Parafrasando uno dei titoli sotto
riportati, per un’estate di relax e distensione, eccoci a quattro titoli
italiani in giallo. Apriamo e chiudiamo con due titoli di Valerio Varesi ed il
suo commissario Soneri (e meglio il secondo, che almeno si tinge della faccia
televisiva di Barbareschi, che lo vivacizza un po’). Passiamo di corsa
attraverso un (praticamente) inutile Vito Di Bari, per cadere in quel
Ferragosto che mi ha suggerito il titolo, e che ritengo (come scritto) un’ulteriore
prova della poca intelligenza letteraria di alcuni curatori. Intano, e per
davvero, rilassiamoci tutti.
Valerio Varesi “Ultime notizie di una fuga” Frassinelli euro 12,50 (in
realtà, scontato a 10,63 euro)
[A: 16/02/2014– I: 18/03/2014 – T: 20/03/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 157;
anno 1998]
Ma
sono 3 libricini di gradimento più per la stima dell’autore che per il libro in
sé. Che, ripubblicato da Frassinelli dopo essere stato edito dalla Moby Dick
circa quindici anni fa, recupero un buco: la prima inchiesta del commissario
Soneri. Ed un po’ come la prima inchiesta di Pepe Carvalho, è intrinsecamente
diverso ed uguale al personaggio seriale che poi conosceremo (ed apprezzeremo,
anche se non, visto che non ce l’ho, nelle apparizioni televisive di Luca Barbareschi).
Perché se da un lato il commissario ha quei tratti che lo renderanno “tipico”:
mezzo toscano spesso acceso, piacere della buona tavola (e vai con i pranzi e
le cene dal Milord) e del buon bere (qui spesso si scola del bianco Chablis,
con qualche whiskey torbato e qualche grappa a latere). Dall’altro non ha la
posizione sui luoghi che ne faranno appunto “un tipo”. Non c’è il sentore della
bassa, né il Po e la sua vita. Sì, c’è Parma, ma tutta città e poco altro. Non
c’è (ancora) la sua bella. Nulla sappiamo del suo passato. E c’è una storia
senza delitti. Varesi prende spunto da una ferita aperta nel tessuto cittadino,
la maschera un po’ (ma neanche tanto) e ce la ripropone con qualche variante.
La ben nota storia è quella della famiglia Carretta, padre, madre e due figli,
improvvisamente scomparsa da Parma. E foriera di tante supposizioni. Noi ora
sappiamo quale ne furono le premesse e gli sviluppi. L’autore, prendendo spunto
solo dalla fuga, la usa per tirare qualche freccia contro l’allora nascente
malcostume di corruzioni e denari di dubbia provenienza. Quindi ricalca gli
inizi: in un caldo inizio d’agosto il contabile Rocchetta si allontana da Parma
con moglie ed un figlio sul suo camper, per poi essere raggiunto dal secondo
figlio più tardi. Mesi dopo il camper viene trovato abbandonato a Milano. Il
contabile gestiva i soldi di una società con ricchi appalti, con tanti soldi
puliti e sporchi che giravano intorno. Ed è facile vena dell’autore farci
vedere il faccendiere amico del proprietario che settimanalmente porta i soldi
in Svizzera. I vecchi soci allontanati per questioni di appropriazioni non
chiarite. Il proprietario che sbraita e minaccia, ma che è l’anima nera di
tutte le commesse sporche. Come nella realtà, seguendo piste labili ma
promettenti, Soneri segue le tracce prima a Milano. Poi a Londra (dove nella
realtà poi il giovane Carretta verrà ritrovato anni dopo la fuga e confesserà i
fatti). Ed infine nelle Barbados, paradiso fiscale dove le tracce dei Rocchetta
si arenano e spariscono nel nulla. Varesi qui comincia il suo percorso
diagonale, ipotizzando la fuga con appropriazione della cassaforte della
società, con ricatti più o meno palesi. E con l’idea che Rocchetta, da iniziale
artefice di una grande truffa, sia poi diventato succube dei veri “mafiosi”,
che, potenti, sguazzano nelle paludi del bel mondo caraibico. Su quest’ultima
idea, cala il sipario della prima inchiesta del nostro commissario. Una storia
quindi con poca vera originalità, ricalcata sulla realtà, con qualche grido di
dolore che forse meritava più enfasi. Anche la scrittura ne risente. Un treno a
carbone ai suoi primi passi, che sbuffa, si ingolfa e non trova ancora la sua
giusta andatura. Ci sono salti, passaggi lasciati ai lettori (che con la storia
vera in mente sono capaci di riempire i buchi, ma non ora a quindici anni dalla
prima stesura ed a forse trenta dalla vicenda). Tanto che alla fine mi ha
lasciato un poco insoddisfatto, e vogliosamente in attesa di altre e più
recenti storie. Un punto a favore di Varesi lo voglio spendere per la frase che
sotto riporto presa dalla prefazione che ora, nel ripubblicare il testo, ha
deciso di scrivere e sulla quale mi dichiaro in totale accordo. Ed è uno dei
motivi che continuo a cercare, nelle pieghe dei noir e simili, quella vena di
realtà, a volte con difficoltà uscente da contesti diversi. Con quell’omaggio
da sottoscrivere a Scerbanenco, Sciascia, Gadda, ma anche a Izzo, Malet,
Manchette e Simenon.
“Vicenda dopo vicenda scoprivo come i
delitti (anche quelli di corruzione o ambientali) nascondessero scenari che mi
apparivano come la spia dei cambiamenti sociali e dei conflitti interni del
mondo d’oggi. … L’indagine … poteva (e doveva) essere dilatata al contesto,
svelandone le contraddizioni.” (VI)
Vito Di Bari “Nessuno è come sembra” Mondadori euro 4,90
[A: 06/12/2013– I: 20/03/2014 – T: 23/03/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 258;
anno 2013]
Ecco
un giallo della vecchia scuola Mondadori, non molto convincente né molto
coinvolgente. Ormai siamo adusi al giallo moderno, dove l’autore si inserisce
nei suoi luoghi e, come dice Varesi, utilizza il meccanismo “giallo” anche (e
spesso soprattutto) per narrarci altro. La vecchia scuola Mondadori, quella
tipo “anni Sessanta”, utilizza invece autori italiani quasi a scimmiottare il
giallo americano. Lì, per di più, si usavano pseudonimi risibili, che almeno
ora scompaiono. Abbiamo quindi questo esimio Vito Di Bari che le note ci dicono
vivere a Miami e scrivere per Il Sole 24 ore, e che ci narra un giallo
ambientato nella sua città. Quale? Ovviamente Miami. Ma è lui veramente? Altre
note in rete, ci dicono che lo stesso Di Bari è un designer, inventore del logo
di Expo Milano 2015. A chi credere? E vale la pena cercare meglio? Forse no.
Perché tornando a questo giallo, è in puro stile appunto americano d’annata.
L’unico italiano è un professore di antropologia, Luca, trasferitosi per lavoro
appunto a Miami, ed autore, nella parte finale, dell’unica cosa interessante
del libro. Un compendio di cosa NON si dovrebbe fare quando si naviga per i
social network. Lasciando al finale altre lamentele (anticipando solo che una
riga di Connelly vale una decina di questi libri), veniamo alla pur labile
storia. Che mescola l’odore americano con le conoscenze dell’autore. Si parla,
ed intensamente, di social network (tipo Facebook e fratelli) dove è facile conoscere
qualcuno virtualmente, per poi finire chissà come nella realtà. Il libro gioca
molto su questo tasto, cercando anche di riproporre il senso delle chat su
internet. Ma non è facile, soprattutto quando tenta di farci sentire la
contemporaneità delle chiacchiere virtuali. In quel di Miami, infatti, si
aggira un feroce assassino che sembra scegliere le sue vittime nell’ambito
appunto dei social. Ed è quindi una sequela di presentazione di belle
signorine, farcele conoscere, per poi farle uccidere sotto i nostri occhi.
Dall’altro c’è una congrega di tre o quattro papabili killer: un chirurgo plastico
(che il killer uccide tagliuzzando le vittime come con un bisturi), un ricco
cocainomane nonché commerciante (che a lui piaccion le sbarbine), un giovanotto
palestrato (il più addicted della rete), un general manager di una grande ditta
(molto complessato e con manie di controllare tutto). Sullo sfondo si agita
anche un altro navigatore solitario, che usa computer, iPad, smartphone e tutte
le possibili altre nuove tecnologie per seguire le chat in rete, inventandosi
anche una serie di personalità fittizie. Il buon Luca di cui sopra viene
coinvolto dal capo della polizia (oriundo cubano, naturalmente) nella ricerca
di un profilo del killer. Dopo una serie di morti senza possibilità di
intervento, una vittima si salva (con spray al peperoncino). Ovviamente è
bellissima, ed ovviamente di lei Luca si innamora. E con il di lei aiuto, sembra
far andare i pezzi del rompicapo al loro posto. Capisce il mistero dei tagli
sulle vittime. Ne ricava un piccolo rebus, di soluzione immediata. E restringe
il campo, focalizzandosi sulla prossima, assolutamente certa vittima. Di Bari
tenta, ma senza troppo riuscirci, di mescolare le acque. Fa dire la parola
“falsità” ad uno dei sospettati, e capiamo subito (congiungendo con il titolo)
che quello non sarà il colpevole. Scopriamo anche che il quinto uomo è proprio
un quinto, non uno dei quattro mascherati. E si arriva allo smascheramento del
colpevole, salvando sia Diane che stava per essere uccisa, sia Alice che aiutava
Luca. Un finale miserello, per un giallo in linea con il finale. Senza veri
spessori psicologici, e con qualche ovvietà sull’uso sconsiderato della rete
(ma voglio vedere poi quanti non internauti andranno a fondo tra i “like”, i
“friend” e “unfriend”, i “fake” e compagnia cantante). Un ultimo appunto, come
si diceva sopra: che brutta copertina e che brutto occhiello. Quest’ultimo
recita: “A Miami la morte non ha volto”. Un’ovvietà che non dice nulla né del
libro, né di Miami. E quel tabulatone con la scritta “system failure”? Ne
vogliamo parlare? Nell’era dei PC sempre più avanzati, un dump di sistema è
qualcosa che porta indietro di trenta anni almeno. E in tutto il libro, non c’è
mai, ripeto mai, nessun sistema che si ferma. Veramente negativo. Se avete
tempo, sfogliate il libro, ma potete anche evitare di leggerlo.
Autori Vari “Ferragosto in giallo” Sellerio euro 14 (in realtà,
scontato a 11,90 euro)
[A: 01/07/2013– I: 07/04/2014 – T: 08/04/2014] - &&
[tit. or.: originale (eccetto
quello indicato); ling. or.: italiano (+ spagnolo); pagine: 274; anno 2013]
Libro contradditorio, nato dalla
volontà di dare qualcosa in lettura alla madre solitaria nell’estate dello
scorso anno (insieme ad altri libri, ovviamente). E vittima di una duplice attenzione,
del tipo odio e amore. Perché si sa la mia passione verso gli intrecci gialli
(amore) ed in particolare verso i personaggi di lunghe serie (altro amore). Ma
altrettanto nota è la mia perplessità verso i racconti (odio) ed in particolare
verso quelli noir, che raramente riescono a produrre una degna atmosfera in
poche pagine (altro odio). Qui, in soprammercato, come ben narra nel prologo la
casa editrice, si tratta di un libro a tema, su richiesta della stessa Sellerio.
Alcuni autori della loro scuderia di “gialli” vengono invitati a produrre un
racconto incentrato sul Ferragosto, con protagonista il loro eroe della serie. Ora,
il sentimento generale che ne esce dopo la lettura, è che o si conosce bene il
protagonista, ed allora si segue la micro-avventura dello stesso, magari senza
coinvolgimenti, ma senza neanche essere spaesati. Così ad esempio per
Montalbano, o per Massimo il barrista, o per la Petra spagnola. Quando invece
il protagonista non è ben noto, ad esempio, come è accaduto a me non avendo
letto ancora nulla né del commissario Schiavone, né delle case di ringhiera milanesi,
né, infine, del siciliano Baiamonte, si rimane leggermente sconcertati. Perché
le mini storie a volte hanno solo accenni, pennellate, che complementano il
personaggio principale. Ma se non lo conosciamo, si riamane freddi. Capisco,
d’altronde, lo sforzo di marketing: non lo conosci? Leggilo, magari in
un’avventura completa, e vedrai. Poiché tuttavia, io sono sordo alle lusinghe
del marketing, e leggo e consiglio quello che a me pare e piace, il risultato
finale è una raccolta di tono minore, con qualche punta di piacere, e con
alcune punte di insofferente inutilità. D’altronde, essendo una raccolta
eterogenea, vado a brevemente chiosare i sei racconti. Ma fin da ora
suggerisco: lasciate perdere queste raccolte, e, se ne desiderate il piacere,
leggete i romanzi da cui derivano questi personaggi.
Andrea
Camilleri “Notte di Ferragosto”
Un discreto Montalbano in punta
di penna. Intanto siamo andati ben indietro nel tempo, sino al 1983, come
documenta la citazione (purtroppo sbagliata) del Festival di Sanremo. Che
l’anno prima era stato vinto non da “Felicità” di Al Bano e Romina, come dice
il nostro, ma da “Storie di tutti i giorni” di Riccardo Fogli. E siamo indietro
nel tempo, perché Livia e Salvo sono (seppur litigiosi) ancora saldamente
insieme. Come vuole la richiesta dell’editore quindi siamo a Ferragosto e, durante
le feste spiaggiose, vicino casa Montalbano, si ritrova un morto per overdose.
Piccolo giro di inchiesta, morto non sembra dedito alle droghe (la sorella) o
forse sì (l’amante). Ma quando Salvo mette l’acceleratore e scopre le possibili
contraddizioni di una persona indiziata, l’inchiesta gli viene tolta, che fa
parte di un più grande movimento per l’arresto di una rete in grande stile.
Tutto sommato, meglio delle ultime stanche prove di Montalbano, che,
invecchiando, sembra intorcinarsi su di sé.
Marco
Malvaldi “Azione e reazione”
Mentre si attende un altro
romanzo di più ampio respiro, abbiamo qui di nuovo i nostri beniamini: Massimo,
il BarLume, e gli anziani che intorno gravitano. Tra una discussione e l’altra
sul caldo (ferragosto, ovvio), sulle sigarette elettroniche e sul malcostume
(differenziato) degli stranieri in vacanze versiliesi, si trova il modo di
assistere alla morte appunto di un cafone russo. Qualche battuta di Massimo, un
saluto al commissario Fusco che sta per andarsene, qualche imbarazzante uscita
degli investigatori “Villa Arzilla”, per poi arrivare al nocciolo. Intossicazione
da piombo. Possibili le sigarette elettroniche? Il nostro autore, pur non
avallandole, scrive righe in loro difesa (ma che ci sono gli sponsor?), e
lascia che Massimo risolva brillantemente, seppur senza particolari lampi,
l’indagine estiva. Tendente al basso.
Andrea
Manzini “Le ferie di Agosto”
Qui è tutto un mistero. Ma non la
storia, bensì il protagonista, il commissario Rocco Schiavone, di cui nulla
sapevo prima, e che rimane adombramente misterioso anche qui. Mi sembra di capire
che abbia (abbia avuto) una donna, che o è morta o l’ha lasciato (non si
evince), e mi sembra che Rocco indulga con piacere verso le belle donne. Qui
abbiamo una macchina che sfonda una banca, sembra per una rapina, ferendo due
impiegati, e, soprattutto, un’anziana signora che stava facendo le pratiche per
la chiusura dei conti. Non ci mette molto, il nostro, a collegare la macchina
fintamente rubata ad un ladruncolo, compagno di scuola del direttore di banca,
sicuramente danneggiato dalla chiusura dei suddetti conti. Qualche pennellata
qua e là, e finale al mare, con Rocco, i suoi amici, nonché la moglie del
direttore di banca di cui sopra. Scarsamente coinvolgente.
Francesco
Recami “Ferragosto nella casa di ringhiera”
Qualcosa si è letto di Recami nel
tempo (con quell’intrigante “L’errore di Platini” degli esordi). So che
ultimamente ambienta le sue storie nelle case di ringhiera, ma di queste non ho
ancora letto nulla. Quindi non mi entusiasmo ai personaggi qui descritti (come
se fossero vecchi amici, ma non lo sono). E soprattutto all’anziano Luis, con
la sua BMW roadster, coinvolto in un’affannosa corsa attraverso la Milano
notturna, da un’emula di Elenoire Casalegno. Forse ci sono escort che se la
vedono brutta. La bella, alla fine, regala una notte di passione a Luis, che
gli presta 5.000 euro perché lei possa fuggire. L’unica domanda che ci facciamo
è se la bella ha preso in giro Luis o meno. Per il resto, non c’è nessuna
traccia di tensione. Forse il più inutile.
Gian Luigi
Costa “Lupa di mare”
Anche qui conosciamo un
personaggio nuovo: l’investigatore palermitano Enzo Baiamonte, ex elettrotecnico.
Qui in vacanza relax con la sua bella, lungo le spiagge di Menfi, durante un
invitante convegno slow food e slow wine. Decente la caratterizzazione del
personaggio, della bella, e dell’atmosfera (rarefatta e radical chic) di questi
posti. Si salva un simpatico wine-maker, che tenta di utilizzare il Nero
d’Avola per fare un vino che si accosti all’Amarone della Valpolicella. Non si
capisce perché, questo da fastidio a qualcuno, che cercherà di ammazzarlo con
una bomba residuato bellico. Ed il nostro Enzo riuscirà a collegare i fili, per
svelare l’arcano. E per godere di una bellissima cena con la sua Rosa. Niente
di che, ma Enzo sembra simpatico.
Alicia
Giménez-Bartlett “Vero amore” [tit. or. Verdadero
amor; anno 2013]
Benché la data di scrittura sia
dello scorso anno, qui torniamo alla Petra prima maniera (sembrerebbe quasi
scritto anni fa e dimenticato nel cassetto). Non ci sono le pulsioni amorose
con il compagno, né quelle materne con i di lui figli. Non c’è Garzon sposato
ed imbalsamato. C’è la morte della moglie di un commissario, e le indagini
delicate che ne conseguono. In poche battute, Petra sente suonare dei
campanellini falsi, perché il sospettato sembra proprio innocente, come
sostiene a gran voce il suo aiutante. Che è rimasto scottato da una donna che
lo ha lasciato improvvisamente. Ma se questa fosse… Petra ha delle intuizioni,
che però sarebbero di difficile comprova, visto che la casa del delitto non
reca segni effrattivi, e la pistola del delitto, è all’interno di una teca
all’interno della casa. Ma Petra… Qui non ve lo dico, che qui, in effetti,
anche se in minore, c’è l’unico briciolo di suspense di tutto il libro.
Insomma, ben poco.
Valerio Varesi “Il commissario Soneri e la mano di Dio” Sole 24 ore –
Noir 2 euro 6,90
[A: 03/08/2013– I: 07/07/2014 – T: 09/07/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 249;
anno 2009]
Questo
invece è un Soneri “aggiornato”, cioè il commissario protagonista di una
dozzina di libri, rivisitato sopratutto dopo il passaggio televisivo con Luca
Barbareschi. Varesi ha, libro dopo libro, precisato ed aggiustato il
personaggio. Ed ora gli fa acquistare sempre più le sembianze simpatiche ma
anche un po’ deluse del buon Luca. Il commissario non si trova bene nella
grande Parma (un saluto ai miei amici parmigiani, immediatamente), e cerca
sempre di scappare altrove. Prima era verso la bassa. Ultimamente (in questo
spinto da Luca) più verso l’Appennino. Ed è lì che lo spinge il ritrovamento di
un morto presso il Ponte di Mezzo, che sembra proprio essere sceso a valle
lungo la Parma (il fiume è femminile laggiù). Si toglie subito dal centro
dell’azione, dove imperverseranno magistrati e giornalisti, e dove lascerà di vedetta
il fido Juvara, e cerca tra i monti risposte alle domande. Si trova un pulmino
forse usato per scaricare il morto, si trova il proprietario, un cittadino che
ha deciso con la famiglia di vivere “più naturale”, ma che non riesce a mettere
insieme il pranzo con la cena. Trova posto all’osteria di Egisto, conosce il
guardaboschi Afro ed il parroco Don Pino, mandato tra i monti in punizione
perché un po’ “sinistroso”. E come dirà la sua bella Angela, che presto lo
raggiunge in montagna, quando passeggia per i monti, Soneri ragiona meglio.
Pensa, guarda, collega. In quel buco di posto che i locali vorrebbero
trasformare in stazione sciistica (ma non hanno i soldi), che ruota intorno ad
un’industria di acque minerali, e dove su per i monti ci sono due razze diverse
che si isolano per opposti motivi: extra-comunitari, che poi scendo a valle,
verso il mare, per esercitare i loro mestieri da “vu’ cumprà”, e dei
neo-cristiani che cercano di ritrovare la purezza della fede lontano dal mondo
“corrotto dal denaro”. Oltre a passeggiare, ovviamente, Soneri si dedica alla
buona cucina della moglie di Egisto: anolini in brodo, tagliatelle ai porcini,
cacciagione varia (soprattutto cinghiale) e grana a molliche, innaffiati
possibilmente da una bella Bonarda locale. Ed oltre a mangiare e passeggiare,
si parla, con tutti, anche con chi non vuol parlare come la moglie di
Breviglieri, il proprietario del pulmino. E si parla perché ben presto si
rimane isolati, visto che nevica (siamo in gennaio), e c’è poco altro da fare.
Parlando e chiedendo lumi al fido Juvara quando c’è bisogno di aggiornamenti,
Soneri immagina e ricostruisce. Intanto scopre che il morto è appunto Malpeli,
l’industriale anima della zona. In tutti i sensi, anche in quello delle feste
con escort e droghe (dagli spinelli quasi innocui a fiumi di coca). Quello che
regge le industrie (ma hanno tutte bilanci truccati), che spinge per la pista
da sci (ostacolato dal prete e dai neo-cristiani), e che ha strane connivenze
con qualche nome “da marocchino”. Malpeli ucciso con un forte colpo alla nuca,
tanto forte che rimangono incastrati pezzi d’avorio di provenienza antica.
Collegando telefonate e strani via vai di carri attrezzi per le strade
appenniniche, facendo leva sull’anello debole della catena (il Breviglieri),
Soneri ricostruisce il giro. La coca arriva a La Spezia, viene spedita su per i
monti dalle scassate macchine dei marocchini, che dividono il prodotto 2/3 e
1/3 con Malpeli. Il quale, attraverso la catena distributiva delle acque
minerali, lo ricicla in città. Mentre gli extra, con il loro terzo fanno un po’
di “soldi da tasca”. Coinvolgendo il Breviglieri, utilizzando il suo pulmino
come corriere. Attriti vengono fuori (tanto che più che attriti sembrano
guerre) quando da un lato i marocchini vogliono allargare la loro parte a
scapito di Malpeli, e quando Malpeli, violando un patto che aveva fatto con Don
Pino, spinge per la pista da sci, nonostante appunto che il sanguigno prete
avesse chiuso entrambi gli occhi all’uso del cimitero come secondo deposito
della droga. La soluzione, scontata fin dal titolo, si avrà scoprendo che
l’avorio viene da un antico crocifisso scomparso (o rubato) dalla Chiesa parrocchiale.
Questa la storia, al solito poco gialla, e molto pretesto per dare colpi a
destra e manca. Parma città corrotta dai politici (e poco dopo andrà in mano ai
grillini, non a caso). Marocchini che
maneggiano falsi e droghe. Inno alla sana vita di montagna. Insomma, i soliti cliché
di Varesi, spesso appunto troppo centrato nelle sue lamentali (centrato nel
senso che dà colpi a tutti i colori politici degli schieramenti italiani). A me
continua a dare piacere nella riscoperta di luoghi desueti e di mangiari
locali. Per il resto, non molto altro. Peccato, poteva essere meglio. Ma va
bene anche così, aspettando partenze che non arrivano.
“I ricordi sono traditori … ci fanno
desiderare cose che non esistono più.” (57)
“Chi è che non è [fallito] alla fine? …
Resta sempre per tutti uno scarto tra ciò che volevamo e ciò che abbiamo.”
(142)
Tornato
con grande piacere dal lungo (ma poi non tanto) giro normanno-bretone, salutato
con piacere l’amico Vito che unisco a queste trame, essendo (anche se siamo
quasi a fine mese) la seconda trama di Agosto, vi prendete anche un’appendice
dei libri “da cura”, dedicato all’astinenza. E ci sarebbe da dirne, sull’astinenza,
ma di avventure, che ormai da troppi mesi latita. Speriamo in un recupero
autunnale.CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
Questo mese cambiamo soggetto, e
ci dedichiamo ad una malattia “seria”, un bisogno di liberarsi da qualcosa, un
bisogno quindi di essere catturati. E come suggeriscono spesso le nostre
“dottoresse” un elenco di libri sarà utile allo scopo.
ASTINENZA, CRISI DI
Per combattere il dolore fisico e spirituale
che vi accompagnerà se vorrete liberarvi da soli di una dipendenza avrete
bisogno di libri che vi catturino, e vi costringano a interrogare a fondo la
vostra anima segnata dalle intemperie. Si consiglia una full immersion, e allo
stesso modo si invita a considerare la possibilità di una somministrazione
sonora. Questi libri non avranno paura nemmeno di tenervi la testa mentre
vomitate.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SUPERARE UNA CRISI DI ASTINENZA
Louis-Ferdinand Céline Viaggio al termine della notte
Howard
Cruse Figlio di un
preservativo bucato
E. L.
Doctorow Ragtime
John
Fante Chiedi alla
polvere
Ivan
Gončarov Oblomov
Cormac
McCarthy Meridiano di sangue
José
Saramago Memoriale del
convento
Jean-Paul Sartre La nausea
Roberto Saviano Gomorra
Leonardo Sciascia Il Consiglio d'Egitto
Bugiardino
Certo non ci si meraviglia troppo pensando
che il mio bisogno di essere “catturato” viene da lontano, e che quindi abbia,
in vario modo, toccato ben 8 dei sopra citati dieci libri. Ed anche il mio
ricordo della loro lettura è ben vario. Va dalla dimenticanza di lettura più
che ventennali di Sciascia e Gončarov, al ricordo di un’isola e di una lettura
(forse la sola che mi rimase allora impressa, prima di qualche recente recupero)
di Saramago. Inoltre, c’è un libro che mi preme citare perché rappresenta un
“caso” nelle mie sterminate letture: Céline ed il suo viaggio è uno dei pochi
libri che ho “abbandonato” prima di terminarlo. Cerco sempre di seguire i
precetti di Pennac al riguardo, del diritto di lasciare i libri senza finirli,
anche se la mia capacità di sopportazione è generalmente più ampia della norma.
Comunque, ne rimangono ben quattro di cui ho parlato nelle trame, e ve li cito
in ordine di lettura.
Cormac McCarthy “Meridiano di sangue”
Einaudi euro 11,50
[trama del 17 dicembre 2008]
È
il secondo che leggo, ma devo dire ancora non so fino a che punto mi piace. Da
una parte passa da una prosa all’altra come nei due esempi che riporto (a parte
di capire il primo cui la metà delle parole mi sfuggono, come ‘ipomea’ o
‘calderugia’). Dall’altra, proprio questo contrasto disegna un’epopea di mondi
lontani (il West selvaggio americano del 1850) che forse solo così si può
rendere.
“Passarono attraverso un prato montano col suo tappeto di fiori di
campo, acri di calderugia dorata e di zinnia e di genziana viola e viticci
ritorti di ipomea blu, e una vasta pianura colma di piccoli fiori variegati che
si protendeva come percalle stampata verso i lontani bordi dentellati del prato
coperti da una foschia azzurra e le catene adamantine che sorgevano dal nulla
come dorsi di mostri marini in un’alba devoniana.”
“La donna alzò la testa e lo guardò… Glanton indicò qualcosa con la
sinistra e lei si voltò seguendo la mano e allora lui le appoggiò la pistola
alla testa e sparò. … Un buco grande quanto un pugno si spalancò sull’altro
lato della testa della donna vomitando un grande schizzo rosso, e lei crollò in
avanti e giacque nel proprio sangue, irrimediabilmente morta.”
Siamo al confine tra Stati Uniti
e Messico nel 1850, una banda di cacciatori di scalpi lascia dietro di sé una
scia di sangue, sullo sfondo di una natura grandiosa e impassibile. Li comanda
il corpulento giudice Holden: un predicatore e filosofo dei deserti che
trascina con sé una corte di spostati, mezzosangue e reietti armati fino ai
denti, in una spirale di ferocia e morte. Con loro c'è anche un ragazzo
quattordicenne: sarà quella la sua iniziazione alle spietate leggi del West,
tra agguati, lunghe marce, bivacchi desolati, notti di bagordi. È il mistero
del Male e della violenza la grande ossessione di McCarthy, che fa lievitare le
sue storie d'orrore ad altezze epiche. Tuttavia mi manca qualcosa. Alla fine,
sembra che voglia fare “il prezioso” senza portare a termine le cose iniziate.
O facendo finta, beh, ora andate avanti voi. Quei due muoiono o sono gay? Ed il
ragazzo, carico d’anni e di sventura, dove finirà? Bacerà anche lui la sua
petrosa Itaca? Non sono di quelli che vogliono tutto spiegato, ma tutto in
ombra a far finta di “quanto sono intelligente”, a volta mi stufa. Si parla di
Faulkner, ma dopo averne letto un racconto credo che ci sia della distanza da
colmare.
Roberto Saviano “Gomorra” Mondadori euro 10
[trama
dell’8 dicembre 2010]
Parafrasando
un suo passo, alla fine di questa
emozionante lettura, mi viene da dire “Io so. Ma non ho le prove”. A
quasi 4 anni dalla sua uscita, ho aspettato di poterlo leggere senza l’urgenza
mediatica e con la sua uscita in economica scontata. E nel frattempo, non ho
neanche visto il film. Ebbene, se ne esce sconvolti. Perché sono fatti alla luce
di tutti, eppure lì nero su bianco, e messi tutti insieme raggiungo una forza
dirompente. Dove purtroppo non si sa cosa fare. Lo sappiamo, quello che succede
in Italia. Lo vediamo tutti i giorni, nei tribunali, negli uffici pubblici (un
giorno vi narrerò le vicende dell’INPS di Piazza Augusto Imperatore), nelle
televisioni, nei giornali. Ma pochi hanno il coraggio della maestra di
Mondragone, che non abbassa la testa, che vede gli assassini, che li denuncia.
Lei, una rosa nel deserto. E come quelle rose, dopo la denuncia, rimane nel
deserto, abbandonata dal fidanzato, dagli amici, dalla città. Da incorniciare,
e far discutere in tutte le scuole e gli oratori, le pagine così dolenti e
grondanti di pianto e rabbia, dove si narra la storia del martire Don Peppino
Diana! Le storie che ci racconta Saviano, ormai in questi 4 anni sono diventate
oggetto di discussione, e non hanno il sapore della novità. Sappiamo tanto
anche del sarto di Arcella, dell’AK-47 di Massimo, delle morti assurde a 15
anni. Ma non è questo che mi ha colpito. Un pugno lo dà l’intrecciarsi di tanti
fili, che non si riesce a sbrogliare. Lo dà la rabbia. Ed uno, definitivo, lo
dà l’arroganza del potere. Come togliersi dalla testa le ultime pagine sulle
discariche napoletane e sulla demagogia che poco dopo ne tira fuori il Silvio
Imperator! Come togliersi dalla testa (Io so, non ho le prove) che ci sia stata
anche una lotta tra mafia (che appoggia la politica) e camorra (che appoggia
l’economia)? E come qualcuno abbia preso a cuore gli interessi di… E qui lascio
puntini perché, non ho le prove. Ho messo tutte le stelle possibili per dare il
mio parere su questo libro. Per il coraggio ed i contenuti. Meno per la
scrittura, dove dal punto di vista “solamente letterario”, a volte si incarta
un po’. Certo un peccato veniale, che gli perdono facilmente, cercando di
salire con lui sulla sua vespa con il naso all’aria e l’occhio vigile, per
vedere quello che succede a Casal di Principe, a Mondragone, a Villa Literno,
fino ai posti a me comunque cari del litorale domiziano (dove ho visto con i
miei occhi le ville bunker ed altre oscenità). Un libro da leggere e rileggere
per trovare il modo di fare. Ottime le cinquanta pagine finali, dove vengono
riportate recensioni del libro apparse in varie parti del mondo. Così
apprezziamo anche la diversa ottica con cui si guarda a questa scrittura, da
quella appassionata e partecipe di francesi, tedeschi e nord-europei a quella
straniante dell’America, il cui cruccio maggiore è non sapere se etichettare il
libro come “fiction” o “non-fiction”. Quanto è importante per gli anglo-sassoni
mettere etichette. Soprattutto ad un libro che è tutto il contrario di qualcosa
etichettabile. Che denuncia, usando i toni del romanzo e la scrittura di un
saggio. Peccato manchino i commenti italiani, in particolare di quei giornali
che sostengono il libro aver dato un’immagine distorta del nostro bel paese. Ma
gli editori di quei giornali sono anche editori del libro… Mi verrebbe allora
da dire, boicottiamo gli interessi perversi che intrecciano capitali leciti ed
illeciti. Smettiamo di guardare la televisione. Smettiamo di comprare libri
Einaudi e Mondadori. Smettiamo di fare la spesa nei super-market
“chiacchierati”. Chissà fino a dove dovremmo continuare a smettere. Avremo la
forza di farlo? Non lo so, poi penso alla maestra e mi dico: c’è ancora qualcuno
con la coscienza civile di tirare fuori qualcosa. Di non mettere la testa sotto
la sabbia. Speriamo, speriamo, speriamo.
“Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la
scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere
questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere”
(323)
Jean - Paul Sartre “La nausea” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama
del 10 agosto 2011]
Non mi è piaciuto tantissimo. E
non perché non abbia contenuti, idee (tant’è che ho un ricco carniere di
citazioni). Ma credo sia il modo di esprimerle, e di esprimersi del
protagonista che mi lasciano distante. Il filo della trama è esile, quasi
inesistente. Un trentenne borghese che dispone di una rendita, dopo aver
girovagato per il mondo, si è rinchiuso in una città di provincia per scrivere
un libro storico su di un oscuro personaggio francese vissuto alla corte dello
Zar di Russia. Ma la sua vita è vuota (e secondo me, lui è un poco snob), si
interroga sulla sua esistenza (non è un caso che Sartre scriva questo romanzo
dopo la laurea in Filosofia, ed il libro è pieno, anche se io non posso esserne
un esegeta data la mia ignoranza, di Heidegger e Husserl), la trova vuota, non
riesce ad interagire con gli altri (né con il socialista Autodidatta che cerca
di farsi una cultura in Biblioteca, e che Sartre tartassa come personaggio,
quasi voglia tartassare tutti i socialisti meschineggiandoli, né con la sua
ex-fiamma Anny, che pur rivede, ma che ancora e ancora non riesce a capire). E
tutto questo vuoto di esistenza, viene riempito di tanto in tanto dalla Nausea,
da questo sentimento di non farcela più, tanto che a volte sembra che si voglia
(giustamente) suicidare. Sconfitto, non potrà che abbandonare il libro, tornare
a Parigi, e, forse, trovare un modo di giustificare l’esistenza: un’opera di
ingegno, magari un libro, un disco, un refrain di jazz, una pennellata. Ma non
mi piace il modo in cui Sartre inanella pagina dopo pagina questa non
esistenza, questo libro che diventerà poi bandiera e simbolo
dell’esistenzialismo, quel modo di essere parigino del dopo guerra, quello si
di Sartre e della De Beauvoir, ma anche di Juliette Gréco, di Boris Vian, per
parte di Albert Camus. Ecco, io sono più dalla parte di Boris Vian, dalla parte
scanzonata, ma ridicolmente seria, quello che scriveva di fantascienza,
produceva canzoni immortali come “Le dèserteur”, e prendeva in giro Sartre
facendolo entrare nei suoi libri con il nome di Jean-Sol Partre. È vero, qui
siamo ancora nel ’38, è da poco finita l’esperienza del Fronte Popolare del
’36, c’è stata la Guerra di Spagna. Tuttavia, non mi prende, non mi emoziona,
non mi convince che la vita sia inutile. Forse è inutile a chi si siede ad un
bar e non riesce a parlare a nessuno. Forse Roquentin è l’esempio negativo di
cosa NON si dovrebbe fare. Forse, per combattere la Nausea bisogna fare la
Rivoluzione (e tutto con le maiuscole). Forse, ma non lo riesco a vedere così,
mi viene voglia ad ogni pagina di dire: prova, fa qualcosa, parla, agisci. Ma
come, hai girato mezzo mondo solo per enumerare i posti dove sei stato, e non
ne hai capito un cavolo. Non c’è bisogno di avventure per vivere. C’è bisogna
della vita, per andare avanti, per arrivare lì dove sarà Garcia Marquez quando
scriverà la sua autobiografia (“Vivere per raccontarla”). Quindi, già un po’ mi
stava antipatico Sartre, e questo libro non lo tira su di molto. Un ultimo
punto anche sulla traduzione. Ora, si può tradurre una frase “Defense de fumer,
même une gitane”, con “Proibito fumare, perfino una gitana” e scrivere in nota
“Marca di sigaretta francese”! Ma o si da per scontato che si conosca la
Francia ed il fumo, e tutti (TUTTI anche i non fumatori) sanno cosa sia “una
gitane”, oppure si decide che bisogna spiegare tutto, ma non si può scrivere
“gitana”. Niente da fare, i traduttori tradiscono (quasi) sempre. Andiamo ad
fumarci un cammello (pardon, una camel…).
“Quando uno vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare.” (16)
“Se mai dovessi fare un viaggio credo che prima di partire noterei per
iscritto i più piccoli tratti del mio carattere per poter poi fare un paragone,
al ritorno, tra quello che ero e quello che son diventato.” (48)
“Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e
sufficiente che ci si metta a raccontarlo. … Un uomo è sempre un narratore di
storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello
che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come
se la raccontasse.” (54)
“Ed io dove potrei conservare il mio [passato]? Non ci si può mettere
il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo.” (85)
“Se soltanto potessi smettere di pensare andrebbe già meglio. … Il mio
pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso … e non
posso impedirmi di pensare.” (126)
“Ho voglia di andarmene, d’andarmene in qualche posto dove sia
veramente al mio posto … Ma il mio posto non è in nessun luogo; io sono di
troppo.” (153)
“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere
un’energia, una generosità, un accecamento … C’è perfino un momento, al
principio, in cui bisogna saltare un precipizio; se si riflette non lo si fa.”
(180)
“Allora, è possibile giustificare la propria esistenza?” (220)
John Fante “Chiedi alla polvere” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 10 giugno 2012]
Che dire? Mi era rimasta impressa
la faccia di Selma Hayek che faceva Camilla sullo schermo ed ho impiegato del
tempo per decidermi a leggere il libro di Fante. Il film (a parte Selma) l’ho
già dimenticato. Il libro è più difficile. Da dimenticare e da mandar giù.
Perché Fante – Bandini riesce a farmi esaltare ed arrabbiare ogni poche pagine.
Ma sicuramente ti prende, ti senti lì in California con lui. Ed è un vero
reportage su un certo mondo che vive a Los Angeles, di emarginati, di gente in
cerca di qualcosa, che vive di briciole. Oltretutto sentito fino in fondo, che
quello è ancora il mondo del figlio di immigrati italiani, fuggito dal Colorado
per cercare fortuna nel West, armato solo di una smisurata fiducia nella sua
capacità di scrivere. Fante si sta avvicinando ai trenta anni, e si arrabatta
con lavori occasionali e racconti pubblicati sporadicamente. Ma questo suo
vivere al margine gli da materia per rivestire le sue esperienze, scrivere il
romanzo, ed avere una parte di quella fortuna che pensa di meritarsi. Qui,
Fante si cala di nuovo nel suo alter-ego Bandini, e narra un po’ sé stesso dal
vivo ed un po’ romanzato. Con quell’albergo scalcinato dove puoi entrare dalla
finestra senza farti vedere dalla padrona cui deve settimane di affitto. Con
quel bar, il California Buffet, dove per 5 cent ti metti a sorbire un pessimo
caffè. Con la fauna che popola l’albergo (l’ubriacone, le donne in fuga con
figlia al seguito, le matrone in decadenza), con il droghiere cinese che ti
passa di straforo delle arance con cui sopravvivi. E con quell’ego ipertrofico
che gli fa annunciare ogni due parole: quanto sono bravo a scrivere, quanto
sono geniale, quanta gloria avrò tra poco. In questo mondo ai margini, Bandini
fa due incontri, con due donne ben diverse: Vera, assillata da problemi fisici,
benché nascosti, e Camilla, la splendida messicana, irrequieta e spontanea. C’è
una specie di triangolo aperto sotterraneo, che Vera si prende di Bandini che si
prende di Camilla che si prende … della marijuana. E Bandini trasfigurando il
suo rapporto con Vera scrive il romanzo che gli porterà il benessere (e che
aprirà a Fante le porte di Hollywood dove farà, seppur scontento, per decenni
lo sceneggiatore). Ma non riesce a star lontano da Camilla, la cui verve gli dà
vita e pensieri e voglia di fare. Tuttavia il rapporto non decolla, che la
prima volta che cercano di andare più in là, Bandini fa cilecca. E qui esce
fuori tutta la cattiveria e la rabbia, da americano e da italiano. Da lì, ogni
momento sarà buono per tormentare Camilla, per ripagarla con falsa moneta,
perché non si può ammettere di aver fallito. Camilla però da spirito libero,
non entra in questo gioco di Bandini, ed esce dalla porta più scomoda. Perché è
scontenta della vita, perché non riesce a sopportare la mediocrità in cui vive
dopo essere fuggita dalla povertà messicana. E fugge. Prima nella droga, e poi
verso il deserto, nella polvere. Bandini ogni tanto rinsavisce, cerca di
riavvicinarsi. Ma il solco iniziale è stato troppo violento, e non sarà possibile.
C’è altro nel libro, c’è atmosfera, c’è tratteggio di situazioni interiori
(quel rapporto ossessivo da immigrato italiano verso la religione intesa come
valvola di sfogo quando le cose vanno male), ci sono cammei. Tutto in un libro
che ha più di settanta anni, ma che (a parte il dollaro che aveva tutti altri
valori) si legge con un’attualità sorprendente. Quello che mi respingeva ogni
tanto (seppur scritto bene) è questa incapacità di Bandini non dico di fare un
passo giusto, ma di ragionare in modo incoerente e di agire di conseguenza.
C…o, ma fermati un attimo, pensa! Certo, l’autore si colloca ventenne e quindi
irruento e quindi in formazione. Ma tutte quelle azioni sballate (poesie
copiate male, telegrammi stupidi, parole fatte uscire dalla bocca senza aver
connesso il cervello) mi facevano sentir male leggendole e mi facevano urtare
verso Fante che le scriveva. Direte, ma questo è il mestiere dello scrittore.
D’accordo, ma io sono un lettore umorale, e se i personaggi si comportano male
in modo che non mi piace, mi storco. Però un bel libro, che avrebbe a suo tempo
meritato maggior fortuna, visto che poi solo negli anni settanta fu ristampato
e rivalutato. Hai dovuto aspettare molti inverni, Fante, altro che primavera!
(Inciso finale, che non può mai mancare, sempre grazie a Luana che anni fa mi fece
leggere il mio primo Fante).
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