domenica 23 novembre 2014

Noir Italia (quarta parte) - 23 novembre 2014

Torniamo ancora alla ben lunga collana del Sole 24 ore ed i suoi neri italiani. Un lotto di trame che non mi ha entusiasmato, con giudizi che vanno dal sufficiente a da dimenticare. Milone, come descrivo, ne è l’esempio eponimo (nel bene e nel male). Poi due autori che, anche con prove non eccelse, trovo interessanti e che replicherò, come Morchio e Mogliasso. Il dimenticabile Guglielmone, accomunato con l’altra prova poco riuscita di Zannone (che rinchiude tutto il giudizio nel titolo “Imperfetto”!).
Massimo Milone “Milano corri e muori” Sole 24 ore – Noir Italia 36 euro 6,90
[A: 21/03/2014– I: 15/07/2014 – T: 17/07/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 121; anno 2013]
Una delle ultime uscite della collana del Sole 24 ore, che sembra aver voluto riempire gli ultimi titoli della serie, che hanno deciso di prolungare fino a 40 romanzi, con qualche prova molto basic. Anzi, direi che questa uscita è proprio un esempio del bene e del male della collana, e della scrittura di esimi autori che, pur innegabilmente avendo facilità di scrittura, non hanno altresì facilità di invenzione. Allora perché gli do ben 3 libricini? Proprio perché è un tipico prodotto e mi consente anche di farci sopra una riflessione. Intanto, possiamo ben dividerlo in due analisi diverse. La parte Noir, motivo dell’inserimento nella collana, e la parte ambientale e descrittiva. Ecco, se dovessimo giudicare solo la prima parte, il giudizio crollerebbe miseramente. Diciamo che posso concedere la lettura di 20 pagine ad un attento conoscitore di gialli per scoprire il 90% dei “misteri” del libro. Misteri che si addensano intorno alla morte di una consulente “tagliatore di teste” che viene uccisa durante uno jogging mattutino, a poca distanza da un commissario anche lui in tenuta da runner. E poco prima della morte, Francesca fa una telefonata a casa di un suo collega Alessandro. Che oltre ad essere antipaticuccio, ha l’aria di voler nascondere qualcosa. A chi era diretta la telefonata? A lui o alla moglie Daniela? E si scopre ben presto che sia lui che il figlio Simone sono patiti di armi (campioni al poligono), ed entrambi (pur con diverse abilità) capaci di utilizzare computer ed affini. Con chi della famiglia Gavioli, la nostra Francesca aveva una tresca? E chi dei tre era in grado di inscenare il delitto, pensando di farla franca? Pensando anche di far cadere i sospetti su qualche dirigente di società che fa un po’ di cresta sui libri contabili societari. Purtroppo, la pistola del delitto viene rubata da dei balordi che fanno una rapina, e si fanno beccare. Poi ci sono le telecamere a circuito chiuso del garage dei Gavioli entrate in funzione all’insaputa dell’assassino. Insomma, abbastanza semplice e scontato. Così come semplice, anche se meno scontata, l’altra storia che seguono i poliziotti, quella di uno stalker con relativo innamoramento del poliziotto verso la bella presa di mira. E con l’intervento risolutore di uno degli elementi spesso in ombra della squadra. Sì, perché il nostro autore pensa bene (e qui veniamo alle note ambientali e descrittive) di scopiazzare le atmosfere alla Ed McBain e la sua serie dell’87° distretto. Qui siamo a Milano, ed al massimo arriviamo all’8°, ma l’idea è lì. Un procedural thriller basato su di una squadra. Di cui conosciamo i componenti: Salvatore Van Dir detto Sasà, commissario napoletano trasferito a Milano, ed un po’ l’anima della squadra, Remo Barocci, suo alter-ego, romano “de’ Roma”, Melina Laganakis, detta Venere in quanto greca e nata a Milos, Mara Fossati, detta Fosset, per richiamare una delle Charley’s Angel. Poi ci sono i due dello stalker, Castoldi, quello quasi leghista, ma in fondo no, e Fumagalli, quello che ragiona molto, e “zitto zitto”… Quello dei soprannomi è forse la parte migliore, che raggiunge il vertice con l’antipatico e quasi pelato Gubbio (quello che vuole sempre fare in modo di avere molti onori e pochi oneri) che tutti chiamano Harry Potter, solo perché Remo, con il suo accento romano, lo aveva soprannominato “er riporter” (e provate a dirlo con l’accento romanesco…). Queste sono le parti più scorrevoli e meglio riuscite della scrittura di Milone. La descrizione della squadra, dell’ambiente di polizia, del tifo per le squadre di gran cuore e poco blasone (Roma e Napoli, si capisce, e si accetta Venere solo perché tifa l’Aris di Salonicco). Ma anche di alcuni ambienti malavitosi di vecchio stampo milanese (il Maestro, ad esempio), il dispiacere per il dilagare della droga a buon mercato. E le grandi bevute di birra alla Montagnola, da dove i casi si discutono meglio che al distretto. Insomma, un facile libro, ammirevole per lo scorrere delle vicende di contorno, poco incisivo per la parte gialla. Quindi, concludendo, tipico esempio di una scrittura capace ma non ancora indirizzata. E di politiche editoriali di livello non eccelso (d’altra parte Milone pubblica per Happy Hour edizioni non per Mondadori o Feltrinelli…).
Alessandro Zannoni “Imperfetto” Sole 24 ore – Noir Italia 37 euro 6,90
[A: 21/03/2014– I: 21/07/2014 – T: 23/07/2014] - && 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2009]
Direi che il titolo racchiude tutto quello che si può dire di questo romanzo. Ricollegandomi con la precedente uscita (il 36 di Milone) ribadisco che la collana del Sole nelle ultime uscite è in calando. Si salvano soltanto (visto che si comincia sempre dalle note positive) alcune descrizioni della zona di Sarzana, di Lerici, attraversando la Lunigiana, ricordando Aulla, valicando verso Parma, e magari guardando il mare da Portovenere. Il resto è buio pesto. La storia, il modo di raccontarla, i personaggi, il finale. Certo, l’autore conosce e legge di noir (organizza un festival Noir proprio in Lunigiana), ed usa i più classici canoni del genere. Nella scrittura, ad esempio, alternando l’impersonale con il soggettivo di chi commette gli efferati delitti. E poiché chi li commette è senza dubbio una persona disturbata, usa un linguaggio che vuole imitare il flusso di coscienza di una persona quanto meno psicopatica. Con l’unico risultato, che, dopo i primi due interventi, è bene saltarli a piè pari. Non aggiungono nulla alla storia, neanche nella ricerca della chiave. Il personaggio centrale è poi un investigatore privato, messo sul caso dell’omicidio irrisolto di Amedeo, scapestrato figlio di un ricco spezzino, con tutte le classiche manie e “pose” da investigatore “alla Sam Spade”. Un matrimonio che sta andando a rotoli, una nuova fiamma che Merisi, questo il suo nome, non sa come gestire (gli vuole bene? è un modo di scarica la moglie?), ed un caso che nessuno vuole e che quindi gli viene affidato perché faccia “ammuina”. Ovviamente è in attrito con le forze dell’ordine, ma ha anche qualche angelo custode: la segretaria, un giornalista, qualche maresciallo sparso sui monti. E Merisi si mette a ripercorrere tutta la storia di Amedeo, trovato nudo, con 5 colpi mortali, sulla strada verso Parma. Zannoni le prova tutte: la pista gay, la pista casuale, ed altro. Ma né noi né Merisi ci caschiamo. La svolta si ha quando uno sperduto oste (guarda caso non interrogato dalla polizia) ricordo un caso simile di una decina di anni prima. Merisi e la sua squadra si mettono in caccia. E trovano alla fine almeno altri 3 omicidi fotocopia. Giovane, nudo, con 5 colpi mortali. E senza segni particolari di lotta. Si vede che chi organizza gli omicidi non fa paura ai futuri morti. Ed allora indaghiamo su chi possa entrare nelle case senza tema: postini, trasportatori, ufficiali pignoratori, operai ristrutturatori. In parallelo, seguiamo una persona che brucia quadri nelle chiese e poi fa una donazione con un suo dipinto. Guardando il dipinto nella chiesa di un suo amico frate (anche lui ucciso) Merisi ha il colpo di fulmine. Vuoi vedere che indovino? Avevo scommesso su San Sebastiano, ed eccolo là. Che scarsa fantasia! Il colpo di fulmine porta Merisi a comprendere che non sono pugnalate, ma frecce. Quello che non capisce (d’altra parte è solo un investigatore) è che una freccia per fare così tanto danno non può che essere lanciata da una balestra. E una balestra può essere maneggiata sia da uomini che da donne. Merisi ha un bel cedere l’indagine alla polizia, che non crede alle sue piste. Per poi accettare l’invito a casa di una donna, guarda caso uno degli ufficiali che vanno pignorando gli inadempienti. E lì… Mica vi posso dire il finale, ovvio. Ma verso questo finale corriamo velocemente e senza suspense (benché le recensioni che ho letto parlino proprio di finali mozzafiato). A me è sembrato un finale che vuole fare effetto, ma che tronca tutte le discussioni. Perché sul quadro c’è scritto Caravaggio, unico a non aver mai dipinto San Sebastiano? Perché e come viene scatenata la furia omicida? E venendo sul personale, perché Merisi lascia la moglie? Che senso ha la sua storia con Giulia? Insomma, dopo 170 pagine, Zannoni ci lascia insalutato ospite, con questo prodotto, ribadisco, non a caso intitolato “imperfetto”. Sarà difficile che se ne legga altro.
“- Poteva finire in modo migliore? … - Non esiste un modo migliore per lasciare una persona, e qualcuno deve soffrire.” (130)
Giacomo Guglielmone “La stagione da Iseo” Sole 24 ore – Noir Italia 34 euro 6,90
[A: 14/03/2014– I: 24/07/2014 – T: 26/07/2014] - & e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 189; anno 2013]
Ho impiegato tutto il libro, nonché una ricerca sul primo editore di Guglielmone (il benemerito Robin di Roma), per capire che Iseo era (è) una locanda rinomata in quel di Lerici. Collegata al fatto che la vicenda è ancora una volta spezzina (un giorno o l’altro farò un’analisi dei luoghi di questa collana), sembra avere un senso. Ma soltanto sembra, che il mangiare ed i ristoranti non sono di certo al centro delle indagini che il commissario D’Imporzano porta avanti lì, tra le Bocche del Magra, per venire a capo dell’uccisione di tal Setubal Santiago, ex-portoghese naturalizzato italiano, molto fascio in gioventù, poi legato ad ambienti “di soldi”, ed infine imprenditore in prima persona, abbiente e sempre ben ammanicato. L’autore attinge un po’ al suo retroterra (un po’ giornalista, un po’ specializzato in comunicazione sociale) per condire la vicenda con molta carne al fuoco. Peccato che si passino giorni senza reali costrutti. E peccato per quel vezzo da “noir” di belle fatture, di utilizzare pesantemente flash-back, e tutti in corsivo. Così alla vicenda del morto, si intreccia la vicenda di Silvestri, a suo tempo sodale del figlio di Santiago, e poi persosi in varie vicende. Estremista più per denaro che per convinzione, partecipante a pestaggi, poi all’incendio di una scuola. Ma soprattutto messo in prigione per aver malmenato il figlio di Santiago per questioni di droga. Ed in prigione a sua volta pestato, ridotto a mal partito, ed ora invalido al 100% per la perdita della vista. Tanto che ha diritto ad accompagni, svolti da giovani del servizio civile. C’è la storia di uno di questi, in flash-back, toscano di quel di Prato, trombato alle specializzazioni per mancanza di appoggio, poi dentista di medio profilo. Che dopo aver servito il Silvestri, trova il modo di avere una relazione con la di lui bella sorella, Arianna. Una tipa che ha cavalcato di molto in gioventù, e che si è sistemata dopo una notte di sesso con un pittore, indicato con le iniziali KH, che tutti riconoscono nel grande muralista gay Keith Haring, che gli autografa una T-shirt, con la quale appunto sistema il suo futuro (compra casa, e vive di rendita). Dedicandosi alla bella vita, soprattutto con dottori, lasciando un po’ di spazio al dentista di cui sopra, il Guelfi. Il nostro commissario, nel corso della sua indagine, trova anche il tempo di consolare “fattivamente” la ancora piacente vedova di Santiago (molto consolabile, in quanto il morto aveva ormai una relazione stabile con una giovane tunisina). Guglielmone cerca di inzeppare sospetti a destra e sinistra (il fratello della tunisina, la vedova stessa, gli ex-compari di Santiago, Silvestri e la sua cricca di sbandati) riuscendo solo nell’intento di rendere confuso l’andamento del libro. E poco coinvolgente. Così che tra un giro e l’altro, tra una trasferta in Lunigiana ed una in Toscana, un pranzo, l’ascolto di Silvestri che di notte fa il DJ, ci si avvia mestamente a conclusione. E come tutti i gialli mancati, ci si avvia senza che vengano sciolti tutti i nodi. Certo, Ines, un’amica di Silvestri, lavora da talpa e copia alcuni indirizzari “segreti” di un vecchio a suo tempo (e forse tuttora) sodale di Santiago. Passa i nomi a Silvestri, che utilizzandone uno (probabilmente si tratta di vecchie storie legate alle torbide vicende liguri degli anni ’70, dove non a caso c’è un ex ergo di frase del buon vecchio e dimenticato Arnaldo Forlani) convoca Santiago ad uno strano appuntamento notturno. Dove Arianna aiutata probabilmente da Guelfi, fa la festa a Santiago. Ed i cerchi si chiudono. Con poco lustro e poca voglia di saperne di più. Tutto sommato la parte migliore (che invece puristi del giallo di cui ho letto commenti in rete ritengono minore) è proprio la descrizione dei luoghi. Tanto che il primo capitolo, che ci parla di Spezia e dei suoi luoghi (e dove ritroviamo piazza Brin al centro di uno dei precedenti e di certo migliori noir della seria), per me è la parte migliore del libro. Insomma, un libro un po’ troppo di testa, che vuole ammiccare troppo, e, facendolo, perde verve e simpatia. Da dimenticare.
Bruno Morchio “Bacci Pagano. Una storia da carrugi” Sole 24 ore – Noir Italia 1 euro 6,90
[A: 03/08/2013– I: 21/08/2014 – T: 23/08/2014] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 279; anno 2004]
Entrato finalmente nella roulette strampalata delle mie letture, questo primo libro. Primo come romanzo della serie pubblicata dal Sole 24 ore con il titolo “Noir Italia” ed iniziata a luglio dello scorso anno. Primo romanzo scritto dall’autore con protagonista l’investigatore Giovanni Battista “Bacci” Pagano. E primo romanzo da me letto di Bruno Morchio, di cui avevo visto più volte pubblicità in libreria, ma che non era ancora entrato nelle mie letture. Ed anche se questo libro mi ha un po’ deluso (e cercheremo di capire perché), credo che sarà un autore a cui ritornerò. Morchio, come Licalzi, viene poi dalla psicologia, ma al contrario dell’autore delle Bocche del Magra, non si dedica all’ironia, ma utilizza il noir come descritto da Varasi per “illustrare il nostro mondo”. Lo fa immergendo il simpatico Pagano nel pieno dell’Italia berlusconiana, con un’ottica (anche se a volte disincantata) che mi è congeniale. Purtroppo (e qui veniamo subito ai difetti piuttosto che ai pregi), cercando di descrivere e di far toccare con mano l’Italia dei Servizi Segreti deviati, del malaffare, della politica corrotta, nonché dei guasti che l’esimio Silvio ha prodotto in 20 anni di (mal) governo. Tutto vero, tutto giusto. Ma il modo anche un po’ amaro che ci riserva il finale, dove (almeno sembra) l’attentato al Capo del Governo può andare a buon fine, mentre Pagano viene sconfitto (e la sua amica africana rimpatriata come prostituta indesiderabile) lascia a desiderare. Non per la sua credibilità (che è credibile e molto) ma perché viene come lasciata in sospensione, quasi che siano state tolte una ventina di pagine che (come insegna il decalogo di S.S. Van Dine sul buon uso del poliziesco) servivano a fare una ricostruzione degli avvenimenti, ed a sciogliere eventuali nodi irrisolti. Ma d’altra parte, le regole sono fatte per essere trasgredite (basta che si sappia quali siano le regole e quale le trasgressioni). Per il resto, ed è tanto, il libro ha un suo andamento gradevole, e discretamente coinvolgente. Primo punto a favore, ovviamente, la descrizione di Genova, dei suoi quartieri, ed in particolare dei carrugi, e della fauna che vi abita. Dall’extra alle prostitute, dagli impiegati ai grandi uomini d’affari. E lì nei carrugi, vive il nostro Bacci, direi sulla cinquantina (o poco meno). Alcune storie di donne alle spalle, gioventù tra manifestazioni e contestazioni, nonché (per un errore giudiziario cui lui non si sottrae) cinque anni di carcere a Novara. Passati che lo aiutano nel presente da detective, che tra amici e conoscenti, folta schiera di persone riconoscenti ha in giro per la città. L’oste con le sue gallette tipo bretone, il tassista, le prostitute, ma soprattutto il commissario Totò Pertusiello, suo alter-ego istituzionale, che spesso (ma non sempre ci riesce) cerca di tirarlo fuori dai guai, condividendone filosofie di vita, anche indossando la divisa. Pagano s’immerge nel romanzo chiamato a risolvere questioni di spionaggi industriali conditi da amori ancillari, per conto di una delle famiglie bene dei carrugi. Compito che ben assolve, anche se, mosso da strane pulsioni verso la commessa Alma, non lo porta alle estreme conseguenze. E sarà un errore. In parallelo, un suo vecchio sodale, ora gestore di una radio alternativa, lancia in onda provocazioni para-brigatiste. Dove però il fucile che esibisce quasi per gioco e quasi a voler ripercorrere i (ne)fasti delle P38, viene rubato. Questo scatena guerre di bande tra Polizia e Digos. Viene alla luce un vecchio killer (o presunto tale) del tipo Zorzi di Piazza Fontana. Killer che Pagano per due volte sta per arrestare e per due volte ne viene beffato. Ovviamente la Digos avrà la meglio su tutti, togliendo la licenza a Pagano e lasciando che il killer faccia (forse) quello che deve fare. Ma se tutto ciò è interessante, perché così poco gradimento, mi chiederete. Colpa di tutte quelle lungaggini su i mali dell’Italia, sulla politica, sui mafiosi nostrani (e forse su quelli cinesi). Pagine che non aggiungono nulla alla vicenda, e sembrano servire soltanto ad illustrare i pensieri dell’autore. Interessanti, forse, ma in altri contesti. E per come finisce la storia, mi domando con curiosità come farà a costruire altri episodi (visto che almeno altri due libri con Bacci Pagano li ha scritti). Sperando che le prossime letture genovesi restituiscano l’asciuttezza tipica della Liguria, per regalarci ancora delle belle storie (e delle belle passeggiate per una Genova sempre presente nella mia mente, grazie ai ricordi di mia nonna).
“Solo libri, libri, tanti libri per riempire la mia solitudine e impedire che divenisse disperazione … dopotutto siamo fatti di quello che mangiamo e di quello che leggiamo, e poco di più.” (67)
Rosa Mogliasso “L’assassino qualcosa lascia” Sole 24 ore – Noir Italia 9 euro 6,90
[A: 09/09/2013– I: 09/09/2014 – T: 11/09/2014] - &&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217; anno 2009]
Stava veleggiando alto questo libro dell’esimia collana del Sole, scritto dalla torinese Rosa Mogliasso. Per buona parte univa una scrittura accattivante ad una storia che, pur nella sua non evidente complessità, teneva desto l’interesse. Peccato la caduta finale, quando si vanno a raccogliere i frutti di quanto seminato. Troppo di corsa, qualche passaggio solo accennato, qualcosa lasciato cadere (forse sarà ripreso in altri libri, immaginando una vicenda seriale). Sin dalle prime pagine si respira un’aria da “Donna della Domenica” di Fruttero & Lucentini: qualche profumo di ambiente bene torinese (la famiglia Peressi), assaggi di quartieri diversi (non dico il Valentino, ma la stazione, i Murazzi ed altro), e la questura, dove troviamo il commissario Barbara Gillo, personaggio centrale dell’inchiesta e non solo. In questa fase è soprattutto la scrittura che avvince: dice e salta, ma non dimentica, presenta i personaggi e ne fa intuire potenzialità e possibilità. In primo piano la famiglia Peressi: l’avvocato, impaccato di soldi e con la passione del golf, ma soprattutto con la passione verso giovani ben dotati di attributi virili, possibilmente neri, ma anche rumeni vanno bene, la moglie Alma, rifatta da capo a piè, dedita alla bottiglia in mancanza del marito, e presenza costante di quella Torino bene fatua e senza scopo, e la figlia Titti, anoressica da adolescente, ed ora ventenne tossica senza speranza. Intorno a loro un po’ di “fauna”: giri di tossici ed investigatori in cerca di prova intorno alla Titti, il finto romeno Guy (o forse rumeno ma molto francese) che ronza intorno all’avvocato, cedendo alle sue avances, ma con suoi scopi precisi, ed il cameriere cingalese Solomon, conforto delle serate solitarie di Alma. In questura intanto il commissario Gillo impazzisce intorno ad un serial killer di prostitute (rebus che verrà risolto a metà romanzo, in un capitolo molto veloce, uno delle tante accelerazioni della scrittrice che non mi hanno convinto), invischiandosi nelle trame che la sorella Mariù cerca di rifilarle, cercando di trovarle un uomo. Purtroppo la sorella è “del lato Alma”, cioè bene e svampita, così che ad un certo punto si ritrova sola e con due figli, che il marito fugge con una giovinetta. Ed è un secondo punto che poi lascia in sospeso, sembra un dramma epocale, Mariù vuole fuggire in India, poi due capitoli passano e non se ne parla più. Il nodo centrale però avviene quando viene uccisa la Titti con un colpo di bastone da golf alla testa. Il delitto fa scoprire un po’ degli altarini dell’avvocato, ma soprattutto la scrittrice ci mette al corrente dei piani di Guy e della sua banda. Perché il sedicente gay è in realtà il capo di una banda di palestrati fascisti che vuole sfruttare soldi e conoscenze del Peressi per mettere su una banda eversiva. Peccato che il contatto primario tra la banda e la famiglia è lo spacciatore tunisino Aziz (che riforniva la Titti), ucciso a sua volta appena mette piede a Torino. Della banda fa parte la bella Angelique, che ogni tanto scopa con Guy, e l’oscuro Bruno. Si aggirano tra Parigi e Torino (con un’unica divertente battuta: Torino è un modo economico di vivere a Parigi), ma a parte le attività sessuali di Guy, e qualche accenno di ricatto, poi sembra tutto cadere nel nulla. Che l’avvocato scompare, Alma ne inscena la morte per avvelenamento (almeno così crede) insieme a Solomon. Il cingalese torna a Bangkok dove l’avvocato vuole rifarsi una vita. Peccato che Alma nella sua nullità mentale si auto-accusi della morte. E Solomon (l’unico con un po’ di pietà verso la svampita) una volta saputo il fatto, faccia in modo (ma non si sa come, perché anche qui si corre molto), di avvertire il commissario, di coinvolgere Guy a Bangkok, e di far precipitare tutte le trame. Nelle more, il commissario Barbara Gillo trova il modo di invaghirsi e poi di essere ricambiata dal commissario Massimo Zuccalà. Una piacevole storia d’amore e di sesso agli inizi, foriera di possibili interessanti sviluppi. Ma come detto, se per due terzi la vicenda si segue bene, con il divertimento di mettere titoli ai capitoli una frase contenuta nel capitolo stesso (e non la prima), con citazioni di Nietzsche da parte del palestrato, e dotte disquisizioni sulla filologia del crimine e delle prove annesse da parte di Zuccalà, alla fine tutto corre. Con passaggi misteriosi (Barbara deve andare dalla sorella e la troviamo invece dalla Peressi, Guy sembra introvabile poi lo troviamo in questura, l’avvocato sembra scomparire a Bangkok, e poi al suo letto d’ospedale per la chirurgia facciale troviamo Guy, funzionari dell’ambasciata italiana, e chi più ne ha…) che portano alle conclusioni diverse della vicenda, di cui scopriamo praticamente tutto (e non ve ne narro, lasciandovi qualche suspense), anche se il ricatto di Guy rimane misterioso ed irrisolto. Insomma, la scrittura mi è piaciuta, l’autrice mi ha convinto che può essere seguita in altre prove, mi aspettavo qualcosa di meglio date le premesse, ma alla fine un prodotto discreto (ed alcune belle passeggiate per Torino, dove ci si tornerà, prima o poi).
Ho scritto la settimana scorsa che mi stavo “avvantaggiando” in vista delle assenze di dicembre, così trovate in allegato anche il solito mensile sulle “cure”, che questa volta, con due libri di valore, surclassa tutta la trama settimanale: non è un caso che si parli di decisioni ed indecisioni. Intanto si va stringendo anche l’ultima settimana di preparazione alla lunga trasferta vietnamita. Torno quindi allo studio degli itinerari.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2014
In questo dicembre anticipato per ragioni di viaggio, ecco che ci imbattiamo in un disturbo veramente invalidante, dove però le nostre libropeute ci mostrano un caso irrecuperabile ed un rimedio “sicuro”.

COGLIERE L’ATTIMO, INCAPACITÀ DI

Un mese in campagna, James Lloyd Carr
Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, Jonas Jonasson
Viviamo solo un numero limitato di giorni. E all’in­terno di quel prezioso arco di tempo, i giorni in cui arriva qualcuno o succede qualcosa di speciale sono dav­vero pochi. Se esitiamo, o non abbiamo il coraggio di agguantare ciò che il destino ci ha offerto, potremmo rimpiangerlo per il resto della nostra vita.
In nessun romanzo l’eroe - e in un superlativo atto di osmosi, anche il lettore - è più tormentato dalla con­sapevolezza di non essere riuscito a cogliere l’attimo che nel classico degli anni Ottanta di James Lloyd Carr, “Un mese in campagna”. Subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale, portando con sé una tremenda balbuzie e un tic che gli è rimasto dalla battaglia di Passchendaele, Tom Birkin arriva nel villaggio di Oxgodby aspettandosi una «meravigliosa» estate rigenerante. È stato assunto per portare alla luce un affresco medievale sul soffitto della chiesa del villaggio, e nel frattempo vivrà nella cella campanaria. L’esperienza riesce salutare quanto ci si aspetta - perché in questo «rifugio tranquillo» Tom passa le giornate in beata solitudine, arrampicato in cima alla scala, nutrendosi di carne di manzo in scatola e dei pasticcini da tè al ribes della signora Ellerbeck, facendo amicizia con Charles Moon, un altro sopravvissuto alla prima linea, e innamorandosi di Alice Keach, bella e giovane moglie del vicario.
Lui non chiede niente. Alice lo va a trovare regolarmente - ma lo fa anche la giovane Kathy Ellerbeck, e in qualche modo fa tutto parte della magia di quell’estate che lui vorrebbe non finisse mai. Un giorno, nel campanile, si affacciano insieme e quando Tom le mostra il prato dove Charles sta scavando sente la pressione dei seni di lei contro il proprio corpo. Sa che è ora o mai più. Che cosa lo ferma? Una certa abitudine all’infelicità che ha contratto negli ultimi anni, forse. Il senso inglese della correttezza. Un’ipotesi che ha fatto a proposito di Alice. Alla fine di questo romanzo ci sentiamo più tristi – a meno che, ovviamente, non cogliamo l’occasione per impegnarci a non commettere mai lo stesso errore.
Se, come Tom, sospettate di avere la tendenza a essere, nella vostra vita, più passeggero che pilota, potrebbe esservi utile una lezione su come farlo. Il vecchio protagonista di “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” di Jonas Jonasson è un uomo che naviga a meraviglia attraverso una vita lunga e movimentata. Allan ha sempre vissuto la propria vita con leggerezza, più con curiosità che per convin­zione, eppure in un modo o nell’altro ha partecipato a molti degli eventi chiave del Novecento. Alla vigilia del suo centesimo compleanno, che si festeggerà alla casa di riposo di Malmköping, e a cui sono stati invitati i giornalisti, il sindaco, il personale e gli altri ospiti della struttura, Allan decide che quella casa non sarà, dopo tutto, la sua ultima residenza sulla Terra e che morirà «in un altro momento, in un altro luogo». Non è solo ottimista, ma anche fortunato, poiché una delle prime cose che gli capitano dopo la fuga è trovare una valigia piena di soldi.
Quello che segue è una vivace retrospettiva sulla vita di Allan, dalla nascita nel 1905 al suo nuovo inizio a centouno anni a Bali, con una donna più giovane (ottantacinque) al fianco. Lungo il tragitto contribuisce alla realizzazione della bomba atomica e fa da consigliere a vari leader mondiali, tra cui Winston Churchill e Mao Tse-Tung. Le sue avventure nel presente continuano, portando lui e la sua valigia, grazie anche a una serie di omicidi accidentali (Allan ha un rapporto molto rilassato con la morale), in molti splendidi luoghi. Il messaggio di Jonasson è chiaro. Se vi capita di domandarvi se «do­vreste», la risposta è sempre «sì».

Bugiardino

Questa volta, pur a distanza di anni (e sotto la spinta proprio di questo regalo) ho completato l’insieme dei libri citati. Il secondo, grazie ad un gradito regalo, letto, consigliato e ripensato sorridendo. Il primo da poco condiviso con gli amici, con ritorni diversi: a chi è piaciuto, a chi lo trova un po’ “moscio”. Andiamo a vedere cosa se ne scrisse al momento della lettura.
James Lloyd Carr “Un mese in campagna” Fazi editore euro 12,50
[trama del 14 settembre 2014]
È uno di quei romanzi in cui non succede niente, e proprio per questo è pieno di tante cose. Inoltre, anche se ha scritto altro, l’autore è una specie di single-book man. Il buon J. L. Carr, tra l’altro, è morto una ventina di anni fa. E questo suo romanzo, scritto a 66 anni, dopo essere andato in pensione come ex-preside di liceo, gli valse anche premi ed onori. Direi giustamente. Dicevo, non succede niente, ma è pieno di tanto. Se volessimo chiudere la storia in poche note, da quarta di copertina, dovremmo parlare della piccola storia del ragazzo Tom, appena finita la Prima Guerra Mondiale (il romanzo è ambientato nel 1920), ripreso in mano il lavoro di restauratore di dipinti ed altri oggetti in deperimento, viene chiamato da un parroco di campagna per rimettere alla luce un affresco probabilmente celato dietro l’altare. Ovviamente Tom è rimasto segnato dalle esperienze militari. E la comunità campagnola non facilmente accetta estranei. Mentre Tom mette alla luce il dipinto, lavora al suo fianco il giovane Charles che invece sta cercando una tomba. Nasce solidarietà tra i due, entrambi reduci dalle rovine militari. Ma Charles ha qualcosa in più, essendo stato cacciato dall’esercito in quanto gay. Durante il suo lavoro, Tom viene avvicinato solo da due persone: la ragazza Kathy e la giovane Alice. La prima, tredicenne e spensierata, coinvolge Tom prima nella vita domenicale (il padre è predicatore), poi nell’aiutare dei bimbi disadattati, poi in tutta una serie di attività di aiuto in cui Tom con la sua naturale empatia si mostra vincente. Alice, invece, è la moglie dell’attempato parroco. E si capisce ben presto che ha un debole per il nostro Tom. Che si domanda il perché di questa unione tra Alice ed il prelato. Che si domanda se deve fare qualcosa, anche lui sentendo del trasporto. Ma il mese trascorre. Charles trova la tomba, Tom ripulisce l’affresco. Alice ed il parroco chiedono il trasferimento in una diversa parrocchia. Ve l’avevo detto, no, la trama è ben presto riassunta. Ma è tutta la carica di inespresso e/o di velato che c’è dietro e dentro che rende molto interessante il romanzo. Innanzi tutto, le tonalità che usa Carr, perché narra appunto come se fosse il Tom anziano che ricorda un periodo della sua giovinezza. E quindi sappiamo, a posteriori, che, in effetti, non successe gran che in quel mese in campagna. Se non che Tom – Carr matura e prende coscienza di se. Capisce di avere comunque un mestiere tra le mani (restauratore). Capisce che può riprendere il rapporto con gli altri (aiutato da Kathy), cosa che sembrava fosse stata interrotta dalla guerra e non più riprendibile. Capisce che se fa un gesto, un piccolo gesto, la sua vita, quella di Alice e quella del parroco, potrebbero cambiare. Quindi romanzo di possibilità. Ma anche romanzo di rimpianto. Che Tom si chiederà sempre e per sempre cosa sarebbe successo se… Una specie di contraltare delle domande irrisolte che si farà il narratore del bellissimo libro di Barnes “Il senso di una fine”. Se potesse continuare a restare lì in campagna. Se accettasse di fare il maestro ai ragazzi del paese. Se avesse baciato Alice. Se avesse iniziato a fare il predicatore, come il padre di Kathy. Insomma, un piccolo momento in cui Tom fa un salto in avanti nella sua vita ed un momento in cui non tornerà più (“non ho più incontrato nessuno di quel paese sperduto”) ma gli servirà per costruire la sua vita. Mi ricorda e mi fa venire in mente tanti piccoli istanti che ognuno vive. In particolare, un viaggio in treno da Siviglia a Madrid, fatto più di quarant’anni fa, e la conoscenza che feci sul treno della giovane Monika, turista tedesca. Non ci fu gran che di più di quello che successe tra Tom e Alice, ma modificò e di molto, la mia percezione dell’altro (o meglio delle altre e del mio rapporto con loro). E come Tom, dopo quel luglio di quaranta anni fa, più nulla seppi di Monika, delle sue amiche e della loro vita. Per tornare al libro, l’unico elemento che mi ha leggermente disturbato è l’introduzione di Penelope Fitzgerald. Non perché non dica cose condivisibili, ma perché le dice prima del romanzo. Guastando un po’ il godimento che se ne trae leggendolo. Io ritengo che le introduzioni debbano soltanto inquadrare, se del caso, l’autore ed il momento della scrittura. Mentre lascerei alle postfazioni il compito di entrare nei dettagli del narrato, che ora, avendolo letto, consente di condividere e di comprendere meglio quanto si dice. Evitando di anticipare cose che il prefatore vede, e magari io lettore no. Ma in fin dei conti, amici, leggete il romanzo. E non tiratevi indietro come il nostro Tom. Meglio una domanda ben posta che una ricerca di una risposta per tutto il resto della vita.
“Per quanto mi riguarda, avrebbe potuto girare l’angolo e morire di colpo. Ma questo vale per la maggior parte di noi, non è vero? Ci scambiamo sguardi vuoti. … Che facciamo qui? … Sogniamo ad occhi aperti. … Sì, quelli sono la mia mamma e il mio papà. … Vado a lavorare alle otto e torno a casa alle cinque e mezzo. Quando andrò in pensione mi regaleranno un orologio… Adesso sai tutto di me.” (52)
“Ciascuno di noi vede le cose con occhi diversi, e non serve a nulla sperare che anche uno solo su mille la pensi alla tua stessa maniera.” (96)
“Siamo entrati in questo mondo e prima o poi lo lasceremo. … Siamo qui a tempo determinato.” (101)
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” Bompiani s.p.
[trama del 13 maggio 2012]
Un libro divertente per una scoperta di un autore (di 13 giorni più piccolo di mio fratello) che non conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43 anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il controinterrogatorio in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos. Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov, ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così. Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)

Conclusioni


Questa volta le conclusioni sono brevi e plaudenti. I libri illustrano bene l’assunto iniziale. Il primo facendoci vedere i “mali” a cui si può incorrere esitando. Il secondo consigliandoci, come dicono le due scrittrici, che nel momento di prendere qualche decisione, sarebbe bene rispondere sempre “si” (e sicuramente rispondere e non tacere).

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