domenica 7 giugno 2015

Un'estate saggia? - 07 giugno 2015

Nel senso che vi lascio per qualche settimana con una trama non dedicata né a romanzi né a gialli. Una settimana con tre libri che, per vario titoli, bisogna assolutamente leggere, anche se possono suscitare pareri contrastanti. Parlo dell’interessante saggio sull’economia di Rampini, del breve scritto di padre Bianchi sul dono e la compassione, per finire con il non semplicissimo ma che può essere letto da tutti, saggio di Rovelli sulla fisica. Meno riuscito nella forma, anche se l’intenzione era buona, e potrebbe essere foriero di riflessioni altre, lo scritto di De Luca sulla musica. Però nel complesso una trama sicuramente di grande livello.
Federico Rampini “All You Need is Love” Mondadori s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 29/11/2014– I: 30/11/2014 – T: 07/12/2014] - &&&&    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 279; anno 2014]
Cioè, come dice il sottotitolo, l’economia spiegata con le canzoni dei Beatles, anche se la cosa più bella, e che farà sempre avere un posto d’onore al libro nella mia biblioteca, è la riproduzione in copertina della scultura “Love Red/blue” di Robert Indiana. Il secondo elemento di gratitudine verso il libro è la scrittura stessa di Federico Rampini, che affronta temi complessi con la capacità di chi, conoscendo quello di cui parla, lo sa rendere con parole semplici, efficaci, e comprensibili. Non a caso, dal libro, ha tratto anche una sorta di spettacolo teatrale, dove vengono realmente suonate le 15 canzoni dei Beatles che danno il titolo ai 15 capitoli cioè alle 15 tematiche che, bene o male, ricoprono il panorama economico mondiale. Forse non sarà esaustivo, forse non dà spunti positivi verso la soluzione degli intricati problemi attuali. Di certo li affronta in modo gradevole e leggibile. Il terzo, ma non meno importante per me, elemento gradito sono proprio i Beatles che, forse, non avevano in mente tutto quanto Rampini riesce a tirar fuori dalle loro canzoni, ma che certamente hanno scritto testi interessanti, comunque legati al tempo della loro esecuzione, ma che, come le musiche di più profonda capacità, resistono all’urto del tempo e sono, ancora oggi, tra le più ascoltate al mondo. Inciso: io sono sempre stato pro Beatles e contro Rolling Stones, per quello che vale. Secondo inciso: credo, è sempre stato un mio pallino, che analizzando i testi delle canzoni italiane nel corso del tempo, si possa tirar fuori anche lì una sorta di ricostruzione del DNA italiano tra storia, politica, economia e costume. E per rimanere tra me e Rampini, lui cita a pagina 243 il Festival di Sanremo del ’59, dove vinse la coppia Modugno – Dorelli cantando “Piove”, ma di cui il nostro ricorda il ritornello di rimpianto (“c’era una volta poi non c’è più”). Chissà se prima o poi … Ma torniamo al libro. Che parte da due premesse interessanti. La prima è l’affermazione di Steve Jobs, fondatore della Apple, di aver sempre i Beatles come modello di business, inteso come formula collettiva di lavoro, laddove lo sforzo dei tre produce un risultato maggiore dello sforzo singolo (come tutti i fan puristi, lascio e lascerò sempre in un angolo l’apporto di Ringo Starr). Rampini aggiunge un elemento, che congiunge quaranta anni di economia. I Beatles furono il primo esempio di una start-up di successo. Una piccola società, nata nelle cantine di Liverpool che trova un grimaldello per scardinare il mondo. Volete degli esempi veloci delle mini analisi di Rampini, senza passare per tutti e 15 i capitoli? “Taxman” prefigura le rivolte fiscali. “Eight Days a Week” sulla deregulation degli orari di lavoro. “Get Back” nasce come una satira dei primi movimenti xenofobi e anti-immigrati. “When I'm 64” anticipa la crisi del Welfare State da shock demografico. “Eleanor Rigby” e “Lady Madonna” evocano la nuova povertà che è in mezzo a noi. “Across the universe” con il suo richiamo al viaggio in India dei Beatles, ricorda quell' “orientalismo” che precedette la globalizzazione. “Yesterday” con il tema della nostalgia ci costringe ad affrontare domande difficili: davvero si stava meglio “ieri”? Chi stava meglio? Quando, esattamente? Si parla di nazioni rampanti, di modelli sociali. Si parla, ed è ovvio, di eurozona, delle sue continue crisi dal 2009 in poi, un po’ indotte dagli USA un po’ autoprogrammate. L’economia (e le ideologie) risultano micidiali. Rampini ci ricorda, con Keynes, che gli uomini di governo, credendosi pratici e pragmatici, sono schiavi dei preconcetti di qualche economista defunto da molti anni. Bisogna allora tagliare le spese per aggiustare i conti pubblici (a Tsipras dove sei)? Io non ho ricette (non sono un economista) ma riprendo il titolo di Rampini, ed il testo di “All you need is love”, dove con gramsciano ottimismo si dice "There's nothing you can do that can't be done" (Non c'è nulla di quello che tu puoi fare, che non possa essere fatto). Certo manca qualcosa alla fine dell’analisi di Rampini. Una prospettiva, un modo di vedere/cercare il futuro. E poiché veniamo dal difficile superamento di una deregulation forzata (sulle note di “Let it be”), probabilmente dovremmo affidarci se siamo realisti a “All you need is love”. Anche se, personalmente, nella mia visione economica personale, dalla start-up di successo ad un certo punto non possono che nascere imprese singole che producono visione nuove. Che per me hanno ed avranno il suono della mia utopia personale: “Imagine”, ovvio!. (“You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one” Puoi dire che sono un sognatore, ma non sono il solo).
Erri De Luca “La musica provata” Feltrinelli euro 9 (in realtà scontato a 7,65 euro)
[A: 25/09/2014– I: 11/12/2014 – T: 13/12/2014] - && e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 98; anno 2014]
Ancora un’ulteriore prova di Erri De Luca che parte con premesse interessanti e si risolve alla fine in uno scritto “mancato”, almeno rispetto alle mie corde ed alle mie aspettative. Probabilmente, l’acquisto anche del CD che si trova in alcune confezioni come allegato e come esemplificazione (credo) delle parole del nostro autore avrebbe avuto una diversa trama. Ma qui parliamo di scritti e non di musica, altrimenti mi troverei, come dice il grande Guccini, ad essere “un musico fallito … un Bertoncelli … a sparare cazzate”. Perché l’idea di parlare della propria musica, della musica cioè provata sulla propria pelle nel corso degli anni, è un’idea che mi stimolava (e mi stimola a pensare alla mia musica). E De Luca, a tratti, ripercorrendone i momenti temporali, me ne riporta il gusto. Sono tuttavia istanti, forse isolati, e forse, fortunatamente, con qualche spunto. Annegato però in discorsi e considerazioni sue personali che non mi prendono né mi coinvolgono. Poco mi prendono le sue attuali scorribande musicali con la nipote Aurora, poco gli inserti poetici, con quelle poesie forse degne di altri libri ma qui fuori posto. Poco ancora le lunghe tirate sulle sue vicende bosniache, sulla sua Africa ed il suo swahili, sull’ebraico. Insomma sulle tante menate personali e poco musicali di cui ultimamente infarcisce i suoi scritti, con quell’aria tra il distaccato e lo snob, che fa tornare indietro la sua penna di anni e anni. Peccato non sia più la penna di “Tre cavalli” e degli scritti a quello coevi che tanto mi avevano preso per la bellezza delle immagini e la partecipazioni degli scritti. Ma torniamo a questo di scritto, che qualcosa in ogni caso mi rimanda e mi risuona. A tutti noi, figli di una generazione che imparava poesie a memoria, rimangono ancora in testa versi poetici e rime di canzonette. Come il suo attacco che ci riporta l’Odissea del Monti sempre presente e che si congiunge con la barca di Orietta Berti (per ma anche con i Pooh e Battisti, che sono un po’ più giovani, seppur non di tanto). E lo ringrazio anche delle righe dedicate alle interpretazioni. Nel tempo, canzoni, musica e libri suonano in modo diverso, per chi li suona e chi li legge. Se Gould dopo venti anni suona lo stesso lungo pezzo allungandolo di venti minuti avrà i suoi motivi (e noi lo sentiamo sempre con piacere), così come ogni volta che, a distanza di anni, leggiamo un libro ne troviamo spunti nuovi. Ovvio che noi siamo cambiati e non il libro. Ci sono poi tanti altri punti e spunti che mi sono rimasti durante la lettura. Gli accenni ai cantanti brasiliani, come la magica interpretazione di “Luna Rossa” da parte di Caetano Veloso, o le altrettanto intense note politiche sia dello stesso Veloso in “Allegria, allegria”, con quel bellissimo verso “Camminando contro vento, senza sciarpa e documento”, o la dolente “Camminando e cantando” di Vandrè, portata in Italia dal bravissimo Endrigo in un’epica “Canzonissima” del ’68, vinta da un altro i cui versi mi rimangono appesi alla pelle (“Scenda la pioggia” di Morandi, con quei pezzi tipo “tu nel tuo letto al caldo, io nella strada al freddo” o “lontano dai tuoi sogni, l’amore sta morendo”). E come scordare, sempre rimanendo su Endrigo, la bellissima poesia di “Aria di Neve” del ’62? Per la sua storia personale, poi, De Luca non può fare a meno, e noi con lui della canzone napoletana, di cui ricordiamo insieme “Ciccio formaggio” (“… se me vulisse bene veramente…”). Ma anche il testo e la genesi di “’O sole mio”. Per me, indissolubilmente legata ad una burrasca affrontata su di un gommone alle Eolie con il mio amico Gianni. Ed Erri ci ricorda sia quella bella terza strofa cui in genere non si arriva (quella della finestra illuminata) sia che la musica viene composta durante un tramonto ad Odessa sul Mar Nero (e qui, con lui, non possono non citare i bellissimi “Racconti di Odessa” di Babel). Spesso fa rimandi letterari, di cui uno ricordo e sottoscrivo. La lettura delle bellissime poesie caraibiche di Derek Walcott, che si legano, per lui, per me, alle canzoni di Harry Belafonte. I suoi famosi “Calypso”, come quello di “Matilda”, che seguendo le parole ci porta ad una storia d’amore e di tradimento (Matilda ruba i soldi all’amante e fugge in Venezuela). Ricordo i canti che strappavano lacrime e sentimenti, sparse per il globo: “Miniera” di Bixio e Cherubini cantata da Claudio Villa (ricordate il verso “E nella notte un grido solleva i cuori: Mamme son salvi, tornano i minatori!"), la “Lili Marleen” sussurrata dalla Dietrich o “Oči čёrnye” gli occhi neri rimbombanti nel coro dell’Armata Rossa. Ovviamente non si scorda (ed io con lui) dei canti politici, di “addio Lugano Bella”, delle canzoni dei Gufi (e andate a risentirvi “Sudameritalia” ancora attuale dopo tanti decenni), o di Ivan della Mea. Amammo insieme Brassens e Boris Vian (che io cantavo a Roma, e nessuno ne sapeva nulla, ma il suo Disertore è una pietra miliare, anche se l’irridente “Giava della Bomba Atomica” non è ironicamente da meno). Ed anche lui ha i suoi amori e le sue repulsioni. Preferisce Leonard Cohen a Bob Dylan, ed altro ancora. Tuttavia, con quel finale di libro malinconico, con quelle parole che scordano il “Cantami o Diva del pelide Achille” per buttarsi a corpo morto in un pozzo dei ricordi dove alla fine, a lui, non riemerge nulla, ecco ritorna il rimpianto. Di un’opera che poteva suscitare consonanze ma che invece ripiego intorno alle poche bandierine che per me si salvano. Ed a De Luca rimando il mio verso personale “chissà che sarà di noi? Lo scopriremo solo vivendo!”.
Enzo Bianchi “Dono e perdono” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 25/09/2014– I: 17/12/2014 – T: 19/12/2014] - &&&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 94; anno 2014]
Trovo sempre un grande piacere nel leggere gli scritti di Enzo Bianchi, ed anche questo non se n’è sottratto. Bianchi ha infatti nello scrivere alcune capacità che me ne rendono consonanza la lettura: 1) è chiaro, pur nelle difficoltà dei temi trattati; riesce a dire in poche pagine e con la giusta quantità di parole quello che vuole esprimere; si può condividere o meno il suo pensiero, ma è lì, e possiamo confrontarci con; 2) è stimolante, proprio per l’assunto precedente; fa riflettere su quello che dice ed invita a pensare noi stessi all’interno del mondo che descrive. Anche questo scritto non è da meno di altri di cui nel tempo ho parlato, e tuttavia c’è un piccolo appunto che farei alla titolazione. A lettura finita, avrei immaginato un titolo del tipo “Combattere il male”. Forse è un po’ troppo forte, ma è questo a cui mi ha fatto pensare la trilogia che sottende lo scritto stesso. Perché i capitoli non sono due, ma tre “Dono, perdono e compassione”, ed indicano un percorso in tre tappe il cui scopo finale è trovare, in sé stessi, la capacità di individuare il male (sempre presente ovunque, possiamo solo disquisire sulle sue manifestazioni) e di combatterlo. La prima tappa è forse la più facile da comprendere, anche se non è detto da praticare. Dal punto di vista etimologico, infatti, il dono è la consegna di un bene nelle mani di un altro senza ricevere nulla in cambio. Ed ha facile gioco Bianchi nel dividere e mettere su due versanti ben opposti i due verbi apparentemente simili: donare e dare. Lo capisco e sono (cerco di essere) aderente al suo pensiero. Ad esempio, molto a basso livello, io vi dono queste trame, sulle quali lavoro e patisco, ma verso le quali, come cita Bianchi riportandolo dagli Atti degli Apostoli, trovo nel piccolo adeguato quanto lì si dice “C’è più gioia nel donare che nel ricevere”. Bianchi fa anche un'altra operazione, “inventando” una sotto parabola legata a quella della distribuzione dei talenti. Immagina che oltre a quelli citati (quelli che ricevono talenti e li fanno fruttare e quelli che li sotterrano per non perderli), ci sia uno che, dopo aver impiegato i due talenti per guadagnare altri due, durante un naufragio li perda tutti e si ritrovi senza. Ma neanche questo sarà biasimato dal padrone al ritorno. Da qui, il percorso si fa, personalmente, difficile. Perché comprendo la seconda tappa, seppur difficoltosa. Perdonare è donare totalmente, in modo assoluto. Senza tuttavia dimenticare. Non si può dimenticare un’offesa, un “male” subito. E non serve andare verso una (falsa) riconciliazione. Il perdono non si predica, si pratica. Non serve a ristabilire una condizione “quo ante”, perché tra l’ante ed il quo c’è stato il “bellum”. Bianchi, con esempi e partecipazione, tratteggia una specie di percorso del perdono. Il primo passo è la rinuncia alla vendetta (e questo sembra facile). Il secondo passa per l’introspezione, verso la conoscenza di se stessi: come siamo ora, cosa è cambiato e cosa sta cambiando, dopo il male subito. Il terzo passo è la comprensione dell’altro, sempre non per assolverlo, o per togliere il male che ha commesso, ma per entrare in simpatia (cioè, etimologicamente, sentire le stesse cose). Il quarto è la sua manifestazione che non può prescindere dalle tappe precedenti, e che sarà un dono totale, finale, definitivo. Qui Bianchi apre la parentesi più difficile, in cui labirinticamente mi perdo, sul rapporto che comunque non può mancare, non può interrompersi tra perdono e giustizia. Di cui riporto solo una frase di Giovanni Paolo II su cui meditare. “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Si arriva così alla tappa finale, alla compassione. Anche qui, di fondo, risalendo all’etimologia, questa volta latina, di cum e patior, cioè soffrire insieme. Perché qui, Bianchi affonda tutto nelle sue radici cristiane, e del soffrire insieme fa un percorso per andare verso l’altro. Ed arrivandoci, superare il male esterno. Per questo, avere compassione porta a combattere il male (come avrei visto nel titolo). Ma non è facile usare la compassione come risposta al male stesso. Confesso, qui mi sono definitivamente perso. Non nella comprensione della compassione, ma nella sua attuazione. Riporto solo due elementi che mi hanno colpito di questa riflessione finale. Il primo, è un parallelo tra l’attributo di Dio in ebraico “rachum” (dal libro dell’Esodo) ed il primo nome di Allah “Al-Rachman” (dal Corano) entrambi derivati dalla stessa radice “r-ch-m”. Il secondo è un apologo confuciano attributo al filosofo Mencio, che riporto integralmente, anche perché, nella versione che ho trovato su Wikipedia, il secondo animale è diverso dal primo, mentre nel testo di Bianchi si parla sempre e solo di vitelli.
“Un re vide degli uomini trascinare un bue. Dove lo portate, chiese loro. Al sacrificio, per santificare una campana con il suo sangue. Il re disse allora di lasciarlo andare. Non posso sopportare di vederlo tremare come un innocente condotto al supplizio [la compassione, nota mia]. Dobbiamo allora eliminare la cerimonia, chiesero gli uomini. No, rispose il re, prendete un vitello al suo posto.”
Insomma, una bella lettura, a voi, anzi a noi, insieme, di rifletterci, chiudendo con la frase sotto riportata, che sottoscrivo totalmente.
“L’uomo … può [com-patire] … soffrire e gioire con l’altro, per vivere autenticamente, perché non si vive mai senza l’altro.” (68)
Carlo Rovelli “Sette brevi lezioni di fisica” Adelphi s.p. (regalo di Rosanna per il Natalino 2014)
[A: 25/12/2014– I: 30/12/2014 – T: 31/12/2014] - &&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 85; anno 2014]
Un gradito regalo frutto di una piccola incomprensione. Fidando della mia non nascosta conoscenza dei numeri, la mia amica Rosanna mi ha fatto omaggio di questo interessante libretto di … fisica. Ebbene, io, di fisica, non ho mai capito molto, tanto che devo ancora ringraziare gli aiuti avuti a suo tempo dall’amica Annalisa per aver potuto superare con onore i due esami universitari. Mi sono quindi accostato con timore a queste men che cento pagine, pensando di dovermi trascinare nei mondi ignoti di accelerazioni e lavori vari. Fortunatamente l’ottimo Rovelli è anche un eccellente didatta, riuscendo a rendere semplici ed appetibili concetti altrimenti astrusi. Merito anche dell’origine di queste lezioni, uscite a puntate su “Il Sole – 24 ore” nell’ambito, appunto, di un’opera divulgatrice delle più recenti conquiste in questo campo. Unendo poi un po’ di storia dei concetti, rispetto all’esposizione dei concetti stessi, i sei elementi “nuovi” della fisica dell’ultimo secolo escono discretamente comprensibili anche ad un povero matematico come son io. Dico sei, perché la settima, e forse più intrigante lezione, è dedicata al nostro modo fisico di essere in questo mondo che la fisica cerca di descrivere con sempre meno approssimazione. L’altro elemento che rende gradevole l’esposizione è poi quel riandare alla genesi delle teorie, al modo in cui i fisici discutevano, accettavano o rifiutavano pezzi di conoscenza. A come ad Einstein venne alla fine l’idea semplice della descrizione del mondo attraverso la teoria della relatività (ed alle sue appassionanti discussioni con Niels Bohr). Di come nasca il secondo pilastro della fisica moderna, quella teoria dei quanti che ci informa che non tutti i valori delle particelle subatomiche possono essere raggiunti, ma che ci sono “dei buchi”. Cioè che la materia si addensa in pacchetti, come dimostrò sperimentalmente Max Planck nel 1900. Il passaggio logico successivo è l’applicazione di queste due teorie al macrocosmo prima ed al microcosmo poi. Nel primo caso, arriveremo a descrivere (ed a fotografare con telescopi orbitali) la struttura dell’Universo come una struttura in espansione da un nocciolo duro primordiale. Nel secondo caso andremo ad esplorare sempre più in profondità la struttura fine della composizione della materia. Arriveremo ai quark, poi al bosone di Higgins, poi agli studi del CERN di Ginevra. E via discorrendo. Qui, fortunatamente, il nostro professore fa anche un piccolo salto di lato, introducendo quel po’ di matematica che non guasta. Perché, alla fine, tutto sembra risolversi in modelli probabilistici (vero, amica Cristina?). Tutto nasce dalla domanda: perché mettendo un cucchiaino freddo in una tazza di tè caldo, il cucchiaino si scalda? Perché non succede il contrario? A questa domanda fondamentale, Boltzmann rispose: per caso. Non esiste una legge, ma solo una probabilità che indica sia molto più forte la possibilità che il cucchiaino si scaldi piuttosto che il contrario. Da qui, nascono altri elementi teorici e di descrizione che vi risparmio per brevità (e per incapacità mia di renderli più semplici di quanto lo faccia Rovelli). Certo che il professore non può che non introdurre la teoria dei “loop” (dato che ne è uno dei fautori), ma potremmo con la stessa intensità parlare di stringhe od altro. Fatto sta che più andiamo avanti, più sembra difficile trovare una teoria semplice che descriva tutto l’universo. Si partì da Newton, ed attraverso Einstein, siamo arrivati ad oggi. Le prime teorie erano semplici, onnicomprensive e ben descrittive. Anche perché gli strumenti di misura erano connaturati al loro tempo. Ora che le misure sono sempre più precise e dettagliate, le teorie stesse tendono ad essere più complicate. E saremo sempre in attesa di un nuovo passo. Come si fece con l’amico Giuzzo, quando ci si imbarcò nel tentativo di trovare una funzione di raccordo tra elettromagnetismo e termodinamica. Impresa che da quarant’anni non ha trovato soluzione, ma che, se ci fosse, potrebbe portare a quelle auspicate semplificazioni. Per ora ci si accontenta di vivere in questo spazio, essendo noi e lo spazio dei nostri neuroni la stessa cosa (e non lo dico io, ma lo disse molti secoli fa un certo Baruch Spinoza). Con l’ipotesi ulteriore (suffragata dalle ultime osservazioni sui buchi neri) che l’Universo (che ora vediamo in espansione) ad un certo punto collassi ed inverta il fenomeno. Ma non per “finire” ma per andare avanti ciclicamente, espansione e collasso. Perché, e questo è il risultato meraviglioso che mi viene dalle ultime pagine, il mondo, l’Universo, e tutto quanto, è solo un problema di relazione. E se ci pensate bene, anche nella nostra vita di tutti i giorni, questa è la risposta fondamentale (e spero che qualcuno si ricordi che l’altra risposta è “42”; chi lo ricorderà vincerà un lauto premio!).
“Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte.” (13)
“Le equazioni della meccanica quantistica … non descrivono cosa succede ad un sistema fisico, ma solo come un sistema fisico viene percepito da un altro sistema fisico. … Significa [quindi] che dobbiamo accettare l’idea che la realtà sia solo interazione [cioè relazione tra elementi].” (29)
“Non abbiamo le equazioni che descrivono il vibrare termico di uno spazio-tempo caldo [vedi il testo per capire come questa frase sia scolpita nel mio cuore].” (63)
E dato che siamo alla seconda trama del mese, vi prendete fra capo e collo anche una bella cura per chi non sa esprimere le emozioni. Io, invece, colgo l’occasione per esprimere il piacere di scrivervi, ed il dispiacere di doverlo interrompere, seppure per poco e seppure per uno degli elementi tipici della mia natura: il viaggio. Finisco di preparare la partenza americana e do a tutti un appuntamento a luglio.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GIUGNO 2015
Care le mie amiche dottoresse di libri, questo mese il compito è arduo, che esprimere le emozioni è sempre momento difficile. Intanto vediamo che cura proponente.

EMOZIONI, INCAPACITÀ DI ESPRIMERE

Dolce come il cioccolato, Laura Esquivel
Mentre morivo, William Faulkner
Chi ha difficoltà a esprimere le proprie emozioni - o vive con qualcuno che ha questo problema – dovrebbe tenere a mente che a) l’incapacità di esprimere emozioni non significa necessariamente che non si provino emozioni e b) che si può ricorrere a modalità di espressione alternative, che non richiedono parole o gesti.
In “Dolce come il cioccolato”, famoso romanzo di Laura Esquivel, Tita non può sposare Pedro, di cui è innamorata fin dall’infanzia, perché la tradizione richiede che lei, in quanto figlia minore, rimanga sola e si prenda cura della dispotica madre. Tita, dunque, riversa l’amore che non dovrebbe provare per Pedro negli splendidi piatti che cucina. Nella torta per il matrimonio di Pedro - perché il giovane sposa Rosaura, sorella di Tita, per stare vicino a lei - incorpora martirio e amarezza. Nella glassa, invece, va il suo desiderio, e come abbiamo imparato ad aspettarci dal realismo magico latino-americano, gli invitati assimilano le emozioni insieme alla torta nuziale e sono sopraffatti dal dolore per gli amori perduti del passato. Le quaglie con salsa di petali di rosa, dove Tita ha infuso la sua passione sensuale per Pedro, trasformano la verginale sorella di lei Gertrudis in una tale frenesia di eccitazione sessuale che non può fare a meno di togliersi i vestiti e di correre nuda per le strade – per essere debitamente issata su un cavallo e portata via da un soldato ribelle altrettanto infoiato. Se anche voi avete difficoltà a dire «Ti amo», provate a utilizzare il cibo. E voi che invece non udite queste parole, fate attenzione agli altri modi in cui può essere espresso questo sentimento.
Potreste dover fare molta fatica. Dei cinque fratelli Bundren che guardano morire la madre Addie in “Mentre morivo” di William Faulkner, Darl è il più eloquente, Jewel il più espansivo e Cash - anche se è il più anziano - quello che fa più fatica a esprimere il proprio amore per la madre. Lo fa costruendo la sua bara proprio sotto la sua finestra. Jewel lo guarda mentre con cura e attenzione trasforma quelle «lunghe, calde, tristi e gialle giornate» in assi ed esprime in parole al posto suo quel gesto di intensa e complessa devozione: «Guarda. Guarda come te la costruisco bene».
E la bara è fatta davvero bene. Cash la costruisce a forma di orologio a pendolo «con tutti gli incastri e le giunture squadrati e lisciati con la pialla, ben chiusa e in ordine come il tuo cestino da lavoro» perché possano deporvi la madre senza sgualcirle il vestito. Il giovane convoglia tutto il suo dolore e il suo desiderio di accontentare la donna nella costruzione della bara, e la sua difficoltà ad articolare quei sentimenti è commovente - soprattutto nel capitolo formato dall’elenco delle ragioni per cui la bara dev’essere perfettamente «a squadra». Accogliete a braccia aperte l’incapacità di esprimere i sentimenti in maniera convenzionale, che sia vostra o dei vostri cari. Abituatevi a usare – e fatelo fare agli altri – un repertorio più ampio.

Bugiardino

Fatto non poco curioso, entrambi i libri “da emozione” li ho letti nell’ultimo periodo, per cui ancora non hanno avuto una trama “ufficialmente pubblicata”. E quindi ve ne propongo la lettura così come sono usciti dalla mia tastiera, sottolinenado come i libri stessi siano molto più carichi delle poche emozioni che le autrici citano. Anche se sottolineo e concordo con loro che, a volte, si debbano trovare modo diversi per esprimersi. Non sempre bastano le parole.
Laura Esquivel “Dolce come il cioccolato” Garzanti euro 9,90
[trama del 20 aprile 2015]
Finalmente leggo questo antico (nel senso di trentennale, ma che sono molti per una simile scrittura) libro, presente da anni nelle mie famose liste, sollecitatomi dalle mie amate-odiate libropatiche non che spinto sulla cresta dell’onda anche dalla collezione di libri legati alla cucina in uscita con il “Corriere della Sera”. Intanto, una bella tirata d’orecchi agli editor della Garzanti che stravolgono in “Dolce” uno sfogo della protagonista che ad un certo punto si sente ribollire “come l’acqua per il cioccolato”, che si dice essere di poco sapore, ma che, come il cuoco Dario Bressanini insegna, è l’occasione per una gustosissima mousse. Inoltre, non ho neanche visto il film che nel ’92 ne fece il messicano Arau, anch’esso di buon successo come il libro. Che uscì in Messico a puntate, ognuna delle quali con una ricetta, e solo così se ne può gustare il filo conduttore, che nel libro sembra perdersi. La storia è semplice e molto messicana. Abbiamo la bella Tita de la Garza, la minore delle figlie di Donna Elena, acida vedova messicana. Che fin da piccola vive in cucina, e ne capisce e carpisce i segreti più intimi. Di lei si innamora il bel Pedro, amore ostacolato da Donna Elena, in quanto ancora non maritate le figlie maggiori, Rosaura e Gertrudis. Messo alle corde da Donna Elena, pur di rimanere vicino a Tita, Pedro decide di sposare Rosaura. Da quel momento, Tita riverserà il suo amore nella cucina, producendo manicaretti elaborati e con effetti sorprendenti. Tanto che in uno particolarmente pieno di affetto si trasfigura Gertrudis, che scappa nuda nella prateria insieme ad un rivoluzionario messicano. Noi però rimaniamo nel ménage familiare, con la madre tiranna, Pedro e Rosaura che fanno un figlio che però muore giovane. Pedro è sempre lì, tra l’essere vicino e fare il tontolone, che una qualsiasi donna normale (non Tita, purtroppo) l’avrebbe mandato a ramengo molto presto. Poi muore Donna Elvira, Tita esce allo scoperto e Rosaura si fa prendere da crisi di nervi ed altre strampalitudini. Ritorna anche Gertrudis alla testa di manipoli rivoluzionari (in fondo siamo nel Messico dell’epoca di Pancho Villa) che cerca di svegliare Tita. Che forse sembra avere un sussulto di indipendenza quando anche Rosaura ci lascia, insalutata salma. Ma l’ombra di Donna Elena aleggia sulla casa, e dopo un’unica notte d’amore (in fondo abbiamo aspettato quasi 150 pagine che succedesse “o’ miracolo”), ecco un’altra catastrofe. Senza nessun preavviso si accendono fuochi strani e Pedro e Tita bruciano insieme al loro amore. La storia è durata tanti anni, ci sono stati intermezzi, c’è stato l’amore di John per Tita, che molto le insegnò ma che non le tolse Pedro dal cuore, ci sono stati figli (che non sono morti), c’è la bella nipote Esperanza che sposerà Alex, il figlio di John. E c’è questa storia, narrata dalla figlia dei due. La storia di un grande amore, ma soprattutto di tanti belle ricette che punteggiavano le uscite a puntate del libro. Dalle focaccine di Natale alla torta Chabla, dalle quaglie ai petali di rosa ai peperoni in salsa di noci. Ma seppur queste sono belle (e ne consiglio la lettura a chi s di cucina), il resto del libro, con quel “realismo magico” latino-americano che mi lascia assai freddo, quelle situazioni inspiegabili, e soprattutto l’indecisione di tutti i protagonisti ad essere sul serio protagonisti e non vittime della vita che passa, non mi ha fatto amare in particolar modo questo libro. Con tutte le metafore che poi il libro porta con sé, sia a livello sentimenti che della rappresentazione della realtà messicana. Sui primi, c’è una correlazione quasi ingenua (le cipolle che sono cagione di lagrime, i petali di rosa che risvegliano passioni, ed altre similitudini di piccolo livello). Sull’altra, per rappresentare il grande affresco del Messico dei primi anni del XX secolo (pieno di oppressi, oppressori, rivoluzioni) si fa un semplice traslato con i personaggi: Tita e Pedro sono gli oppressi, Donna Elena e Rosaura gli oppressori, Gertrudis la rivoluzione). Ma è molto datato come scrittura e come descrizione delle atmosfere. Insomma, mi aspettavo di più da come se ne parlava negli anni del suo maggior successo.
“La verità vera è che la verità non esiste, dipende dal punto di vista di ognuno.” (141)
William Faulkner “Mentre morivo” Adelphi euro 10
[trama del 03 giugno 2015]
Certo non è mai facile avvicinarsi ad un mostro (o maestro) della scrittura e disquisirne come fosse un qualsiasi scrittore che si avvicina alla carta stampata. Molto contesto viene fuori e difficilmente si riesce a separarlo dal testo. Semplice è quando il testo è talmente bello e ben riuscito che non si risparmiano lodi ed iperboli. Meno quando, pur con una sua intrinseca bellezza, soggettivamente contiene punti non chiari o non graditi. Come è per l’appunto questo magistrale scritto del grande premio Nobel delle pianure americane. Che è un bel libro. Ma (forse anche a causa delle difficoltà di traduzione) non immediatamente fruibile. L’ho dovuto prendere per mano, rigirare pian pianino, per arrivarne a capo. Perché scritto in capitoli soggettivi dei diversi personaggi. Con una bravura enorme a calarsi nelle modalità espressive di ognuno. Perché si capisce da alcuni passaggi come sia difficile rendere le diverse tonalità del verbo essere con cui si esprimono i personaggi principali, come l’intraducibile pezzo che riporto in calce pronunciato da Darl, quello un po’ ritardato. La trama, invero, sarebbe di una semplicità disarmante. Abbiamo la famiglia Bundren, tutta stretta intorno alla madre Addie, che sta morendo e che muore. C’è Anse, il marito, che pur di non chiedere qualcosa in prestito (per non sentirsi obbligato), fa scelte rovinose per la famiglia quando si tratta di seppellire la moglie morta. Ma forse, lo fa per avere i soldi per farsi una dentiera, e prendersi una nuova donna in casa, una volta morta Addie. E ci sono i figli. Cash, il maggiore, che è cascato da un’impalcatura e si è storpiato. È il falegname di casa, costruisce la bara per la madre, ma sarà ancora sfortunato durante il viaggio (si rompe di nuovo la gamba, e non viene curato, così che zoppicherà per sempre). Darl è il secondo, quello ritardato, che tuttavia ha intuizioni geniali, proprio per la pazzia di fondo che lo contraddistingue. Cercherà di “resuscitare” l’animo della madre. Cercherà di fermare la reale pazzia del padre di andarla a seppellire a Jefferson, cercando di bruciare bare e carri. E per questo verrà poi rinchiuso in un manicomio. Jewel è il terzo, che vediamo essere da subito diverso, più intransigente, più determinato. Scopriremo, nel corso del libro, che Addie lo ha avuto non da Addie ma dal pastore della Chiesa. E probabilmente Jewel alla fine se ne andrà. Quarta arriva l’unica femmina, Dewey Dell, diciassettenne “in calore”, che ha nella pancia il figlio di un vicino, che vorrebbe abortire ma non sa come fare, ora la mamma morta. E non lo farà. Infine, l’ultimo, il piccolo Vardeman, quello che guarda tutto con i suoi occhi innocenti. Quello che non capisce, e che per tutto il libro sogna un trenino rosso per Natale. Insomma, Addie la madre muore, ma comincia a piovere, le strade sono allagate, i ponti crollati. Ma Anse vuole portarla a Jefferson, e si parte. Loro sul carro, e Jewel a cavallo, quello che si è comprato con i suoi risparmi. Il guado del fiume non riesce, i muli muoiono, a stento salvano la bara, ma Cash si rompe la gamba di nuovo. Per prendere altri muli, Anse vende il cavallo di Jewel, suscitando un rancore insanabile. E finalmente a Jefferson, seppelliscono Addie, rinchiudono Darl, Anse prende una nuova moglie, Dewey Dell vende il suo corpo per aver soldi per l’aborto, senza riuscirci, Cash viene curato ma non guarisce. E Vardeman guarda tutto e tutti, pensando sempre al treno. Ma quello che risalta non è tanto e solo il narrato, che alla fine vien fuori quasi ad essere un racconto biblico, con tutti i suoi archetipi classici (il pesce che pesca Vardeman, il cavallo di Jewel, l’inondazione-diluvio, il rogo che purifica, Darl come capro espiatorio), né il tessuto dei rancori che covano tra i diversi membri della famiglia è che le difficoltà del viaggio fanno esplodere. Quello che risalta è quel “flusso di coscienza” collettivo della narrazione. Joyce ne aveva fatto un esempio eponimo nel suo Ulysses. Qui Faulkner lo moltiplica per enne, facendolo uscire da ogni personaggio, dove alla fine la narrazione risulta non direttamente, ma quasi da un contrappunto polifonico, come una grande sinfonia. Ma se in questo maestro è lo scrittore, io lettore ne sono a volte travolto, forse “annientato”. Anche se, alla fine, il dipinto di un tipico vissuto del profondo sud americano esce fuori, e con forza. Bello per la testa, un po’ duro e difficile per il cuore e la pancia.
“E dato che il sonno è non-è e la pioggia e il vento sono erano, non è. Eppure il carro è, perché quando il carro sarà era, Addir Bundren non sarà. E Jewel è, così Addie Bundren deve essere.” [And since sleep is is-not and rain and wind are was, it is not. Yet the wagon is because when the wagon is was, Addie Bundren will not be. And Jewel is, so Addie Bundren must be.] (74)
“Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai a quello che tentano di dire.” (154)

Conclusioni


Avete visto quante altre emozioni escono da questi libri? E dove, spesso, non sono solo le parole ad esprimerli. Per cui, certo, se non riuscite ad aprirvi, usate meglio i modi di Laura Esquivel. Ma non quelli, che non saranno mai chiari, di Faulkner. Ricordando alla fine che il modo migliore di esprimere qualcosa è di formularne una domanda. Laddove una risposta, seppur negativa, è sempre meglio di un silenzio non interpretabile.

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