domenica 8 febbraio 2015

Tutti stranieri, anche gli italiani - 08 febbraio 2015

Finito il lungo giro indiamo (che avrebbe meritato forse la citazione di un diverso Tabucchi, quel del vecchio Sellerio di “Notturno indiano”), torniamo a macinare libri piuttosto che chilometri. Con una bella triade, interessante seppur diversa. Due libri “africani” dello svedese Mankell, con il recupero di uno dei suoi scritti più vecchi (che mi segnalò con enfasi Rosa). Il bel ricordo di Tabucchi, che sempre mi trona in mente per il suo delicato passaggio in questo mondo. Mentre mi aspettavo di più dal vecchio Ballard, che tanto mi prese in gioventù, e che ora mi sembra molto, troppo datato.
Henning Mankell “Ricordi di un angelo sporco” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato a 10 euro)
[A: 23/05/2013– I: 15/07/2014 – T: 18/07/2014] - &&&  
[tit. or.: Minnet av en smutsig ängel; ling. or.: svedese; pagine: 396; anno 2011]
Torno dopo tanto tempo alla lettura di un libro di Mankell, di cui, ricordo ai meno attenti, molto (quasi tutto) ho letto della sua vena principale, e poco, ma abbastanza, degli altri scritti. Perché Mankell è uno dei massimi interpreti del moderno “giallo svedese” (quello nato dagli scritti memorabili di Sjöwall e Wahlöö), con il bel personaggio del commissario Wallander. Ma Mankell è anche un personaggio poliedrico, che passa metà della sua vita in Mozambico, impegnato in opere di recupero e modernizzazione (ricordo che ha anche impiantato centri di accoglienza e laboratori teatrali). Questo libro appartiene appunto al secondo filone, dove imbastisce una bella storia (pur non eccelsa) partendo da un labile frammento. Negli archivi di Maputo, compare, agli inizi del secolo scorso, e per circa due anni, come una dei maggiori contribuenti fiscali, una donna svedese. Per poi perderne le tracce a partire dal 1905. Su questo “quasi niente” il nostro scrittore tira fuori la lunga storia di Hanna. Di cui appunto seguiamo i passi dalla nascita nel Nord della Svezia, in una vita piena di stenti e di freddo, dove, figlia maggiore di una famiglia numerosa, dà una mano alla povera vita della fine dell’Ottocento, con gli inverni a meno trenta gradi sotto zero, e dove non si sa mai se si arriverà all’estate seguente. Alla morte del padre, la madre chiede ad un conoscente che vive nella grande città (per loro) di Sundsvall (quattordicesima città per grandezza della Svezia) di aver cura di Hanna. Comincia così la piccola odissea della nostra, che, temprata dal freddo, ha un carattere comunque forte. Fa la domestica in casa di Forsman, dove, da autodidatta, inizia a studiare e comincia a leggere e scrivere, avendo come sussidiario un dizionario svedese – portoghese. Il buon Forsman, per farla emancipare, la convince ad imbarcarsi come cuoca su di una nave che porta legname in Australia. Sulla nave conosce e si innamora del nostromo Lundmark, che sposa in quel di Algeri. Peccato che Lundmark prenda una febbre malarica nel canale di Suez e muoia poco dopo. Distrutta, incapace di vedere un futuro a bordo, una volta a Laurenço Marques (l’odierna Maputo) fugge dalla nave, avendo una buona liquidazione dal capitano della nave. E si ritrova in un albergo, dove è salvata per i capelli, avendo un aborto spontaneo. Peccato (o per fortuna) che l’albergo sia solo una facciata di un bordello, tenuto dal signor Vaz, anziano portoghese dalle idee precise su come tenere una lucrosa attività. Lì, nel bordello, Hanna comincia ad avere empatia verso i locali (un percorso che Mankell conosce bene) e capisce come i bianchi, in maniera subdola, riescono a tenere sotto controllo, con la forza e le armi, i negri mozambicani. Cercando sempre di tornare nella natia Svezia, Hanna si trova sempre più coinvolta nella vita locale. Tanto che accetta di diventare la moglie del signor Vaz. Peccato che, dopo poco, anche il secondo marito, anziano e minato dalle febbri tropicali, ci lasci le penne. Hanna, diventata ormai per tutti Ana Branca (cioè Anna la Bianca), si trasforma così nella proprietaria del bordello. Dove vengono solo bianchi che vogliono soddisfare le loro voglie con le donne di colore. Diventa anche amica del signor Pedro che vive con la nera Isabela con cui ha due figli. Tutto sembra prosperare, il bordello è il più redditizio della città, lei è la maggior contribuente delle casse portoghesi (motivo del rintracciamento del nome negli archivi di Maputo). Peccato che arrivi da Coimbra la moglie portoghese di Pedro, e che Isabela, per ribadire la propria posizione rispetto a Pedro che pare voglia darla in pasto ai coccodrilli, non possa fare a meno di uccidere il portoghese. Da qui, comincia la discesa verso i locali di Ana, unica bianca che comprende il gesto di Isabela, che vuole un giusto processo, mentre i portoghesi pensano soltanto a rinchiuderla in un carcere senza nessuna difesa. Tutte le prova Ana, alleandosi con il fratello di Isabela, Moses. Ma senza successo. Anche se si innamora di Moses, anche se con lui avrà l’unico momento di vera tenerezza. I bianchi implacabili, la perseguitano, e non potrà che vendere tutto, trasferirsi a Beira, la seconda città del Mozambico, e lì sparire. Non sapremo il suo futuro, se tornerà in patria, se riuscirà a tornare con Moses, ma non è questo che interessa a Mankell. Il cui scopo, appunto, è raccontarci la presa di coscienza di una bianca a contatto con una realtà che non avrebbe mai sospettato. Un angelo, come le diceva il padre, ma “sporco”, cioè portatore di tante disgrazie. Da cui noi, che scriviamo il seguito dei libri che ci coinvolgono, sappiamo che potrà uscire (anzi lo immaginiamo) perché ogni tanto ci vuole anche speranza. Alla fine, non è un libro bellissimo, la scrittura a volte è distante. Ma l’argomento prende intellettivamente. E Mankell è sempre capace di porci di fronte a dei dilemmi. Ed allo scempio che sappiamo i bianchi hanno fatto nell’emisfero australe.
“Platone: ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti e quelli che vanno per mare.” (dedicato a Renato) (5)
“I viaggi più straordinari sono sempre dentro di noi, dove non esistono né tempo né spazio.” (19)
“Lesse su un cartello che la strada che stavano percorrendo si chiamava rua Bagamoio.” (dedicato a Rosa) (106)
“Noi [neri] facciamo fatica a capirvi … Molti [bianchi] arrivano qui per sfuggire alla miseria e alle persecuzioni del loro paese. E noi non riusciamo a capire come, arrivati qui, possano scegliere di vivere una vita diventando a loro volta persecutori.” (309)
James G. Ballard “Crash” Feltrinelli euro 8
[A: 16/02/2014– I: 30/07/2014 – T: 02/08/2014] - & e ½
[tit. or.: Crash; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 1973]
Nonostante il piacevole salto che mi ha consentito la lettura di questo libro, e su cui si ritornerà, devo dire che sono rimasto alquanto deluso. Dalla scrittura, dalla storia, dal modo anche che se ne parla in giro (in rete e sui libri). Il salto è stato il ritorno, almeno nella memoria, al tempo in cui le mie uniche letture erano dedicate alla “fantascienza” (uso le virgolette che il termine mi è rimasto sempre antipatico, essendo un tipo di scrittura variegato, e spesso per nulla fantastico: ucronie, sociologie possibili, certo i robot di Asimov, ma anche Bradbury, Farmer, la Le Guin e tanti altri, dove la scienza non sempre era il fulcro della storia). Nella mia libreria “juvenilia” sono rimasti ancora qualche migliaio di libri di genere, e Ballard aveva senz’altro un posto in questo mondo, con la sua scrittura che ha aperto (proprio nei tempi a cavallo degli anni ’70) la strada per un modo nuovo, anglosassone ma non solo, di scrivere (che da lì si diparte la vena umoristica alla Douglas Adams ed il cyber-punk alla Gibson). Fatto questo revival, mi sono messo in lettura, pensando di ritrovare queste atmosfere, anche perché il libro viene etichettato come fantascienza tecnologica di pochi anni avanti. Ed anche, perché spesso Ballard è un gran provocatore, di pornografia tecnologica (fanta-pornografia mi sembrerebbe un termine un po’ troppo forte). Ma letto ora, a quarant’anni dalla scrittura, non ha nulla di anticipatorio, è solo un romanzo che sfrutta dei meccanismi tecnologici (in questo caso le automobili) per portare avanti un suo discorso sulla difficoltà dei rapporti umani, e sulle alienazioni che l’innamoramento verso la tecnologia può portare. La storia, molto cruda in sé, gira intorno al protagonista soggettivo, che scopriamo ben presto avere dei seri problemi di rapporto con la moglie Catherine. Non riescono a fare l’amore se non tradendosi continuamente a vicenda, e raccontandosi i loro tradimenti. La svolta avviene quando il protagonista ha un grande incidente automobilistico, dove uccide una persona che viene in senso opposto, ferendo gravemente la di lui moglie al volante, nonché rimanendo lui stesso gravemente ferito. Questo shock, dopo vari capitoli un po’ inutili, lo porta a contatto con un certo Vaughan, adoratore di incidenti, e fotografo degli stessi. Lui stesso, pluri-incidentato con cicatrici ovunque. Vaughan si aggira cercando incidenti, fotografandoli, e tenendo dietro di sé una specie di scuderia fatta da uno stuntman strafatto di coca, la di lui moglie cicatrizzata, un regista fallito e la moglie di questi, in giro con stampelle sempre per incidenti vari. Una corte dei miracoli, che il nostro però scopre terribilmente eccitata dal pericolo e dalle sue conseguenze. Il nostro, tra l’altro, continua a scopare in macchina ripensando all’incidente, e, tra un coito e l’altro, riesce anche a rimorchiare sia la moglie del morto sia la stampellata. Ma quando comincia a frequentare da vicino Vaughan, oltre ad avere un soprassalto di eccitazione tecnologica, ha anche un soprassalto di passione omosessuale verso di lui. Vaughan continua a studiare morti possibili, e Ballard ci maciulla un po’ i “cabasisi” con queste storie di accartocciamenti di cruscotti ed altre menate. Si vede che i due sono attratti e respinti da questa ordalia di sangue e sesso. Niente di più facile quindi immaginarne la fine annunciata: strafatti di LSD il protagonista e Vaughan fanno l’amore. E poi Vaughan si getta da un cavalcavia (ovviamente con l'auto) e muore. Una fine ovviamente annunciata, e scoperta, come se non resistesse più alla “vergogna” dell’atto consumato. Ma tutto ciò si protrae per duecento inutili pagine. Continuiamo a vedere sesso e crude descrizioni dello stesso, continuiamo ad avere descrizioni di incidenti. Tutto senza un vero perché. Senza un briciolo di “anticipazione”, se non nel fatto dell’uso della tecnologia. Ed alla fine, non ritengo sia un romanzo ascrivibile al genere. Anche se bisogna riconoscere che Ballard si è sempre rifiutato di considerarsi un fantascrittore, piuttosto pensava di sé essere un investigatore dello spazio interiore. Tuttavia, quello che volevo sottolineare è il fatto che non è un romanzo che mantiene il passo con i tempi: è datato, e leggibile solo in una prospettiva storica. Per me, al contrario, un qualsiasi romanzo, di qualsiasi natura, ha senso se riesce a mantenersi godibile (anche se può non piacere, intento godibile nel senso intellettuale) con il passare degli anni. Questo, ora, è solo un romanzo di pornografia pudica, come vedere le fotografie delle donnine discinte che si facevano nell’Ottocento. Divertente vederne una, palloso leggere tutto un romanzo.
Antonio Tabucchi “Requiem – un’allucinazione” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 6,30 euro)
[A: 05/05/2014– I: 16/08/2014 – T: 17/08/2014] - &&&&  
[tit. or.: Requiem uma alucinaçao; ling. or.: portoghese; pagine: 139; anno 1991]
La prima sorpresa che mi ha dato la lettura di questo libro di Tabucchi è appunto quella che vedete nella riga soprastante. Il libro, il racconto è scritto in portoghese, sua lingua di adozione, perché solo in questa lingua l’autore ritiene sia possibile dar vita e suono a quella sensazione di “saudade” che non sarebbe esprimibile in altri idiomi, quell’utilizzo del termine legato all’addio verso chi ci ha lasciato (adeusinho) che non è trasferibile dal portoghese in altre lingue. Tant’è che Tabucchi la traduzione in italiano ha voluto fosse fatta da altri, sempre per ribadire il concetto di inesprimibilità, e sottolineando quindi l’immancabile tradimento che una traduzione produce verso il testo. Quindi, seppur impoverito nel testo, ora ne seguiamo e ne leggiamo. Non per parlare di un romanzo (che spesso Tabucchi scrive ma non si riesce a catalogarne la scrittura), né tanto meno di un racconto lungo. In effetti, è un’allucinazione quella che cerca di descrivere. O meglio, una serie di sogni, di segni e di racconti, che fanno in modo e consentono all’autore di dire addio ad uno scrittore e ad un personaggio che tanta parte hanno avuto nella vita stessa di Tabucchi. Dopo aver contribuito alla riscoperta ed al rilancio in Italia di Ferdinando Pessoa, ora Tabucchi se ne deve staccare, deve proseguire la sua strada di letterato. Deve quindi rivolgere un Requiem a Pessoa, e lo fa in queste pagine, dove, mescolando sogno e realtà, parla di sé, ma anche di Pessoa. Parla con i personaggi di Pessoa, mischiati con amici e compagne della sua vita. Ma in definitiva è un libro intramabile, è talmente rarefatto negli accadimenti che narrarne vorrebbe quasi dire riproporlo per intero. Certo il personaggio che si muove per le pagine, e per Lisbona, fa alcune cose. Cerca un amico in un cimitero, sogna una donna, va in un Museo a vedere un quadro (con una descrizione che mi ricorda la mia ricerca della chiesa di Van Gogh al Museo d’Orsay), va in un bar (magari nella rua Garrett). I personaggi che si incontrano sono tanti e ognuno racconta qualcosa: essi riflettono insieme al protagonista sulla propria vita, su modi di pensare o costumi. Li si potrebbe definire suggestive figure di fantasia, divertenti. Al lettore piace guardarli e scoprirli nel corso della lettura come se fossero dei casi umani che stuzzicano la curiosità. Essi sono molto vari, ma hanno qualcosa in comune: sono romantici, quasi poetici. Persino la Vecchia Zingara, la Moglie del Guardiano del Faro o il Venditore di Storie hanno, pur nella loro semplicità, un fascino misterioso, forse dovuto alla profondità delle emozioni che trasmettono attraverso le loro parole. L'incontro fondamentale, quello al quale il narratore si prepara fin dal mattino, è l'ultimo della giornata, e ha come protagonista il grande poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935), o forse il suo fantasma. Dal quale alla fine riesce a staccarsi, lì sul molo della città, ed a tornare alla propria vita. O al proprio sogno. Infatti, tutto è avvolto da quella atmosfera onirica che speso compare negli scritti di Tabucchi (soprattutto nei primi). Ed in realtà appunto non è la trama, quella che risalta alla fine, ma la scrittura, le piccole microstorie che compaiono (e che certamente un amante e conoscitore di Pessoa saprebbe collocare meglio di me nell’universo mondo dello scrittore portoghese), la ricerca e la necessità di accomiatarsi da qualcosa che per lungo tempo è stata vicina all’autore, e che adesso ne diventa un fardello. Come detto, ci riesce, riuscendo anche a regalarmi un ultimo sussulto di felicità, con quelle note finali, dedicate a cosa si è mangiato durante tutto il sogno: la feijoada (minestra di fagioli), i papos de anjos (dolcetti di uova e mandorle), i piatti di pane come le migas e l’açorda, la fresca bevanda di frutta chiamata sumol, l’arroz de tamburi (il riso alla rana pescatrice), l’ensopado de borreguinho (stufato di interiora di agnello). Per poi finire con il menu futurista della Mariazinha: zuppa “Amor de Perdiçao” (zuppa di coriandolo e pollo dal titolo di un libro di Camilo Castelo Branco), insalata “Mendes Pinto” (con avocado, gamberi e soia, dal nome del grande navigatore portoghese), cernia “tragico-marittima” (come dall’omonima Historia di naufragi del Seicento), sogliola “intersezionista” (dal nome del movimento artistico creato da Pessoa nel 1914), anguille di Gafeira alla Delfino (luogo inventato dallo scrittore José Cardos Pires per il suo romanzo “O Delfim”) e baccalà allo “scherno e maldicenza” (così come venivano chiamate le liriche satiriche del Duecento portoghese). Con questa cena tutta intellettuale, Tabucchi lascia finalmente Pessoa perché “ero io ad aver bisogno di lei, però adesso vorrei smettere di avere bisogno”. Ecco una bella, agile, veloce lettura, intellettuale quanto basta, ma eponima della capacità e del bisogno di dire addio a qualcuno o a qualcosa. Un bisogno di adeusinho.
“Non era possibile che ora il quadro fosse diverso solo perché i miei occhi lo avrebbero visto in un altro modo?” (73)
Henning Mankell “Comédia Infantil” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 08/10/2013– I: 17/10/2014 – T: 22/10/2014] - &&&& 
[tit. or.: Comédia Infantil; ling. or.: svedese; pagine: 236; anno 1995]
Finalmente Marsilio è riuscito a ripubblicare uno dei primi libri di Mankell. Uno dei romanzi “civili” dello scrittore svedese. Il primo, cronologicamente, dedicato all’altra parte della sua vita, quella appunto che trascorre in Africa. Ed in particolare a Maputo in Mozambico. Dove si occupa dei bambini di strada (e questo è il libro manifesto del suo impegno) e di teatro popolare. Ovviamente, una sana lettura avrebbe previsto di leggere questo prima del libro sopra tramato. D’altronde, questo ho impiegato molto a trovarlo e, nonostante la spinta a leggerlo da parte di Rosa, ho penato un poco ad autoconvincermi alla lettura. Ero sicuro che mi avrebbe intristito e fatto maledire il malcostume degli europei verso il continente nero. E così è stato, anche se devo dire che è un bel libro, che merita di essere letto, anche a distanza di venti anni dalla sua scrittura. Inoltre, a lettura avvenuta, capisco meglio l’amore che ne aveva avuto a suo tempo Rosa (e che la frase sotto riportata mi pare sottolinei con dovizia). Intanto, cominciamo dal titolo che, come si capisce, anche se il libro è scritto in svedese, è un titolo portoghese, la lingua, appunto del Mozambico. Anche se poi il testo si avvicina molto alla tragedia più che alla commedia (almeno nel senso dei classici greci). Termine mitigato (o aggravato, dipende dalla lettura che se ne fa) da quel riferimento ai bambini. Vestendo i panni di un fornaio, il nostro autore si cala nella realtà mozambicana (ricordiamo sempre che il libro è stato scritto venti anni fa), in un periodo in cui si svolgevano le prime elezioni democratiche del paese, dopo più di 15 anni di guerra civile che si scatenò dopo l’abbandono del paese da parte dei portoghesi, dopo la conquista di Maputo da parte dei comunisti del FRELIMO e il contrattacco della destra del RENAMO finanziata dai razzisti sudafricani. Ma questa è storia, mentre José il fornaio narra la vita di tutti i giorni. Quella di Donna Esmeralda, la padrona del forno, forse figlia del dittatore di Maputo, che ora gestisce democraticamente un forno e “dittatorialmente” un teatro dove rappresenta pièce che solo lei comprende. Quella dei bambini che vivono per strada, come Cosmos il bambino che pensa e sua sorella albina Deolinda, come Nascimento, perseguitato dai suoi fantasmi notturni, come Mandioca e Pecado, con le loro manie che servono a sopravvivere in strada, come Tristeza, quello che pensa lentamente, come Alfredo Bomba, malato terminale. Quella del fornaio stesso, della sua vita solitaria e della svolta che avrà la sua vita con l’incontro di Nelio. E finalmente quella centrale appunto di Nelio. Che Mankell utilizza a paradigma sia del Mozambico sia di tutte le infanzie negate del mondo. Nelio che viene colpito a morte dentro il teatro. Nelio che sa di morire e che in nove notti di agonia racconta la sua storia a José il fornaio. Nelio che viveva nel suo villaggio dell’interno, felice in una povera famiglia di contadini. Villaggio assalito dal RENAMO e raso al suolo. Nelio che vede la madre stuprata, che intuisce il padre morire, che vede togliere brutalmente la vita alla sorellina neonata. Nelio che si rifiuta di uccidere e che fugge. Nelio che incontra Yaya Baba l’albino che lo porta sino a Maputo. Ma che soprattutto gli insegna che pensare è la cosa più umana da fare. Seconda sola con l’empatia verso coloro che soffrono. E chi ha sofferto, capisce subito l’altro che soffre. Nelio che incontra uomini cattivi in città da cui fugge. Nelio che finalmente incontra i bimbi di strada (quelli citati sopra) che “sopravvivono” rubacchiando e chiedendo la carità. Nelio si unisce a loro, crea un sodalizio con Cosmos, e poi diventa il capo della banda quando questi va per la sua strada. Nelio che non fa mai cattive azioni, ma solo azioni per sopravvivere. Che accoglie Deolinda raminga, che cerca di far fuggire i demoni di Nascimento, che organizza una dolce morte per Alfredo Bomba. José capisce l’umanità di questo bimbo di dieci anni, del dolore che ha sofferto in questi pochi anni, tanto da essere a volte un vecchio nella pelle di un bambino. José non potrà impedirne la morte. Ma il racconto della vita e delle sofferenze di Nelio non dovrà andar perduto. Così José abbandona il forno, e dedicherà la sua vita a raccontare la storia di Nelio. In modo che tutti riflettano sulla storia del giovane Mozambico, sulla sua povertà e sulla sua capacità e volontà di uscirne fuori. Un ultimo cenno degli intrecci di Mankell: il “buono” del romanzo precedente, che salva la bella Hanna, si chiama Antonio Vaz. Ed il fornaio si presenta nella prima pagina come “Io, José Maria Antonio Vaz … sto aspettando la fine del mondo”. Bellissime le pagine sul teatro che serve alla vita (ed alla morte), mutuate ovviamente dall’esperienza mozambicana di Mankell stesso. Viene da piangere per la nostra impotenza verso questa (e simili) tragedie. Ma, come ci insegna Mankell, intanto non tacerne, parlarne, farne circolare le informazioni è il primo passo per poter fare qualche cambiamento. Mi rendo conto che in questi venti anni non moltissimo è cambiato in Mozambico (che ho visitato due volte negli ultimi cinque anni), ma continuiamo a parlarne e cerchiamo, cerchiamo, cerchiamo di fare qualcosa. Altrimenti sarà sempre “emergenza”.
“Quello del teatro è un mondo che sembra rinascere continuamente.” (32)
Essendo la prima trama del mese, come i miei ormai affezionati lettori sanno, mettiamo anche la lista delle letture dello scorso novembre, che cominciano ad accorciarsi, visti viaggi e loro preparativi. Comunque illuminata dal bel libro eco-comico del finlandese Paasilinna e dal libro sulla Finlandia dell’italiano Marani. Mentre in fondo alla lista, purtroppo, troviamo il lungo ed inutile ultimo episodio dell’Aristotile della canadese Doody.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Alice Sebold
Amabili resti
E/O
11
3
2
Andrea Esposito
Il paese nasconde
Sole 24 ore Noir
6,90
3
3
Piero Chiara
Vedrò Singapore?
Mondadori
10
3
4
Jo Nesbø
Lo spettro
Einaudi
14
2
5
Domenico Cacopardo
Agrò e la deliziosa vedova Carpino
Sole 24 ore Noir
6,90
3
6
Eric J. Hobsbawm
L’invenzione della tradizione
Einaudi
s.p.
3
7
Osvaldo Soriano
Un’ombra ben presto sarai
Einaudi
11,50
3
8
Arto Paasilinna
L’anno della lepre
Iperborea
13
4
9
Margaret Doody
Aristotele nel regno di Alessandro
Sellerio
16
1
10
Adele Marini
Milano sola andata
Sole 24 ore Noir
6,90
3
11
Diego Marani
Nuova grammatica finlandese
Bompiani
s.p.
4
12
John Fante
Aspetta primavera, Bandini
Einaudi
12,50
3
13
Lotte & Søren Hammer
La bestia dentro
Feltrinelli
9
2
14
Claudio Paglieri
L’enigma di Leonardo
Sole 24 ore Noir
6,90
3
15
Mamen Sánchez
La felicidad es un tè contigo
Booket
s.p.
2
16
Antonio Pagliaro
I cani di Via Lincoln
Sole 24 ore Noir
6,90
3
17
Graham Greene
Il treno d’Istanbul
Mondadori
9,50
3

Adesso andiamo ad affrontare altre prove. Credo che fino a Pasqua poco ci sarà da viaggiare e molto da fare, per casa e per me. Cercheremo allora di mettere insieme e di riannodare fili che sembrano andarsi a disfare. Proseguendo in questo fantastico nuovo anno, di affetti.

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