domenica 22 febbraio 2015

Febbraio nero - 22 febbraio 2015

E sarebbe ancor più nero se non ci fosse, almeno, un ottimo Lucarelli d’annata ad illuminare queste trame, ed un Milani sempre all’altezza che, pur invischiato in un finale che avrei visto diverso, ha sempre facilità di scrittura e di lettura. Nero invece sarebbe se dovessimo solo guardare ai libri di Leoni (di cui si è letto di meglio) o di Sarasso (di cui non si leggerà altro).
Giulio Leoni “La crociata delle tenebre” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 15/07/2013– I: 20/07/2014 – T: 24/07/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 393; anno 2007]
Poco meno di un mese è passato dalla lettura del precedente “Noir nella storia”, un decente giallo storico francese. Ora, passando ad un autore di cui avevo letto altre prove, mi aspettavo qualcosa in più. Invece, siamo scesi in una specie di “Fossa delle Marianne” del piacere di leggere. Leoni ebbe una quindicina di anni fa l’idea di riprendere quanto altri fecero e fanno con personaggi famosi, mettendoli in situazioni “altre” da quelle cui sono noti. E decise, da buon letterato, di utilizzare Dante Alighieri ed un’ambientazione trecentesca per questi suoi mistery. Otto anni fa, all’inizio di queste trame, ne lessi due, che commentai telegraficamente così: “L’idea sembrava promettente, ma le trame sono flebili e, volendo toccare tutto, fa enormi guazzabugli.” Certo le prime trame non andavano molto per le lunghe, volendo fissare ricordi istantanei. Ora, essendo uscito il quarto ed ultimo volume (noto) della serie dantesca, pur con dei tempi biblici, ne ho affrontato la lettura. E ribadisco e rafforzo i giudizi di allora. L’idea di mettere il buon Dante, nel mezzo dell’esercizio della sua vita pubblica, in situazioni “gialle” sarebbe quanto meno da prendere come divertente. Peccato che qui, la parte noir sia talmente strampalata da risultare improbabile ed improponibile. Leoni si salva certo in alcuni punti, perché conosce molto bene sia Dante sia Virgilio sia gli scenari del Trecento a cavallo dell’Anno Santo. Scenari che, per sommi capi, conosciamo anche noi. Così non ci meravigliamo di vedere Dante come ambasciatore di Firenze alla corte di Bonifacio VIII (fatto storico), di vedere in Roma le lotte tra Caetani e Colonna (idem) compresa la presenza di Giacomo “Sciarra” Colonna, quello dello schiaffo di Anagni (idem), di sentire da lontano i brontolii di Filippo il bello verso i Templari (idem), di farci giungere le notizie di lotte e di cambiamenti sempre in quel di Firenze tra Bianchi e Neri (ari-idem). Ed anche fatto storico accertato è il permanere di Dante più del previsto in Roma, trattenuto ora da questo ora da quel motivo, tanto che, visti i capovolgimenti avvenuti nel frattempo in Firenze, lui stesso sarà bandito ed esule errerà per l’italico suolo, consolandosi nel comporre la sua magistrale Commedia. Dove ad esempio metterà il papa che tanto ha osteggiato all’Inferno benché il prelato d’Anagni non sia ancora morto. Ma non si può, pena di rasentare il ridicolo, terminare quasi 400 pagine di “dantologia”, con la seguente frase: “ripeté, alzando gli occhi alle stelle.” Ma ci si prende in giro? Quanto si cade in basso da ”e quindi uscimmo a riveder le stelle”, da “puro e disposto a salire alle stelle”, per arrivare a “l’amor che move il sole e l’altre stelle.” Detto quindi delle brame letterarie del nostro scrittore, veniamo ora alla risibile storia “noir”. Che quando Dante arriva in quel di Roma (dove devo ribadire la capacità, unica forse, di ricostruire alcuni elementi della topografia cittadina veramente notevoli, soprattutto nella zona che meglio conosco, intorno a Castel Sant’Angelo) vengono ripescate dal Tevere diverse donne “eviscerate”. Ma sono prostitute, e nessuno se ne cura. Solo Dante, pur preso dalle beghe politiche, si arrovella ogni tanto su questo problema. Intanto viene preso sotto la protezione di un senatore romano, tal Saturnino Spada (inventato) che non solo gli regala una copia autografa dell’Eneide (falso), ma lo coinvolge nell’idea di una nuova crociata per liberare Gerusalemme. Crociata ovviamente falsa (perché sarebbe stata la decima, mentre nove furono le missioni in Terra Santa), e di copertura di una folle idea, nella quale lo Spada coinvolge la bella figlia Fiamma (che tenta di sedurre Dante), lo Sciarra Colonna di cui sopra, un legato veneziano Martino Canal da Vinegia (reale), il capo della comunità ebraica di Roma Manoello Giudeo (nome volgarizzato di Immanuel Romano, reale poeta ebraico vissuto a Roma nel periodo) ed un persiano zoroastriano cabalista, tal Kansbar. L’idea folle di Spada, cui non si sa quanto gli altri assecondino fino in fondo, è di riportare in Roma il culto di Iside. Una volta scoperta questa “bubbola”, tutto ne scende di conseguenza: gli eviscerati sono ovviamente tentativi di ripercorrere l’antico rito della mummificazione egiziana. La rivolta degli improbabili finisce nel novembre del 1301 durante una delle solite esondazioni del Tevere. Il tutto senza coinvolgerci minimamente né nella parte gialla (troppo campata per aria e trattata in margine) né nella parte storica (troppo travisata in maniera “goliardica” per approntare quella fantomatica crociata). Insomma, ne parlai male allora, ne leggo perché parte di una collana per altri versi meritoria (ed alla fine se ne tirerà le somme), ma ribadisco il mio totale disappunto verso questo inutile libro.
Carlo Lucarelli “L’ispettore Coliandro” Corriere della Sera 17 euro 6,90
[A: 14/03/2014 – I: 31/08/2014 – T: 03/09/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 323; anno 2009]
Un libro che in realtà è una trilogia, ma che va letto come se fossero 2 capitoli e ½ dello stesso romanzo. Un libro di un autore di cui, dai primi scritti del 1990, ho molto, anche se non tutto. Che molto mi piacque e seguì nel suo primo decennio di attività, e che poi continua ad orecchiare, anche se non con la stessa intensità. Infine, una collana, quella del Giallo Italiano del Corriere che, dopo le prime sedici uscite con molto Scerbanenco, propone un’altra dozzina di romanzi, a partire da questo di Lucarelli. Ho inoltre indicato come data di uscita quella dei tre capitoli, come li chiamo io, in un’unica confezione, mentre singolarmente abbiamo il racconto “Nikita” del 1991, il primo romanzo “Falange armata” del 1993 ed il capitolo finale “Il giorno del lupo” del 1994. Li avevo già nella mia libreria, e li avevo già letti quasi venti anni fa. Ora, tuttavia, ho trovato il gusto di rileggerli, sia per vederne il tempo passato, sia, appunto, per gustarli in una soluzione unica. Ma prima parliamo dell’autore, quando, ancora non travolto, benignamente e con merito, dai fasti televisivi dei misteri notturni ed altre sue meritevoli trasmissioni, andava presentando il libro “Autosole” appena pubblicato. Era il 2 luglio del 1998, e si stava alla fiera dei libri in Trastevere. Alla fine della divertente serata, mi autografò il libro, ma mentre mi allontanavo, mi accorsi che aveva scritto come data 1 luglio. Tornai indietro, e, una volta andati quasi tutti i presenti, rimasi con lui e discettammo a lungo su quel lapsus. Più che altro per inventare una trama, dove un misterioso assassino usava proprio il trucco della data per costruirsi un alibi. Un esercizio intellettuale, che non portò mai a nessun racconto (che io sappia), ma ad una buona birra in Piazza S. Egidio. Veniamo allora a questi tre capitoli, dove come avrete capito ho una gradita condiscendenza verso l’autore degli anni Novanta. Come spiega nella prefazione postuma, cioè scritta per l’uscita nel 2009, Lucarelli voleva mettere all’opera un poliziotto contemporaneo, dopo aver esordito con l’ispettore De Luca che agiva nei primi anni dell’ultima guerra. Lo voleva inserito nella sua Bologna, ma, volendo usare dei registri un po’ forti, lo stava pensando “machista e razzista”. Cioè l’esatto contrario dei suoi credo. Ma anche più sfortunato che ottuso. Ora, un simile perdente poteva nascere sbilenco se non avesse trovato un contraltare allo sviluppo della storia. Per questo inserisce Simona detta Nikita, punk, dark, psycho, insomma tutto il contrario di Coliandro. Ed è sempre grazie alle intuizioni ed alle conoscenze di Nikita che Coliandro risolve o fa risolvere i casi che affronta. Il primo racconto serve come ad introdurre l’ambiente. Conosciamo Coliandro, Nikita e le anime vaganti nella notte bolognese (quelle che torneranno in “Almost Blue” tanto per intenderci). Coliandro, da sempre emarginato perché da buon razzista ed infatuato di Clint Eastwood, prende a pugni un arrestato prima di farlo parlare, si immischia in situazioni che non gli sono proprie. Cercando di farsi valere come “ispettore Callaghan”, fa solo in modo di mandare a monte un’operazione dei carabinieri. Ma conosce Nikita, e tra i due nasce uno strano sodalizio (opposti che si incontrano). E sarà Nikita a dargli una dritta che risolve un problema di piccoli hacker da strapazzo. Ovviamente il questore la prende a male, e nel romanzo lo trasferisce all’ufficio passaporti. “Falange armata” nasce sull’onda delle prime vicende della Uno bianca, e termina prima che la vicenda reale sia conclusa. Ma serve a Lucarelli per tracciare uno schizzo degli ambienti neonazisti bolognesi. Benché ai passaporti, si aggira sempre per mettersi nei guai, cercando di trovare bandoli di matasse nere tra naziskin ed altre frange eversive. Peccato che, appunto come si scoprirà, ci sono poliziotti in mezzo al casino. Tuttavia, per muoversi negli ambienti “out” non trova di meglio che rivolgersi a Nikita, coinvolgendola in una serie di inseguimenti, botte, uccisioni ed altri momenti difficili. Mentre tutti cercano una pista che non c’è, Coliandro e Nikita si mettono sulle piste di uno skinhead ucciso dopo essere stato fermato. E dopo di lui, tutti quelli che ne sono venuti a contatto fanno una brutta fine. Cosa che sta per fare anche Coliandro, salvato ovviamente da Nikita (con la quale passerà l’unica notte d’amore di tutto il libro). Il caso si risolve, ma Coliandro è sempre più considerato ottuso ed inaffidabile, tanto che dai Passaporti lo passano allo Spaccio. Dove farà casini amministrativi inenarrabili (tipo ordinare 1.500 inutili vasetti di yogurt ai mirtilli), ma dove Nikita lo coinvolge perché ora facendo il Pony Express si ritrova tra le mani una busta con 200 milioni di lire (siamo nel ’94, ve l’ho detto, no?). Ovviamente sono soldi rubati da una cosca mafiosa, che scatenano una guerra tra bande con morti ed altro. E con un coinvolgimento di qualche magistrato compiacente. Altrettanto ovviamente, quando deve scegliere tra due magistrati, Coliandro opta per quello sbagliato, coinvolgendo anche qui Nikita in vicende che li porteranno sull’orlo della rovina. Fortunatamente, i mafiosi decidono che la guerra va contro i loro interessi, e fanno in modo di fermare il tutto, poco prima che Coliandro e Nikita potessero finire uccisi. Finiscono così le avventure dei nostri, con Nikita che si allontana da lui, perché incompatibili, anche se un filo di sensazioni positive scorre fra i due. Purtroppo, Lucarelli non ha trovato altre storie che potessero adattarsi al nostro Coliandro, così che lo lasciamo, sempre macho, sempre razzista, spostato dallo spaccio alle autopattuglie (ma in veste di meccanico…). Lucarelli ha in queste storie un bel piglio ironico che era una delle caratteristiche che più mi erano piaciute all’epoca. E tra un motto e l’altro, riesce a mettere in luce fasti e nefasti della Bologna degli anni ’90, utilizzando quelle modalità che un grande scrittore svizzero, anche se poco noto, Friedrich Glauser disse per la narrativa gialla: “Un ottimo mezzo per dire cose sensate”. Finisco con due note di opposta tendenza. La prima, piacevole, quando Coliandro confessa di odiare il calcio e di preferire la Formula 1 e le corse automobilistica. E vai! La seconda, una tirata d’orecchi ai curatori, che intitolano il libro “L’ispettore Coliandro”, quando per tutte e 323 le pagine Coliandro è solo un sovraintendente, e solo nell’ultima pagina abbiamo il piacere di vedere la cerimonia per la sua promozione ad Ispettore (!). Ma ci fosse una volta che qualcuno ne fa una giusta. Meglio la trasposizione a fumetti, che, molto sagacemente, si chiama solo “Coliandro”.
Simone Sarasso “Il paese che amo” Corriere della Sera 26 euro 6,90
[A: 10/05/2014 – I: 03/09/2014 – T: 07/09/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 555; anno 2013]
Uno dei più mi verrebbe da dire brutti, ma forse non è il termine giusto. Insomma, uno dei libri peggio riusciti che abbia letto negli ultimi anni. E non per la scrittura, nel senso che Sarasso sa scrivere, sa intrecciare parole ed immagini, tanto che si riescono a leggere le più di cinquecento pagine senza troppi sforzi. Ma non è un libro riuscito. Innanzi tutto, non è un “giallo” come la collocazione nella collana del Corriere farebbe credere. Sarasso, con scansione annuale dei capitoli, ripercorre, con piccole trasfigurazioni, la storia italiana dal 1980 al 1994. E lo fa minuziosamente, seguendo il filo di tutte le “disavventure” che quei 14 anni hanno portato al paese che amiamo. Si parte appena dopo la strage di Bologna e si arriva alla discesa in campo del fortunatamente ormai ex-cavaliere. E cosa c’è di giallo in tutto ciò? Dove sta il romanzesco? L’unica cosa che l’autore fa è cambiare i nomi, anche se nella excutatio non petita della postfazione tiene a sottolineare che Tito Cobra non è Bettino Craxi, che Ljuba Marekowna non è Ilona Staller, che l’Omino non è Andreotti, che Mauro Fedele non è l’innominato, che Mimmo Incatenato non è Antonio Di Pietro, che lo Zio non è Tito Riina, che Carlo Ciaccia non è Giovanni Falcone. E via con tutta una sfilza di NON. E l’unica invenzione che si permette è di mescolare un po’ le carte, di non far saltare in aria Borsellino, di far rifugiare Craxi in Libano invece che in Tunisia, ed altre piccole amenità. Ma fatto salvo questo intento di piccoli travisamenti, quasi a voler dire: “Ho fatto un’opera di fiction, perché ho cambiato delle carte”, l’unica cosa che il nostro ha fatto è stata di scrivere la Storia, quella con la “S” maiuscola del nostro paese, potendo permettersi, con quelle piccole varianti, di affondare il coltello senza tema di essere accusato di diffamazione. Così Andreotti è colluso con la Mafia, così Craxi fa leggi ad hoc per favorire l’Innominato, e quando Craxi fugge, questi scende in campo. Così i Servizi Segreti sono dietro tutte le stragi, sono dietro la vicenda della Uno Bianca. Così il KGB è dietro l’attentato al Papa. E via elencando tutto quello che è, o è stato. È un prodotto di fiction, quindi non c’è l’obbligo della prova. E pur tuttavia io mi domando: ma chi te l’ha fatto fare? Perché darsi la briga di scrivere tutte queste pagine per raccontarci: che Cosa Nostra porta i soldi in Sicilia dove è più facile impiantare raffinerie di eroina, che i Servizi Segreti (italiani, polacchi, russi, americani) sono sempre al servizio del potere, o del denaro, e che per potere e denaro sono intervenuti (ed intervengono) in tutte le vicende di questo nostro pazzo mondo. Che Craxi, pardon Cobra, è un socialista truffaldino, che intasca miliardi alla faccia del Partito e dell’Italia. Che Andreotti, pardon l’Omino, è dietro a tutte le manovre losche dal 1945 in poi. Che no questo non lo dico, pardon Mauro Fedeli, prima finanzia Craxi, poi ne è finanziato, e poi corrompe quanto rimane del paese che dovremmo amare. I magistrati che non riescono ad indagare perché depistati. L’avvento del Computer che permette di concatenare flussi monetari e che porterà alla scoperta della prima Tangentopoli. L’avvento di Ilona Staller, pardon Ljuba, in fuga dai paesi dell’Est, poi puttana, poi escort, poi pornostar, poi deputato. I mafiosi siciliani che sparacchiano a destra e a manca. E che faranno saltare in aria Falcone. Le infiltrazioni nella Guardia di Finanza per favorire i corrieri della droga. Ma soprattutto, tutto il marcio che non si riesce ad estirpare dal Parlamento, con quella cancrena che, iniziata nella metà degli anni Ottanta, ancora non si riesce a debellare. E forse non ci si riuscirà mai. C’era bisogno di un prodotto di fiction per dire tutto questo? Ed anche altro, che tutti hanno ben presente cosa sia successo in quei 15 anni. C’era bisogno di fare finta? No! Ed alla fine tutto questo travisamento, questo mascheramento del nostro autore cosa ci porta? A dire che qualcuno ha rovinato e sta rovinando il nostro paese? Ben lo sappiamo, e con ben altra forza che un miserrimo finto romanzo poliziesco ci può restituire. Se con Glauser avevamo sottolineato l’utilità del giallo per narrare la realtà, qui narriamo la realtà facendo finta che sia un romanzo. Ma non lo è. È un’operazione inutile. È un libro inutile. È un libro da indicare a dito su come non si debbano scrivere né i romanzi polizieschi né i saggi sulla realtà. L’ho letto io per voi. Voi evitatelo, se potete. Un ultimo appunto di metodo: l’autore ci dice che Ljuba, in Polonia, si abbuffava di “insalata russa”, ma in Polonia questa si chiamava (e si chiama) insalata Olivier o insalata imperiale. Attenzione anche ai particolari, please!
Mino Milani “Tradimenti” Corriere della Sera 24 euro 6,90
[A: 26/04/2014 – I: 18/09/2014 – T: 20/09/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 197; anno 2000]
Peccato che un finale non all’altezza porti il libro nelle secche della media valutazione. Aveva invece iniziato alla grande, e stava veleggiando discretamente alto. D’altra parte lo scrittore non è certo un pivello alle prime armi, anzi è un noto autore di penna. Noto forse molto a me per le sue sceneggiature di novelle a fumetti (quelle che ora si chiamano con un termine inglese “graphic novel”). E ne ricordo le trame per alcuni racconti di Hugo Pratt, di Sergio Toppi e di Dino Battaglia. Insomma, un grande. Che qui comincia con una bella atmosfera di tensione. Tra Hitchcock e “Frantic”. Alberto torna da un viaggio di lavoro in America, va nella casa in campagna e trova un morto nel letto. Un morto di infarto, ma la casa è aperta come se il morto ne avesse accesso. Facciamo nel frattempo conoscenza con Ambra, la moglie di Alberto. E con il nostro che si fa domande su domande. Come ha fatto ad entrare? Chi è? Perché? Dopo una trentina di pagine di suspense mentale (forse un po’ troppe) un accidente fa scoprire nuove carte. Viene arrestato un giovane alla guida di un SUV rubato. Ed il SUV è di un tale Tedeschi, guarda caso il morto. Persona anonima che pare faccia il commerciante o il rappresentante di qualcosa. Separato da una moglie che, guarda caso, abita poco distante dalla casa della morte. A parte le angosce, conosciamo anche l’amico d’infanzia di Alberto, l’avvocato Marco, una che pensa solo ai soldi, ma che, ad ogni richiesta di Alberto è pronto alla bisogna. Si parla molto in questa fase, ma anche qui forse c’era bisogno di un po’ più di ritmo. Ritmo che si trova di colpo quando Ambra muore investita da un pirata della strada. Peccato che perda anche la borsa, dove potevamo trovare degli indizi. Perché Alberto viene contattato da un’agenzia di viaggi per il pagamento del biglietto di Ambra. Che non era per Parigi, come si pensava, ma di sola andata per la Giamaica. E dal costo di svariati milioni. Alberto entra nel pallone. Chiede aiuto a Marco che trova traccia dei soldi di Ambra. Un conto corrente in Svizzera con più di un miliardo, intestato anche a Rosa, la moglie del morto. Inoltre, in una pozza, viene ritrovata una chiave della casa della morte che non si sapeva l’esistenza. Alberto si precipita da Rosa, ma la trova morta con la casa saltata in aria per una fuga di gas. Alberto continua a fare la figura del pesce in barile (come Harrison Ford, ricordate), ma di un barile che non capisce e non conosce il senso. Con l’aiuto degli investigatori di Marco, mette su qualche altro brandello. E, girando e tormentandosi, tira fuori la sua storia. Ambra ha un’attività losca, in combutta con il Tedeschi e la di lui moglie. Dati i frequenti viaggi di Alberto, ed una sua pretesa conoscenza del mondo antiquario (cosa anch’essa dimostratasi fallace) Ambra si sposta a suo piacimento, si incontra per i suoi traffici con il morto d’infarto. E cosa di meglio della casa in campagna, isolata e poco frequentata? Nell’ultimo incontro però Tedeschi ha realmente un infarto. Ambra spaventata fugge dalla casa, getta la chiave nel pozzo, avverte Rosa e tenta di ricucire le fila dell’inghippo. Ma qualcosa è andato storto, i procacciatori d’affari loschi (e non sappiamo quali siano) nella cui rete sono invischiati Ambra, Rosa ed il Tedeschi sembrano ben lontani dall’aver esaurito i loro compiti. Tant’è che Marco convince Alberto a defilarsi. E mentre Alberto sta lì che pensa e ripensa, su come abbia passato dieci anni accanto ad una persona che si rivela diversa da come gli era sembrata, arriva l’ultima ferale notizia. Marco muore in un incidente d’auto. Alberto, e noi con lui, cominciamo a pensare che ci sia qualche legame losco in più. Purtroppo a questo punto Milani taglia i fili, Alberto va dai carabinieri per denunciare tutti i suoi sospetti, ed il libro finisce così. Per questo prende qualcosa in meno. Un giallo che aveva una sua tensione, un suo andamento, non può rimanere irrisolto. In cosa trafficava Ambra? Droga o spionaggio? Rimane il dubbio, ed un libro che ti lascia dubbioso non ha raggiunto la sua meta. Un omaggio sempre e comunque a Milani ed ai cartoonist con cui ha collaborato. Ma speravo in un finale migliore.
Beh, anche se non completamente, almeno ci si prova a riprendere una strada che si percorre con gioia, anche se mai con facilità. Intanto, ritorna l’allegato di “Curarsi con i libri”, sperando che anche a voi qualcuno dei 10 libri citati serva a curare la depressione (e sono pronto a regalarli tutti ai miei depressi dintorni).
Infine riprendiamo anche a mettere a posto questo e quello, dopo che (pare) si sia in uscita da un brutto periodo (odontoiatrico).

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Mi sembra una coincidenza di cui tenere conto, il fatto che le alchimie delle letture portano le mie libropeute ad occuparsi di depressione.

DEPRESSIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER TIRARSI SU

Jorge Amado                    Dona Flor e i suoi due mariti                       
Jurek Becker                    Jakob il bugiardo                                      
Andrea Camilleri                Il birraio di Preston                                   
Gianni Celati                     Le avventure di Guizzardi                           
Patrick Dennis                   Zia Mame                                                
Fannie Flagg                     Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop  
Carlo Lucentini e Franco Fruttero La donna della domenica                     
Nick Hornby                      Febbre a 90°                                           
Stendhal                          La certosa di Parma                                  
Winifred Watson                Un giorno di gloria per Miss Pettigrew           

Bugiardino

Di questi dieci libri, debbo dire che l’unico che non è ancora transitato per la mia libreria è quello di Jurek Becker. Perché Camilleri, Hornby e Watson li ho letti da poco e sotto ne vedete le trame. Amado, Celati, Flagg e i due torinesi fanno parte delle letture storiche fatte lo scorso secolo. E dove debbo die che “La donna della domenica” l’ho anche riletto per il piacere della trama, che i pomodori non li ho mangiati, ma ne ho visto (e gustato) il bel film che ne fu ratto, che Amado l’ho letto ma non sempre l’ho amato (ah, ah) e Celati l’ho letto con gli occhi ma non credo di averlo capito. Infine, “Zia Mame” è negli scaffali in attesa di essere letta, e “La certosa di Parma” c’è l’ho in formato eBook, e chissà se lo leggerò. Ma veniamo alle letture “recenti”.
Andrea Camilleri “Il birraio di Preston” Sellerio euro 8
[trama del 20 giugno 2010]
Finalmente sono riuscito a leggere il libro che ha dato il via alla saga di Camilleri, non nel senso di Montalbano, ma nel senso della Sicilia in generale e di Vigata in particolare. Piacevole e pieno di spunti, anche se mi ha fatto arrabbiare trovarmi scippato di un’altra idea mia (dopo quella rubatami da Diego Da Silva sui testi delle canzoni degli anni settanta), quella di utilizzare brani di altri libri come commento ai capitoli, per mescolare il tutto (e rendere un sano omaggio a Calvino). Qui si usano gli incipit di vari autori per principiare i capitoli che puntellano la saga del teatro vigatese. In un gioco tutto di equivoci e scambi vari. Strano poi avere questa sensazione di libro datato (in fondo è uscito una ventina d’anni fa) ma fuori dal tempo. Uno dei migliori esempi della verve di Camilleri. Storie che si intrecciano (gli amanti per una notte, il poliziotto cortese, il mazziniano romano fuori di testa, il prefetto piemontese forte della sua autorità, il mafiosetto locale, ed il grande capomafia, non a caso chiamato l’onorevole) intorno al nodo principale: l’inaugurazione del nuovo teatro di Vigata dove il prefetto vuole a tutti i costi far rappresentare un’opera risibile, quel “‘Birraio di Preston” di Luigi Ricci, realmente rappresentato al Teatro della Pergola in Firenze nel 1847 (e di cui il libretto d’opera esiste ed è conservato nella Biblioteca Nazionale Australiana!!!), pensando di averlo visto con la sua futura sposa (ma si sbagliava, era il Boccherini). E da questo scambio, e dalla pervicacia ed arroganza del potere, nascono tutti gli altri scambi, di persone, di amanti, di situazioni. La cifra è allegra, la lingua di base il dialetto vigatese, con inserti piemontesi (il prefetto), toscani (la prefettessa) e romani (il mazziniano). Peccato che alla fine dei giochi tutto vada un po’ male, e non c’è nessuno che ne esca non dico felice, ma neanche allegro. Questo sembra poi il messaggio finale di Camilleri, dove i soldi ed il potere mettono le mani non può che finire sempre e comunque male. Una lettura di testa e non di cuore, ma comunque letto con gusto.
Nick Hornby “Febbre a 90’” Guanda euro 7,50
[trama del 06 maggio 2012]
Mi è discretamente piaciuto, anche se sono contento di averlo letto ora e non allora, quando Nick lo scrisse una ventina di anni fa, e che vidi alla metà degli anni Novanta. Perché in realtà non è un romanzo (ed io avevo appena letto “Alta fedeltà” che ho trovato stupendo). Non è una cronaca sportiva. Non è un’autobiografia. È un ibrido, in effetti. Contiene un po’ di tutto, anche se il filo conduttore è comunque il pallone. Il calcio. La nascita di una passione. I guasti che ne derivano a chi ne rimane “addicted”. L’autore, ormai trentacinquenne, sta cercando di praticare la sua autentica passione, quella di scrivere. Ma, come tutti gli aspiranti scrittori, dovrà passare sotto mille forche caudine di illusioni e delusioni prima di riuscire a trovare una sua via per vivere con quello che ama fare. Ha già fatto tanti mestieri (insegnante, impiegato, giornalista) e nell’attesa di sfondare, decide di buttare su carta quello che conosce meglio. Quello che lo accompagna ormai da venti anni: il calcio e la passione per la squadra della Londra del Nord, l’Arsenal. Ne esce fuori questo ibrido, che, seppur maggiormente dedicato al calcio, nel filo dei ricordi, partita dopo partita, ricostruisce da un lato la biografia di Nick (il rapporto con il padre, soprattutto quando questi divorzia e va a vivere con un’altra donna, dalla quale avrà altri figli, il rapporto con il fratellastro, le tante storie di lavori iniziati e lasciati, le tante storie di donne, prese e da cui veniva lasciato) e dall’altro la biografia mentale di una persona cui il calcio entra nel sangue e cerca di convivere con questo demone. Difficile, a volte, per chi non mastica di calcio, districarsi tra le partite di campionato inglese, di coppa, partite internazionali e partite della nazionale. Ma se si finge di capire queste parti, e ci si lascia cullare dagli interventi “sociali” di Nick, si riesce ad entrare in alcune possibili discussioni che prescindono dallo specifico arsenaliano, in particolare sulla violenza negli stadi (e qui l’autore fa delle interessanti digressioni sia sull’Heysel che su Hillsbrough) e sulla psicologia del tifoso (non dell’hooligan, ma del tifoso appassionato di calcio, anche sciovinista se vogliamo, ma non violento). Mentre sulla prima lascio la parola all’autore (“non ci sono rimedi e costrizioni, ma solo possibilità di cambiamento della mentalità”), la seconda mi ha intrigato. Perché, se estrapoliamo dal contesto calcistico, è anche un po’ la metafora di chi lega se stesso ad avvenimenti esterni, di chi (anche se non segue dal vivo) vede una vittoria della propria squadra come un segnale positivo per la propria vita o una sconfitta (di una squadra, di una macchina, di un tennista, di uno sciatore, a seconda delle proprie passioni) come un monito che anche qualcosa d’altro andrà male. Ed è interessante seguire il percorso che ci fa fare Hornby, cominciando dalle prime partite cui lo porta il padre divorziando. Partite che diventano l’elemento che lo accomuna a qualcosa che sta perdendo. Per poi diventare un feticcio (se non vado, la mia squadra perde; se vado, anche se perde, posso sfogarmi con i miei amici a me sodali). Ed alfine una malattia, un elemento cui ruotano pomeriggi o sere importanti della propria vita. Ne riconosco i sintomi, quelli che vidi negli anni sessanta, quando fui costretto dalla cerchia familiare a trovare qualcosa da tifare (tutti seguivano il calcio, ed io dovevo omologarmi). Per poi, con il senno della maturità, allontanarsene in modo critico (mentre padri, madri e cugini continuavano ad accapigliarsi). Con l’orecchio sentire gente parlare ore ed ore di quello che avrebbe fatto l’allenatore, il portiere, o altro legato alle partite. E non capire come si possa buttare tanta parte della propria vita in simili “palliativi”. Per poi alla fine riconoscere che, se la tua squadra (di calcio, di bridge) vince, sei comunque più contento ed affronti meglio il futuro. Mi accorgo di aver parlato poco del libro in se, ma forse non c’è molto da dire. Meglio averne discusso sugli stimoli che propone. Un solo accenno: mi ha fatto piacere ricordare nelle sue pagine la figura di un bravo calciatore come fu Liam Brady. Alla fine, non è il miglior Hornby che conosco, ma un bel prodotto, degno di aprire una bella discussione su tifosi e sportivi.
“Gli ossessionati [del calcio] … devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale.” (8)
“Una volta credevo … che crescere e diventare adulti fossero due cose analoghe. … Adesso penso che diventare adulti sia una cosa dominata dalla volontà, che si possa scegliere di diventare adulti.” (97)
Winifred Watson “Un giorno di gloria per Miss Pettigrew” BEAT euro 9
[trama del 31 agosto 2014]
Un piccolo gioiellino di quasi ottanta anni, poco noto (a me) così come lo era l’autrice. Ma che esemplifica in letteratura quello che al cinema in quegli anni veniva indicato come “il tocco di Lubitsch”. Un sottile mix di umorismo ed erotismo (anche se mai esplicito e mai volgare). Un romanzo che ci fa vivere con Miss Pettigrew le 24 ore fondamentali della sua vita, e che io mi svolgevo in testa appunto come un film in bianco e nero degli Anni Trenta. Ovviamente con Katherine Hepburn nel ruolo di Miss Pettigrew, che incontriamo la mattina alle 9, dimessa nel suo cappotto marrone, cercare un lavoro in una tipica agenzia di collocamento americana, e da questa mandata a casa di Miss Delysia LaFosse (nome d’arte tipico per una soubrette londinese dell’epoca). Qui comincia la commedia degli equivoci che ci segue per tutto il romanzo. Miss LaFosse (interpretata da Jeanette MacDonald, visto che deve anche cantare) è una finta svampita, che però non sa resistere al fascino maschile. Ed è sballottata tra tanti amori “da un giorno” (cose che scandalizza la nostra, che ben presto confessa anche di chiamarsi Ginevra). Ginevra riesce a buttar fuori casa con uno stratagemma l’inconcludente Phil, dato che sta arrivando chi mette i suoi soldi per mantenere la bella al suo tenore di vita. Ecco Nick (un ottimo Clark Gable), rude, ma di un fascino intenso, tanto che Delysia cade sempre ai suoi piedi a bocca aperta. Ginevra però si accorge del pericolo insito in lui, e riesce a posporre le sue attenzioni di almeno un giorno. Ginevra si muove con quel suo tocco di perbenismo ma anche con quel pizzico di follia che le viene dal contatto con un mondo che aveva visto solo al cinema o letto in qualche romanzo d’appendice. Ma la sua capacità camaleontica di appropriarsi di questi personaggi la fa comportare come se avesse sempre vissuto “nel bel mondo”. Facciamo quindi la conoscenza con Michael (un giovane Gary Cooper) indeciso fra la rudezza e la gentilezza. Michael ama Delysia, ma non ha il fascino di Nick. E la soubrette, ogni volta che vede Nick, cade in deliquio. Arriva anche Edythe Dubarry (particina disegnata apposta per Lucille Ball), l’estetista, che ha litigato con Tony (una caratterizzazione di David Niven)  e non sa come fare la pace. Ormai Ginevra viene presa nel vortice degli avvenimenti. Edythe le trasforma il volto, Delysia le presta un vestito di seta, e tutte si recano al Pavone in Rosso, il locale dove la soubrette canta. E dove si ritrovano tutti. Aiutata da qualche bicchiere di sherry, Ginevra impartisce una lezione di bon ton al malcapitato Tony, in uno scambio di battute “da film”, alla fine del quale lo riappacifica con Edythe. Al tavolo dei nostri gaudenti, si presenta anche il maturo Joe (Spencer Tracy al meglio), venditore di corsetti per donne, arricchitosi con le vendite, e che prova a spendere tra i fumi del lusso gli anni prima di un inevitabile declino fisico. Nel bel mezzo delle schermaglie, arriva anche Nick, e Delysia sta per cadere ai suoi piedi, come tutte le volte che lo vede. Fortunatamente, Ginevra sobilla Michael che lo prende a pugni. Momento epico: se Nick reagisce, Miss LaFosse sarà perduta e tornerà con lui. Ma Nick è un neo-ricco e non vuol perdere la faccia in un locale in cui è ben noto. Se ne va. A questo punto tutti si danno “alla macchia”. Tony ed Edythe spariscono subito, che il loro momento di gloria è passato. Anche Delysia e Michael se ne vanno, così che Ginevra si trova nel taxi con Joe. Dove finalmente riesce a confessare la sua giornata “misplaced”. In un film moderno, Ginevra tornerebbe nell’angolo da dove è partita. Ma siamo nelle commedie sofisticate, nel tripudio dei telefoni rosa. Joe riaccompagna Ginevra da Delysia. Qui la nostra trova i due piccioncini che tubano, confessa anche a loro la sua mistificazione, ma i nostri ormai le vogliono talmente bene che le propongono di diventare la governante della loro futura casa, ora che si sposeranno. Ginevra è già in Paradiso, ma forse salirà anche più in alto che Joe le sta per telefonare e … Sipario. Ovviamente il romanzo non fu trasportato sullo schermo, e le parti sono una mia invenzione (anche se plausibile). Rimane la scrittura della Watson, fresca ed accattivante. Il suo prendere in giro il perbenismo londinese, inventando situazioni nuove ad ogni volgere di ora. Tanto che arriviamo alle 3 di notte senza accorgercene. Certo, molte situazioni sono datate e/o tendono a ripetersi. Penso che molto sia anche dovuto al fatto che in questo romanzo siano espressioni poi diventate celebri in altri film. Una specie di capostipite. Con la nostra scrittrice che, poco dopo, si sposa e smette di scrivere. Lasciandoci questo piccolo gioiello che mi ha consolato dei miei dolori epicondiliaci.

Conclusioni


Parlando solo di quelli citati, mentre Camilleri e Watson ben rispondono agli stimoli anti-depressivi proposti, ritengo che il libro di Hornby possa essere utile solo in cure contro la depressione di tipo omeopatico (cioè, provate a far leggere un libro sul calcio a chi di calcio non si interessa e vedrete che in depressione in vece di uscirne ci entrerà). Ed anche per gli altri, si va oscillando. I pomodori e la donna della domenica sono in linea con l’assunto, Celati è in linea con Hornby. Insomma, una cura da prendere con le molle, come da non sottovalutare che si sente (ed è) realmente depresso/a.

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