E sarebbe ancor più nero se non
ci fosse, almeno, un ottimo Lucarelli d’annata ad illuminare queste trame, ed
un Milani sempre all’altezza che, pur invischiato in un finale che avrei visto
diverso, ha sempre facilità di scrittura e di lettura. Nero invece sarebbe se
dovessimo solo guardare ai libri di Leoni (di cui si è letto di meglio) o di
Sarasso (di cui non si leggerà altro).
Giulio Leoni “La crociata delle tenebre” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 15/07/2013– I: 20/07/2014 – T: 24/07/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 393;
anno 2007]
Poco
meno di un mese è passato dalla lettura del precedente “Noir nella storia”, un
decente giallo storico francese. Ora, passando ad un autore di cui avevo letto
altre prove, mi aspettavo qualcosa in più. Invece, siamo scesi in una specie di
“Fossa delle Marianne” del piacere di leggere. Leoni ebbe una quindicina di
anni fa l’idea di riprendere quanto altri fecero e fanno con personaggi famosi,
mettendoli in situazioni “altre” da quelle cui sono noti. E decise, da buon
letterato, di utilizzare Dante Alighieri ed un’ambientazione trecentesca per
questi suoi mistery. Otto anni fa, all’inizio di queste trame, ne lessi due,
che commentai telegraficamente così: “L’idea sembrava promettente, ma le trame
sono flebili e, volendo toccare tutto, fa enormi guazzabugli.” Certo le prime
trame non andavano molto per le lunghe, volendo fissare ricordi istantanei.
Ora, essendo uscito il quarto ed ultimo volume (noto) della serie dantesca, pur
con dei tempi biblici, ne ho affrontato la lettura. E ribadisco e rafforzo i
giudizi di allora. L’idea di mettere il buon Dante, nel mezzo dell’esercizio
della sua vita pubblica, in situazioni “gialle” sarebbe quanto meno da prendere
come divertente. Peccato che qui, la parte noir sia talmente strampalata da
risultare improbabile ed improponibile. Leoni si salva certo in alcuni punti,
perché conosce molto bene sia Dante sia Virgilio sia gli scenari del Trecento a
cavallo dell’Anno Santo. Scenari che, per sommi capi, conosciamo anche noi.
Così non ci meravigliamo di vedere Dante come ambasciatore di Firenze alla
corte di Bonifacio VIII (fatto storico), di vedere in Roma le lotte tra Caetani
e Colonna (idem) compresa la presenza di Giacomo “Sciarra” Colonna, quello
dello schiaffo di Anagni (idem), di sentire da lontano i brontolii di Filippo
il bello verso i Templari (idem), di farci giungere le notizie di lotte e di
cambiamenti sempre in quel di Firenze tra Bianchi e Neri (ari-idem). Ed anche
fatto storico accertato è il permanere di Dante più del previsto in Roma,
trattenuto ora da questo ora da quel motivo, tanto che, visti i capovolgimenti
avvenuti nel frattempo in Firenze, lui stesso sarà bandito ed esule errerà per
l’italico suolo, consolandosi nel comporre la sua magistrale Commedia. Dove ad
esempio metterà il papa che tanto ha osteggiato all’Inferno benché il prelato
d’Anagni non sia ancora morto. Ma non si può, pena di rasentare il ridicolo,
terminare quasi 400 pagine di “dantologia”, con la seguente frase: “ripeté,
alzando gli occhi alle stelle.” Ma ci si prende in giro? Quanto si cade in
basso da ”e quindi uscimmo a riveder le stelle”, da “puro e disposto a salire
alle stelle”, per arrivare a “l’amor che move il sole e l’altre stelle.” Detto
quindi delle brame letterarie del nostro scrittore, veniamo ora alla risibile
storia “noir”. Che quando Dante arriva in quel di Roma (dove devo ribadire la
capacità, unica forse, di ricostruire alcuni elementi della topografia
cittadina veramente notevoli, soprattutto nella zona che meglio conosco,
intorno a Castel Sant’Angelo) vengono ripescate dal Tevere diverse donne
“eviscerate”. Ma sono prostitute, e nessuno se ne cura. Solo Dante, pur preso
dalle beghe politiche, si arrovella ogni tanto su questo problema. Intanto
viene preso sotto la protezione di un senatore romano, tal Saturnino Spada
(inventato) che non solo gli regala una copia autografa dell’Eneide (falso), ma
lo coinvolge nell’idea di una nuova crociata per liberare Gerusalemme. Crociata
ovviamente falsa (perché sarebbe stata la decima, mentre nove furono le
missioni in Terra Santa), e di copertura di una folle idea, nella quale lo
Spada coinvolge la bella figlia Fiamma (che tenta di sedurre Dante), lo Sciarra
Colonna di cui sopra, un legato veneziano Martino Canal da Vinegia (reale), il
capo della comunità ebraica di Roma Manoello Giudeo (nome volgarizzato di
Immanuel Romano, reale poeta ebraico vissuto a Roma nel periodo) ed un persiano
zoroastriano cabalista, tal Kansbar. L’idea folle di Spada, cui non si sa
quanto gli altri assecondino fino in fondo, è di riportare in Roma il culto di
Iside. Una volta scoperta questa “bubbola”, tutto ne scende di conseguenza: gli
eviscerati sono ovviamente tentativi di ripercorrere l’antico rito della
mummificazione egiziana. La rivolta degli improbabili finisce nel novembre del
1301 durante una delle solite esondazioni del Tevere. Il tutto senza
coinvolgerci minimamente né nella parte gialla (troppo campata per aria e
trattata in margine) né nella parte storica (troppo travisata in maniera
“goliardica” per approntare quella fantomatica crociata). Insomma, ne parlai
male allora, ne leggo perché parte di una collana per altri versi meritoria (ed
alla fine se ne tirerà le somme), ma ribadisco il mio totale disappunto verso
questo inutile libro.
Carlo Lucarelli “L’ispettore Coliandro” Corriere della Sera 17 euro
6,90
[A: 14/03/2014 – I: 31/08/2014 – T: 03/09/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 323;
anno 2009]
Un
libro che in realtà è una trilogia, ma che va letto come se fossero 2 capitoli
e ½ dello stesso romanzo. Un libro di un autore di cui, dai primi scritti del
1990, ho molto, anche se non tutto. Che molto mi piacque e seguì nel suo primo
decennio di attività, e che poi continua ad orecchiare, anche se non con la
stessa intensità. Infine, una collana, quella del Giallo Italiano del Corriere
che, dopo le prime sedici uscite con molto Scerbanenco, propone un’altra
dozzina di romanzi, a partire da questo di Lucarelli. Ho inoltre indicato come
data di uscita quella dei tre capitoli, come li chiamo io, in un’unica
confezione, mentre singolarmente abbiamo il racconto “Nikita” del 1991, il
primo romanzo “Falange armata” del 1993 ed il capitolo finale “Il giorno del
lupo” del 1994. Li avevo già nella mia libreria, e li avevo già letti quasi
venti anni fa. Ora, tuttavia, ho trovato il gusto di rileggerli, sia per
vederne il tempo passato, sia, appunto, per gustarli in una soluzione unica. Ma
prima parliamo dell’autore, quando, ancora non travolto, benignamente e con
merito, dai fasti televisivi dei misteri notturni ed altre sue meritevoli trasmissioni,
andava presentando il libro “Autosole” appena pubblicato. Era il 2 luglio del
1998, e si stava alla fiera dei libri in Trastevere. Alla fine della divertente
serata, mi autografò il libro, ma mentre mi allontanavo, mi accorsi che aveva
scritto come data 1 luglio. Tornai indietro, e, una volta andati quasi tutti i
presenti, rimasi con lui e discettammo a lungo su quel lapsus. Più che altro
per inventare una trama, dove un misterioso assassino usava proprio il trucco
della data per costruirsi un alibi. Un esercizio intellettuale, che non portò
mai a nessun racconto (che io sappia), ma ad una buona birra in Piazza S.
Egidio. Veniamo allora a questi tre capitoli, dove come avrete capito ho una
gradita condiscendenza verso l’autore degli anni Novanta. Come spiega nella
prefazione postuma, cioè scritta per l’uscita nel 2009, Lucarelli voleva mettere
all’opera un poliziotto contemporaneo, dopo aver esordito con l’ispettore De
Luca che agiva nei primi anni dell’ultima guerra. Lo voleva inserito nella sua
Bologna, ma, volendo usare dei registri un po’ forti, lo stava pensando
“machista e razzista”. Cioè l’esatto contrario dei suoi credo. Ma anche più
sfortunato che ottuso. Ora, un simile perdente poteva nascere sbilenco se non
avesse trovato un contraltare allo sviluppo della storia. Per questo inserisce
Simona detta Nikita, punk, dark, psycho, insomma tutto il contrario di
Coliandro. Ed è sempre grazie alle intuizioni ed alle conoscenze di Nikita che
Coliandro risolve o fa risolvere i casi che affronta. Il primo racconto serve
come ad introdurre l’ambiente. Conosciamo Coliandro, Nikita e le anime vaganti
nella notte bolognese (quelle che torneranno in “Almost Blue” tanto per
intenderci). Coliandro, da sempre emarginato perché da buon razzista ed
infatuato di Clint Eastwood, prende a pugni un arrestato prima di farlo
parlare, si immischia in situazioni che non gli sono proprie. Cercando di farsi
valere come “ispettore Callaghan”, fa solo in modo di mandare a monte
un’operazione dei carabinieri. Ma conosce Nikita, e tra i due nasce uno strano
sodalizio (opposti che si incontrano). E sarà Nikita a dargli una dritta che
risolve un problema di piccoli hacker da strapazzo. Ovviamente il questore la
prende a male, e nel romanzo lo trasferisce all’ufficio passaporti. “Falange
armata” nasce sull’onda delle prime vicende della Uno bianca, e termina prima
che la vicenda reale sia conclusa. Ma serve a Lucarelli per tracciare uno
schizzo degli ambienti neonazisti bolognesi. Benché ai passaporti, si aggira
sempre per mettersi nei guai, cercando di trovare bandoli di matasse nere tra
naziskin ed altre frange eversive. Peccato che, appunto come si scoprirà, ci
sono poliziotti in mezzo al casino. Tuttavia, per muoversi negli ambienti “out”
non trova di meglio che rivolgersi a Nikita, coinvolgendola in una serie di inseguimenti,
botte, uccisioni ed altri momenti difficili. Mentre tutti cercano una pista che
non c’è, Coliandro e Nikita si mettono sulle piste di uno skinhead ucciso dopo
essere stato fermato. E dopo di lui, tutti quelli che ne sono venuti a contatto
fanno una brutta fine. Cosa che sta per fare anche Coliandro, salvato
ovviamente da Nikita (con la quale passerà l’unica notte d’amore di tutto il
libro). Il caso si risolve, ma Coliandro è sempre più considerato ottuso ed
inaffidabile, tanto che dai Passaporti lo passano allo Spaccio. Dove farà
casini amministrativi inenarrabili (tipo ordinare 1.500 inutili vasetti di
yogurt ai mirtilli), ma dove Nikita lo coinvolge perché ora facendo il Pony
Express si ritrova tra le mani una busta con 200 milioni di lire (siamo nel
’94, ve l’ho detto, no?). Ovviamente sono soldi rubati da una cosca mafiosa,
che scatenano una guerra tra bande con morti ed altro. E con un coinvolgimento
di qualche magistrato compiacente. Altrettanto ovviamente, quando deve
scegliere tra due magistrati, Coliandro opta per quello sbagliato, coinvolgendo
anche qui Nikita in vicende che li porteranno sull’orlo della rovina.
Fortunatamente, i mafiosi decidono che la guerra va contro i loro interessi, e
fanno in modo di fermare il tutto, poco prima che Coliandro e Nikita potessero
finire uccisi. Finiscono così le avventure dei nostri, con Nikita che si
allontana da lui, perché incompatibili, anche se un filo di sensazioni positive
scorre fra i due. Purtroppo, Lucarelli non ha trovato altre storie che potessero
adattarsi al nostro Coliandro, così che lo lasciamo, sempre macho, sempre
razzista, spostato dallo spaccio alle autopattuglie (ma in veste di
meccanico…). Lucarelli ha in queste storie un bel piglio ironico che era una
delle caratteristiche che più mi erano piaciute all’epoca. E tra un motto e
l’altro, riesce a mettere in luce fasti e nefasti della Bologna degli anni ’90,
utilizzando quelle modalità che un grande scrittore svizzero, anche se poco
noto, Friedrich Glauser disse per la narrativa gialla: “Un ottimo mezzo per
dire cose sensate”. Finisco con due note di opposta tendenza. La prima,
piacevole, quando Coliandro confessa di odiare il calcio e di preferire la
Formula 1 e le corse automobilistica. E vai! La seconda, una tirata d’orecchi
ai curatori, che intitolano il libro “L’ispettore Coliandro”, quando per tutte
e 323 le pagine Coliandro è solo un sovraintendente, e solo nell’ultima pagina
abbiamo il piacere di vedere la cerimonia per la sua promozione ad Ispettore
(!). Ma ci fosse una volta che qualcuno ne fa una giusta. Meglio la
trasposizione a fumetti, che, molto sagacemente, si chiama solo “Coliandro”.
Simone Sarasso “Il paese che amo” Corriere della Sera 26 euro 6,90
[A: 10/05/2014 – I: 03/09/2014 – T: 07/09/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 555;
anno 2013]
Uno
dei più mi verrebbe da dire brutti, ma forse non è il termine giusto. Insomma,
uno dei libri peggio riusciti che abbia letto negli ultimi anni. E non per la
scrittura, nel senso che Sarasso sa scrivere, sa intrecciare parole ed
immagini, tanto che si riescono a leggere le più di cinquecento pagine senza
troppi sforzi. Ma non è un libro riuscito. Innanzi tutto, non è un “giallo”
come la collocazione nella collana del Corriere farebbe credere. Sarasso, con
scansione annuale dei capitoli, ripercorre, con piccole trasfigurazioni, la storia
italiana dal 1980 al 1994. E lo fa minuziosamente, seguendo il filo di tutte le
“disavventure” che quei 14 anni hanno portato al paese che amiamo. Si parte
appena dopo la strage di Bologna e si arriva alla discesa in campo del
fortunatamente ormai ex-cavaliere. E cosa c’è di giallo in tutto ciò? Dove sta
il romanzesco? L’unica cosa che l’autore fa è cambiare i nomi, anche se nella
excutatio non petita della postfazione tiene a sottolineare che Tito Cobra non
è Bettino Craxi, che Ljuba Marekowna non è Ilona Staller, che l’Omino non è
Andreotti, che Mauro Fedele non è l’innominato, che Mimmo Incatenato non è
Antonio Di Pietro, che lo Zio non è Tito Riina, che Carlo Ciaccia non è Giovanni
Falcone. E via con tutta una sfilza di NON. E l’unica invenzione che si
permette è di mescolare un po’ le carte, di non far saltare in aria Borsellino,
di far rifugiare Craxi in Libano invece che in Tunisia, ed altre piccole
amenità. Ma fatto salvo questo intento di piccoli travisamenti, quasi a voler
dire: “Ho fatto un’opera di fiction, perché ho cambiato delle carte”, l’unica
cosa che il nostro ha fatto è stata di scrivere la Storia, quella con la “S”
maiuscola del nostro paese, potendo permettersi, con quelle piccole varianti,
di affondare il coltello senza tema di essere accusato di diffamazione. Così
Andreotti è colluso con la Mafia, così Craxi fa leggi ad hoc per favorire
l’Innominato, e quando Craxi fugge, questi scende in campo. Così i Servizi
Segreti sono dietro tutte le stragi, sono dietro la vicenda della Uno Bianca.
Così il KGB è dietro l’attentato al Papa. E via elencando tutto quello che è, o
è stato. È un prodotto di fiction, quindi non c’è l’obbligo della prova. E pur
tuttavia io mi domando: ma chi te l’ha fatto fare? Perché darsi la briga di
scrivere tutte queste pagine per raccontarci: che Cosa Nostra porta i soldi in
Sicilia dove è più facile impiantare raffinerie di eroina, che i Servizi
Segreti (italiani, polacchi, russi, americani) sono sempre al servizio del
potere, o del denaro, e che per potere e denaro sono intervenuti (ed
intervengono) in tutte le vicende di questo nostro pazzo mondo. Che Craxi,
pardon Cobra, è un socialista truffaldino, che intasca miliardi alla faccia del
Partito e dell’Italia. Che Andreotti, pardon l’Omino, è dietro a tutte le
manovre losche dal 1945 in poi. Che no questo non lo dico, pardon Mauro Fedeli,
prima finanzia Craxi, poi ne è finanziato, e poi corrompe quanto rimane del
paese che dovremmo amare. I magistrati che non riescono ad indagare perché
depistati. L’avvento del Computer che permette di concatenare flussi monetari e
che porterà alla scoperta della prima Tangentopoli. L’avvento di Ilona Staller,
pardon Ljuba, in fuga dai paesi dell’Est, poi puttana, poi escort, poi
pornostar, poi deputato. I mafiosi siciliani che sparacchiano a destra e a
manca. E che faranno saltare in aria Falcone. Le infiltrazioni nella Guardia di
Finanza per favorire i corrieri della droga. Ma soprattutto, tutto il marcio
che non si riesce ad estirpare dal Parlamento, con quella cancrena che,
iniziata nella metà degli anni Ottanta, ancora non si riesce a debellare. E
forse non ci si riuscirà mai. C’era bisogno di un prodotto di fiction per dire
tutto questo? Ed anche altro, che tutti hanno ben presente cosa sia successo in
quei 15 anni. C’era bisogno di fare finta? No! Ed alla fine tutto questo travisamento,
questo mascheramento del nostro autore cosa ci porta? A dire che qualcuno ha
rovinato e sta rovinando il nostro paese? Ben lo sappiamo, e con ben altra
forza che un miserrimo finto romanzo poliziesco ci può restituire. Se con
Glauser avevamo sottolineato l’utilità del giallo per narrare la realtà, qui narriamo
la realtà facendo finta che sia un romanzo. Ma non lo è. È un’operazione
inutile. È un libro inutile. È un libro da indicare a dito su come non si
debbano scrivere né i romanzi polizieschi né i saggi sulla realtà. L’ho letto
io per voi. Voi evitatelo, se potete. Un ultimo appunto di metodo: l’autore ci
dice che Ljuba, in Polonia, si abbuffava di “insalata russa”, ma in Polonia
questa si chiamava (e si chiama) insalata Olivier o insalata imperiale.
Attenzione anche ai particolari, please!
Mino Milani “Tradimenti” Corriere della Sera 24 euro 6,90
[A: 26/04/2014 – I: 18/09/2014 – T: 20/09/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 197;
anno 2000]
Peccato
che un finale non all’altezza porti il libro nelle secche della media
valutazione. Aveva invece iniziato alla grande, e stava veleggiando
discretamente alto. D’altra parte lo scrittore non è certo un pivello alle
prime armi, anzi è un noto autore di penna. Noto forse molto a me per le sue
sceneggiature di novelle a fumetti (quelle che ora si chiamano con un termine
inglese “graphic novel”). E ne ricordo le trame per alcuni racconti di Hugo
Pratt, di Sergio Toppi e di Dino Battaglia. Insomma, un grande. Che qui
comincia con una bella atmosfera di tensione. Tra Hitchcock e “Frantic”.
Alberto torna da un viaggio di lavoro in America, va nella casa in campagna e
trova un morto nel letto. Un morto di infarto, ma la casa è aperta come se il
morto ne avesse accesso. Facciamo nel frattempo conoscenza con Ambra, la moglie
di Alberto. E con il nostro che si fa domande su domande. Come ha fatto ad
entrare? Chi è? Perché? Dopo una trentina di pagine di suspense mentale (forse
un po’ troppe) un accidente fa scoprire nuove carte. Viene arrestato un giovane
alla guida di un SUV rubato. Ed il SUV è di un tale Tedeschi, guarda caso il
morto. Persona anonima che pare faccia il commerciante o il rappresentante di
qualcosa. Separato da una moglie che, guarda caso, abita poco distante dalla
casa della morte. A parte le angosce, conosciamo anche l’amico d’infanzia di
Alberto, l’avvocato Marco, una che pensa solo ai soldi, ma che, ad ogni
richiesta di Alberto è pronto alla bisogna. Si parla molto in questa fase, ma
anche qui forse c’era bisogno di un po’ più di ritmo. Ritmo che si trova di
colpo quando Ambra muore investita da un pirata della strada. Peccato che perda
anche la borsa, dove potevamo trovare degli indizi. Perché Alberto viene
contattato da un’agenzia di viaggi per il pagamento del biglietto di Ambra. Che
non era per Parigi, come si pensava, ma di sola andata per la Giamaica. E dal costo
di svariati milioni. Alberto entra nel pallone. Chiede aiuto a Marco che trova
traccia dei soldi di Ambra. Un conto corrente in Svizzera con più di un miliardo,
intestato anche a Rosa, la moglie del morto. Inoltre, in una pozza, viene
ritrovata una chiave della casa della morte che non si sapeva l’esistenza.
Alberto si precipita da Rosa, ma la trova morta con la casa saltata in aria per
una fuga di gas. Alberto continua a fare la figura del pesce in barile (come
Harrison Ford, ricordate), ma di un barile che non capisce e non conosce il
senso. Con l’aiuto degli investigatori di Marco, mette su qualche altro
brandello. E, girando e tormentandosi, tira fuori la sua storia. Ambra ha
un’attività losca, in combutta con il Tedeschi e la di lui moglie. Dati i
frequenti viaggi di Alberto, ed una sua pretesa conoscenza del mondo antiquario
(cosa anch’essa dimostratasi fallace) Ambra si sposta a suo piacimento, si incontra
per i suoi traffici con il morto d’infarto. E cosa di meglio della casa in
campagna, isolata e poco frequentata? Nell’ultimo incontro però Tedeschi ha
realmente un infarto. Ambra spaventata fugge dalla casa, getta la chiave nel
pozzo, avverte Rosa e tenta di ricucire le fila dell’inghippo. Ma qualcosa è
andato storto, i procacciatori d’affari loschi (e non sappiamo quali siano)
nella cui rete sono invischiati Ambra, Rosa ed il Tedeschi sembrano ben lontani
dall’aver esaurito i loro compiti. Tant’è che Marco convince Alberto a
defilarsi. E mentre Alberto sta lì che pensa e ripensa, su come abbia passato
dieci anni accanto ad una persona che si rivela diversa da come gli era
sembrata, arriva l’ultima ferale notizia. Marco muore in un incidente d’auto.
Alberto, e noi con lui, cominciamo a pensare che ci sia qualche legame losco in
più. Purtroppo a questo punto Milani taglia i fili, Alberto va dai carabinieri
per denunciare tutti i suoi sospetti, ed il libro finisce così. Per questo
prende qualcosa in meno. Un giallo che aveva una sua tensione, un suo
andamento, non può rimanere irrisolto. In cosa trafficava Ambra? Droga o
spionaggio? Rimane il dubbio, ed un libro che ti lascia dubbioso non ha
raggiunto la sua meta. Un omaggio sempre e comunque a Milani ed ai cartoonist
con cui ha collaborato. Ma speravo in un finale migliore.
Beh, anche se non completamente,
almeno ci si prova a riprendere una strada che si percorre con gioia, anche se
mai con facilità. Intanto, ritorna l’allegato di “Curarsi con i libri”, sperando
che anche a voi qualcuno dei 10 libri citati serva a curare la depressione (e
sono pronto a regalarli tutti ai miei depressi dintorni).
Infine
riprendiamo anche a mettere a posto questo e quello, dopo che (pare) si sia in
uscita da un brutto periodo (odontoiatrico).
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
Mi sembra una coincidenza di cui
tenere conto, il fatto che le alchimie delle letture portano le mie libropeute
ad occuparsi di depressione.
DEPRESSIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER TIRARSI SU
Jorge Amado Dona Flor e i suoi due mariti
Jurek Becker Jakob il bugiardo
Andrea Camilleri Il birraio di Preston
Gianni Celati Le avventure di Guizzardi
Patrick Dennis Zia Mame
Fannie Flagg Pomodori verdi fritti al
caffè di Whistle Stop
Carlo Lucentini e Franco Fruttero
La donna della domenica
Nick Hornby Febbre a 90°
Stendhal La certosa di Parma
Winifred Watson Un giorno di gloria per Miss Pettigrew
Bugiardino
Di
questi dieci libri, debbo dire che l’unico che non è ancora transitato per la
mia libreria è quello di Jurek Becker. Perché Camilleri, Hornby e Watson li ho
letti da poco e sotto ne vedete le trame. Amado, Celati, Flagg e i due torinesi
fanno parte delle letture storiche fatte lo scorso secolo. E dove debbo die che
“La donna della domenica” l’ho anche riletto per il piacere della trama, che i
pomodori non li ho mangiati, ma ne ho visto (e gustato) il bel film che ne fu
ratto, che Amado l’ho letto ma non sempre l’ho amato (ah, ah) e Celati l’ho
letto con gli occhi ma non credo di averlo capito. Infine, “Zia Mame” è negli
scaffali in attesa di essere letta, e “La certosa di Parma” c’è l’ho in formato
eBook, e chissà se lo leggerò. Ma veniamo alle letture “recenti”.
Andrea Camilleri “Il birraio di Preston”
Sellerio euro 8
[trama
del 20 giugno 2010]
Finalmente
sono riuscito a leggere il libro che ha dato il via alla saga di Camilleri, non
nel senso di Montalbano, ma nel senso della Sicilia in generale e di Vigata in
particolare. Piacevole e pieno di spunti, anche se mi ha fatto arrabbiare
trovarmi scippato di un’altra idea mia (dopo quella rubatami da Diego Da Silva
sui testi delle canzoni degli anni settanta), quella di utilizzare brani di
altri libri come commento ai capitoli, per mescolare il tutto (e rendere un
sano omaggio a Calvino). Qui si usano gli incipit di vari autori per
principiare i capitoli che puntellano la saga del teatro vigatese. In un gioco
tutto di equivoci e scambi vari. Strano poi avere questa sensazione di libro
datato (in fondo è uscito una ventina d’anni fa) ma fuori dal tempo. Uno dei
migliori esempi della verve di Camilleri. Storie che si intrecciano (gli amanti
per una notte, il poliziotto cortese, il mazziniano romano fuori di testa, il
prefetto piemontese forte della sua autorità, il mafiosetto locale, ed il
grande capomafia, non a caso chiamato l’onorevole) intorno al nodo principale:
l’inaugurazione del nuovo teatro di Vigata dove il prefetto vuole a tutti i
costi far rappresentare un’opera risibile, quel “‘Birraio di Preston” di Luigi
Ricci, realmente rappresentato al Teatro della Pergola in Firenze nel 1847 (e
di cui il libretto d’opera esiste ed è conservato nella Biblioteca Nazionale
Australiana!!!), pensando di averlo visto con la sua futura sposa (ma si
sbagliava, era il Boccherini). E da questo scambio, e dalla pervicacia ed
arroganza del potere, nascono tutti gli altri scambi, di persone, di amanti, di
situazioni. La cifra è allegra, la lingua di base il dialetto vigatese, con
inserti piemontesi (il prefetto), toscani (la prefettessa) e romani (il
mazziniano). Peccato che alla fine dei giochi tutto vada un po’ male, e non c’è
nessuno che ne esca non dico felice, ma neanche allegro. Questo sembra poi il
messaggio finale di Camilleri, dove i soldi ed il potere mettono le mani non
può che finire sempre e comunque male. Una lettura di testa e non di cuore, ma
comunque letto con gusto.
Nick Hornby “Febbre a 90’” Guanda euro 7,50
[trama
del 06 maggio 2012]
Mi è discretamente piaciuto,
anche se sono contento di averlo letto ora e non allora, quando Nick lo scrisse
una ventina di anni fa, e che vidi alla metà degli anni Novanta. Perché in
realtà non è un romanzo (ed io avevo appena letto “Alta fedeltà” che ho trovato
stupendo). Non è una cronaca sportiva. Non è un’autobiografia. È un ibrido, in
effetti. Contiene un po’ di tutto, anche se il filo conduttore è comunque il
pallone. Il calcio. La nascita di una passione. I guasti che ne derivano a chi
ne rimane “addicted”. L’autore, ormai trentacinquenne, sta cercando di
praticare la sua autentica passione, quella di scrivere. Ma, come tutti gli
aspiranti scrittori, dovrà passare sotto mille forche caudine di illusioni e
delusioni prima di riuscire a trovare una sua via per vivere con quello che ama
fare. Ha già fatto tanti mestieri (insegnante, impiegato, giornalista) e
nell’attesa di sfondare, decide di buttare su carta quello che conosce meglio.
Quello che lo accompagna ormai da venti anni: il calcio e la passione per la
squadra della Londra del Nord, l’Arsenal. Ne esce fuori questo ibrido, che,
seppur maggiormente dedicato al calcio, nel filo dei ricordi, partita dopo
partita, ricostruisce da un lato la biografia di Nick (il rapporto con il
padre, soprattutto quando questi divorzia e va a vivere con un’altra donna,
dalla quale avrà altri figli, il rapporto con il fratellastro, le tante storie
di lavori iniziati e lasciati, le tante storie di donne, prese e da cui veniva
lasciato) e dall’altro la biografia mentale di una persona cui il calcio entra nel
sangue e cerca di convivere con questo demone. Difficile, a volte, per chi non
mastica di calcio, districarsi tra le partite di campionato inglese, di coppa,
partite internazionali e partite della nazionale. Ma se si finge di capire
queste parti, e ci si lascia cullare dagli interventi “sociali” di Nick, si
riesce ad entrare in alcune possibili discussioni che prescindono dallo
specifico arsenaliano, in particolare sulla violenza negli stadi (e qui
l’autore fa delle interessanti digressioni sia sull’Heysel che su Hillsbrough)
e sulla psicologia del tifoso (non dell’hooligan, ma del tifoso appassionato di
calcio, anche sciovinista se vogliamo, ma non violento). Mentre sulla prima
lascio la parola all’autore (“non ci sono rimedi e costrizioni, ma solo
possibilità di cambiamento della mentalità”), la seconda mi ha intrigato.
Perché, se estrapoliamo dal contesto calcistico, è anche un po’ la metafora di
chi lega se stesso ad avvenimenti esterni, di chi (anche se non segue dal vivo)
vede una vittoria della propria squadra come un segnale positivo per la propria
vita o una sconfitta (di una squadra, di una macchina, di un tennista, di uno
sciatore, a seconda delle proprie passioni) come un monito che anche qualcosa
d’altro andrà male. Ed è interessante seguire il percorso che ci fa fare
Hornby, cominciando dalle prime partite cui lo porta il padre divorziando. Partite
che diventano l’elemento che lo accomuna a qualcosa che sta perdendo. Per poi
diventare un feticcio (se non vado, la mia squadra perde; se vado, anche se
perde, posso sfogarmi con i miei amici a me sodali). Ed alfine una malattia, un
elemento cui ruotano pomeriggi o sere importanti della propria vita. Ne riconosco
i sintomi, quelli che vidi negli anni sessanta, quando fui costretto dalla
cerchia familiare a trovare qualcosa da tifare (tutti seguivano il calcio, ed
io dovevo omologarmi). Per poi, con il senno della maturità, allontanarsene in
modo critico (mentre padri, madri e cugini continuavano ad accapigliarsi). Con
l’orecchio sentire gente parlare ore ed ore di quello che avrebbe fatto
l’allenatore, il portiere, o altro legato alle partite. E non capire come si
possa buttare tanta parte della propria vita in simili “palliativi”. Per poi
alla fine riconoscere che, se la tua squadra (di calcio, di bridge) vince, sei
comunque più contento ed affronti meglio il futuro. Mi accorgo di aver parlato
poco del libro in se, ma forse non c’è molto da dire. Meglio averne discusso
sugli stimoli che propone. Un solo accenno: mi ha fatto piacere ricordare nelle
sue pagine la figura di un bravo calciatore come fu Liam Brady. Alla fine, non
è il miglior Hornby che conosco, ma un bel prodotto, degno di aprire una bella
discussione su tifosi e sportivi.
“Gli ossessionati [del calcio] … devono mentire. Se dicessimo sempre la
verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale.” (8)
“Una volta credevo … che crescere e diventare adulti fossero due cose
analoghe. … Adesso penso che diventare adulti sia una cosa dominata dalla
volontà, che si possa scegliere di diventare adulti.” (97)
Winifred Watson “Un giorno di gloria per Miss Pettigrew” BEAT euro 9
[trama
del 31 agosto 2014]
Un
piccolo gioiellino di quasi ottanta anni, poco noto (a me) così come lo era
l’autrice. Ma che esemplifica in letteratura quello che al cinema in quegli
anni veniva indicato come “il tocco di Lubitsch”. Un sottile mix di umorismo ed
erotismo (anche se mai esplicito e mai volgare). Un romanzo che ci fa vivere
con Miss Pettigrew le 24 ore fondamentali della sua vita, e che io mi svolgevo
in testa appunto come un film in bianco e nero degli Anni Trenta. Ovviamente
con Katherine Hepburn nel ruolo di Miss Pettigrew, che incontriamo la mattina
alle 9, dimessa nel suo cappotto marrone, cercare un lavoro in una tipica
agenzia di collocamento americana, e da questa mandata a casa di Miss Delysia
LaFosse (nome d’arte tipico per una soubrette londinese dell’epoca). Qui
comincia la commedia degli equivoci che ci segue per tutto il romanzo. Miss
LaFosse (interpretata da Jeanette MacDonald, visto che deve anche cantare) è
una finta svampita, che però non sa resistere al fascino maschile. Ed è sballottata
tra tanti amori “da un giorno” (cose che scandalizza la nostra, che ben presto
confessa anche di chiamarsi Ginevra). Ginevra riesce a buttar fuori casa con
uno stratagemma l’inconcludente Phil, dato che sta arrivando chi mette i suoi
soldi per mantenere la bella al suo tenore di vita. Ecco Nick (un ottimo Clark
Gable), rude, ma di un fascino intenso, tanto che Delysia cade sempre ai suoi
piedi a bocca aperta. Ginevra però si accorge del pericolo insito in lui, e
riesce a posporre le sue attenzioni di almeno un giorno. Ginevra si muove con
quel suo tocco di perbenismo ma anche con quel pizzico di follia che le viene
dal contatto con un mondo che aveva visto solo al cinema o letto in qualche
romanzo d’appendice. Ma la sua capacità camaleontica di appropriarsi di questi
personaggi la fa comportare come se avesse sempre vissuto “nel bel mondo”.
Facciamo quindi la conoscenza con Michael (un giovane Gary Cooper) indeciso fra
la rudezza e la gentilezza. Michael ama Delysia, ma non ha il fascino di Nick.
E la soubrette, ogni volta che vede Nick, cade in deliquio. Arriva anche Edythe
Dubarry (particina disegnata apposta per Lucille Ball), l’estetista, che ha
litigato con Tony (una caratterizzazione di David Niven) e non sa come fare la pace. Ormai Ginevra
viene presa nel vortice degli avvenimenti. Edythe le trasforma il volto,
Delysia le presta un vestito di seta, e tutte si recano al Pavone in Rosso, il
locale dove la soubrette canta. E dove si ritrovano tutti. Aiutata da qualche
bicchiere di sherry, Ginevra impartisce una lezione di bon ton al malcapitato
Tony, in uno scambio di battute “da film”, alla fine del quale lo riappacifica
con Edythe. Al tavolo dei nostri gaudenti, si presenta anche il maturo Joe
(Spencer Tracy al meglio), venditore di corsetti per donne, arricchitosi con le
vendite, e che prova a spendere tra i fumi del lusso gli anni prima di un
inevitabile declino fisico. Nel bel mezzo delle schermaglie, arriva anche Nick,
e Delysia sta per cadere ai suoi piedi, come tutte le volte che lo vede. Fortunatamente,
Ginevra sobilla Michael che lo prende a pugni. Momento epico: se Nick reagisce,
Miss LaFosse sarà perduta e tornerà con lui. Ma Nick è un neo-ricco e non vuol
perdere la faccia in un locale in cui è ben noto. Se ne va. A questo punto
tutti si danno “alla macchia”. Tony ed Edythe spariscono subito, che il loro
momento di gloria è passato. Anche Delysia e Michael se ne vanno, così che
Ginevra si trova nel taxi con Joe. Dove finalmente riesce a confessare la sua
giornata “misplaced”. In un film moderno, Ginevra tornerebbe nell’angolo da
dove è partita. Ma siamo nelle commedie sofisticate, nel tripudio dei telefoni
rosa. Joe riaccompagna Ginevra da Delysia. Qui la nostra trova i due
piccioncini che tubano, confessa anche a loro la sua mistificazione, ma i
nostri ormai le vogliono talmente bene che le propongono di diventare la
governante della loro futura casa, ora che si sposeranno. Ginevra è già in
Paradiso, ma forse salirà anche più in alto che Joe le sta per telefonare e …
Sipario. Ovviamente il romanzo non fu trasportato sullo schermo, e le parti
sono una mia invenzione (anche se plausibile). Rimane la scrittura della
Watson, fresca ed accattivante. Il suo prendere in giro il perbenismo
londinese, inventando situazioni nuove ad ogni volgere di ora. Tanto che arriviamo
alle 3 di notte senza accorgercene. Certo, molte situazioni sono datate e/o
tendono a ripetersi. Penso che molto sia anche dovuto al fatto che in questo
romanzo siano espressioni poi diventate celebri in altri film. Una specie di
capostipite. Con la nostra scrittrice che, poco dopo, si sposa e smette di
scrivere. Lasciandoci questo piccolo gioiello che mi ha consolato dei miei
dolori epicondiliaci.
Conclusioni
Parlando solo di quelli citati, mentre
Camilleri e Watson ben rispondono agli stimoli anti-depressivi proposti,
ritengo che il libro di Hornby possa essere utile solo in cure contro la depressione
di tipo omeopatico (cioè, provate a far leggere un libro sul calcio a chi di
calcio non si interessa e vedrete che in depressione in vece di uscirne ci
entrerà). Ed anche per gli altri, si va oscillando. I pomodori e la donna della
domenica sono in linea con l’assunto, Celati è in linea con Hornby. Insomma,
una cura da prendere con le molle, come da non sottovalutare che si sente (ed
è) realmente depresso/a.
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