé), in cui un
convertito spiega a Cees i motivi della sua adesione all’islam. Con una
semplicità, una leggerezza, ma anche una profondità di sicuro interesse. Chiudo
questo interessante libro (che avrebbe meritato miglior considerazione se
avesse tenuto conto di scritti anche più recenti), con quello che da anni ci
rigiriamo nella testa. Quanto pesa sull’islam la mancanza di un Rinascimento?
Quanto pesa sull’Occidente il falso mito che la nostra sia l’unica modalità
degna di essere vissuta. Abbiamo sempre pensato, noi che nei Paesi Arabi ci
abbiamo lavorato con serietà, che bisognava esportare consapevolezze ed
installare nuovi modi di lavoro laggiù; non esportare modi di vita e
trasportare gli altri quassù (parlo in termini geografici, ovviamente, non
morali). Un buon libro, con la speranza che le nostre visioni (mie, di Cees, e
di molti altri) possono un dì vedere “il fil di fumo”.
“Sulla felicità si riflette meno che
sull’infelicità.” (12)
“Non c’è altro. Sabbia che dopo un certo
numero di chilometri cambia nome e [da Marocco n.m.] si chiama Mauritania. … e
il vento [dietro di noi n.m.] lo vediamo cancellare i nostri passi insignificanti.
Non siamo mai stati qui.” (81)
“Ora che sono a casa mia e ascolto la musica
dogon e guardo le fotografie … provo una felicità … mista a nostalgia, perché
so che non ci tornerò mai più. E se anche dovessi tornarci sarebbe ancora
uguale?” (154)
“Viziato nella sua solitudine … il bianco
visita l’Africa e non vede nulla.” (158)
“Non riesco a immaginare di girare la Spagna
o il Perù senza essere in grado di parlare con la gente, di leggere il
giornale. Ma … soltanto in Africa … ho percepito il brivido dell’estraneità.”
(160)
“Ricordo la lezione esemplare che mi fu
impartita durante quel breve viaggio: ricordati, ovunque tu vada ti troverai
sempre seduto al posto di qualcun altro.” (189)
“[Occidentali e musulmani] siamo diventati …
un conflitto che non si concluderà nel corso della nostra vita. Se c’è un
inizio di soluzione, può essere soltanto nell’eliminazione dell’incredibile ignoranza
degli uni nei confronti degli altri.” (233) [e come per incanto ripenso
all’epopea di Sundjata Keitè primo imperatore del Mali…]
Enzo Bianchi “Fede e fiducia” Einaudi s.p. (regalo collettivo di
Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 14/06/2013 – T: 15/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 89;
anno 2013]
È
sempre con estremo piacere che leggo ogni tanto le parole del priore di Bose.
Preferisco a volte quando si dilunga in ricordi o in momenti di esegesi della
vita quotidiana, rispetto ad altre dove si addentra in interpretazioni, che non
sempre rientrano nell’essere facilmente decodificabili. Questo veloce libretto,
frutto del massiccio regalo collettivo ricevuto alla festosa festa, come si può
arguire dalle sopraindicate indicazioni, rientra più nella seconda categoria
che nella prima. Per questo, anche la sua analisi, il suo riporto di trama sta
impiegando più tempo ad essere maturato. Sono quasi dieci giorni ormai che ne
ho terminate le scarne pagine, ma non sento ancora che sia maturato
completamente il pensiero intorno allo scritto. Intanto e sopratutto quando e
perché parla di momenti di fede, e di interpretazioni della figura del Cristo
che non sono facili, a prescindere. Credo quindi sinceramente che non riuscirò
a restituirvene sensi e modi (inoltre e talmente corto che forse una mia trama
rischierebbe di essere addirittura più lunga, quindi tanto vale che leggiate
l’originale). Eppur tuttavia ci sono due punti che voglio evidenziare, e sulla
quale operare con intelligenza. Uno per constatarlo e lasciarlo lì come elemento
di riflessione. L’altro, invece, per condividerlo e forse per trarne qualche
insegnamento. Il primo riguarda l’affermazione di padre Bianchi che credere è
un atto di volontà. Non si entra nel merito di verità, di illuminazioni, né tanto
meno (ed in questo sono sicuramente in sintonia con Bianchi) sulla secolarità
della Chiesa e sulle sue attività. Ci si riferisce soltanto (anche se il
termine è troppo riduttivo) al passaggio logico: dalla constatazione di uno
stato, di una necessità, alla volontà di crederci. Il secondo invece è quello
più connaturato al tema centrale del libro, ed anche all’idea alla base della
quale è nata la mia lettura. È il tratto distintivo, come concordo pienamente
con Bianchi, dell’essere umano. Quello che unisce credenti e non-credenti in
una “ecclesia” (intesa come comunità) di essere vivi. Non si entra qui nello
specifico della fede o di una fede. Si afferma invece che si può avere o non
avere fede, ma non si può non avere fiducia. Questa, in effetti, è una delle
grandi carenze del mondo attuale. Dopo anni, decenni di decadimento, di
soprusi, di “mors tua, vita mea”, di comportamenti pubblici e privati
sfrontatamente fuori da ogni regola, è caduta verticalmente la fiducia. La
fiducia nell’altro, nelle istituzioni, nell’etica. Qui, ripeto, mi trovo ad
aderire in pieno. E ad affermare che in realtà è proprio la fiducia che
personalmente mi consente di andare avanti, sempre. La fiducia che sia
possibile un’etica condivisa di valori non oppressivi. La fiducia che gli altri
siano fondamentalmente buoni e solo circostanze della vita (ovviamente tante e
degne di pagine e pagine di analisi) che portino a comportamenti non-etici
(il dizionario propone immorale come contrario di etico, ma la definizione non
mi convince). La fiducia che alla fine sia sempre la giustizia che trionfi, che
la medicina risani, che l’amore sia ripagato. E quindi si ritorna sempre lì,
all’amore, quello “che move il cielo e l’altre stelle”, quello che,
personalmente ed individualmente, muove da sempre il mio io interiore. Come
nella più classica delle trame, quindi, si comincia a parlare di un libro e si
finisce a parlare di se. Ma essendo un argomento troppo vasto per costringerlo
in così poche righe, penso che qui mi fermerò. Lasciando a tutti (voi e me) il
compito di proseguirne.
“Il cristiano crede con l’intelligenza.”
(11)
“La fiducia in se stessi dipende in gran
parte dal poter credere agli altri.” (13)
“Le frontiere talora passano non tra chi ha
fede in Dio e chi non ce l’ha, ma … tra chi pensa di possedere la verità e chi
si sente sempre pellegrino verso di essa.” (24)
“Occorre credere che l’amore sia l’unica
realtà umana capace di vincere la morte: Omnia, vincit amor, scriveva già
Virgilio.” (34)
“Gesù mostrava … un Dio diverso, … Colui che
vuole la libertà, che perdona e non castiga … E questa sua condotta gli ha
meritato la morte: i capi dei giudei lo hanno voluto morto perché era in
opposizione con il Dio da loro professato, e i romani lo hanno crocefisso
perché poteva essere insidioso per il potere totalitario dell’imperatore.” (58)
“Dopo aver incontrato un’altra persona non ci
chiederemmo tanto che cosa le abbiamo insegnato … ma piuttosto: le persone,
dopo avermi incontrato, hanno più fiducia … nella vita e negli altri?” (86)
“Noi passiamo dalla morte alla vita quando
amiamo gli altri [dalla Prima lettera di Giovanni apostolo].” (89)
Michel Onfray “Filosofia del viaggio. Poetica della geografia” Ponte
alle Grazie euro 12,50
[A: 15/04/2013– I:
28/06/2013 – T: 30/06/2013]
[tit. or.: Théorie
du voyage: poétique de la géographie; ling. or.: francese; pagine: 114; anno 2007]
Un
libro agile, veloce, essenziale, ma quanto denso, per uno come me che si dedica
sempre di più al viaggio. Il filosofo francese dedica qui il suo potere di
sintesi e di sistemazione, ad una disamina dell’essenza del viaggio. La sua
filosofia, appunto. Dissezionandone le varie tappe, su cui torneremo, per
arrivare a quella che lui chiama appunto poetica della geografia. Ed intendiamo,
proprio la geografia, cioè la scrittura della terra, la costruzione di
quell’immagine (mentale) della terra su cui viviamo. Quasi a ripercorrere nel
proprio intimo quell’esperienza lì cartografica e non geografica, descritta da
Borges, dove per fare una descrizione accurata dei luoghi i geografi non
trovarono di meglio che fare una riproduzione dei luoghi stessi 1:1, cioè che
ricoprissero sé stessi, senza riduzioni né sintesi. Poetica, si diceva, perché
si dispiega al fine il viaggio ed il viaggiatore come un narrare, come un
presentare, come un elemento che non fa più parte del sé, ma diventa un’istanza
con un’enfasi quasi fosse una delle fondamentali idee platoniche (e qui ritorna
il filosofo): il Viaggio. Per arrivare a comprenderlo, il Viaggio, bisogna da
un lato astrarsi dalle macchinerie del progresso (televisioni, cinema, ora
internet ci danno idee dei luoghi altri, quasi a dire che il viaggio non è più
utile, non serve). Ma il Viaggio è, e sono d’accordo con Onfray, composto da diversi
parti: il prima, il durante e il dopo. E da una coda, cui personalmente do
molto più peso del resto. Nel prima si sceglie dove viaggiare. E, come vedete
nelle citazioni, ci sono infiniti modi di farlo: a caso, seguendo sogni di
diversa natura (i versi di un poeta, i colori di un quadro, un libro), cedendo
ai sogni dell’altrove di altri. Nel finale del prima, poi, si cerca di avere
più informazioni possibili per pianificare, programmare, godere il durante. Un’attività
individuale, che termina quando si gira la chiave per chiudere la porta di
casa. Da lì inizia il durante. Dove non si deve cercare di avere conferme di
quello che si suppone si debba vedere. Ma bisogna aprire tutti e cinque i
sensi. Ed incamerare tutto il possibile. Suoni, odori, colori, sensazioni,
parole, chiacchiere, sguardi. Il Viaggio deve riuscire a sviluppare ed
avviluppare tutto ciò. Forse (o meglio, senza dubbio) utilizzando tutti i
supporti possibili per tenerne una propria traccia. Da giovane usavo solo il cervello.
Ma le sensazioni entravano tanto in profondità, che ci sono momenti che ancora
ricordo. Una per tutte, l’arancio comperato al mercatino davanti alla gare de
Lyon, durante il primo ritorno dal mio primo viaggio solitario a Parigi. Lo
sento ancora in mano, ne sento i primi spicchi attraversando la Savoia, e gli
ultimi tra Piemonte e Toscana. Mi rimanda tutte le sensazioni del Viaggio. La
scoperta degli impressionisti, delle strade, dei cimiteri, dell’amore. Poi c’è
il dopo. Dove si deve cercare di sfrondare il superfluo, per tenersi le basi, i
fondamenti del viaggio. Sarà una frase, una spremuta d’arancio, una foto. Su
queste basi il viaggiatore ricostruisce l’identità comunicabile del viaggio e
completa pezzi della propria identità. Quest’ultima è una filosofia privata, e
non ci torno. L’altra è la componente di condivisione del Viaggio con l’altro
da sé. Un Viaggio, anche se non comunicato, deve essere comunicabile. Cioè deve
portarci a capirlo, ed a capire come noi stessi siamo modificati dopo il
viaggio stesso. Infine la coda, la bellissima coda. Dove una volta assolti
tutti i compiti precedenti, si può iniziare a pensare non ad un nuovo viaggio
(questo è ovvio, noi nomadi siamo certi che ripartiremo), ma a “progettare un
seguito”. Questa frase con cui il filosofo francese battezza le ultime pagine,
è stato uno dei momenti forti della mia lettura di questo libro che nella sua
velocità e semplice complicatezza suggerisco caldamente di cercare di leggere.
Perché io continuo sempre a progettare seguiti…
“Il viaggio comincia in una biblioteca, o in
una libreria.” (23)
“[Durante il viaggio, a quale ora dobbiamo
far riferimento:] l’ora del luogo di partenza o del luogo d’arrivo? … o il
ritmo … imposto dai vassoi per i pasti durante i voli a lunga percorrenza?”
(36)
“Poco importa il supporto utilizzato perché
la memoria produca ricordi … crei punti di riferimento con cui organizzare più
tardi l’insieme del viaggio.” (50)
“Uno dei rischi del viaggio consiste nel
partire per verificare da sé quanto il paese visitato corrisponda precisamente
all’idea che ce ne siamo fatti.” (55)
“Ogni viaggio è iniziatico … prima, durante
e dopo si scoprono delle verità essenziali che strutturano la [nostra]
identità.” (74)
“Non si dà viaggio senza ricongiungimento [a
casa], che conferisce senso anche allo spostamento.” (85)
“Dopo averli raccontati due, tre o quattro
volte, i dettagli, le peripezie e gli aneddoti [del viaggio] si concatenano, si
deducono, si richiamano, assicurano la coerenza all’insieme.” (101)
“È sufficiente sapersi nomadi una sola volta
per avere la certezza che si ripartirà, che l’ultimo viaggio non sarà affatto
l’ultimo.” (111)
“Progettare un seguito presuppone più
l’innovazione che la ripetizione. Le occasioni per ripartire possono essere
casuali: aprire un atlante, chiudere gli occhi, puntare un paese, decidersi per
una regione imprevista, … acconsentire ai sogni d’infanzia, cedere al desiderio
dell’altrove di una persona cara.” (113)
E
terminando la trama parlando del viaggio, non posso che precisare quanto avevo
accennato nel corso della trama dell’olandese. Ora che sono tornato a Marrakech
e che mi ci sono trovato nuovamente bene. Or che finalmente ho visto Tangeri. Ora
che, come direbbe Onfray, ci si riposa avendo fiducia nel pensare ad un nuovo
viaggio. Ora vi saluto
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