Torniamo ancora alla ben lunga
collana del Sole 24 ore ed i suoi neri italiani. Un lotto di trame che non mi
ha entusiasmato, con giudizi che vanno dal sufficiente a da dimenticare.
Milone, come descrivo, ne è l’esempio eponimo (nel bene e nel male). Poi due autori
che, anche con prove non eccelse, trovo interessanti e che replicherò, come
Morchio e Mogliasso. Il dimenticabile Guglielmone, accomunato con l’altra prova
poco riuscita di Zannone (che rinchiude tutto il giudizio nel titolo “Imperfetto”!).
Massimo Milone “Milano corri e muori” Sole 24 ore – Noir Italia 36 euro
6,90
[A: 21/03/2014– I: 15/07/2014 – T: 17/07/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 121;
anno 2013]
Una
delle ultime uscite della collana del Sole 24 ore, che sembra aver voluto
riempire gli ultimi titoli della serie, che hanno deciso di prolungare fino a
40 romanzi, con qualche prova molto basic. Anzi, direi che questa uscita è
proprio un esempio del bene e del male della collana, e della scrittura di
esimi autori che, pur innegabilmente avendo facilità di scrittura, non hanno
altresì facilità di invenzione. Allora perché gli do ben 3 libricini? Proprio
perché è un tipico prodotto e mi consente anche di farci sopra una riflessione.
Intanto, possiamo ben dividerlo in due analisi diverse. La parte Noir, motivo
dell’inserimento nella collana, e la parte ambientale e descrittiva. Ecco, se dovessimo
giudicare solo la prima parte, il giudizio crollerebbe miseramente. Diciamo che
posso concedere la lettura di 20 pagine ad un attento conoscitore di gialli per
scoprire il 90% dei “misteri” del libro. Misteri che si addensano intorno alla
morte di una consulente “tagliatore di teste” che viene uccisa durante uno
jogging mattutino, a poca distanza da un commissario anche lui in tenuta da
runner. E poco prima della morte, Francesca fa una telefonata a casa di un suo
collega Alessandro. Che oltre ad essere antipaticuccio, ha l’aria di voler
nascondere qualcosa. A chi era diretta la telefonata? A lui o alla moglie
Daniela? E si scopre ben presto che sia lui che il figlio Simone sono patiti di
armi (campioni al poligono), ed entrambi (pur con diverse abilità) capaci di
utilizzare computer ed affini. Con chi della famiglia Gavioli, la nostra
Francesca aveva una tresca? E chi dei tre era in grado di inscenare il delitto,
pensando di farla franca? Pensando anche di far cadere i sospetti su qualche
dirigente di società che fa un po’ di cresta sui libri contabili societari.
Purtroppo, la pistola del delitto viene rubata da dei balordi che fanno una
rapina, e si fanno beccare. Poi ci sono le telecamere a circuito chiuso del
garage dei Gavioli entrate in funzione all’insaputa dell’assassino. Insomma,
abbastanza semplice e scontato. Così come semplice, anche se meno scontata,
l’altra storia che seguono i poliziotti, quella di uno stalker con relativo
innamoramento del poliziotto verso la bella presa di mira. E con l’intervento
risolutore di uno degli elementi spesso in ombra della squadra. Sì, perché il
nostro autore pensa bene (e qui veniamo alle note ambientali e descrittive) di
scopiazzare le atmosfere alla Ed McBain e la sua serie dell’87° distretto. Qui
siamo a Milano, ed al massimo arriviamo all’8°, ma l’idea è lì. Un procedural thriller
basato su di una squadra. Di cui conosciamo i componenti: Salvatore Van Dir
detto Sasà, commissario napoletano trasferito a Milano, ed un po’ l’anima della
squadra, Remo Barocci, suo alter-ego, romano “de’ Roma”, Melina Laganakis,
detta Venere in quanto greca e nata a Milos, Mara Fossati, detta Fosset, per
richiamare una delle Charley’s Angel. Poi ci sono i due dello stalker,
Castoldi, quello quasi leghista, ma in fondo no, e Fumagalli, quello che
ragiona molto, e “zitto zitto”… Quello dei soprannomi è forse la parte
migliore, che raggiunge il vertice con l’antipatico e quasi pelato Gubbio (quello
che vuole sempre fare in modo di avere molti onori e pochi oneri) che tutti
chiamano Harry Potter, solo perché Remo, con il suo accento romano, lo aveva
soprannominato “er riporter” (e provate a dirlo con l’accento romanesco…).
Queste sono le parti più scorrevoli e meglio riuscite della scrittura di
Milone. La descrizione della squadra, dell’ambiente di polizia, del tifo per le
squadre di gran cuore e poco blasone (Roma e Napoli, si capisce, e si accetta
Venere solo perché tifa l’Aris di Salonicco). Ma anche di alcuni ambienti
malavitosi di vecchio stampo milanese (il Maestro, ad esempio), il dispiacere
per il dilagare della droga a buon mercato. E le grandi bevute di birra alla
Montagnola, da dove i casi si discutono meglio che al distretto. Insomma, un
facile libro, ammirevole per lo scorrere delle vicende di contorno, poco
incisivo per la parte gialla. Quindi, concludendo, tipico esempio di una
scrittura capace ma non ancora indirizzata. E di politiche editoriali di
livello non eccelso (d’altra parte Milone pubblica per Happy Hour edizioni non
per Mondadori o Feltrinelli…).
Alessandro Zannoni “Imperfetto” Sole 24 ore – Noir Italia 37 euro 6,90
[A: 21/03/2014– I: 21/07/2014 – T: 23/07/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171;
anno 2009]
Direi
che il titolo racchiude tutto quello che si può dire di questo romanzo.
Ricollegandomi con la precedente uscita (il 36 di Milone) ribadisco che la
collana del Sole nelle ultime uscite è in calando. Si salvano soltanto (visto
che si comincia sempre dalle note positive) alcune descrizioni della zona di
Sarzana, di Lerici, attraversando la Lunigiana, ricordando Aulla, valicando
verso Parma, e magari guardando il mare da Portovenere. Il resto è buio pesto.
La storia, il modo di raccontarla, i personaggi, il finale. Certo, l’autore
conosce e legge di noir (organizza un festival Noir proprio in Lunigiana), ed
usa i più classici canoni del genere. Nella scrittura, ad esempio, alternando l’impersonale
con il soggettivo di chi commette gli efferati delitti. E poiché chi li
commette è senza dubbio una persona disturbata, usa un linguaggio che vuole
imitare il flusso di coscienza di una persona quanto meno psicopatica. Con l’unico
risultato, che, dopo i primi due interventi, è bene saltarli a piè pari. Non
aggiungono nulla alla storia, neanche nella ricerca della chiave. Il personaggio
centrale è poi un investigatore privato, messo sul caso dell’omicidio irrisolto
di Amedeo, scapestrato figlio di un ricco spezzino, con tutte le classiche
manie e “pose” da investigatore “alla Sam Spade”. Un matrimonio che sta andando
a rotoli, una nuova fiamma che Merisi, questo il suo nome, non sa come gestire
(gli vuole bene? è un modo di scarica la moglie?), ed un caso che nessuno vuole
e che quindi gli viene affidato perché faccia “ammuina”. Ovviamente è in
attrito con le forze dell’ordine, ma ha anche qualche angelo custode: la
segretaria, un giornalista, qualche maresciallo sparso sui monti. E Merisi si
mette a ripercorrere tutta la storia di Amedeo, trovato nudo, con 5 colpi
mortali, sulla strada verso Parma. Zannoni le prova tutte: la pista gay, la
pista casuale, ed altro. Ma né noi né Merisi ci caschiamo. La svolta si ha
quando uno sperduto oste (guarda caso non interrogato dalla polizia) ricordo un
caso simile di una decina di anni prima. Merisi e la sua squadra si mettono in
caccia. E trovano alla fine almeno altri 3 omicidi fotocopia. Giovane, nudo,
con 5 colpi mortali. E senza segni particolari di lotta. Si vede che chi
organizza gli omicidi non fa paura ai futuri morti. Ed allora indaghiamo su chi
possa entrare nelle case senza tema: postini, trasportatori, ufficiali pignoratori,
operai ristrutturatori. In parallelo, seguiamo una persona che brucia quadri
nelle chiese e poi fa una donazione con un suo dipinto. Guardando il dipinto nella
chiesa di un suo amico frate (anche lui ucciso) Merisi ha il colpo di fulmine.
Vuoi vedere che indovino? Avevo scommesso su San Sebastiano, ed eccolo là. Che
scarsa fantasia! Il colpo di fulmine porta Merisi a comprendere che non sono
pugnalate, ma frecce. Quello che non capisce (d’altra parte è solo un
investigatore) è che una freccia per fare così tanto danno non può che essere
lanciata da una balestra. E una balestra può essere maneggiata sia da uomini
che da donne. Merisi ha un bel cedere l’indagine alla polizia, che non crede
alle sue piste. Per poi accettare l’invito a casa di una donna, guarda caso uno
degli ufficiali che vanno pignorando gli inadempienti. E lì… Mica vi posso dire
il finale, ovvio. Ma verso questo finale corriamo velocemente e senza suspense
(benché le recensioni che ho letto parlino proprio di finali mozzafiato). A me
è sembrato un finale che vuole fare effetto, ma che tronca tutte le
discussioni. Perché sul quadro c’è scritto Caravaggio, unico a non aver mai
dipinto San Sebastiano? Perché e come viene scatenata la furia omicida? E
venendo sul personale, perché Merisi lascia la moglie? Che senso ha la sua
storia con Giulia? Insomma, dopo 170 pagine, Zannoni ci lascia insalutato
ospite, con questo prodotto, ribadisco, non a caso intitolato “imperfetto”. Sarà
difficile che se ne legga altro.
“- Poteva finire in modo migliore? … - Non
esiste un modo migliore per lasciare una persona, e qualcuno deve soffrire.”
(130)
Giacomo Guglielmone “La stagione da Iseo” Sole 24 ore – Noir Italia 34
euro 6,90
[A: 14/03/2014– I: 24/07/2014 – T: 26/07/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 189;
anno 2013]
Ho
impiegato tutto il libro, nonché una ricerca sul primo editore di Guglielmone
(il benemerito Robin di Roma), per capire che Iseo era (è) una locanda rinomata
in quel di Lerici. Collegata al fatto che la vicenda è ancora una volta
spezzina (un giorno o l’altro farò un’analisi dei luoghi di questa collana),
sembra avere un senso. Ma soltanto sembra, che il mangiare ed i ristoranti non
sono di certo al centro delle indagini che il commissario D’Imporzano porta
avanti lì, tra le Bocche del Magra, per venire a capo dell’uccisione di tal
Setubal Santiago, ex-portoghese naturalizzato italiano, molto fascio in
gioventù, poi legato ad ambienti “di soldi”, ed infine imprenditore in prima
persona, abbiente e sempre ben ammanicato. L’autore attinge un po’ al suo
retroterra (un po’ giornalista, un po’ specializzato in comunicazione sociale)
per condire la vicenda con molta carne al fuoco. Peccato che si passino giorni
senza reali costrutti. E peccato per quel vezzo da “noir” di belle fatture, di
utilizzare pesantemente flash-back, e tutti in corsivo. Così alla vicenda del
morto, si intreccia la vicenda di Silvestri, a suo tempo sodale del figlio di
Santiago, e poi persosi in varie vicende. Estremista più per denaro che per
convinzione, partecipante a pestaggi, poi all’incendio di una scuola. Ma
soprattutto messo in prigione per aver malmenato il figlio di Santiago per
questioni di droga. Ed in prigione a sua volta pestato, ridotto a mal partito,
ed ora invalido al 100% per la perdita della vista. Tanto che ha diritto ad
accompagni, svolti da giovani del servizio civile. C’è la storia di uno di
questi, in flash-back, toscano di quel di Prato, trombato alle specializzazioni
per mancanza di appoggio, poi dentista di medio profilo. Che dopo aver servito
il Silvestri, trova il modo di avere una relazione con la di lui bella sorella,
Arianna. Una tipa che ha cavalcato di molto in gioventù, e che si è sistemata
dopo una notte di sesso con un pittore, indicato con le iniziali KH, che tutti
riconoscono nel grande muralista gay Keith Haring, che gli autografa una
T-shirt, con la quale appunto sistema il suo futuro (compra casa, e vive di
rendita). Dedicandosi alla bella vita, soprattutto con dottori, lasciando un
po’ di spazio al dentista di cui sopra, il Guelfi. Il nostro commissario, nel
corso della sua indagine, trova anche il tempo di consolare “fattivamente” la
ancora piacente vedova di Santiago (molto consolabile, in quanto il morto aveva
ormai una relazione stabile con una giovane tunisina). Guglielmone cerca di
inzeppare sospetti a destra e sinistra (il fratello della tunisina, la vedova
stessa, gli ex-compari di Santiago, Silvestri e la sua cricca di sbandati)
riuscendo solo nell’intento di rendere confuso l’andamento del libro. E poco
coinvolgente. Così che tra un giro e l’altro, tra una trasferta in Lunigiana ed
una in Toscana, un pranzo, l’ascolto di Silvestri che di notte fa il DJ, ci si
avvia mestamente a conclusione. E come tutti i gialli mancati, ci si avvia
senza che vengano sciolti tutti i nodi. Certo, Ines, un’amica di Silvestri,
lavora da talpa e copia alcuni indirizzari “segreti” di un vecchio a suo tempo
(e forse tuttora) sodale di Santiago. Passa i nomi a Silvestri, che
utilizzandone uno (probabilmente si tratta di vecchie storie legate alle
torbide vicende liguri degli anni ’70, dove non a caso c’è un ex ergo di frase
del buon vecchio e dimenticato Arnaldo Forlani) convoca Santiago ad uno strano
appuntamento notturno. Dove Arianna aiutata probabilmente da Guelfi, fa la
festa a Santiago. Ed i cerchi si chiudono. Con poco lustro e poca voglia di
saperne di più. Tutto sommato la parte migliore (che invece puristi del giallo
di cui ho letto commenti in rete ritengono minore) è proprio la descrizione dei
luoghi. Tanto che il primo capitolo, che ci parla di Spezia e dei suoi luoghi
(e dove ritroviamo piazza Brin al centro di uno dei precedenti e di certo
migliori noir della seria), per me è la parte migliore del libro. Insomma, un
libro un po’ troppo di testa, che vuole ammiccare troppo, e, facendolo, perde
verve e simpatia. Da dimenticare.
Bruno Morchio “Bacci Pagano. Una storia da carrugi” Sole 24 ore – Noir
Italia 1 euro 6,90
[A: 03/08/2013– I: 21/08/2014 – T: 23/08/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 279;
anno 2004]
Entrato
finalmente nella roulette strampalata delle mie letture, questo primo libro.
Primo come romanzo della serie pubblicata dal Sole 24 ore con il titolo “Noir
Italia” ed iniziata a luglio dello scorso anno. Primo romanzo scritto
dall’autore con protagonista l’investigatore Giovanni Battista “Bacci” Pagano.
E primo romanzo da me letto di Bruno Morchio, di cui avevo visto più volte pubblicità
in libreria, ma che non era ancora entrato nelle mie letture. Ed anche se
questo libro mi ha un po’ deluso (e cercheremo di capire perché), credo che
sarà un autore a cui ritornerò. Morchio, come Licalzi, viene poi dalla
psicologia, ma al contrario dell’autore delle Bocche del Magra, non si dedica
all’ironia, ma utilizza il noir come descritto da Varasi per “illustrare il nostro
mondo”. Lo fa immergendo il simpatico Pagano nel pieno dell’Italia
berlusconiana, con un’ottica (anche se a volte disincantata) che mi è
congeniale. Purtroppo (e qui veniamo subito ai difetti piuttosto che ai pregi),
cercando di descrivere e di far toccare con mano l’Italia dei Servizi Segreti
deviati, del malaffare, della politica corrotta, nonché dei guasti che l’esimio
Silvio ha prodotto in 20 anni di (mal) governo. Tutto vero, tutto giusto. Ma il
modo anche un po’ amaro che ci riserva il finale, dove (almeno sembra) l’attentato
al Capo del Governo può andare a buon fine, mentre Pagano viene sconfitto (e la
sua amica africana rimpatriata come prostituta indesiderabile) lascia a
desiderare. Non per la sua credibilità (che è credibile e molto) ma perché
viene come lasciata in sospensione, quasi che siano state tolte una ventina di
pagine che (come insegna il decalogo di S.S. Van Dine sul buon uso del
poliziesco) servivano a fare una ricostruzione degli avvenimenti, ed a
sciogliere eventuali nodi irrisolti. Ma d’altra parte, le regole sono fatte per
essere trasgredite (basta che si sappia quali siano le regole e quale le
trasgressioni). Per il resto, ed è tanto, il libro ha un suo andamento
gradevole, e discretamente coinvolgente. Primo punto a favore, ovviamente, la
descrizione di Genova, dei suoi quartieri, ed in particolare dei carrugi, e
della fauna che vi abita. Dall’extra alle prostitute, dagli impiegati ai grandi
uomini d’affari. E lì nei carrugi, vive il nostro Bacci, direi sulla
cinquantina (o poco meno). Alcune storie di donne alle spalle, gioventù tra manifestazioni
e contestazioni, nonché (per un errore giudiziario cui lui non si sottrae)
cinque anni di carcere a Novara. Passati che lo aiutano nel presente da
detective, che tra amici e conoscenti, folta schiera di persone riconoscenti ha
in giro per la città. L’oste con le sue gallette tipo bretone, il tassista, le
prostitute, ma soprattutto il commissario Totò Pertusiello, suo alter-ego
istituzionale, che spesso (ma non sempre ci riesce) cerca di tirarlo fuori dai
guai, condividendone filosofie di vita, anche indossando la divisa. Pagano s’immerge
nel romanzo chiamato a risolvere questioni di spionaggi industriali conditi da
amori ancillari, per conto di una delle famiglie bene dei carrugi. Compito che
ben assolve, anche se, mosso da strane pulsioni verso la commessa Alma, non lo
porta alle estreme conseguenze. E sarà un errore. In parallelo, un suo vecchio
sodale, ora gestore di una radio alternativa, lancia in onda provocazioni
para-brigatiste. Dove però il fucile che esibisce quasi per gioco e quasi a
voler ripercorrere i (ne)fasti delle P38, viene rubato. Questo scatena guerre
di bande tra Polizia e Digos. Viene alla luce un vecchio killer (o presunto
tale) del tipo Zorzi di Piazza Fontana. Killer che Pagano per due volte sta per
arrestare e per due volte ne viene beffato. Ovviamente la Digos avrà la meglio
su tutti, togliendo la licenza a Pagano e lasciando che il killer faccia
(forse) quello che deve fare. Ma se tutto ciò è interessante, perché così poco
gradimento, mi chiederete. Colpa di tutte quelle lungaggini su i mali
dell’Italia, sulla politica, sui mafiosi nostrani (e forse su quelli cinesi).
Pagine che non aggiungono nulla alla vicenda, e sembrano servire soltanto ad
illustrare i pensieri dell’autore. Interessanti, forse, ma in altri contesti. E
per come finisce la storia, mi domando con curiosità come farà a costruire
altri episodi (visto che almeno altri due libri con Bacci Pagano li ha
scritti). Sperando che le prossime letture genovesi restituiscano l’asciuttezza
tipica della Liguria, per regalarci ancora delle belle storie (e delle belle
passeggiate per una Genova sempre presente nella mia mente, grazie ai ricordi
di mia nonna).
“Solo libri, libri, tanti libri per riempire
la mia solitudine e impedire che divenisse disperazione … dopotutto siamo fatti
di quello che mangiamo e di quello che leggiamo, e poco di più.” (67)
Rosa Mogliasso “L’assassino qualcosa lascia” Sole 24 ore – Noir Italia 9
euro 6,90
[A: 09/09/2013– I: 09/09/2014 – T: 11/09/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217;
anno 2009]
Stava
veleggiando alto questo libro dell’esimia collana del Sole, scritto dalla
torinese Rosa Mogliasso. Per buona parte univa una scrittura accattivante ad
una storia che, pur nella sua non evidente complessità, teneva desto
l’interesse. Peccato la caduta finale, quando si vanno a raccogliere i frutti di
quanto seminato. Troppo di corsa, qualche passaggio solo accennato, qualcosa
lasciato cadere (forse sarà ripreso in altri libri, immaginando una vicenda
seriale). Sin dalle prime pagine si respira un’aria da “Donna della Domenica”
di Fruttero & Lucentini: qualche profumo di ambiente bene torinese (la
famiglia Peressi), assaggi di quartieri diversi (non dico il Valentino, ma la
stazione, i Murazzi ed altro), e la questura, dove troviamo il commissario Barbara
Gillo, personaggio centrale dell’inchiesta e non solo. In questa fase è
soprattutto la scrittura che avvince: dice e salta, ma non dimentica, presenta
i personaggi e ne fa intuire potenzialità e possibilità. In primo piano la
famiglia Peressi: l’avvocato, impaccato di soldi e con la passione del golf, ma
soprattutto con la passione verso giovani ben dotati di attributi virili,
possibilmente neri, ma anche rumeni vanno bene, la moglie Alma, rifatta da capo
a piè, dedita alla bottiglia in mancanza del marito, e presenza costante di
quella Torino bene fatua e senza scopo, e la figlia Titti, anoressica da adolescente,
ed ora ventenne tossica senza speranza. Intorno a loro un po’ di “fauna”: giri
di tossici ed investigatori in cerca di prova intorno alla Titti, il finto
romeno Guy (o forse rumeno ma molto francese) che ronza intorno all’avvocato,
cedendo alle sue avances, ma con suoi scopi precisi, ed il cameriere cingalese
Solomon, conforto delle serate solitarie di Alma. In questura intanto il commissario
Gillo impazzisce intorno ad un serial killer di prostitute (rebus che verrà
risolto a metà romanzo, in un capitolo molto veloce, uno delle tante
accelerazioni della scrittrice che non mi hanno convinto), invischiandosi nelle
trame che la sorella Mariù cerca di rifilarle, cercando di trovarle un uomo.
Purtroppo la sorella è “del lato Alma”, cioè bene e svampita, così che ad un
certo punto si ritrova sola e con due figli, che il marito fugge con una
giovinetta. Ed è un secondo punto che poi lascia in sospeso, sembra un dramma
epocale, Mariù vuole fuggire in India, poi due capitoli passano e non se ne
parla più. Il nodo centrale però avviene quando viene uccisa la Titti con un colpo
di bastone da golf alla testa. Il delitto fa scoprire un po’ degli altarini
dell’avvocato, ma soprattutto la scrittrice ci mette al corrente dei piani di
Guy e della sua banda. Perché il sedicente gay è in realtà il capo di una banda
di palestrati fascisti che vuole sfruttare soldi e conoscenze del Peressi per
mettere su una banda eversiva. Peccato che il contatto primario tra la banda e
la famiglia è lo spacciatore tunisino Aziz (che riforniva la Titti), ucciso a
sua volta appena mette piede a Torino. Della banda fa parte la bella Angelique,
che ogni tanto scopa con Guy, e l’oscuro Bruno. Si aggirano tra Parigi e Torino
(con un’unica divertente battuta: Torino è un modo economico di vivere a
Parigi), ma a parte le attività sessuali di Guy, e qualche accenno di ricatto,
poi sembra tutto cadere nel nulla. Che l’avvocato scompare, Alma ne inscena la
morte per avvelenamento (almeno così crede) insieme a Solomon. Il cingalese
torna a Bangkok dove l’avvocato vuole rifarsi una vita. Peccato che Alma nella
sua nullità mentale si auto-accusi della morte. E Solomon (l’unico con un po’
di pietà verso la svampita) una volta saputo il fatto, faccia in modo (ma non
si sa come, perché anche qui si corre molto), di avvertire il commissario, di
coinvolgere Guy a Bangkok, e di far precipitare tutte le trame. Nelle more, il
commissario Barbara Gillo trova il modo di invaghirsi e poi di essere
ricambiata dal commissario Massimo Zuccalà. Una piacevole storia d’amore e di
sesso agli inizi, foriera di possibili interessanti sviluppi. Ma come detto, se
per due terzi la vicenda si segue bene, con il divertimento di mettere titoli
ai capitoli una frase contenuta nel capitolo stesso (e non la prima), con
citazioni di Nietzsche da parte del palestrato, e dotte disquisizioni sulla filologia
del crimine e delle prove annesse da parte di Zuccalà, alla fine tutto corre.
Con passaggi misteriosi (Barbara deve andare dalla sorella e la troviamo invece
dalla Peressi, Guy sembra introvabile poi lo troviamo in questura, l’avvocato
sembra scomparire a Bangkok, e poi al suo letto d’ospedale per la chirurgia
facciale troviamo Guy, funzionari dell’ambasciata italiana, e chi più ne ha…)
che portano alle conclusioni diverse della vicenda, di cui scopriamo
praticamente tutto (e non ve ne narro, lasciandovi qualche suspense), anche se
il ricatto di Guy rimane misterioso ed irrisolto. Insomma, la scrittura mi è
piaciuta, l’autrice mi ha convinto che può essere seguita in altre prove, mi
aspettavo qualcosa di meglio date le premesse, ma alla fine un prodotto
discreto (ed alcune belle passeggiate per Torino, dove ci si tornerà, prima o
poi).
Ho
scritto la settimana scorsa che mi stavo “avvantaggiando” in vista delle
assenze di dicembre, così trovate in allegato anche il solito mensile sulle “cure”,
che questa volta, con due libri di valore, surclassa tutta la trama
settimanale: non è un caso che si parli di decisioni ed indecisioni. Intanto si
va stringendo anche l’ultima settimana di preparazione alla lunga trasferta
vietnamita. Torno quindi allo studio degli itinerari.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE 2014
In questo dicembre anticipato per
ragioni di viaggio, ecco che ci imbattiamo in un disturbo veramente
invalidante, dove però le nostre libropeute ci mostrano un caso irrecuperabile
ed un rimedio “sicuro”.
COGLIERE L’ATTIMO, INCAPACITÀ DI
Un mese in campagna, James Lloyd Carr
Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, Jonas Jonasson
Viviamo solo un numero limitato di giorni. E
all’interno di quel prezioso arco di tempo, i giorni in cui arriva qualcuno o
succede qualcosa di speciale sono davvero pochi. Se esitiamo, o non
abbiamo il coraggio di agguantare ciò che il destino ci ha offerto, potremmo
rimpiangerlo per il resto della nostra vita.
In nessun romanzo l’eroe - e in un
superlativo atto di osmosi, anche il lettore - è più tormentato dalla consapevolezza
di non essere riuscito a cogliere l’attimo che nel classico degli anni Ottanta
di James Lloyd Carr, “Un mese in campagna”. Subito dopo la conclusione della
prima guerra mondiale, portando con sé una tremenda balbuzie e un tic che gli è
rimasto dalla battaglia di Passchendaele, Tom Birkin arriva nel villaggio di
Oxgodby aspettandosi una «meravigliosa» estate rigenerante. È stato assunto per
portare alla luce un affresco medievale sul soffitto della chiesa del
villaggio, e nel frattempo vivrà nella cella campanaria. L’esperienza riesce
salutare quanto ci si aspetta - perché in questo «rifugio tranquillo» Tom passa
le giornate in beata solitudine, arrampicato in cima alla scala, nutrendosi di
carne di manzo in scatola e dei pasticcini da tè al ribes della signora
Ellerbeck, facendo amicizia con Charles Moon, un altro sopravvissuto alla prima
linea, e innamorandosi di Alice Keach, bella e giovane moglie del vicario.
Lui non chiede niente. Alice lo va a trovare
regolarmente - ma lo fa anche la giovane Kathy Ellerbeck, e in qualche modo fa
tutto parte della magia di quell’estate che lui vorrebbe non finisse mai. Un
giorno, nel campanile, si affacciano insieme e quando Tom le mostra il prato
dove Charles sta scavando sente la pressione dei seni di lei contro il proprio
corpo. Sa che è ora o mai più. Che cosa lo ferma? Una certa abitudine
all’infelicità che ha contratto negli ultimi anni, forse. Il senso inglese
della correttezza. Un’ipotesi che ha fatto a proposito di Alice. Alla fine di
questo romanzo ci sentiamo più tristi – a meno che, ovviamente, non cogliamo
l’occasione per impegnarci a non commettere mai lo stesso errore.
Se, come Tom, sospettate di avere la tendenza
a essere, nella vostra vita, più passeggero che pilota, potrebbe esservi utile
una lezione su come farlo. Il vecchio protagonista di “Il centenario che saltò
dalla finestra e scomparve” di Jonas Jonasson è un uomo che naviga a meraviglia
attraverso una vita lunga e movimentata. Allan ha sempre vissuto la propria
vita con leggerezza, più con curiosità che per convinzione, eppure in un modo
o nell’altro ha partecipato a molti degli eventi chiave del Novecento. Alla
vigilia del suo centesimo compleanno, che si festeggerà alla casa di riposo di
Malmköping, e a cui sono stati invitati i giornalisti, il sindaco, il personale
e gli altri ospiti della struttura, Allan decide che quella casa non sarà, dopo
tutto, la sua ultima residenza sulla Terra e che morirà «in un altro momento,
in un altro luogo». Non è solo ottimista, ma anche fortunato, poiché una delle
prime cose che gli capitano dopo la fuga è trovare una valigia piena di soldi.
Quello che segue è una vivace retrospettiva
sulla vita di Allan, dalla nascita nel 1905 al suo nuovo inizio a centouno anni
a Bali, con una donna più giovane (ottantacinque) al fianco. Lungo il tragitto
contribuisce alla realizzazione della bomba atomica e fa da consigliere a vari
leader mondiali, tra cui Winston Churchill e Mao Tse-Tung. Le sue avventure nel
presente continuano, portando lui e la sua valigia, grazie anche a una serie di
omicidi accidentali (Allan ha un rapporto molto rilassato con la morale), in
molti splendidi luoghi. Il messaggio di Jonasson è chiaro. Se vi capita di
domandarvi se «dovreste», la risposta è sempre «sì».
Bugiardino
Questa
volta, pur a distanza di anni (e sotto la spinta proprio di questo regalo) ho
completato l’insieme dei libri citati. Il secondo, grazie ad un gradito regalo,
letto, consigliato e ripensato sorridendo. Il primo da poco condiviso con gli
amici, con ritorni diversi: a chi è piaciuto, a chi lo trova un po’ “moscio”.
Andiamo a vedere cosa se ne scrisse al momento della lettura.
James Lloyd Carr “Un mese in campagna” Fazi editore euro 12,50
[trama
del 14 settembre 2014]
È
uno di quei romanzi in cui non succede niente, e proprio per questo è pieno di
tante cose. Inoltre, anche se ha scritto altro, l’autore è una specie di
single-book man. Il buon J. L. Carr, tra l’altro, è morto una ventina di anni
fa. E questo suo romanzo, scritto a 66 anni, dopo essere andato in pensione
come ex-preside di liceo, gli valse anche premi ed onori. Direi giustamente.
Dicevo, non succede niente, ma è pieno di tanto. Se volessimo chiudere la
storia in poche note, da quarta di copertina, dovremmo parlare della piccola
storia del ragazzo Tom, appena finita la Prima Guerra Mondiale (il romanzo è
ambientato nel 1920), ripreso in mano il lavoro di restauratore di dipinti ed
altri oggetti in deperimento, viene chiamato da un parroco di campagna per
rimettere alla luce un affresco probabilmente celato dietro l’altare.
Ovviamente Tom è rimasto segnato dalle esperienze militari. E la comunità
campagnola non facilmente accetta estranei. Mentre Tom mette alla luce il
dipinto, lavora al suo fianco il giovane Charles che invece sta cercando una
tomba. Nasce solidarietà tra i due, entrambi reduci dalle rovine militari. Ma
Charles ha qualcosa in più, essendo stato cacciato dall’esercito in quanto gay.
Durante il suo lavoro, Tom viene avvicinato solo da due persone: la ragazza
Kathy e la giovane Alice. La prima, tredicenne e spensierata, coinvolge Tom
prima nella vita domenicale (il padre è predicatore), poi nell’aiutare dei
bimbi disadattati, poi in tutta una serie di attività di aiuto in cui Tom con
la sua naturale empatia si mostra vincente. Alice, invece, è la moglie
dell’attempato parroco. E si capisce ben presto che ha un debole per il nostro
Tom. Che si domanda il perché di questa unione tra Alice ed il prelato. Che si
domanda se deve fare qualcosa, anche lui sentendo del trasporto. Ma il mese
trascorre. Charles trova la tomba, Tom ripulisce l’affresco. Alice ed il
parroco chiedono il trasferimento in una diversa parrocchia. Ve l’avevo detto,
no, la trama è ben presto riassunta. Ma è tutta la carica di inespresso e/o di
velato che c’è dietro e dentro che rende molto interessante il romanzo. Innanzi
tutto, le tonalità che usa Carr, perché narra appunto come se fosse il Tom
anziano che ricorda un periodo della sua giovinezza. E quindi sappiamo, a
posteriori, che, in effetti, non successe gran che in quel mese in campagna. Se
non che Tom – Carr matura e prende coscienza di se. Capisce di avere comunque
un mestiere tra le mani (restauratore). Capisce che può riprendere il rapporto
con gli altri (aiutato da Kathy), cosa che sembrava fosse stata interrotta
dalla guerra e non più riprendibile. Capisce che se fa un gesto, un piccolo
gesto, la sua vita, quella di Alice e quella del parroco, potrebbero cambiare.
Quindi romanzo di possibilità. Ma anche romanzo di rimpianto. Che Tom si
chiederà sempre e per sempre cosa sarebbe successo se… Una specie di
contraltare delle domande irrisolte che si farà il narratore del bellissimo
libro di Barnes “Il senso di una fine”. Se potesse continuare a restare lì in
campagna. Se accettasse di fare il maestro ai ragazzi del paese. Se avesse
baciato Alice. Se avesse iniziato a fare il predicatore, come il padre di
Kathy. Insomma, un piccolo momento in cui Tom fa un salto in avanti nella sua
vita ed un momento in cui non tornerà più (“non ho più incontrato nessuno di
quel paese sperduto”) ma gli servirà per costruire la sua vita. Mi ricorda e mi
fa venire in mente tanti piccoli istanti che ognuno vive. In particolare, un
viaggio in treno da Siviglia a Madrid, fatto più di quarant’anni fa, e la
conoscenza che feci sul treno della giovane Monika, turista tedesca. Non ci fu
gran che di più di quello che successe tra Tom e Alice, ma modificò e di molto,
la mia percezione dell’altro (o meglio delle altre e del mio rapporto con
loro). E come Tom, dopo quel luglio di quaranta anni fa, più nulla seppi di
Monika, delle sue amiche e della loro vita. Per tornare al libro, l’unico
elemento che mi ha leggermente disturbato è l’introduzione di Penelope
Fitzgerald. Non perché non dica cose condivisibili, ma perché le dice prima del
romanzo. Guastando un po’ il godimento che se ne trae leggendolo. Io ritengo
che le introduzioni debbano soltanto inquadrare, se del caso, l’autore ed il
momento della scrittura. Mentre lascerei alle postfazioni il compito di entrare
nei dettagli del narrato, che ora, avendolo letto, consente di condividere e di
comprendere meglio quanto si dice. Evitando di anticipare cose che il prefatore
vede, e magari io lettore no. Ma in fin dei conti, amici, leggete il romanzo. E
non tiratevi indietro come il nostro Tom. Meglio una domanda ben posta che una
ricerca di una risposta per tutto il resto della vita.
“Per quanto mi riguarda, avrebbe potuto
girare l’angolo e morire di colpo. Ma questo vale per la maggior parte di noi,
non è vero? Ci scambiamo sguardi vuoti. … Che facciamo qui? … Sogniamo ad occhi
aperti. … Sì, quelli sono la mia mamma e il mio papà. … Vado a lavorare alle
otto e torno a casa alle cinque e mezzo. Quando andrò in pensione mi regaleranno
un orologio… Adesso sai tutto di me.” (52)
“Ciascuno di noi vede le cose con occhi
diversi, e non serve a nulla sperare che anche uno solo su mille la pensi alla
tua stessa maniera.” (96)
“Siamo entrati in questo mondo e prima o poi
lo lasceremo. … Siamo qui a tempo determinato.” (101)
Jonas Jonasson “Il
centenario che saltò dalla finestra e scomparve” Bompiani s.p.
[trama
del 13 maggio 2012]
Un libro divertente per una
scoperta di un autore (di 13 giorni più piccolo di mio fratello) che non conoscevo.
Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti prende un
po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai avanti.
Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un po’
fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump
dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un
turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche
ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che
fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi
per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben
presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto
fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di
milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano
l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che
si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43
anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare
una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un
circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della
banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche
a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato
delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il controinterrogatorio
in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il
contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è
consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP
diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla
contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas
lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono
fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo
tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo
che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un
po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge
in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi
sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli
esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in
giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica
di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in
Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel
far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere
nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo
salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una
serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo
imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui
non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos.
Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con
l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in
missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i
boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo
la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina
verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la
pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene
reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov,
ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove
fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce
ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene
salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la
moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina
comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a
Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella
moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come
se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di
nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e
religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se
il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato
ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così.
Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto
piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non
succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso
nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle
logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato
…. Particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e senza
averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano
ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)
Conclusioni
Questa volta le conclusioni sono
brevi e plaudenti. I libri illustrano bene l’assunto iniziale. Il primo
facendoci vedere i “mali” a cui si può incorrere esitando. Il secondo
consigliandoci, come dicono le due scrittrici, che nel momento di prendere
qualche decisione, sarebbe bene rispondere sempre “si” (e sicuramente
rispondere e non tacere).
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