Nel senso che vi lascio per
qualche settimana con una trama non dedicata né a romanzi né a gialli. Una
settimana con tre libri che, per vario titoli, bisogna assolutamente leggere,
anche se possono suscitare pareri contrastanti. Parlo dell’interessante saggio
sull’economia di Rampini, del breve scritto di padre Bianchi sul dono e la
compassione, per finire con il non semplicissimo ma che può essere letto da
tutti, saggio di Rovelli sulla fisica. Meno riuscito nella forma, anche se l’intenzione
era buona, e potrebbe essere foriero di riflessioni altre, lo scritto di De
Luca sulla musica. Però nel complesso una trama sicuramente di grande livello.
Federico Rampini “All You Need is Love” Mondadori s.p. (regalo di
Alessandra)
[A: 29/11/2014– I: 30/11/2014 – T: 07/12/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 279;
anno 2014]
Cioè,
come dice il sottotitolo, l’economia spiegata con le canzoni dei Beatles, anche
se la cosa più bella, e che farà sempre avere un posto d’onore al libro nella
mia biblioteca, è la riproduzione in copertina della scultura “Love Red/blue”
di Robert Indiana. Il secondo elemento di gratitudine verso
il libro è la scrittura stessa di Federico Rampini, che affronta temi complessi
con la capacità di chi, conoscendo quello di cui parla, lo sa rendere con
parole semplici, efficaci, e comprensibili. Non a caso, dal libro, ha tratto
anche una sorta di spettacolo teatrale, dove vengono realmente suonate le 15
canzoni dei Beatles che danno il titolo ai 15 capitoli cioè alle 15 tematiche
che, bene o male, ricoprono il panorama economico mondiale. Forse non sarà
esaustivo, forse non dà spunti positivi verso la soluzione degli intricati
problemi attuali. Di certo li affronta in modo gradevole e leggibile. Il terzo,
ma non meno importante per me, elemento gradito sono proprio i Beatles che,
forse, non avevano in mente tutto quanto Rampini riesce a tirar fuori dalle
loro canzoni, ma che certamente hanno scritto testi interessanti, comunque legati
al tempo della loro esecuzione, ma che, come le musiche di più profonda
capacità, resistono all’urto del tempo e sono, ancora oggi, tra le più
ascoltate al mondo. Inciso: io sono sempre stato pro Beatles e contro Rolling
Stones, per quello che vale. Secondo inciso: credo, è sempre stato un mio
pallino, che analizzando i testi delle canzoni italiane nel corso del tempo, si
possa tirar fuori anche lì una sorta di ricostruzione del DNA italiano tra
storia, politica, economia e costume. E per rimanere tra me e Rampini, lui cita
a pagina 243 il Festival di Sanremo del ’59, dove vinse la coppia Modugno –
Dorelli cantando “Piove”, ma di cui il nostro ricorda il ritornello di
rimpianto (“c’era una volta poi non c’è più”). Chissà se prima o poi … Ma
torniamo al libro. Che parte da due premesse interessanti. La prima è
l’affermazione di Steve Jobs, fondatore della Apple, di aver sempre i Beatles
come modello di business, inteso come formula collettiva di lavoro, laddove lo
sforzo dei tre produce un risultato maggiore dello sforzo singolo (come tutti i
fan puristi, lascio e lascerò sempre in un angolo l’apporto di Ringo Starr).
Rampini aggiunge un elemento, che congiunge quaranta anni di economia. I
Beatles furono il primo esempio di una start-up di successo. Una piccola
società, nata nelle cantine di Liverpool che trova un grimaldello per
scardinare il mondo. Volete degli esempi veloci delle mini analisi di Rampini,
senza passare per tutti e 15 i capitoli? “Taxman” prefigura le rivolte fiscali.
“Eight Days a Week” sulla deregulation degli orari di lavoro. “Get Back” nasce
come una satira dei primi movimenti xenofobi e anti-immigrati. “When I'm 64”
anticipa la crisi del Welfare State da shock demografico. “Eleanor Rigby” e
“Lady Madonna” evocano la nuova povertà che è in mezzo a noi. “Across the
universe” con il suo richiamo al viaggio in India dei Beatles, ricorda quell'
“orientalismo” che precedette la globalizzazione. “Yesterday” con il tema della
nostalgia ci costringe ad affrontare domande difficili: davvero si stava meglio
“ieri”? Chi stava meglio? Quando, esattamente? Si parla di nazioni rampanti, di
modelli sociali. Si parla, ed è ovvio, di eurozona, delle sue continue crisi
dal 2009 in poi, un po’ indotte dagli USA un po’ autoprogrammate. L’economia (e
le ideologie) risultano micidiali. Rampini ci ricorda, con Keynes, che gli
uomini di governo, credendosi pratici e pragmatici, sono schiavi dei
preconcetti di qualche economista defunto da molti anni. Bisogna allora
tagliare le spese per aggiustare i conti pubblici (a Tsipras dove sei)? Io non
ho ricette (non sono un economista) ma riprendo il titolo di Rampini, ed il
testo di “All you need is love”, dove con gramsciano ottimismo si dice "There's
nothing you can do that can't be done" (Non c'è nulla di quello che tu
puoi fare, che non possa essere fatto). Certo manca qualcosa alla fine
dell’analisi di Rampini. Una prospettiva, un modo di vedere/cercare il futuro.
E poiché veniamo dal difficile superamento di una deregulation forzata (sulle
note di “Let it be”), probabilmente dovremmo affidarci se siamo realisti a “All
you need is love”. Anche se, personalmente, nella mia visione economica
personale, dalla start-up di successo ad un certo punto non possono che nascere
imprese singole che producono visione nuove. Che per me hanno ed avranno il
suono della mia utopia personale: “Imagine”, ovvio!. (“You may say I’m a
dreamer / But I’m not the only one” Puoi dire che sono un sognatore, ma non
sono il solo).
Erri De Luca “La musica provata” Feltrinelli euro 9 (in realtà scontato
a 7,65 euro)
[A: 25/09/2014– I: 11/12/2014 – T: 13/12/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 98;
anno 2014]
Ancora
un’ulteriore prova di Erri De Luca che parte con premesse interessanti e si
risolve alla fine in uno scritto “mancato”, almeno rispetto alle mie corde ed
alle mie aspettative. Probabilmente, l’acquisto anche del CD che si trova in
alcune confezioni come allegato e come esemplificazione (credo) delle parole
del nostro autore avrebbe avuto una diversa trama. Ma qui parliamo di scritti e
non di musica, altrimenti mi troverei, come dice il grande Guccini, ad essere
“un musico fallito … un Bertoncelli … a sparare cazzate”. Perché l’idea di
parlare della propria musica, della musica cioè provata sulla propria pelle nel
corso degli anni, è un’idea che mi stimolava (e mi stimola a pensare alla mia
musica). E De Luca, a tratti, ripercorrendone i momenti temporali, me ne
riporta il gusto. Sono tuttavia istanti, forse isolati, e forse,
fortunatamente, con qualche spunto. Annegato però in discorsi e considerazioni
sue personali che non mi prendono né mi coinvolgono. Poco mi prendono le sue
attuali scorribande musicali con la nipote Aurora, poco gli inserti poetici,
con quelle poesie forse degne di altri libri ma qui fuori posto. Poco ancora le
lunghe tirate sulle sue vicende bosniache, sulla sua Africa ed il suo swahili,
sull’ebraico. Insomma sulle tante menate personali e poco musicali di cui
ultimamente infarcisce i suoi scritti, con quell’aria tra il distaccato e lo
snob, che fa tornare indietro la sua penna di anni e anni. Peccato non sia più
la penna di “Tre cavalli” e degli scritti a quello coevi che tanto mi avevano
preso per la bellezza delle immagini e la partecipazioni degli scritti. Ma
torniamo a questo di scritto, che qualcosa in ogni caso mi rimanda e mi
risuona. A tutti noi, figli di una generazione che imparava poesie a memoria,
rimangono ancora in testa versi poetici e rime di canzonette. Come il suo
attacco che ci riporta l’Odissea del Monti sempre presente e che si congiunge
con la barca di Orietta Berti (per ma anche con i Pooh e Battisti, che sono un po’
più giovani, seppur non di tanto). E lo ringrazio anche delle righe dedicate
alle interpretazioni. Nel tempo, canzoni, musica e libri suonano in modo
diverso, per chi li suona e chi li legge. Se Gould dopo venti anni suona lo
stesso lungo pezzo allungandolo di venti minuti avrà i suoi motivi (e noi lo
sentiamo sempre con piacere), così come ogni volta che, a distanza di anni,
leggiamo un libro ne troviamo spunti nuovi. Ovvio che noi siamo cambiati e non
il libro. Ci sono poi tanti altri punti e spunti che mi sono rimasti durante la
lettura. Gli accenni ai cantanti brasiliani, come la magica interpretazione di
“Luna Rossa” da parte di Caetano Veloso, o le altrettanto intense note
politiche sia dello stesso Veloso in “Allegria, allegria”, con quel bellissimo
verso “Camminando contro vento, senza sciarpa e documento”, o la dolente
“Camminando e cantando” di Vandrè, portata in Italia dal bravissimo Endrigo in
un’epica “Canzonissima” del ’68, vinta da un altro i cui versi mi rimangono
appesi alla pelle (“Scenda la pioggia” di Morandi, con quei pezzi tipo “tu nel
tuo letto al caldo, io nella strada al freddo” o “lontano dai tuoi sogni,
l’amore sta morendo”). E come scordare, sempre rimanendo su Endrigo, la
bellissima poesia di “Aria di Neve” del ’62? Per la sua storia personale, poi,
De Luca non può fare a meno, e noi con lui della canzone napoletana, di cui
ricordiamo insieme “Ciccio formaggio” (“… se me vulisse bene veramente…”). Ma
anche il testo e la genesi di “’O sole mio”. Per me, indissolubilmente legata
ad una burrasca affrontata su di un gommone alle Eolie con il mio amico Gianni.
Ed Erri ci ricorda sia quella bella terza strofa cui in genere non si arriva
(quella della finestra illuminata) sia che la musica viene composta durante un
tramonto ad Odessa sul Mar Nero (e qui, con lui, non possono non citare i
bellissimi “Racconti di Odessa” di Babel). Spesso fa rimandi letterari, di cui
uno ricordo e sottoscrivo. La lettura delle bellissime poesie caraibiche di
Derek Walcott, che si legano, per lui, per me, alle canzoni di Harry Belafonte.
I suoi famosi “Calypso”, come quello di “Matilda”, che seguendo le parole ci
porta ad una storia d’amore e di tradimento (Matilda ruba i soldi all’amante e
fugge in Venezuela). Ricordo i canti che strappavano lacrime e sentimenti,
sparse per il globo: “Miniera” di Bixio e Cherubini cantata da Claudio Villa
(ricordate il verso “E nella notte un grido solleva i cuori: Mamme son salvi,
tornano i minatori!"), la “Lili Marleen” sussurrata dalla Dietrich o “Oči
čёrnye” gli occhi neri rimbombanti nel coro dell’Armata Rossa. Ovviamente non
si scorda (ed io con lui) dei canti politici, di “addio Lugano Bella”, delle
canzoni dei Gufi (e andate a risentirvi “Sudameritalia” ancora attuale dopo
tanti decenni), o di Ivan della Mea. Amammo insieme Brassens e Boris Vian (che
io cantavo a Roma, e nessuno ne sapeva nulla, ma il suo Disertore è una pietra
miliare, anche se l’irridente “Giava della Bomba Atomica” non è ironicamente da
meno). Ed anche lui ha i suoi amori e le sue repulsioni. Preferisce Leonard
Cohen a Bob Dylan, ed altro ancora. Tuttavia, con quel finale di libro
malinconico, con quelle parole che scordano il “Cantami o Diva del pelide
Achille” per buttarsi a corpo morto in un pozzo dei ricordi dove alla fine, a
lui, non riemerge nulla, ecco ritorna il rimpianto. Di un’opera che poteva
suscitare consonanze ma che invece ripiego intorno alle poche bandierine che
per me si salvano. Ed a De Luca rimando il mio verso personale “chissà che sarà
di noi? Lo scopriremo solo vivendo!”.
Enzo Bianchi “Dono e perdono” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato a 9
euro)
[A: 25/09/2014– I: 17/12/2014 – T: 19/12/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 94;
anno 2014]
Trovo
sempre un grande piacere nel leggere gli scritti di Enzo Bianchi, ed anche
questo non se n’è sottratto. Bianchi ha infatti nello scrivere alcune capacità
che me ne rendono consonanza la lettura: 1) è chiaro, pur nelle difficoltà dei
temi trattati; riesce a dire in poche pagine e con la giusta quantità di parole
quello che vuole esprimere; si può condividere o meno il suo pensiero, ma è lì,
e possiamo confrontarci con; 2) è stimolante, proprio per l’assunto precedente;
fa riflettere su quello che dice ed invita a pensare noi stessi all’interno del
mondo che descrive. Anche questo scritto non è da meno di altri di cui nel
tempo ho parlato, e tuttavia c’è un piccolo appunto che farei alla titolazione.
A lettura finita, avrei immaginato un titolo del tipo “Combattere il male”.
Forse è un po’ troppo forte, ma è questo a cui mi ha fatto pensare la trilogia
che sottende lo scritto stesso. Perché i capitoli non sono due, ma tre “Dono,
perdono e compassione”, ed indicano un percorso in tre tappe il cui scopo
finale è trovare, in sé stessi, la capacità di individuare il male (sempre
presente ovunque, possiamo solo disquisire sulle sue manifestazioni) e di
combatterlo. La prima tappa è forse la più facile da comprendere, anche se non
è detto da praticare. Dal punto di vista etimologico, infatti, il dono è la
consegna di un bene nelle mani di un altro senza ricevere nulla in cambio. Ed
ha facile gioco Bianchi nel dividere e mettere su due versanti ben opposti i
due verbi apparentemente simili: donare e dare. Lo capisco e sono (cerco di
essere) aderente al suo pensiero. Ad esempio, molto a basso livello, io vi dono
queste trame, sulle quali lavoro e patisco, ma verso le quali, come cita
Bianchi riportandolo dagli Atti degli Apostoli, trovo nel piccolo adeguato
quanto lì si dice “C’è più gioia nel donare che nel ricevere”. Bianchi fa anche
un'altra operazione, “inventando” una sotto parabola legata a quella della
distribuzione dei talenti. Immagina che oltre a quelli citati (quelli che
ricevono talenti e li fanno fruttare e quelli che li sotterrano per non
perderli), ci sia uno che, dopo aver impiegato i due talenti per guadagnare
altri due, durante un naufragio li perda tutti e si ritrovi senza. Ma neanche
questo sarà biasimato dal padrone al ritorno. Da qui, il percorso si fa,
personalmente, difficile. Perché comprendo la seconda tappa, seppur
difficoltosa. Perdonare è donare totalmente, in modo assoluto. Senza tuttavia
dimenticare. Non si può dimenticare un’offesa, un “male” subito. E non serve
andare verso una (falsa) riconciliazione. Il perdono non si predica, si
pratica. Non serve a ristabilire una condizione “quo ante”, perché tra l’ante
ed il quo c’è stato il “bellum”. Bianchi, con esempi e partecipazione, tratteggia
una specie di percorso del perdono. Il primo passo è la rinuncia alla vendetta
(e questo sembra facile). Il secondo passa per l’introspezione, verso la
conoscenza di se stessi: come siamo ora, cosa è cambiato e cosa sta cambiando,
dopo il male subito. Il terzo passo è la comprensione dell’altro, sempre non
per assolverlo, o per togliere il male che ha commesso, ma per entrare in
simpatia (cioè, etimologicamente, sentire le stesse cose). Il quarto è la sua
manifestazione che non può prescindere dalle tappe precedenti, e che sarà un
dono totale, finale, definitivo. Qui Bianchi apre la parentesi più difficile,
in cui labirinticamente mi perdo, sul rapporto che comunque non può mancare,
non può interrompersi tra perdono e giustizia. Di cui riporto solo una frase di
Giovanni Paolo II su cui meditare. “Non c’è pace senza giustizia, non c’è
giustizia senza perdono”. Si arriva così alla tappa finale, alla compassione.
Anche qui, di fondo, risalendo all’etimologia, questa volta latina, di cum e
patior, cioè soffrire insieme. Perché qui, Bianchi affonda tutto nelle sue
radici cristiane, e del soffrire insieme fa un percorso per andare verso
l’altro. Ed arrivandoci, superare il male esterno. Per questo, avere
compassione porta a combattere il male (come avrei visto nel titolo). Ma non è
facile usare la compassione come risposta al male stesso. Confesso, qui mi sono
definitivamente perso. Non nella comprensione della compassione, ma nella sua
attuazione. Riporto solo due elementi che mi hanno colpito di questa riflessione
finale. Il primo, è un parallelo tra l’attributo di Dio in ebraico “rachum”
(dal libro dell’Esodo) ed il primo nome di Allah “Al-Rachman” (dal Corano)
entrambi derivati dalla stessa radice “r-ch-m”. Il secondo è un apologo
confuciano attributo al filosofo Mencio, che riporto integralmente, anche
perché, nella versione che ho trovato su Wikipedia, il secondo animale è
diverso dal primo, mentre nel testo di Bianchi si parla sempre e solo di
vitelli.
“Un
re vide degli uomini trascinare un bue. Dove lo portate, chiese loro. Al
sacrificio, per santificare una campana con il suo sangue. Il re disse allora
di lasciarlo andare. Non posso sopportare di vederlo tremare come un innocente
condotto al supplizio [la compassione,
nota mia]. Dobbiamo allora eliminare la cerimonia, chiesero gli uomini. No,
rispose il re, prendete un vitello al suo posto.”
Insomma,
una bella lettura, a voi, anzi a noi, insieme, di rifletterci, chiudendo con la
frase sotto riportata, che sottoscrivo totalmente.
“L’uomo … può [com-patire] … soffrire e
gioire con l’altro, per vivere autenticamente, perché non si vive mai senza
l’altro.” (68)
Carlo Rovelli “Sette brevi lezioni di fisica” Adelphi s.p. (regalo di
Rosanna per il Natalino 2014)
[A: 25/12/2014– I: 30/12/2014 – T: 31/12/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 85;
anno 2014]
Un
gradito regalo frutto di una piccola incomprensione. Fidando della mia non
nascosta conoscenza dei numeri, la mia amica Rosanna mi ha fatto omaggio di
questo interessante libretto di … fisica. Ebbene, io, di fisica, non ho mai
capito molto, tanto che devo ancora ringraziare gli aiuti avuti a suo tempo
dall’amica Annalisa per aver potuto superare con onore i due esami
universitari. Mi sono quindi accostato con timore a queste men che cento
pagine, pensando di dovermi trascinare nei mondi ignoti di accelerazioni e
lavori vari. Fortunatamente l’ottimo Rovelli è anche un eccellente didatta,
riuscendo a rendere semplici ed appetibili concetti altrimenti astrusi. Merito
anche dell’origine di queste lezioni, uscite a puntate su “Il Sole – 24 ore”
nell’ambito, appunto, di un’opera divulgatrice delle più recenti conquiste in
questo campo. Unendo poi un po’ di storia dei concetti, rispetto
all’esposizione dei concetti stessi, i sei elementi “nuovi” della fisica
dell’ultimo secolo escono discretamente comprensibili anche ad un povero
matematico come son io. Dico sei, perché la settima, e forse più intrigante
lezione, è dedicata al nostro modo fisico di essere in questo mondo che la
fisica cerca di descrivere con sempre meno approssimazione. L’altro elemento
che rende gradevole l’esposizione è poi quel riandare alla genesi delle teorie,
al modo in cui i fisici discutevano, accettavano o rifiutavano pezzi di
conoscenza. A come ad Einstein venne alla fine l’idea semplice della
descrizione del mondo attraverso la teoria della relatività (ed alle sue
appassionanti discussioni con Niels Bohr). Di come nasca il secondo pilastro
della fisica moderna, quella teoria dei quanti che ci informa che non tutti i valori
delle particelle subatomiche possono essere raggiunti, ma che ci sono “dei
buchi”. Cioè che la materia si addensa in pacchetti, come dimostrò
sperimentalmente Max Planck nel 1900. Il passaggio logico successivo è
l’applicazione di queste due teorie al macrocosmo prima ed al microcosmo poi.
Nel primo caso, arriveremo a descrivere (ed a fotografare con telescopi
orbitali) la struttura dell’Universo come una struttura in espansione da un
nocciolo duro primordiale. Nel secondo caso andremo ad esplorare sempre più in
profondità la struttura fine della composizione della materia. Arriveremo ai
quark, poi al bosone di Higgins, poi agli studi del CERN di Ginevra. E via
discorrendo. Qui, fortunatamente, il nostro professore fa anche un piccolo
salto di lato, introducendo quel po’ di matematica che non guasta. Perché, alla
fine, tutto sembra risolversi in modelli probabilistici (vero, amica
Cristina?). Tutto nasce dalla domanda: perché mettendo un cucchiaino freddo in
una tazza di tè caldo, il cucchiaino si scalda? Perché non succede il
contrario? A questa domanda fondamentale, Boltzmann rispose: per caso. Non
esiste una legge, ma solo una probabilità che indica sia molto più forte la
possibilità che il cucchiaino si scaldi piuttosto che il contrario. Da qui, nascono
altri elementi teorici e di descrizione che vi risparmio per brevità (e per
incapacità mia di renderli più semplici di quanto lo faccia Rovelli). Certo che
il professore non può che non introdurre la teoria dei “loop” (dato che ne è
uno dei fautori), ma potremmo con la stessa intensità parlare di stringhe od
altro. Fatto sta che più andiamo avanti, più sembra difficile trovare una
teoria semplice che descriva tutto l’universo. Si partì da Newton, ed
attraverso Einstein, siamo arrivati ad oggi. Le prime teorie erano semplici,
onnicomprensive e ben descrittive. Anche perché gli strumenti di misura erano
connaturati al loro tempo. Ora che le misure sono sempre più precise e
dettagliate, le teorie stesse tendono ad essere più complicate. E saremo sempre
in attesa di un nuovo passo. Come si fece con l’amico Giuzzo, quando ci si
imbarcò nel tentativo di trovare una funzione di raccordo tra elettromagnetismo
e termodinamica. Impresa che da quarant’anni non ha trovato soluzione, ma che,
se ci fosse, potrebbe portare a quelle auspicate semplificazioni. Per ora ci si
accontenta di vivere in questo spazio, essendo noi e lo spazio dei nostri
neuroni la stessa cosa (e non lo dico io, ma lo disse molti secoli fa un certo
Baruch Spinoza). Con l’ipotesi ulteriore (suffragata dalle ultime osservazioni
sui buchi neri) che l’Universo (che ora vediamo in espansione) ad un certo
punto collassi ed inverta il fenomeno. Ma non per “finire” ma per andare avanti
ciclicamente, espansione e collasso. Perché, e questo è il risultato meraviglioso
che mi viene dalle ultime pagine, il mondo, l’Universo, e tutto quanto, è solo
un problema di relazione. E se ci pensate bene, anche nella nostra vita di
tutti i giorni, questa è la risposta fondamentale (e spero che qualcuno si
ricordi che l’altra risposta è “42”; chi lo ricorderà vincerà un lauto
premio!).
“Se non si perde tempo non si arriva da
nessuna parte.” (13)
“Le equazioni della meccanica quantistica …
non descrivono cosa succede ad un sistema fisico, ma solo come un sistema
fisico viene percepito da un altro sistema fisico. … Significa [quindi] che
dobbiamo accettare l’idea che la realtà sia solo interazione [cioè relazione
tra elementi].” (29)
“Non abbiamo le equazioni che descrivono il
vibrare termico di uno spazio-tempo caldo [vedi il testo per capire come questa
frase sia scolpita nel mio cuore].” (63)
E dato
che siamo alla seconda trama del mese, vi prendete fra capo e collo anche una
bella cura per chi non sa esprimere le emozioni. Io, invece, colgo l’occasione
per esprimere il piacere di scrivervi, ed il dispiacere di doverlo
interrompere, seppure per poco e seppure per uno degli elementi tipici della
mia natura: il viaggio. Finisco di preparare la partenza americana e do a tutti
un appuntamento a luglio.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GIUGNO 2015
Care le mie amiche dottoresse di
libri, questo mese il compito è arduo, che esprimere le emozioni è sempre
momento difficile. Intanto vediamo che cura proponente.
EMOZIONI, INCAPACITÀ DI ESPRIMERE
Dolce come il cioccolato, Laura Esquivel
Mentre morivo, William Faulkner
Chi ha difficoltà a esprimere le
proprie emozioni - o vive con qualcuno che ha questo problema – dovrebbe tenere
a mente che a) l’incapacità di esprimere emozioni non significa necessariamente
che non si provino emozioni e b) che si può ricorrere a modalità di espressione
alternative, che non richiedono parole o gesti.
In “Dolce come il cioccolato”,
famoso romanzo di Laura Esquivel, Tita non può sposare Pedro, di cui è
innamorata fin dall’infanzia, perché la tradizione richiede che lei, in quanto
figlia minore, rimanga sola e si prenda cura della dispotica madre. Tita,
dunque, riversa l’amore che non dovrebbe provare per Pedro negli splendidi
piatti che cucina. Nella torta per il matrimonio di Pedro - perché il giovane
sposa Rosaura, sorella di Tita, per stare vicino a lei - incorpora martirio e
amarezza. Nella glassa, invece, va il suo desiderio, e come abbiamo imparato ad
aspettarci dal realismo magico latino-americano, gli invitati assimilano le
emozioni insieme alla torta nuziale e sono sopraffatti dal dolore per gli amori
perduti del passato. Le quaglie con salsa di petali di rosa, dove Tita ha
infuso la sua passione sensuale per Pedro, trasformano la verginale sorella di
lei Gertrudis in una tale frenesia di eccitazione sessuale che non può fare a
meno di togliersi i vestiti e di correre nuda per le strade – per essere
debitamente issata su un cavallo e portata via da un soldato ribelle altrettanto
infoiato. Se anche voi avete difficoltà a dire «Ti amo», provate a utilizzare
il cibo. E voi che invece non udite queste parole, fate attenzione agli altri
modi in cui può essere espresso questo sentimento.
Potreste dover fare molta fatica.
Dei cinque fratelli Bundren che guardano morire la madre Addie in “Mentre
morivo” di William Faulkner, Darl è il più eloquente, Jewel il più espansivo e
Cash - anche se è il più anziano - quello che fa più fatica a esprimere il
proprio amore per la madre. Lo fa costruendo la sua bara proprio sotto la sua
finestra. Jewel lo guarda mentre con cura e attenzione trasforma quelle
«lunghe, calde, tristi e gialle giornate» in assi ed esprime in parole al posto
suo quel gesto di intensa e complessa devozione: «Guarda. Guarda come te la
costruisco bene».
E la bara è fatta davvero bene.
Cash la costruisce a forma di orologio a pendolo «con tutti gli incastri e le
giunture squadrati e lisciati con la pialla, ben chiusa e in ordine come il tuo
cestino da lavoro» perché possano deporvi la madre senza sgualcirle il vestito.
Il giovane convoglia tutto il suo dolore e il suo desiderio di accontentare la
donna nella costruzione della bara, e la sua difficoltà ad articolare quei
sentimenti è commovente - soprattutto nel capitolo formato dall’elenco delle
ragioni per cui la bara dev’essere perfettamente «a squadra». Accogliete a
braccia aperte l’incapacità di esprimere i sentimenti in maniera convenzionale,
che sia vostra o dei vostri cari. Abituatevi a usare – e fatelo fare agli altri
– un repertorio più ampio.
Bugiardino
Fatto non poco curioso, entrambi
i libri “da emozione” li ho letti nell’ultimo periodo, per cui ancora non hanno
avuto una trama “ufficialmente pubblicata”. E quindi ve ne propongo la lettura
così come sono usciti dalla mia tastiera, sottolinenado come i libri stessi
siano molto più carichi delle poche emozioni che le autrici citano. Anche se
sottolineo e concordo con loro che, a volte, si debbano trovare modo diversi
per esprimersi. Non sempre bastano le parole.
Laura Esquivel “Dolce come il cioccolato” Garzanti euro 9,90
[trama del 20 aprile 2015]
Finalmente
leggo questo antico (nel senso di trentennale, ma che sono molti per una simile
scrittura) libro, presente da anni nelle mie famose liste, sollecitatomi dalle
mie amate-odiate libropatiche non che spinto sulla cresta dell’onda anche dalla
collezione di libri legati alla cucina in uscita con il “Corriere della Sera”.
Intanto, una bella tirata d’orecchi agli editor della Garzanti che stravolgono
in “Dolce” uno sfogo della protagonista che ad un certo punto si sente
ribollire “come l’acqua per il cioccolato”, che si dice essere di poco sapore,
ma che, come il cuoco Dario Bressanini insegna, è l’occasione per una
gustosissima mousse. Inoltre, non ho neanche visto il film che nel ’92 ne fece
il messicano Arau, anch’esso di buon successo come il libro. Che uscì in
Messico a puntate, ognuna delle quali con una ricetta, e solo così se ne può
gustare il filo conduttore, che nel libro sembra perdersi. La storia è semplice
e molto messicana. Abbiamo la bella Tita de la Garza, la minore delle figlie di
Donna Elena, acida vedova messicana. Che fin da piccola vive in cucina, e ne
capisce e carpisce i segreti più intimi. Di lei si innamora il bel Pedro, amore
ostacolato da Donna Elena, in quanto ancora non maritate le figlie maggiori,
Rosaura e Gertrudis. Messo alle corde da Donna Elena, pur di rimanere vicino a
Tita, Pedro decide di sposare Rosaura. Da quel momento, Tita riverserà il suo
amore nella cucina, producendo manicaretti elaborati e con effetti
sorprendenti. Tanto che in uno particolarmente pieno di affetto si trasfigura
Gertrudis, che scappa nuda nella prateria insieme ad un rivoluzionario
messicano. Noi però rimaniamo nel ménage familiare, con la madre tiranna, Pedro
e Rosaura che fanno un figlio che però muore giovane. Pedro è sempre lì, tra
l’essere vicino e fare il tontolone, che una qualsiasi donna normale (non Tita,
purtroppo) l’avrebbe mandato a ramengo molto presto. Poi muore Donna Elvira,
Tita esce allo scoperto e Rosaura si fa prendere da crisi di nervi ed altre
strampalitudini. Ritorna anche Gertrudis alla testa di manipoli rivoluzionari
(in fondo siamo nel Messico dell’epoca di Pancho Villa) che cerca di svegliare
Tita. Che forse sembra avere un sussulto di indipendenza quando anche Rosaura
ci lascia, insalutata salma. Ma l’ombra di Donna Elena aleggia sulla casa, e
dopo un’unica notte d’amore (in fondo abbiamo aspettato quasi 150 pagine che
succedesse “o’ miracolo”), ecco un’altra catastrofe. Senza nessun preavviso si
accendono fuochi strani e Pedro e Tita bruciano insieme al loro amore. La
storia è durata tanti anni, ci sono stati intermezzi, c’è stato l’amore di John
per Tita, che molto le insegnò ma che non le tolse Pedro dal cuore, ci sono
stati figli (che non sono morti), c’è la bella nipote Esperanza che sposerà
Alex, il figlio di John. E c’è questa storia, narrata dalla figlia dei due. La
storia di un grande amore, ma soprattutto di tanti belle ricette che
punteggiavano le uscite a puntate del libro. Dalle focaccine di Natale alla
torta Chabla, dalle quaglie ai petali di rosa ai peperoni in salsa di noci. Ma
seppur queste sono belle (e ne consiglio la lettura a chi s di cucina), il
resto del libro, con quel “realismo magico” latino-americano che mi lascia
assai freddo, quelle situazioni inspiegabili, e soprattutto l’indecisione di
tutti i protagonisti ad essere sul serio protagonisti e non vittime della vita
che passa, non mi ha fatto amare in particolar modo questo libro. Con tutte le
metafore che poi il libro porta con sé, sia a livello sentimenti che della
rappresentazione della realtà messicana. Sui primi, c’è una correlazione quasi
ingenua (le cipolle che sono cagione di lagrime, i petali di rosa che
risvegliano passioni, ed altre similitudini di piccolo livello). Sull’altra,
per rappresentare il grande affresco del Messico dei primi anni del XX secolo
(pieno di oppressi, oppressori, rivoluzioni) si fa un semplice traslato con i
personaggi: Tita e Pedro sono gli oppressi, Donna Elena e Rosaura gli oppressori,
Gertrudis la rivoluzione). Ma è molto datato come scrittura e come descrizione
delle atmosfere. Insomma, mi aspettavo di più da come se ne parlava negli anni
del suo maggior successo.
“La verità vera è che la verità non esiste,
dipende dal punto di vista di ognuno.” (141)
William Faulkner “Mentre morivo” Adelphi euro 10
[trama del 03 giugno 2015]
Certo
non è mai facile avvicinarsi ad un mostro (o maestro) della scrittura e
disquisirne come fosse un qualsiasi scrittore che si avvicina alla carta
stampata. Molto contesto viene fuori e difficilmente si riesce a separarlo dal
testo. Semplice è quando il testo è talmente bello e ben riuscito che non si
risparmiano lodi ed iperboli. Meno quando, pur con una sua intrinseca bellezza,
soggettivamente contiene punti non chiari o non graditi. Come è per l’appunto
questo magistrale scritto del grande premio Nobel delle pianure americane. Che
è un bel libro. Ma (forse anche a causa delle difficoltà di traduzione) non
immediatamente fruibile. L’ho dovuto prendere per mano, rigirare pian pianino,
per arrivarne a capo. Perché scritto in capitoli soggettivi dei diversi
personaggi. Con una bravura enorme a calarsi nelle modalità espressive di
ognuno. Perché si capisce da alcuni passaggi come sia difficile rendere le
diverse tonalità del verbo essere con cui si esprimono i personaggi principali,
come l’intraducibile pezzo che riporto in calce pronunciato da Darl, quello un
po’ ritardato. La trama, invero, sarebbe di una semplicità disarmante. Abbiamo
la famiglia Bundren, tutta stretta intorno alla madre Addie, che sta morendo e
che muore. C’è Anse, il marito, che pur di non chiedere qualcosa in prestito
(per non sentirsi obbligato), fa scelte rovinose per la famiglia quando si
tratta di seppellire la moglie morta. Ma forse, lo fa per avere i soldi per
farsi una dentiera, e prendersi una nuova donna in casa, una volta morta Addie.
E ci sono i figli. Cash, il maggiore, che è cascato da un’impalcatura e si è
storpiato. È il falegname di casa, costruisce la bara per la madre, ma sarà ancora
sfortunato durante il viaggio (si rompe di nuovo la gamba, e non viene curato,
così che zoppicherà per sempre). Darl è il secondo, quello ritardato, che
tuttavia ha intuizioni geniali, proprio per la pazzia di fondo che lo
contraddistingue. Cercherà di “resuscitare” l’animo della madre. Cercherà di
fermare la reale pazzia del padre di andarla a seppellire a Jefferson, cercando
di bruciare bare e carri. E per questo verrà poi rinchiuso in un manicomio.
Jewel è il terzo, che vediamo essere da subito diverso, più intransigente, più
determinato. Scopriremo, nel corso del libro, che Addie lo ha avuto non da
Addie ma dal pastore della Chiesa. E probabilmente Jewel alla fine se ne andrà.
Quarta arriva l’unica femmina, Dewey Dell, diciassettenne “in calore”, che ha
nella pancia il figlio di un vicino, che vorrebbe abortire ma non sa come fare,
ora la mamma morta. E non lo farà. Infine, l’ultimo, il piccolo Vardeman,
quello che guarda tutto con i suoi occhi innocenti. Quello che non capisce, e
che per tutto il libro sogna un trenino rosso per Natale. Insomma, Addie la
madre muore, ma comincia a piovere, le strade sono allagate, i ponti crollati.
Ma Anse vuole portarla a Jefferson, e si parte. Loro sul carro, e Jewel a
cavallo, quello che si è comprato con i suoi risparmi. Il guado del fiume non
riesce, i muli muoiono, a stento salvano la bara, ma Cash si rompe la gamba di
nuovo. Per prendere altri muli, Anse vende il cavallo di Jewel, suscitando un
rancore insanabile. E finalmente a Jefferson, seppelliscono Addie, rinchiudono
Darl, Anse prende una nuova moglie, Dewey Dell vende il suo corpo per aver
soldi per l’aborto, senza riuscirci, Cash viene curato ma non guarisce. E
Vardeman guarda tutto e tutti, pensando sempre al treno. Ma quello che risalta
non è tanto e solo il narrato, che alla fine vien fuori quasi ad essere un
racconto biblico, con tutti i suoi archetipi classici (il pesce che pesca
Vardeman, il cavallo di Jewel, l’inondazione-diluvio, il rogo che purifica,
Darl come capro espiatorio), né il tessuto dei rancori che covano tra i diversi
membri della famiglia è che le difficoltà del viaggio fanno esplodere. Quello
che risalta è quel “flusso di coscienza” collettivo della narrazione. Joyce ne
aveva fatto un esempio eponimo nel suo Ulysses. Qui Faulkner lo moltiplica per
enne, facendolo uscire da ogni personaggio, dove alla fine la narrazione risulta
non direttamente, ma quasi da un contrappunto polifonico, come una grande
sinfonia. Ma se in questo maestro è lo scrittore, io lettore ne sono a volte
travolto, forse “annientato”. Anche se, alla fine, il dipinto di un tipico
vissuto del profondo sud americano esce fuori, e con forza. Bello per la testa,
un po’ duro e difficile per il cuore e la pancia.
“E dato che il sonno è non-è e la pioggia e
il vento sono erano, non è. Eppure il carro è, perché quando il carro sarà era,
Addir Bundren non sarà. E Jewel è, così Addie Bundren deve
essere.” [And since sleep is is-not and rain and wind are was, it is not. Yet
the wagon is because when the wagon is was, Addie Bundren will not be. And
Jewel is, so Addie Bundren must be.] (74)
“Fu allora che capii che le parole non
servono a nulla; che le parole non corrispondono mai a quello che tentano di
dire.” (154)
Conclusioni
Avete visto quante altre emozioni
escono da questi libri? E dove, spesso, non sono solo le parole ad esprimerli.
Per cui, certo, se non riuscite ad aprirvi, usate meglio i modi di Laura
Esquivel. Ma non quelli, che non saranno mai chiari, di Faulkner. Ricordando
alla fine che il modo migliore di esprimere qualcosa è di formularne una
domanda. Laddove una risposta, seppur negativa, è sempre meglio di un silenzio
non interpretabile.