E già, questa volta abbiamo un gruppo
veramente eterogeneo, dove purtroppo il libro a me meno congeniale è del più
noto dei quattro, il Nobel Gabo. Ho invece trovato, nelle loro diversità,
godibili, leggibili e condivisibili, il pamphlet “fuori di testa” con i salmoni
nello Yemen, il pot-pourri anglo-yiddish di Potok nonché il bellissimo e
truffauttesco triangolo di Roché. Questi ultimi tutti da leggere (o rileggere).
Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen” LIT euro 9,90
[A: 04/01/2014– I:
03/02/2015 – T: 12/02/2015] - &&& e ¾
[tit. or.: Salmon Fishing in the Yemen; ling. or.: inglese; pagine: 253; anno 2007]
Anche
questo è uno di quei libri che non sarebbero entrati nella mia copiosa
biblioteca senza la spinta di opportuni e mirati suggerimenti. E bene ho fatto,
che, anche se non è un libro stravolgente, mostra una indubbia capacità
dell’autore di cogliere aspetti assurdi della vita, trattarli con efficacia e
costruirvi intorno un libro rimarchevole. Peccato che poco dopo la
pubblicazione di questa opera prima (scritta dall’autore già sessantenne) il
nostro Torday muoia di un male incurabile. Anzi, è proprio questa malattia che
lo aveva spinto, lui industriale di discreto successo nel campo petrolifero, a
riprendere in mano la sua passione giovanile e dedicarsi alla scrittura. Ma non
parliamo degli altri suoi lavori, rimaniamo a questo, ed alla sua natura
eclettica ed umoristica. Che inizia già dal titolo che ci cattura: pesca al
salmone nello Yemen? Infatti, se doveste immaginare di pescare salmoni – un
pesce tipico di corsi d’acqua freddi e impetuosi, generalmente molto nordici –
in un polveroso uadi tra gli infuocati canyon delle montagne dello Yemen
penserete tutti ad un errore. Una cosa fuori da ogni logica, senza alcun senso,
priva di qualsivoglia razionalità, scientifica, biologica. Un’assurdità,
insomma. In effetti è la stessa opinione che matura il professor Fred Jones,
idrobiologo dell’ENPI – l’ente inglese per la tutela e lo sviluppo del
patrimonio ittico nei fiumi. Lo pensa fin da subito, ne andrebbe peraltro del
proprio onore scientifico imbarcarsi in una assurdità del genere e non lo
ritiene proprio il caso, dato che pure la vita privata non gira certo nel
migliore dei modi – Mary, la moglie, è una donna in carriera alla quale
prospettano un prestigioso trasferimento all’estero che lei decide di accettare
subito, palesando così la fragilità del rapporto matrimoniale con Fred,
probabilmente fin dall’inizio mancante di autentico amore e semmai soprattutto
conveniente e “funzionale” ad entrambi. Una crisi matrimoniale in piena regola,
insomma, durante la quale il professor Jones, gioco forza costretto dai suoi
capi a prendere in mano il folle progetto di introduzione del salmone nello
Yemen, conosce il fautore dell’impresa, lo sceicco Muhammad ibn Zaidi,
ricchissimo yemenita con la passione per la cultura britannica e, ancor più,
per la pesca sportiva nei fiumi di Sua Maestà: una persona affascinante,
visionaria e spiritualmente assai profonda. Ma, soprattutto, Jones conosce la
giovane e bella Harriet, dipendente della società incaricata dallo sceicco di realizzare
materialmente il progetto, della quale, stante la sua situazione matrimoniale e
nonostante lei sia già impegnata con Robert, un ufficiale dei Royal Marines di
stanza in Iraq, ben presto si innamora. Noi seguiremo tutta l’intricata vicenda
attraverso quello che è uno dei punti forza del romanzo: la sua particolare
struttura narrativa. Il progetto che dà il nome al libro viene infatti
raccontato al lettore prima attraverso le pagine del diario personale di Fred,
poi dalle lettere di Harriet, poi dalle mail tra Fred e Mary, dallo scambio di
mail tra l'ENPI di cui sopra e il Ministero dell'Ambiente e dell'Agricoltura,
dalle note del Ministero degli Esteri, da stralci di giornale, dalle lettere
secretate di Robert dall’Iraq, dai resoconti stenografici delle Commissioni
Parlamentari. Seguiamo il progetto, passo dopo passo, dalla sua ideazione fino
alla sua concreta, ma non priva di ostacoli, realizzazione. Un invito, in altre
parole, a cercare di dare sempre il meglio di noi stessi, anche quando tutto
sembra andare per il verso sbagliato. È comunque ed alla fine un tentativo non
solo di dare un senso umoristico al tutto, ma anche di critica sociale (castiga
ridendo mores, che, ricordo ai più smemorati, non è una tradizione del latino
antico, ma una frase del latinista francese del XVII° secolo, Jean de Santeul).
Dalle manie di successo della moglie Mary, agli strani comportamenti di
fondamentalisti mediorientali, dalle follie della politica estera britannica ai
comportamenti giornalieri di chi quella politica dovrebbe attuarla per il bene
della patria. Terminando, realisticamente, con una citazione di Tertulliano che
riassume sia il senso del progetto “Salmone” sia quella della vita dei
protagonisti: Certum est quia impossibile est (è certo perché è impossibile).
Solo nel finale, il nostro Torday si incarta un po’, ma non ci saremmo mai
aspettati un lieto fine da tutta la storia. E così sarà, ma non ve ne dico i
contorni, ma vi esorto a leggere il libro per scoprirne meglio tutte le
sfumature. Vale la pena.
Chaim Potok “Il mio nome è Asher Lev” Garzanti euro 13
[A: 04/01/2014– I:
20/02/2015 – T: 22/02/2015] - &&&&
[tit. or.: My name id Asher Lev; ling. or.: inglese; pagine: 317; anno 1972]
Altro
bello e piacevole libri letto in questo febbraio in cui si è tornati a prendere
in mano non dico dei classici, ma sicuramente dei libri sapienti, sempre sotto
la guida delle scrittura delle mie libropeute di “Curarsi con I libri”. Ed
altro libro che, praticamente, si svolge come una potente biografia, anzi auto,
visto che viene narrato in prima persona appunto da Asher Lev. Un ebreo, come
dice chiaramente il nome. Non solo. Un ebreo chassidico, seguace dei dettami
del riverito (e forse santo) rabbino polacco del 1700 Israel ben Eliezer. Ed
anche di più, perché scritto da Herman
Harold Potok, che assunse lo pseudonimo di Chaim (che significa “vita” in
ebraico) e che, oltre ad essere uomo di lettere, fu anche un rabbino
statunitense (fu, che purtroppo morì di tumore nel 2002 all’età di 73 anni).
Forse più noto per il suo primo libro (“Danny l’eletto”) che io non ho letto,
Potok imbastisce qui una trama forse scarna di avvenimenti, ma piena di
interrogativi intellettuali, quelli che bene o male hanno fatto da corona a
tutta la sua vita. Al centro il contrasto, forte ed insanabile, tra vocazione
(o dono superiore) intellettuale e religione. Anche lo scrivere non è tra gli
elementi di forza del pensiero chassidico (anche se devo confessare di aver
letto di cosa tratti questa corrente ebraica ma di non averla capita fino in
fondo), e Potok risolse il suo dramma interiore relegando la scrittura al tempo
altro cui non dedicava la sua vita pubblica di rabbino. Qui, con il suo
alter-ego Asher Lev, tenta di portare fino in fondo questa contraddizione,
provando a vedere cosa succede facendo la scelta opposta. Asher è dotato, fin
da piccolo, di una spiccata capacità di disegnare, e per buona parte del libro
cerca di descrivere le sue sensazioni visive, il suo modo di cercarne la
trasposizione in un mondo bidimensionale (la carta, la tela, i colori; come
rendere il freddo del ghiaccio siberiano ad esempio, cercando di far arrivare
all’osservatore l’angoscia di chi viene relegato in Siberia come ergastolano
per motivi religiosi?). Ma il grande cruccio, il grande dilemma, è che Asher
vive all’interno di una comunità chassidica di ebrei fuoriusciti russi, ora
residenti a Brooklyn. Dove suo padre è uno dei più stretti collaboratori del
capo della comunità. E per la comunità, il padre lavora, viaggia in America, si
trasferisce per anni in Europa. Per cercare di diffondere e difendere il credo
chassidico. E tutta la sua vita è improntata n questa direzione, così come
quella di suo padre e del padre di suo padre. E la pittura non è contemplata
come espressione consentita. Non che non si possano dipingere Abramo e
calendari sacri. Non è concepita la pittura come espressione dei sentimenti,
tanto quanto non sembra possibile o ipotizzabile esprimere comunque sentimenti.
Certo, sembra almeno, rispetto ad altri elementi ebraici noti, il seguace
chassidico è meno “triste”. Anche la vita è un dono di Dio, e va vissuta con
gioia, anche cantando (e spesso si canta durante le festività). Ma la più alta
forma di vita è quella dedicata a proteggere gli altri ebrei, a leggere la
Torah, ed a santificare le feste, in particolare il Sabato. Asher è stritolato
tra il suo dono e l’amore verso il padre. In tutto ciò non bilanciato dalla
madre, che vuole bene ad entrambi, ma che non riesce a trovare il modo di farli
comunicare. Sarà il capo della comunità a proporre una soluzione, affidando
l’educazione a Jacob un membro della stessa un po’ ai bordi, ma che è un grande
artista, che ha dipinto con Picasso al Bateau Lavoire (ed io ricordo ancora la
bellissima piazzetta Émile-Goudeau a Montmartre). Jacob insegna realmente ad
Asher come utilizzare la sua arte, e lo mette in contatto con i mercanti
d’arte. Bello è tutto l’apprendistato del giovane, i suoi tentativi. Ed il
successo della sua prima mostra, dove la sua comunità non va perché espone dei
nudi (vedi sotto il bel commento). Quindi Asher va anche a lungo in Europa,
soprattutto a Firenze e Parigi, dove si immerge nei doni dei quadri e delle
sculture che vi sono in quantità (stupenda la descrizione della scoperta della
Pietà di Michelangelo). Qui fa l’ultimo passo e balzo in avanti. Passo che si
preannunciava sin dall’inizio, quando, oltre alla Torah, Asher andava guardando
i quadri dei musei newyorkesi, soprattutto quelli della Crocefissione di Gesù. Qui
bisogna fare un inciso di carattere storico atto ad una migliore comprensione
del racconto: da un lato, ci si narra che il nonno di Asher venne ucciso da un
cristiano in tempo di Pasqua, dall’altro non si narra, ma si da per scontato da
parte di Potok visto la sua storia personale, come la setta chassidica nacque
in un momento di grande fermento religioso nell’ebraismo dovuto alla vicenda
settecentesca dei falsi messia Sabbat Zevi e Jacob Frank, e soprattutto della
conversione dei frankisti al cristianesimo. Motivo questo che rende l’ebreo
chassidico particolarmente sensibile al motivo di Gesù e della croce. Comunque
Asher a Parigi dipinge il suo capolavoro, intitolato “Crocefissione a
Brooklyn”, dove, inserite in serti crocefiggenti, ritrae tutto il dolore di sua
madre, di suo padre ed anche suo per tutti i contrasti personali e religiosi
avuti nella loro vita. Il quadro avrà un enorme successo nella mostra di Asher
Lev, ma segnerà la rottura definitiva con il padre, ed il suo esilio in Francia
da parte della comunità. Che rispetta il dono, ma solo lontano da sé. In fondo,
ripensando al libro è quasi più denso di cose rispetto a come mi era scorso
sotto gli occhi. Ma tutto, e Potok lo rende magistralmente, all’interno di quel
conflitto, in cui Asher sente di avere il dono, ma non se la sente, non vuole,
(e non lo farà) allontanarsi dalla religione e dalle pratiche chassidiche. Un
bel libro di idee, ben scritto, che pone domande. E quando un libro fa
riflettere raggiunge un altro dei suoi nobili scopi. Bello, infine, lo scorrere
della Storia in sottofondo, che il nostro pittore nasce nel 1943, e percorre,
da ebreo, tutti gli avvenimenti di 25 anni di storia (la rinascita
post-bellica, la morte di Stalin, l’ascesa di Kennedy, fino all’alluvione di
Firenze). Insomma, un libro da leggere e da discutere.
“È un uomo testardo. Essere testardi è allo
stesso tempo una debolezza e una forza.” (235)
“- Asher, sono tuo padre, sono un uomo
sufficientemente intelligente. Dimmi qual è la differenza tra una donna nuda ed
un nudo. – Una donna nuda è una donna senza vestiti. Un nudo è una visione
personale dell’artista di un corpo senza vestiti.” (258)
Henri-Pierre Roché “Jules e Jim” Adelphi euro 11 (in realtà, scontato a
8,25 euro)
[A: 01/02/2014– I:
07/03/2015 – T: 09/03/2015] - &&& e ½
[tit. or.: Jules
et Jim; ling. or.: francese; pagine: 245; anno 1953]
C’è
qualcuno che non ne ha mai sentito parlare? O qualcuno che, almeno, non ha
visto o sentito parlare del bellissimo film che ne ha tratto Truffaut? Poiché
sono certo che almeno una delle due domande abbia risposte positive, comincio
subito con dire che, al fondo, non è che mi sia piaciuto tanto. Una scrittura
interessante, forse un po’ troppo distaccata (si dice quasi come uno che
scrivesse per sé e non volesse essere letto). Una storia che, dopo un inizio
scoppiettante, si trascina per 2/3 del libro aspettandone l’ovvia conclusione.
Però, nonostante tutto, è un libro che regge i suoi anni, e questo (scusate se
è poco) mi sembra un grande pregio, soggettivamente. Abbiamo quindi tre linee
da seguire, per capire e gustare tutto ciò: la vita, il film, il libro. Nella
vita c’è appunto l’autore, critico d’arte ed amico di artisti da Picasso a
Duchamp, dalla vita si direbbe “bohémien” spesa per molto tempo (dai 20 ai 40
anni) a Montparnasse, che nel 1910, trentenne, fa l’incontro clou della sua
vita con il tedesco Franz Hessel, scrittore. Con lui condivide letture,
amicizie, e soprattutto donne, che i due si scambiano spesso e volentieri. Nel
’13 Franz sposa Helen, da cui avrà due figli (Ulirch e Stéphane, di cui
ricordiamo il secondo per essere stato eroe della resistenza, politico sempre
impegnato ed autore di quel libro, tramato e di successo, che scrisse a novanta
anni “Ribellatevi!”). Dopo la Guerra, Roché raggiunge a Monaco i coniugi Hessel
instaurando quel rapporto a tre che sarà la base del libro. Intanto Pierre si
sposa con Germaine nel ’23, continua la sua vita libertina con Helen e Franz,
vive con la sua amante Denise da cui nel ’31 avrà un figlio. Nel ’33 rompe con
Helen, e si allontana dai tedeschi, pur continuando ad aver cura dei due figli
di lei. Nel ’41 in un campo di internamento muore Franz. Nel ’59, durante la
scrittura della scenografia per Truffaut muore anche Roché. E solo nel 1982, a
96 anni, muore Helen. A seguito della scomparsa di tutti i protagonisti,
Stéphane rivelerà la vera storia di “Jules e Jim”. Intanto nel ’61 Truffaut
aveva girato il film che si incentra sul triangolo Jules (fatto diventare
austriaco), Jim e Catherine (interpretata da una stupenda Jeanne Moreau). A
parte gli aspetti peculiari del film stesso (capostipite di quella “Nouvelle
Vague” che si andava formando in Francia), ci sono momenti epici (la presenza
di 13 quadri di Picasso, ad esempio). Ma pur tacendo tutta la parte “non
triangolare” della vicenda, ci si appassiona al prendersi e lasciarsi, al
vivere la vita fino in fondo. Nel film, Catherine ha una figlia, ma il dramma
della coppia impossibile ricalca abbastanza il libro. Di cui ora parliamo, che,
appunto, ha altro, rispetto alle due espressioni precedenti. Ha una prima parte
in cui assistiamo alla vita parigina di Jim e Jules, delle loro discussioni al
caffè, delle loro amanti, e degli scambi amorosi, quasi a vivere una
omosessualità latente attraverso il corpo della donna. Poi irrompe sulla scena
Kathe (questo il nome nel libro, diverso dal film e dalla realtà). Di cui lo
schivo Jules, sempre perso nei suoi libri ed alla ricerca di un rapporto
“perfetto”, si innamora perdutamente. Ed avverte Jim “Non questa, Jim!”,
intendendo che Kathe è solo sua. Tanto che la sposa, fa con lei due figlie, e
tornano a vivere in Germania. Lì, dopo la Guerra, li raggiunge Jim. Kathe,
irrequieta e vitale, non si può accontentare del troppo rilassato Jules. Ha
avuto amanti, è andata e venuta dalla casa familiare. Ora, con Jim, ha il suo
colpo di fulmine. Instaurando così un rapporto multiplo, in cui lei e Jim
vivono “more uxorio”, e Jim e Jules continuano le loro peripezie mentali ed
intellettuali. Ma anche Jim è un irrequieto. Pur amando totalmente Kathe, non
rinunzia alle sue amanti parigine. Amanti solo nel corpo, che la testa ed il
cuore sono di Kathe. Jules ormai si ritira sempre più sullo sfondo, così come
le due figlie che non saranno mai un ostacolo alla vita libera di Kathe. Lei e
Jim viaggiano, girano l’Europa, costruiscono una casa sul Baltico dove non
andranno mai ad abitare. E mentre nella vita tutto si brucia nel giro di pochi
anni, qui le storie si dilatano, i personaggi diventano simboli che inglobano
altre vite ed altri scenari. La storia di base e le sue domande, però, sono
sempre lì: quanto si ama, chi si ama, come si ama, cos’è l’amore, cos’è il
rapporto tra le persone, dove finisce l’amore e rimane l’amicizia. E quando Jim
confessa di voler sposare la sua nuova amante Michéle, comprendendo Kathe che
ormai è tutto inaggiustabile, si arriva al dramma finale. Kathe lancia a folle
velocità l’automobile nella quale con Jim sta costeggiando la Senna, e senza
frenare si getta nel fiume, dove morranno insieme. Jules, dalla riva, assiste
impotente al disastro. Roché sembra alla fine trasfigurare la rottura (quella
del ’33) in una morte irreale ma concreta (non a caso in quegli anni lo
scrittore intratteneva una fitta corrispondenza con Freud). Le molte domande
del libro, nella vita e nel film sono risolte in modi diversi, come avete
capito. Che nella vita, le strade andranno avanti, anche oscillando da rapporti
singoli e multipli. Nel film Truffaut sembra invece volerci dire che l’unica
via di salvezza è la coppia. Certo ci può essere liberalità, sensualità, ed
altro, ma ad un certo punto si arriva davanti ad una barriera che si può
passare da soli o al massimo in due. Il libro adombra tutto ciò, ma la parte
migliore non è quella che poi Truffaut ben tratta nel film, ma tutto quel
susseguirsi di prendersi e lasciarsi, i bagni nudi sulle rive dell’oceano, i
balli a Parigi, le notti in soffitta a Montparnasse, la gita a Venezia, il
sorriso greco ad Atene, l’isoletta sul Baltico, i treni fumosi che vanno in
giro per l’Europa. Ma il libro non è riuscito pienamente, ha bisogno delle altre
due gambe (la vita e il film) per essere gustato. Ancora un triangolo,
ovviamente!
“Non perdonerò mai a una donna di amarmi
così come sono.” (39)
“Il tempo passava. La felicità si racconta
male. Si logora anche: e non ce ne accorgiamo.” (194)
“Se si ama qualcuno, lo si ama così com’è.
Non si desidera influenzarlo, perché, se ci si riuscisse, non sarebbe più lui.
Meglio rinunciare all’essere che si ama che cercare di modificarlo.” [notate la
differenza tra il pensiero di Jules all’inizio della storia ed alla fine] (196)
Gabriel Garcia Márquez “La incredibile e triste storia della candida Eréndira
e della sua nonna snaturata” Mondadori euro 8,50
[A: 05/08/2014 – I: 11/03/2015 – T: 13/03/2015] - & e
½
[tit. or.: La increibile y
triste historia de la candida Eréndira y de su abuela desalmada; ling. or.: spagnolo; pagine: 119;
anno 1972]
Sono
sicuro che se avessi letto prima questi racconti, non avrei affrontato i “Cento
anni” con lo stesso piglio, e letti con lo stesso piacere. Perché questi sono
racconti, e già si sa che mi pongo verso questa forma espressiva sempre in
forma problematica. Sono poi intrisi di quel realismo magico, come viene
chiamato, di cui sono pieni gli scrittori ispano-americani. Ed anche qui io mi
trovo in difficoltà. Non trovo qui, se non elementi postumi di quelle
costruzioni cui mi aveva assuefatto la famiglia Buendía. Né tanto meno quelle
dosi di vita descritta e partecipata, come poi mi avrebbe entusiasmato la tarda
lettura di “Cronaca di un naufragio”. Infine, purtroppo, il libretto Mondadori
non è corredato da note ed esegesi, come altri libri dello scrittore
colombiano, per cui ci si trova davanti al testo, anzi ai testi, con la sola
indicazione dell’anno di scrittura. Che almeno mi ha dato una chiave di
lettura. Qui infatti, abbiamo 7 racconti, di cui i primi 6, brevi, sono
precedenti a “Cento anni”, mentre solo l’ultimo, quello del titolo (e non a
caso) è posteriore (scritto nel 1972, mentre ricordo che il suo capolavoro è
del 1967). Dicevo non a caso, perché la triste istoria è quello che solo si
salva dal naufragio annunciato degli altri. Dove abbiamo un vecchio (forse un
angelo anziano) che cade con le sue grandi ali in un villaggio di mare. Un mare
che profuma di rose e porta disgrazie. Un morto annegato bellissimo e
grandissimo. Una nave fantasma che il ragazzo incredulo porterà definitivamente
a naufragare. Un venditore di fumo e la sua storia di raggiri narrata dal suo
allievo, e poi carnefice. Nonché (e forse l’unico che un po’ si stacca dai
precedenti), la fine anch’essa annunciata di un senatore sulla via della morte
per tumore ed il suo ultimo sprazzo d’amore. Rispetto a questi, che non vanno
mai oltre le dieci pagine, piene sì di descrizioni, ma che, a me, non prendono,
la candida Eréndira ha un piglio più complesso e più partecipato. Si sente che
Aureliano è passato sotto i ponti, e che la penna di Gabo è più scorrevole ed
incisiva. C’è lei, giovane, bella e “cenerentolata” dalla nonna tiranna. Anzi,
come dice il titolo, crudele (o “senza cuore”). Nonna un tempo bellissima, sposata
al contrabbandiere Amadìs, ricca di casa e di altre scorie della vecchia
stagione avventurosa. Con Eréndira che la serve in tutto e per tutto. Peccato
che la piccola si dimentichi candele accese, che un colpo di vento notturno
potano a bruciare tutti i beni della nonna. Che decide di farseli ripagare
sfruttando il corpo della giovane. Insomma, vendendolo a pochi pesos qua e là
per il paese. Assistiamo al girovagare, al degrado, alla lotta con le
istituzioni (soprattutto la chiesa) che vogliono portar via la giovane per
sfruttamento minorile. Ed altre imprese minori, che hanno però la fantasia di
coinvolgere elementi delle mini-storie precedenti. Abbiamo così un olandese che
forse ha perso le ali da giovane. Abbiamo un senatore che scrive una lettera di
raccomandazioni per la nonna. Abbiamo il venditore di fumo che si sbraccia
nella piazza accanto al tendone dove la nonna vende il corpo di Eréndira. Non
manca poi il giovane Ulisse che si innamora della nostra bella ragazza. E
tenterà di salvarla dalla nonna, cercando in molti modi di ucciderla (con bombe
e con veleni) senza riuscirci. Tanto che Eréndira si spazientisce non poco. E
quando finalmente Ulisse riuscirà nel suo intento, ma solo con il pugnale, Eréndira,
finalmente liberata, fuggirà anche da lui. E se ne andrà verso il mare. Mare
che ritorna, bene o male, in tutti e 7 i racconti, quasi fosse una calamita che
attira la penna di Gabo, lui che nacque là sulla Sierra colombiana, che vedeva
il mare laggiù, a pochi, ma irraggiungibili chilometri. Ed in questo racconto
troviamo anche un legame ideale con “Cento anni”, dove, se ricordate, ad un
certo punto Aureliano Buendía entra sotto la tenda di una mulatta adolescente
costretta a prostituirsi per ripagare alla nonna i danni di un incendio. Non ho
però trovato altri stimoli, altre voglie di far girare le poche sinapsi
rimaste. Preferisco Gabo, lo ribadisco e lo sottoscrivo, quando si avventura in
storie più complesse. Vedremo cosa ci riserverà il mio futuro di lettore.
Finito ormai
è anche questo Agosto. E finiti i viaggi, dove invece si sperava di partire
ancora. Ma gli oscuri alchimismi di Avventure hanno cancellato il prossimo
augurabile viaggio. Per cui non si parte, e si cerca di consolidare l’andamento
casalingo (ahi, quanto si dovrà sudare, e non solo per il caldo). Allora,
prodromi di un settembre felice, saluto tutti.