domenica 24 agosto 2014

Agosto in giallo - 24 agosto 2014

Parafrasando uno dei titoli sotto riportati, per un’estate di relax e distensione, eccoci a quattro titoli italiani in giallo. Apriamo e chiudiamo con due titoli di Valerio Varesi ed il suo commissario Soneri (e meglio il secondo, che almeno si tinge della faccia televisiva di Barbareschi, che lo vivacizza un po’). Passiamo di corsa attraverso un (praticamente) inutile Vito Di Bari, per cadere in quel Ferragosto che mi ha suggerito il titolo, e che ritengo (come scritto) un’ulteriore prova della poca intelligenza letteraria di alcuni curatori. Intano, e per davvero, rilassiamoci tutti.
Valerio Varesi “Ultime notizie di una fuga” Frassinelli euro 12,50 (in realtà, scontato a 10,63 euro)
[A: 16/02/2014– I: 18/03/2014 – T: 20/03/2014] - &&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 157; anno 1998]
Ma sono 3 libricini di gradimento più per la stima dell’autore che per il libro in sé. Che, ripubblicato da Frassinelli dopo essere stato edito dalla Moby Dick circa quindici anni fa, recupero un buco: la prima inchiesta del commissario Soneri. Ed un po’ come la prima inchiesta di Pepe Carvalho, è intrinsecamente diverso ed uguale al personaggio seriale che poi conosceremo (ed apprezzeremo, anche se non, visto che non ce l’ho, nelle apparizioni televisive di Luca Barbareschi). Perché se da un lato il commissario ha quei tratti che lo renderanno “tipico”: mezzo toscano spesso acceso, piacere della buona tavola (e vai con i pranzi e le cene dal Milord) e del buon bere (qui spesso si scola del bianco Chablis, con qualche whiskey torbato e qualche grappa a latere). Dall’altro non ha la posizione sui luoghi che ne faranno appunto “un tipo”. Non c’è il sentore della bassa, né il Po e la sua vita. Sì, c’è Parma, ma tutta città e poco altro. Non c’è (ancora) la sua bella. Nulla sappiamo del suo passato. E c’è una storia senza delitti. Varesi prende spunto da una ferita aperta nel tessuto cittadino, la maschera un po’ (ma neanche tanto) e ce la ripropone con qualche variante. La ben nota storia è quella della famiglia Carretta, padre, madre e due figli, improvvisamente scomparsa da Parma. E foriera di tante supposizioni. Noi ora sappiamo quale ne furono le premesse e gli sviluppi. L’autore, prendendo spunto solo dalla fuga, la usa per tirare qualche freccia contro l’allora nascente malcostume di corruzioni e denari di dubbia provenienza. Quindi ricalca gli inizi: in un caldo inizio d’agosto il contabile Rocchetta si allontana da Parma con moglie ed un figlio sul suo camper, per poi essere raggiunto dal secondo figlio più tardi. Mesi dopo il camper viene trovato abbandonato a Milano. Il contabile gestiva i soldi di una società con ricchi appalti, con tanti soldi puliti e sporchi che giravano intorno. Ed è facile vena dell’autore farci vedere il faccendiere amico del proprietario che settimanalmente porta i soldi in Svizzera. I vecchi soci allontanati per questioni di appropriazioni non chiarite. Il proprietario che sbraita e minaccia, ma che è l’anima nera di tutte le commesse sporche. Come nella realtà, seguendo piste labili ma promettenti, Soneri segue le tracce prima a Milano. Poi a Londra (dove nella realtà poi il giovane Carretta verrà ritrovato anni dopo la fuga e confesserà i fatti). Ed infine nelle Barbados, paradiso fiscale dove le tracce dei Rocchetta si arenano e spariscono nel nulla. Varesi qui comincia il suo percorso diagonale, ipotizzando la fuga con appropriazione della cassaforte della società, con ricatti più o meno palesi. E con l’idea che Rocchetta, da iniziale artefice di una grande truffa, sia poi diventato succube dei veri “mafiosi”, che, potenti, sguazzano nelle paludi del bel mondo caraibico. Su quest’ultima idea, cala il sipario della prima inchiesta del nostro commissario. Una storia quindi con poca vera originalità, ricalcata sulla realtà, con qualche grido di dolore che forse meritava più enfasi. Anche la scrittura ne risente. Un treno a carbone ai suoi primi passi, che sbuffa, si ingolfa e non trova ancora la sua giusta andatura. Ci sono salti, passaggi lasciati ai lettori (che con la storia vera in mente sono capaci di riempire i buchi, ma non ora a quindici anni dalla prima stesura ed a forse trenta dalla vicenda). Tanto che alla fine mi ha lasciato un poco insoddisfatto, e vogliosamente in attesa di altre e più recenti storie. Un punto a favore di Varesi lo voglio spendere per la frase che sotto riporto presa dalla prefazione che ora, nel ripubblicare il testo, ha deciso di scrivere e sulla quale mi dichiaro in totale accordo. Ed è uno dei motivi che continuo a cercare, nelle pieghe dei noir e simili, quella vena di realtà, a volte con difficoltà uscente da contesti diversi. Con quell’omaggio da sottoscrivere a Scerbanenco, Sciascia, Gadda, ma anche a Izzo, Malet, Manchette e Simenon.
“Vicenda dopo vicenda scoprivo come i delitti (anche quelli di corruzione o ambientali) nascondessero scenari che mi apparivano come la spia dei cambiamenti sociali e dei conflitti interni del mondo d’oggi. … L’indagine … poteva (e doveva) essere dilatata al contesto, svelandone le contraddizioni.” (VI)
Vito Di Bari “Nessuno è come sembra” Mondadori euro 4,90
[A: 06/12/2013– I: 20/03/2014 – T: 23/03/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 258; anno 2013]
Ecco un giallo della vecchia scuola Mondadori, non molto convincente né molto coinvolgente. Ormai siamo adusi al giallo moderno, dove l’autore si inserisce nei suoi luoghi e, come dice Varesi, utilizza il meccanismo “giallo” anche (e spesso soprattutto) per narrarci altro. La vecchia scuola Mondadori, quella tipo “anni Sessanta”, utilizza invece autori italiani quasi a scimmiottare il giallo americano. Lì, per di più, si usavano pseudonimi risibili, che almeno ora scompaiono. Abbiamo quindi questo esimio Vito Di Bari che le note ci dicono vivere a Miami e scrivere per Il Sole 24 ore, e che ci narra un giallo ambientato nella sua città. Quale? Ovviamente Miami. Ma è lui veramente? Altre note in rete, ci dicono che lo stesso Di Bari è un designer, inventore del logo di Expo Milano 2015. A chi credere? E vale la pena cercare meglio? Forse no. Perché tornando a questo giallo, è in puro stile appunto americano d’annata. L’unico italiano è un professore di antropologia, Luca, trasferitosi per lavoro appunto a Miami, ed autore, nella parte finale, dell’unica cosa interessante del libro. Un compendio di cosa NON si dovrebbe fare quando si naviga per i social network. Lasciando al finale altre lamentele (anticipando solo che una riga di Connelly vale una decina di questi libri), veniamo alla pur labile storia. Che mescola l’odore americano con le conoscenze dell’autore. Si parla, ed intensamente, di social network (tipo Facebook e fratelli) dove è facile conoscere qualcuno virtualmente, per poi finire chissà come nella realtà. Il libro gioca molto su questo tasto, cercando anche di riproporre il senso delle chat su internet. Ma non è facile, soprattutto quando tenta di farci sentire la contemporaneità delle chiacchiere virtuali. In quel di Miami, infatti, si aggira un feroce assassino che sembra scegliere le sue vittime nell’ambito appunto dei social. Ed è quindi una sequela di presentazione di belle signorine, farcele conoscere, per poi farle uccidere sotto i nostri occhi. Dall’altro c’è una congrega di tre o quattro papabili killer: un chirurgo plastico (che il killer uccide tagliuzzando le vittime come con un bisturi), un ricco cocainomane nonché commerciante (che a lui piaccion le sbarbine), un giovanotto palestrato (il più addicted della rete), un general manager di una grande ditta (molto complessato e con manie di controllare tutto). Sullo sfondo si agita anche un altro navigatore solitario, che usa computer, iPad, smartphone e tutte le possibili altre nuove tecnologie per seguire le chat in rete, inventandosi anche una serie di personalità fittizie. Il buon Luca di cui sopra viene coinvolto dal capo della polizia (oriundo cubano, naturalmente) nella ricerca di un profilo del killer. Dopo una serie di morti senza possibilità di intervento, una vittima si salva (con spray al peperoncino). Ovviamente è bellissima, ed ovviamente di lei Luca si innamora. E con il di lei aiuto, sembra far andare i pezzi del rompicapo al loro posto. Capisce il mistero dei tagli sulle vittime. Ne ricava un piccolo rebus, di soluzione immediata. E restringe il campo, focalizzandosi sulla prossima, assolutamente certa vittima. Di Bari tenta, ma senza troppo riuscirci, di mescolare le acque. Fa dire la parola “falsità” ad uno dei sospettati, e capiamo subito (congiungendo con il titolo) che quello non sarà il colpevole. Scopriamo anche che il quinto uomo è proprio un quinto, non uno dei quattro mascherati. E si arriva allo smascheramento del colpevole, salvando sia Diane che stava per essere uccisa, sia Alice che aiutava Luca. Un finale miserello, per un giallo in linea con il finale. Senza veri spessori psicologici, e con qualche ovvietà sull’uso sconsiderato della rete (ma voglio vedere poi quanti non internauti andranno a fondo tra i “like”, i “friend” e “unfriend”, i “fake” e compagnia cantante). Un ultimo appunto, come si diceva sopra: che brutta copertina e che brutto occhiello. Quest’ultimo recita: “A Miami la morte non ha volto”. Un’ovvietà che non dice nulla né del libro, né di Miami. E quel tabulatone con la scritta “system failure”? Ne vogliamo parlare? Nell’era dei PC sempre più avanzati, un dump di sistema è qualcosa che porta indietro di trenta anni almeno. E in tutto il libro, non c’è mai, ripeto mai, nessun sistema che si ferma. Veramente negativo. Se avete tempo, sfogliate il libro, ma potete anche evitare di leggerlo.
Autori Vari “Ferragosto in giallo” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 01/07/2013– I: 07/04/2014 – T: 08/04/2014] - &&
[tit. or.: originale (eccetto quello indicato); ling. or.: italiano (+ spagnolo); pagine: 274; anno 2013]
Libro contradditorio, nato dalla volontà di dare qualcosa in lettura alla madre solitaria nell’estate dello scorso anno (insieme ad altri libri, ovviamente). E vittima di una duplice attenzione, del tipo odio e amore. Perché si sa la mia passione verso gli intrecci gialli (amore) ed in particolare verso i personaggi di lunghe serie (altro amore). Ma altrettanto nota è la mia perplessità verso i racconti (odio) ed in particolare verso quelli noir, che raramente riescono a produrre una degna atmosfera in poche pagine (altro odio). Qui, in soprammercato, come ben narra nel prologo la casa editrice, si tratta di un libro a tema, su richiesta della stessa Sellerio. Alcuni autori della loro scuderia di “gialli” vengono invitati a produrre un racconto incentrato sul Ferragosto, con protagonista il loro eroe della serie. Ora, il sentimento generale che ne esce dopo la lettura, è che o si conosce bene il protagonista, ed allora si segue la micro-avventura dello stesso, magari senza coinvolgimenti, ma senza neanche essere spaesati. Così ad esempio per Montalbano, o per Massimo il barrista, o per la Petra spagnola. Quando invece il protagonista non è ben noto, ad esempio, come è accaduto a me non avendo letto ancora nulla né del commissario Schiavone, né delle case di ringhiera milanesi, né, infine, del siciliano Baiamonte, si rimane leggermente sconcertati. Perché le mini storie a volte hanno solo accenni, pennellate, che complementano il personaggio principale. Ma se non lo conosciamo, si riamane freddi. Capisco, d’altronde, lo sforzo di marketing: non lo conosci? Leggilo, magari in un’avventura completa, e vedrai. Poiché tuttavia, io sono sordo alle lusinghe del marketing, e leggo e consiglio quello che a me pare e piace, il risultato finale è una raccolta di tono minore, con qualche punta di piacere, e con alcune punte di insofferente inutilità. D’altronde, essendo una raccolta eterogenea, vado a brevemente chiosare i sei racconti. Ma fin da ora suggerisco: lasciate perdere queste raccolte, e, se ne desiderate il piacere, leggete i romanzi da cui derivano questi personaggi.
Andrea Camilleri “Notte di Ferragosto”
Un discreto Montalbano in punta di penna. Intanto siamo andati ben indietro nel tempo, sino al 1983, come documenta la citazione (purtroppo sbagliata) del Festival di Sanremo. Che l’anno prima era stato vinto non da “Felicità” di Al Bano e Romina, come dice il nostro, ma da “Storie di tutti i giorni” di Riccardo Fogli. E siamo indietro nel tempo, perché Livia e Salvo sono (seppur litigiosi) ancora saldamente insieme. Come vuole la richiesta dell’editore quindi siamo a Ferragosto e, durante le feste spiaggiose, vicino casa Montalbano, si ritrova un morto per overdose. Piccolo giro di inchiesta, morto non sembra dedito alle droghe (la sorella) o forse sì (l’amante). Ma quando Salvo mette l’acceleratore e scopre le possibili contraddizioni di una persona indiziata, l’inchiesta gli viene tolta, che fa parte di un più grande movimento per l’arresto di una rete in grande stile. Tutto sommato, meglio delle ultime stanche prove di Montalbano, che, invecchiando, sembra intorcinarsi su di sé.
Marco Malvaldi “Azione e reazione”
Mentre si attende un altro romanzo di più ampio respiro, abbiamo qui di nuovo i nostri beniamini: Massimo, il BarLume, e gli anziani che intorno gravitano. Tra una discussione e l’altra sul caldo (ferragosto, ovvio), sulle sigarette elettroniche e sul malcostume (differenziato) degli stranieri in vacanze versiliesi, si trova il modo di assistere alla morte appunto di un cafone russo. Qualche battuta di Massimo, un saluto al commissario Fusco che sta per andarsene, qualche imbarazzante uscita degli investigatori “Villa Arzilla”, per poi arrivare al nocciolo. Intossicazione da piombo. Possibili le sigarette elettroniche? Il nostro autore, pur non avallandole, scrive righe in loro difesa (ma che ci sono gli sponsor?), e lascia che Massimo risolva brillantemente, seppur senza particolari lampi, l’indagine estiva. Tendente al basso.
Andrea Manzini “Le ferie di Agosto”
Qui è tutto un mistero. Ma non la storia, bensì il protagonista, il commissario Rocco Schiavone, di cui nulla sapevo prima, e che rimane adombramente misterioso anche qui. Mi sembra di capire che abbia (abbia avuto) una donna, che o è morta o l’ha lasciato (non si evince), e mi sembra che Rocco indulga con piacere verso le belle donne. Qui abbiamo una macchina che sfonda una banca, sembra per una rapina, ferendo due impiegati, e, soprattutto, un’anziana signora che stava facendo le pratiche per la chiusura dei conti. Non ci mette molto, il nostro, a collegare la macchina fintamente rubata ad un ladruncolo, compagno di scuola del direttore di banca, sicuramente danneggiato dalla chiusura dei suddetti conti. Qualche pennellata qua e là, e finale al mare, con Rocco, i suoi amici, nonché la moglie del direttore di banca di cui sopra. Scarsamente coinvolgente.
Francesco Recami “Ferragosto nella casa di ringhiera”
Qualcosa si è letto di Recami nel tempo (con quell’intrigante “L’errore di Platini” degli esordi). So che ultimamente ambienta le sue storie nelle case di ringhiera, ma di queste non ho ancora letto nulla. Quindi non mi entusiasmo ai personaggi qui descritti (come se fossero vecchi amici, ma non lo sono). E soprattutto all’anziano Luis, con la sua BMW roadster, coinvolto in un’affannosa corsa attraverso la Milano notturna, da un’emula di Elenoire Casalegno. Forse ci sono escort che se la vedono brutta. La bella, alla fine, regala una notte di passione a Luis, che gli presta 5.000 euro perché lei possa fuggire. L’unica domanda che ci facciamo è se la bella ha preso in giro Luis o meno. Per il resto, non c’è nessuna traccia di tensione. Forse il più inutile.
Gian Luigi Costa “Lupa di mare”
Anche qui conosciamo un personaggio nuovo: l’investigatore palermitano Enzo Baiamonte, ex elettrotecnico. Qui in vacanza relax con la sua bella, lungo le spiagge di Menfi, durante un invitante convegno slow food e slow wine. Decente la caratterizzazione del personaggio, della bella, e dell’atmosfera (rarefatta e radical chic) di questi posti. Si salva un simpatico wine-maker, che tenta di utilizzare il Nero d’Avola per fare un vino che si accosti all’Amarone della Valpolicella. Non si capisce perché, questo da fastidio a qualcuno, che cercherà di ammazzarlo con una bomba residuato bellico. Ed il nostro Enzo riuscirà a collegare i fili, per svelare l’arcano. E per godere di una bellissima cena con la sua Rosa. Niente di che, ma Enzo sembra simpatico.
Alicia Giménez-Bartlett “Vero amore” [tit. or. Verdadero amor; anno 2013]
Benché la data di scrittura sia dello scorso anno, qui torniamo alla Petra prima maniera (sembrerebbe quasi scritto anni fa e dimenticato nel cassetto). Non ci sono le pulsioni amorose con il compagno, né quelle materne con i di lui figli. Non c’è Garzon sposato ed imbalsamato. C’è la morte della moglie di un commissario, e le indagini delicate che ne conseguono. In poche battute, Petra sente suonare dei campanellini falsi, perché il sospettato sembra proprio innocente, come sostiene a gran voce il suo aiutante. Che è rimasto scottato da una donna che lo ha lasciato improvvisamente. Ma se questa fosse… Petra ha delle intuizioni, che però sarebbero di difficile comprova, visto che la casa del delitto non reca segni effrattivi, e la pistola del delitto, è all’interno di una teca all’interno della casa. Ma Petra… Qui non ve lo dico, che qui, in effetti, anche se in minore, c’è l’unico briciolo di suspense di tutto il libro. Insomma, ben poco.
Valerio Varesi “Il commissario Soneri e la mano di Dio” Sole 24 ore – Noir 2 euro 6,90
[A: 03/08/2013– I: 07/07/2014 – T: 09/07/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 249; anno 2009]
Questo invece è un Soneri “aggiornato”, cioè il commissario protagonista di una dozzina di libri, rivisitato sopratutto dopo il passaggio televisivo con Luca Barbareschi. Varesi ha, libro dopo libro, precisato ed aggiustato il personaggio. Ed ora gli fa acquistare sempre più le sembianze simpatiche ma anche un po’ deluse del buon Luca. Il commissario non si trova bene nella grande Parma (un saluto ai miei amici parmigiani, immediatamente), e cerca sempre di scappare altrove. Prima era verso la bassa. Ultimamente (in questo spinto da Luca) più verso l’Appennino. Ed è lì che lo spinge il ritrovamento di un morto presso il Ponte di Mezzo, che sembra proprio essere sceso a valle lungo la Parma (il fiume è femminile laggiù). Si toglie subito dal centro dell’azione, dove imperverseranno magistrati e giornalisti, e dove lascerà di vedetta il fido Juvara, e cerca tra i monti risposte alle domande. Si trova un pulmino forse usato per scaricare il morto, si trova il proprietario, un cittadino che ha deciso con la famiglia di vivere “più naturale”, ma che non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Trova posto all’osteria di Egisto, conosce il guardaboschi Afro ed il parroco Don Pino, mandato tra i monti in punizione perché un po’ “sinistroso”. E come dirà la sua bella Angela, che presto lo raggiunge in montagna, quando passeggia per i monti, Soneri ragiona meglio. Pensa, guarda, collega. In quel buco di posto che i locali vorrebbero trasformare in stazione sciistica (ma non hanno i soldi), che ruota intorno ad un’industria di acque minerali, e dove su per i monti ci sono due razze diverse che si isolano per opposti motivi: extra-comunitari, che poi scendo a valle, verso il mare, per esercitare i loro mestieri da “vu’ cumprà”, e dei neo-cristiani che cercano di ritrovare la purezza della fede lontano dal mondo “corrotto dal denaro”. Oltre a passeggiare, ovviamente, Soneri si dedica alla buona cucina della moglie di Egisto: anolini in brodo, tagliatelle ai porcini, cacciagione varia (soprattutto cinghiale) e grana a molliche, innaffiati possibilmente da una bella Bonarda locale. Ed oltre a mangiare e passeggiare, si parla, con tutti, anche con chi non vuol parlare come la moglie di Breviglieri, il proprietario del pulmino. E si parla perché ben presto si rimane isolati, visto che nevica (siamo in gennaio), e c’è poco altro da fare. Parlando e chiedendo lumi al fido Juvara quando c’è bisogno di aggiornamenti, Soneri immagina e ricostruisce. Intanto scopre che il morto è appunto Malpeli, l’industriale anima della zona. In tutti i sensi, anche in quello delle feste con escort e droghe (dagli spinelli quasi innocui a fiumi di coca). Quello che regge le industrie (ma hanno tutte bilanci truccati), che spinge per la pista da sci (ostacolato dal prete e dai neo-cristiani), e che ha strane connivenze con qualche nome “da marocchino”. Malpeli ucciso con un forte colpo alla nuca, tanto forte che rimangono incastrati pezzi d’avorio di provenienza antica. Collegando telefonate e strani via vai di carri attrezzi per le strade appenniniche, facendo leva sull’anello debole della catena (il Breviglieri), Soneri ricostruisce il giro. La coca arriva a La Spezia, viene spedita su per i monti dalle scassate macchine dei marocchini, che dividono il prodotto 2/3 e 1/3 con Malpeli. Il quale, attraverso la catena distributiva delle acque minerali, lo ricicla in città. Mentre gli extra, con il loro terzo fanno un po’ di “soldi da tasca”. Coinvolgendo il Breviglieri, utilizzando il suo pulmino come corriere. Attriti vengono fuori (tanto che più che attriti sembrano guerre) quando da un lato i marocchini vogliono allargare la loro parte a scapito di Malpeli, e quando Malpeli, violando un patto che aveva fatto con Don Pino, spinge per la pista da sci, nonostante appunto che il sanguigno prete avesse chiuso entrambi gli occhi all’uso del cimitero come secondo deposito della droga. La soluzione, scontata fin dal titolo, si avrà scoprendo che l’avorio viene da un antico crocifisso scomparso (o rubato) dalla Chiesa parrocchiale. Questa la storia, al solito poco gialla, e molto pretesto per dare colpi a destra e manca. Parma città corrotta dai politici (e poco dopo andrà in mano ai grillini, non  a caso). Marocchini che maneggiano falsi e droghe. Inno alla sana vita di montagna. Insomma, i soliti cliché di Varesi, spesso appunto troppo centrato nelle sue lamentali (centrato nel senso che dà colpi a tutti i colori politici degli schieramenti italiani). A me continua a dare piacere nella riscoperta di luoghi desueti e di mangiari locali. Per il resto, non molto altro. Peccato, poteva essere meglio. Ma va bene anche così, aspettando partenze che non arrivano.
“I ricordi sono traditori … ci fanno desiderare cose che non esistono più.” (57)
“Chi è che non è [fallito] alla fine? … Resta sempre per tutti uno scarto tra ciò che volevamo e ciò che abbiamo.” (142)
Tornato con grande piacere dal lungo (ma poi non tanto) giro normanno-bretone, salutato con piacere l’amico Vito che unisco a queste trame, essendo (anche se siamo quasi a fine mese) la seconda trama di Agosto, vi prendete anche un’appendice dei libri “da cura”, dedicato all’astinenza. E ci sarebbe da dirne, sull’astinenza, ma di avventure, che ormai da troppi mesi latita. Speriamo in un recupero autunnale.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Questo mese cambiamo soggetto, e ci dedichiamo ad una malattia “seria”, un bisogno di liberarsi da qualcosa, un bisogno quindi di essere catturati. E come suggeriscono spesso le nostre “dottoresse” un elenco di libri sarà utile allo scopo.

ASTINENZA, CRISI DI

Per combattere il dolore fisico e spirituale che vi accompagnerà se vorrete liberarvi da soli di una di­pendenza avrete bisogno di libri che vi catturino, e vi costringano a interrogare a fondo la vostra anima segnata dalle intemperie. Si consiglia una full immersion, e allo stesso modo si invita a considerare la pos­sibilità di una somministrazione sonora. Questi libri non avranno paura nemmeno di tenervi la testa mentre vomitate.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SUPERARE UNA CRISI DI ASTINENZA                        

 Louis-Ferdinand Céline    Viaggio al termine della notte
 Howard Cruse               Figlio di un preservativo bucato
 E. L. Doctorow              Ragtime
 John Fante                   Chiedi alla polvere
 Ivan Gončarov              Oblomov
 Cormac McCarthy          Meridiano di sangue
 José Saramago             Memoriale del convento
 Jean-Paul Sartre           La nausea
 Roberto Saviano            Gomorra
 Leonardo Sciascia          Il Consiglio d'Egitto

Bugiardino

Certo non ci si meraviglia troppo pensando che il mio bisogno di essere “catturato” viene da lontano, e che quindi abbia, in vario modo, toccato ben 8 dei sopra citati dieci libri. Ed anche il mio ricordo della loro lettura è ben vario. Va dalla dimenticanza di lettura più che ventennali di Sciascia e Gončarov, al ricordo di un’isola e di una lettura (forse la sola che mi rimase allora impressa, prima di qualche recente recupero) di Saramago. Inoltre, c’è un libro che mi preme citare perché rappresenta un “caso” nelle mie sterminate letture: Céline ed il suo viaggio è uno dei pochi libri che ho “abbandonato” prima di terminarlo. Cerco sempre di seguire i precetti di Pennac al riguardo, del diritto di lasciare i libri senza finirli, anche se la mia capacità di sopportazione è generalmente più ampia della norma. Comunque, ne rimangono ben quattro di cui ho parlato nelle trame, e ve li cito in ordine di lettura.
Cormac McCarthy “Meridiano di sangue” Einaudi euro 11,50
[trama del 17 dicembre 2008]
È il secondo che leggo, ma devo dire ancora non so fino a che punto mi piace. Da una parte passa da una prosa all’altra come nei due esempi che riporto (a parte di capire il primo cui la metà delle parole mi sfuggono, come ‘ipomea’ o ‘calderugia’). Dall’altra, proprio questo contrasto disegna un’epopea di mondi lontani (il West selvaggio americano del 1850) che forse solo così si può rendere.
“Passarono attraverso un prato montano col suo tappeto di fiori di campo, acri di calderugia dorata e di zinnia e di genziana viola e viticci ritorti di ipomea blu, e una vasta pianura colma di piccoli fiori variegati che si protendeva come percalle stampata verso i lontani bordi dentellati del prato coperti da una foschia azzurra e le catene adamantine che sorgevano dal nulla come dorsi di mostri marini in un’alba devoniana.”
“La donna alzò la testa e lo guardò… Glanton indicò qualcosa con la sinistra e lei si voltò seguendo la mano e allora lui le appoggiò la pistola alla testa e sparò. … Un buco grande quanto un pugno si spalancò sull’altro lato della testa della donna vomitando un grande schizzo rosso, e lei crollò in avanti e giacque nel proprio sangue, irrimediabilmente morta.”
Siamo al confine tra Stati Uniti e Messico nel 1850, una banda di cacciatori di scalpi lascia dietro di sé una scia di sangue, sullo sfondo di una natura grandiosa e impassibile. Li comanda il corpulento giudice Holden: un predicatore e filosofo dei deserti che trascina con sé una corte di spostati, mezzosangue e reietti armati fino ai denti, in una spirale di ferocia e morte. Con loro c'è anche un ragazzo quattordicenne: sarà quella la sua iniziazione alle spietate leggi del West, tra agguati, lunghe marce, bivacchi desolati, notti di bagordi. È il mistero del Male e della violenza la grande ossessione di McCarthy, che fa lievitare le sue storie d'orrore ad altezze epiche. Tuttavia mi manca qualcosa. Alla fine, sembra che voglia fare “il prezioso” senza portare a termine le cose iniziate. O facendo finta, beh, ora andate avanti voi. Quei due muoiono o sono gay? Ed il ragazzo, carico d’anni e di sventura, dove finirà? Bacerà anche lui la sua petrosa Itaca? Non sono di quelli che vogliono tutto spiegato, ma tutto in ombra a far finta di “quanto sono intelligente”, a volta mi stufa. Si parla di Faulkner, ma dopo averne letto un racconto credo che ci sia della distanza da colmare.
Roberto Saviano “Gomorra” Mondadori euro 10
[trama dell’8 dicembre 2010]
Parafrasando un suo passo, alla fine di questa  emozionante lettura, mi viene da dire “Io so. Ma non ho le prove”. A quasi 4 anni dalla sua uscita, ho aspettato di poterlo leggere senza l’urgenza mediatica e con la sua uscita in economica scontata. E nel frattempo, non ho neanche visto il film. Ebbene, se ne esce sconvolti. Perché sono fatti alla luce di tutti, eppure lì nero su bianco, e messi tutti insieme raggiungo una forza dirompente. Dove purtroppo non si sa cosa fare. Lo sappiamo, quello che succede in Italia. Lo vediamo tutti i giorni, nei tribunali, negli uffici pubblici (un giorno vi narrerò le vicende dell’INPS di Piazza Augusto Imperatore), nelle televisioni, nei giornali. Ma pochi hanno il coraggio della maestra di Mondragone, che non abbassa la testa, che vede gli assassini, che li denuncia. Lei, una rosa nel deserto. E come quelle rose, dopo la denuncia, rimane nel deserto, abbandonata dal fidanzato, dagli amici, dalla città. Da incorniciare, e far discutere in tutte le scuole e gli oratori, le pagine così dolenti e grondanti di pianto e rabbia, dove si narra la storia del martire Don Peppino Diana! Le storie che ci racconta Saviano, ormai in questi 4 anni sono diventate oggetto di discussione, e non hanno il sapore della novità. Sappiamo tanto anche del sarto di Arcella, dell’AK-47 di Massimo, delle morti assurde a 15 anni. Ma non è questo che mi ha colpito. Un pugno lo dà l’intrecciarsi di tanti fili, che non si riesce a sbrogliare. Lo dà la rabbia. Ed uno, definitivo, lo dà l’arroganza del potere. Come togliersi dalla testa le ultime pagine sulle discariche napoletane e sulla demagogia che poco dopo ne tira fuori il Silvio Imperator! Come togliersi dalla testa (Io so, non ho le prove) che ci sia stata anche una lotta tra mafia (che appoggia la politica) e camorra (che appoggia l’economia)? E come qualcuno abbia preso a cuore gli interessi di… E qui lascio puntini perché, non ho le prove. Ho messo tutte le stelle possibili per dare il mio parere su questo libro. Per il coraggio ed i contenuti. Meno per la scrittura, dove dal punto di vista “solamente letterario”, a volte si incarta un po’. Certo un peccato veniale, che gli perdono facilmente, cercando di salire con lui sulla sua vespa con il naso all’aria e l’occhio vigile, per vedere quello che succede a Casal di Principe, a Mondragone, a Villa Literno, fino ai posti a me comunque cari del litorale domiziano (dove ho visto con i miei occhi le ville bunker ed altre oscenità). Un libro da leggere e rileggere per trovare il modo di fare. Ottime le cinquanta pagine finali, dove vengono riportate recensioni del libro apparse in varie parti del mondo. Così apprezziamo anche la diversa ottica con cui si guarda a questa scrittura, da quella appassionata e partecipe di francesi, tedeschi e nord-europei a quella straniante dell’America, il cui cruccio maggiore è non sapere se etichettare il libro come “fiction” o “non-fiction”. Quanto è importante per gli anglo-sassoni mettere etichette. Soprattutto ad un libro che è tutto il contrario di qualcosa etichettabile. Che denuncia, usando i toni del romanzo e la scrittura di un saggio. Peccato manchino i commenti italiani, in particolare di quei giornali che sostengono il libro aver dato un’immagine distorta del nostro bel paese. Ma gli editori di quei giornali sono anche editori del libro… Mi verrebbe allora da dire, boicottiamo gli interessi perversi che intrecciano capitali leciti ed illeciti. Smettiamo di guardare la televisione. Smettiamo di comprare libri Einaudi e Mondadori. Smettiamo di fare la spesa nei super-market “chiacchierati”. Chissà fino a dove dovremmo continuare a smettere. Avremo la forza di farlo? Non lo so, poi penso alla maestra e mi dico: c’è ancora qualcuno con la coscienza civile di tirare fuori qualcosa. Di non mettere la testa sotto la sabbia. Speriamo, speriamo, speriamo.
“Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere” (323)
Jean - Paul Sartre “La nausea” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 10 agosto 2011]
Non mi è piaciuto tantissimo. E non perché non abbia contenuti, idee (tant’è che ho un ricco carniere di citazioni). Ma credo sia il modo di esprimerle, e di esprimersi del protagonista che mi lasciano distante. Il filo della trama è esile, quasi inesistente. Un trentenne borghese che dispone di una rendita, dopo aver girovagato per il mondo, si è rinchiuso in una città di provincia per scrivere un libro storico su di un oscuro personaggio francese vissuto alla corte dello Zar di Russia. Ma la sua vita è vuota (e secondo me, lui è un poco snob), si interroga sulla sua esistenza (non è un caso che Sartre scriva questo romanzo dopo la laurea in Filosofia, ed il libro è pieno, anche se io non posso esserne un esegeta data la mia ignoranza, di Heidegger e Husserl), la trova vuota, non riesce ad interagire con gli altri (né con il socialista Autodidatta che cerca di farsi una cultura in Biblioteca, e che Sartre tartassa come personaggio, quasi voglia tartassare tutti i socialisti meschineggiandoli, né con la sua ex-fiamma Anny, che pur rivede, ma che ancora e ancora non riesce a capire). E tutto questo vuoto di esistenza, viene riempito di tanto in tanto dalla Nausea, da questo sentimento di non farcela più, tanto che a volte sembra che si voglia (giustamente) suicidare. Sconfitto, non potrà che abbandonare il libro, tornare a Parigi, e, forse, trovare un modo di giustificare l’esistenza: un’opera di ingegno, magari un libro, un disco, un refrain di jazz, una pennellata. Ma non mi piace il modo in cui Sartre inanella pagina dopo pagina questa non esistenza, questo libro che diventerà poi bandiera e simbolo dell’esistenzialismo, quel modo di essere parigino del dopo guerra, quello si di Sartre e della De Beauvoir, ma anche di Juliette Gréco, di Boris Vian, per parte di Albert Camus. Ecco, io sono più dalla parte di Boris Vian, dalla parte scanzonata, ma ridicolmente seria, quello che scriveva di fantascienza, produceva canzoni immortali come “Le dèserteur”, e prendeva in giro Sartre facendolo entrare nei suoi libri con il nome di Jean-Sol Partre. È vero, qui siamo ancora nel ’38, è da poco finita l’esperienza del Fronte Popolare del ’36, c’è stata la Guerra di Spagna. Tuttavia, non mi prende, non mi emoziona, non mi convince che la vita sia inutile. Forse è inutile a chi si siede ad un bar e non riesce a parlare a nessuno. Forse Roquentin è l’esempio negativo di cosa NON si dovrebbe fare. Forse, per combattere la Nausea bisogna fare la Rivoluzione (e tutto con le maiuscole). Forse, ma non lo riesco a vedere così, mi viene voglia ad ogni pagina di dire: prova, fa qualcosa, parla, agisci. Ma come, hai girato mezzo mondo solo per enumerare i posti dove sei stato, e non ne hai capito un cavolo. Non c’è bisogno di avventure per vivere. C’è bisogna della vita, per andare avanti, per arrivare lì dove sarà Garcia Marquez quando scriverà la sua autobiografia (“Vivere per raccontarla”). Quindi, già un po’ mi stava antipatico Sartre, e questo libro non lo tira su di molto. Un ultimo punto anche sulla traduzione. Ora, si può tradurre una frase “Defense de fumer, même une gitane”, con “Proibito fumare, perfino una gitana” e scrivere in nota “Marca di sigaretta francese”! Ma o si da per scontato che si conosca la Francia ed il fumo, e tutti (TUTTI anche i non fumatori) sanno cosa sia “una gitane”, oppure si decide che bisogna spiegare tutto, ma non si può scrivere “gitana”. Niente da fare, i traduttori tradiscono (quasi) sempre. Andiamo ad fumarci un cammello (pardon, una camel…).
“Quando uno vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare.” (16)
“Se mai dovessi fare un viaggio credo che prima di partire noterei per iscritto i più piccoli tratti del mio carattere per poter poi fare un paragone, al ritorno, tra quello che ero e quello che son diventato.” (48)
“Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. … Un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse.” (54)
“Ed io dove potrei conservare il mio [passato]? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo.” (85)
“Se soltanto potessi smettere di pensare andrebbe già meglio. … Il mio pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso … e non posso impedirmi di pensare.” (126)
“Ho voglia di andarmene, d’andarmene in qualche posto dove sia veramente al mio posto … Ma il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.” (153)
“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento … C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio; se si riflette non lo si fa.” (180)
“Allora, è possibile giustificare la propria esistenza?” (220)
John Fante “Chiedi alla polvere” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 10 giugno 2012]
Che dire? Mi era rimasta impressa la faccia di Selma Hayek che faceva Camilla sullo schermo ed ho impiegato del tempo per decidermi a leggere il libro di Fante. Il film (a parte Selma) l’ho già dimenticato. Il libro è più difficile. Da dimenticare e da mandar giù. Perché Fante – Bandini riesce a farmi esaltare ed arrabbiare ogni poche pagine. Ma sicuramente ti prende, ti senti lì in California con lui. Ed è un vero reportage su un certo mondo che vive a Los Angeles, di emarginati, di gente in cerca di qualcosa, che vive di briciole. Oltretutto sentito fino in fondo, che quello è ancora il mondo del figlio di immigrati italiani, fuggito dal Colorado per cercare fortuna nel West, armato solo di una smisurata fiducia nella sua capacità di scrivere. Fante si sta avvicinando ai trenta anni, e si arrabatta con lavori occasionali e racconti pubblicati sporadicamente. Ma questo suo vivere al margine gli da materia per rivestire le sue esperienze, scrivere il romanzo, ed avere una parte di quella fortuna che pensa di meritarsi. Qui, Fante si cala di nuovo nel suo alter-ego Bandini, e narra un po’ sé stesso dal vivo ed un po’ romanzato. Con quell’albergo scalcinato dove puoi entrare dalla finestra senza farti vedere dalla padrona cui deve settimane di affitto. Con quel bar, il California Buffet, dove per 5 cent ti metti a sorbire un pessimo caffè. Con la fauna che popola l’albergo (l’ubriacone, le donne in fuga con figlia al seguito, le matrone in decadenza), con il droghiere cinese che ti passa di straforo delle arance con cui sopravvivi. E con quell’ego ipertrofico che gli fa annunciare ogni due parole: quanto sono bravo a scrivere, quanto sono geniale, quanta gloria avrò tra poco. In questo mondo ai margini, Bandini fa due incontri, con due donne ben diverse: Vera, assillata da problemi fisici, benché nascosti, e Camilla, la splendida messicana, irrequieta e spontanea. C’è una specie di triangolo aperto sotterraneo, che Vera si prende di Bandini che si prende di Camilla che si prende … della marijuana. E Bandini trasfigurando il suo rapporto con Vera scrive il romanzo che gli porterà il benessere (e che aprirà a Fante le porte di Hollywood dove farà, seppur scontento, per decenni lo sceneggiatore). Ma non riesce a star lontano da Camilla, la cui verve gli dà vita e pensieri e voglia di fare. Tuttavia il rapporto non decolla, che la prima volta che cercano di andare più in là, Bandini fa cilecca. E qui esce fuori tutta la cattiveria e la rabbia, da americano e da italiano. Da lì, ogni momento sarà buono per tormentare Camilla, per ripagarla con falsa moneta, perché non si può ammettere di aver fallito. Camilla però da spirito libero, non entra in questo gioco di Bandini, ed esce dalla porta più scomoda. Perché è scontenta della vita, perché non riesce a sopportare la mediocrità in cui vive dopo essere fuggita dalla povertà messicana. E fugge. Prima nella droga, e poi verso il deserto, nella polvere. Bandini ogni tanto rinsavisce, cerca di riavvicinarsi. Ma il solco iniziale è stato troppo violento, e non sarà possibile. C’è altro nel libro, c’è atmosfera, c’è tratteggio di situazioni interiori (quel rapporto ossessivo da immigrato italiano verso la religione intesa come valvola di sfogo quando le cose vanno male), ci sono cammei. Tutto in un libro che ha più di settanta anni, ma che (a parte il dollaro che aveva tutti altri valori) si legge con un’attualità sorprendente. Quello che mi respingeva ogni tanto (seppur scritto bene) è questa incapacità di Bandini non dico di fare un passo giusto, ma di ragionare in modo incoerente e di agire di conseguenza. C…o, ma fermati un attimo, pensa! Certo, l’autore si colloca ventenne e quindi irruento e quindi in formazione. Ma tutte quelle azioni sballate (poesie copiate male, telegrammi stupidi, parole fatte uscire dalla bocca senza aver connesso il cervello) mi facevano sentir male leggendole e mi facevano urtare verso Fante che le scriveva. Direte, ma questo è il mestiere dello scrittore. D’accordo, ma io sono un lettore umorale, e se i personaggi si comportano male in modo che non mi piace, mi storco. Però un bel libro, che avrebbe a suo tempo meritato maggior fortuna, visto che poi solo negli anni settanta fu ristampato e rivalutato. Hai dovuto aspettare molti inverni, Fante, altro che primavera! (Inciso finale, che non può mai mancare, sempre grazie a Luana che anni fa mi fece leggere il mio primo Fante).

Conclusioni

Questa volta ho delle obiezioni alla cura delle esimie dottoresse. Se c’è bisogno di essere catturati per guarire, Cèline è proprio l’esempio principe di una cura sbagliata. Ed anche Sartre e Saramago hanno le loro pecche. Certamente la “decina” proposta è di quelle di peso (premi Nobel ed altre glorie letterarie). Ma forse il solo Fante, con la sua scrittura asciutta (ma comunque piena) mi ha catturato tanto da farmi dimenticare i miei contorni. D’altra parte, è questa è la riprova, non sempre i dottori indicano la cura giusta. A volte c’è bisogno di aggiustamenti. E questo capitolo ne è l’esempio eponimo.

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