domenica 13 settembre 2015

Saggi regali - 13 settembre 2015

Regali sia perché (almeno 3 su 4) veramente suntuosi, sia perché la maggior parte frutto di graditi regali (anche qui 3 su 4). Con un crescendo di gradimenti che raramente ho riscontrato nelle ultime letture. Perché Kapuściński è bellissimo, ma Lodoli su Roma e su alcune sue parti segrete mi ha stregato. Non ci sono parole per ritrovarne su Terzani. Si è scritto tanto che le mie sono gocce nel mare. Letture che consiglio vivamente.
Michel Pastoureau “Il maiale” Ponte alle Grazie s.p. (Natale di Silvia)
[A: 25/12/2014– I: 02/03/2015 – T: 03/03/2015] - & e ½
[tit. or.: Le cochon. Histoire d’un cousin mal aimé; ling. or.: francese; pagine: 152; anno 2009]
Apprezzo lo sforzo  della donatrice di trovare libri inusuali (e questo lo è) ed apprezzo lo sforzo dello scrittore per trattare, brevemente ma alla ricerca di esaurirne tutti i possibili aspetti, una  materia non certo canonica. Ed è per questo che metto quel mezzo librino in più di stima. Pur tuttavia, ritengo sia un libro che poteva risolversi meglio, pur mantenendo l’agilità che ne è una caratteristica peculiare. Così come lo è dell’autore, che sforna, un po’ a getto continua, libri agili su argomenti tendenzialmente marginali. Come le serie sui colori, di cui è (pare) uno specialista mondiale (con la serie “Blu”, “Nero”, “Verde”, e poi “Il piccolo libro dei colori” e “I colori del nostro tempo”). Ora, fortunatamente qui non si tratta di colori, sui quali la mia competenza e capacità analitica rischiano di rasentare lo zero assoluto. Si tratta di animali. Anzi di un animale, il maiale, qui trattato, analizzato ed anche, perché no, difeso, in mille modi e mille sfumature. La prima parte, in cui si cerca di tratteggiare un excursus del maiale, dalle origini ai giorni nostri, pur nella sua scarna scrittura, ha comunque alcuni spunti di riflessione sull’uso che viene fatto di questo animale. Sia nell’analisi del passaggio dal cinghiale selvatico al porco domestico, dove si apprezza l’idea che l’addomesticamento avvenga nel momento in cui si passa dalla vita nomade ai sedentari agricoltori. Sia anche nella breve disamina di chi ammette il maiale nella propria cultura e nella propria gastronomia e chi lo esclude. Dove incontriamo gli ebrei che elencano tutti gli animali impuri, e gli arabi che, in effetti,  parlano solo del maiale. Alla domanda sui motivi dell’esclusione, la risposta più ragionevole è la devianza. Nelle culture antiche vengono esclusi gli animali devianti, come può essere il maiale che ha lo zoccolo ma non rumina. Ma altrettanto vivida è l’idea della prossimità del maiale stesso all’uomo, quasi che mangiarne sia atto di cannibalismo. E, ma questo non lo sapevo, dal punto di vista medico il maiale è più simile all’uomo della scimmia. Tant’è che molti sono i medicinali che ne fanno uso e tant’è che con il maiale si sono tentati xenotrapianti (cioè trapianti di parti di animali nell’uomo, cosa su cui, per ragioni etiche non torniamo a disquisire). Non è a caso, quindi, che il sottotitolo parli di un cugino poco amato. Perché se il maiale non c’è fratello, certo può essere un parente, magari un po’ emarginato. Sempre qui, si riportano tutti i passaggi di chi alleva maiali, dal guardiano dei porci all’allevatore intensivo per arrivare ora ai salumieri e gli insaccatori vari. Perché, come si sa, del maiale non si butta nulla, e, nella cultura contadina, chi ha un maiale (o meglio una scrofa) possiede un tesoro. Ed è per questa serie di motivazioni consequenziali che poi il maiale assume connotazioni emblematiche, e spesso negative, come ci mostra “La fattoria degli animali” di Orwell, ma anche tutti i banchieri rappresentati spesso come maiali. Certo, ce ne sono anche di positive, come Sant’Antonio abate (quello che cura il fuoco di Sant’Antonio con estratti di maiale), o il maialino che tutti abbiamo presente nelle raffigurazioni del salvadanaio. Senza dimenticare, come accennato, farmaci e medicamenti con parti di maiale. Ovviamente non entro qui, sarebbe troppo lungo, nella gastronomia che utilizza i suini (anche se nel libro, ad esempio, manca una parte che sarebbe stata gustosa sia del maiale spagnolo, il Pata Negra, sia di quello italiano, la Cinta Senese, mentre si dilunga su quello che ormai è diffuso in tutto il mondo, il Large White). La seconda parte, invece, sembra molto raccogliticcia. Prima di tutto è molto franco-centrica, basata su esempi e citazioni francesi (dai proverbi al Flaubert della Prima Tentazione di Sant’Antonio), mentre il maiale nella letteratura ha esempi su esempi (dall’Eccellenza e trionfo del porco di Giulio Cesare Croce del 1594 ai tre porcellini di Disney). Ed è questa la parte che porta in basso il giudizio complessivo. Gli esempi e le citazioni ci sono, ma è come un continuo saltabeccare di lemma in lemma come sfogliando pagine di Wikipedia. Altro ci si aspetta da un trattato sul maiale. Alla fine, si, qualche nozione nuova, qualche conoscenza in più, ma, purtroppo un’occasione mancata.
Ryszard Kapuściński “La prima guerra del football” Feltrinelli s.p. (Regalo di Paola per Natale)
[A: 25/12/2014– I: 18/03/2015 – T: 22/03/2015] - &&&& 
[tit. or.: Wojna Futbolowa; ling. or.: polacco; pagine: 245; anno 1978]
Sesto libro che leggo della grande bibliografia di reportage del compianto autore polacco. E, ringraziando Paola del dono assai gradito, torno a stupirmi su queste pagine per la chiarezza, la lucidità, la temerarietà. Un corrispondente da zone perigliose che non molla mai, e che mi ricorda l’altro mio autore assai gradito, il grande Terzani. Qui Kapuściński raccoglie una serie di sue esperienze che vanno dal 1960 al 1976, intercalandole con un commento attuale, una sorta di appunti in fieri di libri che avrebbe voluto e/o avrebbe dovuto scrivere. E proprio di questi brevemente si tratta, perché ne avremmo voluti altri, di personali, di vissuti, ma non possiamo che convenire con una riflessione incidentale che l’autore fa ad un certo punto. Per scrivere tutto quello che si sarebbe potuto scrivere ci si deve fermare, e magari sedere dietro una scrivania. Ma la voglia di essere nel vivo, di capire cosa succede, di riportarlo a noi che ne siamo lontani, non avrebbe mai permesso (come non lo ha fatto) a Kapuściński appunto di fermarsi. Per questo riporto la lunga ed illuminante citazione di Lévi-Strauss. Meglio allora continuare così, con questi reportage a caldo, e magari con quelle riflessioni che in altri suoi libri dalle vicende vissute in prima persona nascono e si sviluppano. Penso al libro sul Negus, alle varie vicende africane, all’ascesa ed alla caduta di Reza Pahlavi, ed a tutti gli altri libri scritti ed in parte letti. Qui cominciamo vedendo il giovane Ryszard, dopo i primi reportage asiatici, partire per una lunga trasferta estera, che, con una breve interruzione lo porterà, dal 1960 al 1976, tra il Ghana ed il Congo, il Tanganika (ora Tanzania), il Sudafrica degli afrikaner, l'Algeria, la Nigeria, il Cile, l'Honduras ed El Salvador, per finire in Medio Oriente, tra Siria, Israele e Cipro, fino agli ultimi colpi di coda, con interventi tra la Bolivia e l’Eritrea. In ogni capitolo, Ryszard pone sempre basi di riflessione ed ora, letti a distanza di anni, idee di ricordi e di ricostruzioni storiche. Ero un po’ troppo giovane per seguire da vicino il Congo di Patrice Lumumba, o il Ghana di Kwame Nkrumah o l’Algeria di Ben Bella. Ma quelli erano già nomi inscritti in un panorama di riflessioni su cosa stava accadendo in un’Africa sconosciuta. E sono ancora validi per capire sia le vicende nordafricane (stupenda l’analisi del divario tra Algeri ed il resto del paese) sia le altre vicende centroafricane. Dove spicca, quasi una mini-perla tra le altre, il resoconto sulla discussione al parlamento del Tanganika sul mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio. E non è un caso che leggo questo libro fermandomi spesso, ed andando a riprendere altre cronache ed altri brandelli di storia (e della mia storia), per seguire l’ascesa e la caduta della rivoluzione congolese, o le storie di Sékou Touré e le rivoluzioni in Guinea. Lucido e da condividere fino all’ultima virgola la lunga analisi di come nasca il sentimento razzista in Sudafrica, di come proliferino i boeri, di come nasca la razza mista degli afrikaner. E chi è stato oggi in quei posti, e mi riferisco soprattutto a Johannesburg, a Pretoria, ed a parte della conte di Orange, non può che convenire come poco sia cambiato nei sentimenti reciproci, anche se ora i bianchi laggiù sono minoranza. Non si può poi tacere la genesi, il racconto e le conclusioni del brano che dà titolo e tono al libro. Quello della guerra dei poveri in Centroamerica. Kapuściński stava in Messico, ed un suo sodale gli suggerisce che sia il caso di andare a vedere cosa succede a Tegucigalpa. Unico e precursore lì si reca, dove le due partite tra Honduras e El Salvador per la qualificazione ai mondiali messicani del 1970 (quelli del mitico 4-3 tra Italia e Germania) fanno da detonatore ad una guerra che durerà 100 ore. Ma che nasce dietro, nelle lotte tra latifondisti, che espellono i salvadoregni emigrati, creando un clima di tensione prima e di odio poi, di cui l’unico a beneficiare è la United Fruit americana. Si potrebbe continuare a lungo, ma il mio vivo consiglio a tutti è di leggere queste pagine, dove alla fine, anche a voi rimarrà la sensazione che non esistono motivi giusti di fare guerre, che saranno sempre i poveri, a tutte le latitudini, a subirne le conseguenze. Illuminanti, a questo proposito, le poche righe sul conflitto siro-israeliano, con il popolo israeliano che combatte contro l’esercito siriano (e non sono definizioni casuali, nella guerra sulle alture del Golan, era quella la differenza). Chiudo con un ultima immagine che, in altri contesti, sento mia: andando in giro, si torna pur sempre al punto di partenza, sebben cambiati, ma come Ismaele di Melville, si continua a partire.
“Chi vuole capire l’Africa dovrebbe leggere Shakespeare. Nelle sue tragedie politiche tutti muoiono, i troni grondano sangue e il popolo contempla muto e atterrito il grande spettacolo della morte.” (145)
“A Lagos, …, ho letto “Tristi Tropici”. Da molto tempo Claude Lévi-Strauss vive nella giungla brasiliana, dove svolge ricerche etnografiche fra le tribù indigene. Si scontra con varie difficoltà, con la resistenza degli indios, è stanco e avvilito. "Soprattutto,” scrive, “ci si domanda una cosa: che siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale scopo? Che cos’è esattamente un’inchiesta etnografica? L’esercizio di una professione come un’altra, con la differenza che l’ufficio o il laboratorio distano alcune migliaia di chilometri da casa? O è la conseguenza di una scelta più radicale, implicante la discussione del sistema nel quale si è nati e cresciuti? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la carriera universitaria; nel frattempo, i miei compagni più giudiziosi ne salivano i gradini; coloro che, come una volta anch'io, erano portati alla politica, oggi si ritrovavano deputati e domani sarebbero forse diventati ministri. Io, invece, giravo per i deserti inseguendo rifiuti di umanità. Chi, o che cosa, mi aveva spinto a fare esplodere il corso normale della mia vita? Si trattava di un’astuzia, di un raggiro che mi permettesse di reintegrare la mia carriera con benefici supplementari che sarebbero tornati a mio vantaggio? Oppure la mia decisione esprimeva una profonda incompatibilità verso il mio gruppo, dal quale ero comunque destinato a vivere sempre più isolato? Per uno strano paradosso, invece di aprirmi un nuovo universo, la vita avventurosa mi restituiva piuttosto all’antico, mentre il mondo cui aspiravo mi svaniva tra le dita. Quanto più gli uomini e i paesaggi alla cui conquista ero partito perdevano, a possederli, il significato che avevo sperato di trovarci, tanto più a queste immagini deludenti, benché presenti, se ne sostituivano altre, messe in riserva dal mio passato e alle quali non avevo attribuito alcun valore quando facevano ancora parte della realtà che mi circondava. Percorrendo zone che pochi sguardi avevano contemplato, dividendo esistenze la cui miseria era il prezzo pagato, prima di tutto da chi le viveva, perché potessi risalire il corso dei millenni, non vedevo più quello che mi stava intorno, ma avevo solo visioni fuggitive della campagna francese da me ripudiata, oppure ricordavo frammenti di musica e poesia che erano l’espressione più convenzionale di una civiltà contro la quale bisognava pure che mi persuadessi di aver optato, se non volevo smentire il senso attribuito alla mia vita. Per settimane e settimane, su quell’altopiano del Mato Grosso occidentale, ero stato ossessionato non da quel che mi circondava e che non avrei più rivisto, ma da una melodia trita e ritrita che il mio ricordo impoveriva ancora di più: lo Studio numero 3, opera 10 di Chopin, dove pareva riassumersi, per una derisione di cui avvertivo in pieno l’amarezza, tutto quanto mi ero lasciato dietro. ” (161)
Marco Lodoli “Isole. Guida vagabonda di Roma” Einaudi euro 10
[A: 07/08/2014– I: 23/03/2015 – T: 25/03/2015] - &&&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 145; anno 2005]
Ne avevo letto ogni tanto nella Cronaca di Roma di Repubblica. Brevi elzeviri che in una bandella davano (e danno) colori e immagini di questa città che amo. Concordo anche con titolo e sottotitolo, che abbiamo dei piccoli frammenti, per me di bellezza, dedicati alla città, ad alcuni suoi aspetti nascosti, a luoghi che non siamo in molti a conoscere ma, conosciutoli, non li dimentichiamo. Andando così, a zonzo e senza scopo, appunto vagabondando. Ma quanto farebbe bene, a noi romani ed ai visitatori di questa città, tirarne fuori spunti di visione e di omaggio. Certo, Lodoli non dimentica di essere anche insegnante di italiano, ed ogni tanto condivide con noi suoi pensieri sulla città, e sulla sua vita, per farci ragionare, per aiutarci a non dimenticare che se abbiamo (e ne abbiamo) cose belle, tanto ancora ci sarebbe da fare. Non sono qui, però, a disquisire sui giovani, sui vecchi, sulle periferie, su zingari e prostitute, su trans e degradi. Sono qui per condividere il meglio dei suoi vagabondaggi e per darvi alcuni suggerimenti su cose da fare e da vedere. Cominciando da un luogo che gli amatori conoscono: Dolce Maniera a via Barletta, con i suoi cornetti super-economici a tutte le ore. E poi andiamo anche noi in giro senza meta, ma visto che sono “pignolo” vi do qualche suggerimento. La confluenza tra Tevere ed Aniene, ad esempio. Ed essendo Roma città d’acqua, una passeggiata sull’isola Tiberina, la fontanella per cani di Piazza San Salvatore in Lauro o la Fonte dell’Acqua Sacra in via Passo del Furlo 57. Oppure i cimiteri: quello acattolico a Testaccio e quello militare francese in via dei Casali di Santo Spirito. Ma anche palazzi, nobili o meno: la prospettiva Borromini di Palazzo Spada, il Palazzo dei Pupazzi a via dei Banchi Vecchi, ma soprattutto Palazzo Federici a via XXI Aprile, dove Scola girò “Una giornata particolare”. E visto che siamo in zona, una sosta degli occhi in Piazza Caprera, pensando ad altri scorci che pochi conoscono ma sono da urlo (fino a che non costruiranno troppe case) in Piazza Socrate. Statue laiche ce ne sono a iosa, ma io ricorderei forse soltanto la statua di Quinto Sulpicio Massimo a piazza Fiume. A meno che, con Lodoli, non si voglia fare un quiz su quante persone si conoscano raffigurate nelle statue del Pincio (ad esempio ricordate Atto Vannucci? O Francesco Lomonaco detto “il Plutarco d’Italia”?). Ma Roma, si sa, è anche città d’artisti e di quadri. Senza scomodare il Bar Rosati dove vegetava Schifano, facciamo un salto indietro per vedere il “Cardinale Decano” di Scipione alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, un museo pieno di altre chicche. E con i quadri e gli artisti, quante sono le chiese che hanno piccoli o grandi doni da regalarci? Vi lascio scoprire le meraviglie che sono contenute nelle chiede dei Ss. Quattro Coronati, di Santa Prassede, di San Clemente, di San Giovanni dei Fiorentini o di Santa Maria della Pace (piccolo gioco perverso). Invece con Lodoli vi porto dal Borromini di San Girolamo alla Carità al Bernini di Santa Bibiana, dal Rubens di Santa Maria in Vallicella al Guido Reni di San Gregorio al Celio. E se lo trovate, il Tempietto di Sant’Andrea del Vignola. Altre ce ne sono che invece meritano un accenno: la meridiana di Santa Maria degli Angeli, i mosaici preraffaelliti di Edward Burne-Jones a San Paolo entro le Mura, la finta cupola di Sant’Ignazio di Loyola, il profluvio di ossa all’Immacolata Concezione. E poi c’è la Madonna del Parto di Jacopo Sansovino a Sant’Agostino o la Deposizione di Daniele da Volterra alla Chiesa di Trinità dei Monti. Storie minime si intrecciano, con l’angelo sulla facciata di Sant’Andrea della Valle, che ha un ala spiegata ed una malconcia. Avrebbe poi dovuto collocarsi in San Lugi de’ Francesi, il San Matteo di Jacob Cobaert, ma era tanto brutto e riuscito male, che i frati commissionarono di corsa dei quadri al Caravaggio (e li ringraziamo) e la statua fu riposta nella Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini. Un ultima chiesa, legata ad un ricordo personale: il soffitto di Santa Maria in Domnica (dove feci la prima comunione). Con la cattiveria che mi contraddistingue, al contrario di Lodoli, ho citato solo il nome corretto delle Chiese, che a volte sotto altro e più popolare nome sono note. Chiudo allora con alcune indicazioni più precise: le tre chiese di Piazza del Popolo e la caserma dei pompieri di via Caposile in Prati. Ecco, della scrittura e del resto che Lodoli ci mette nelle sue isole altro dir non vo’, ma, come dice Silvia Bre in una poesia che l’autore cita : “è mestiere del vento alzare le vele / ma noi possiamo scegliere il colore”.
“Forse non c‘è un punto della città più intenso e profondo di un altro: ci siamo noi e le cose che abbiamo davanti agli occhi.” (82)
Tiziano Terzani “Le parole ritrovate” Editrice La Scuola s.p. (regalo di Ale)
[A: 07/05/2015– I: 14/05/2015 – T: 16/05/2015] - &&&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 120; anno 2015]
Un regalo graditissimo ed un libro letto e divorato in poche ore. E poi riletto in parte e meditato. Già con un pieno di libricini per le cose che dice. In più, aumentati dall’affetto generale verso la famigli Terzani (e mi sa che comincerò a leggere anche i primi scritti). E definitivamente consacrato alla lettura imperitura perché si parla di tre cose fondanti anche per me: la pace, l’amore, la vita. In realtà, non è che vengano dette tante cose nuove nell’agile volume curato dall’amico di famiglia Mario Bertini. Sono quattro interventi che il barbone (nel senso di uomo con la barba) vestito di bianco fece all’indomani dell’11 settembre per quell’impulso ad uscire dalla tana dove la vita e la malattia lo avevano “rinchiuso”. Per andare a proclamare ed a ripetere ad alta voce in ogni dove un grido di dolore che ancora oggi, dopo quasi quindici anni, è ancora vivo e doloroso. Terzani già da alcuni anni sapeva di avere un cancro, ed aveva iniziato un percorso molteplice (che forse leggerò in “Un altro giro di giostra”) sia per curarsi con metodologie classiche (presso un centro medico americano) sia con metodi tradizionali e/o “alternativi” (ripresi dai paesi orientali che tanta parte hanno avuto nella sua vita), sia, infine, per fare un percorso verso se stesso, cercando di capirsi, di interrogarsi, di assimilarsi alla natura. Per questo da alcuni anni (dal ’97 credo), viveva alcuni mesi dell’anno a 2800 metri ai piedi dell’Himalaya ed altri nella casa familiare ad Orsigna. Ed è qui, nel pistoiese che viene tramortito dall’11 settembre. Ed è qui che decide di innalzare il suo urlo di pace. Come ben dice in questo libretto, si fa “pellegrino di pace”, ed in convegni ed altre pubbliche manifestazioni, soprattutto dinanzi alle giovani generazioni, cerca di scardinare il dualismo che Bin Laden da una parte e l’America dall’altra sembrano imporre: la forza delle armi o la forza della ragione? Lui, umilmente, ribatte: la forza dell’amore, la forza della pace. In questi quattro interventi datati più o meno 2002, con semplici parole (come spesso usava nei suoi scritti), spiega (o cerca di spiegare) come possa nascere l’ideologia fondamentalista araba, lui che 6-7 anni prima aveva visitato, da giornalista, i campi di addestramento dei primi gruppi talebani di Osama. Cercando (e non riuscendo, tuttavia) di capirne la genesi mentale. Genesi che, forse, può riferirsi solo al rifiuto di un modello di cultura imposto. E che solo con l’amore per l’altro (e quanto si ritrova in queste parole quell’amore che ritrovo anche negli scritti di Enzo Bianchi!!) può portare verso momenti superiori di pace. Una cultura altra, imposta da mezzi di comunicazione, messaggi, internet, e via dicendo. Terzani (ed io con lui) dice una cosa semplice: se non ti piace quello che dice la televisione, spegnila! Mettersi sullo stesso piano dei Bush significa già aver perso, che le forze in campo sono così disparate. Negli orecchi, poi, mi risuona la polemica di allora, la contrapposizione (che si volle feroce, ma che era per due persone che, pur con visione opposte, si sono sempre rispettate) tra Tiziano ed Oriana. Due toscanacci passionali, pur con passioni opposte. E tengo sempre nel mio computer quelle due lettere tra rabbia, orgoglio e ricerca di una soluzione positiva. Ma non solo di pace si parla, anche se ne è il filo portante. Che si parla, e molto (come dicevo all’inizio) anche d’amore. In primo piano, e sempre, quello di Tiziano per la sua Angela. Un amore sbocciato poco dopo la soglia dei venti anni, e portato avanti per più di quaranta senza un tentennamento. Ogni volta che sento Terzani nominare la moglie (ma anche i figli Folco e Saskia) sono preso da una commozione interna, per quegli affetti che tutti cerchiamo e che in pochi si ritrovano a vivere. E non dimentico, concludendo, le parole di Folco (qui ed in altri contesti) che toccano quel tema di cui Terzani parlò poco ma percorse fino in fondo. La vita, il modo di portarla avanti. Sia nei momenti felici, quando il giornalista prendeva moglie e figli, ed ogni cinque anni cambia nazione, scenario, lingua, perché ogni nuova esperienza portava granelli di sapere e di avvicinamento verso qualche cosa che, anche nella fine della sua vita, non si riusciva a nominare. Ma c’era. Un altro. Un senso del divino. Una trascendenza. Soprattutto, un modo di capire quali sono le cose fondamentali per sé stesso, per la propria vita. E quanta zavorra è possibile poi eliminare. La tastiera del computer vola sulle parole, portandomi lì, in India, ai piedi delle montagne alte, guardando giù, verso vallate e fiumi che placidamente scorrono nelle pianure. E così capisco meglio, Tiziano e le sue parole, di pace, d’amore, di vita. Non dimentichiamocelo.
“Forse la non violenza è la soluzione alla quale dobbiamo guardare per il futuro, perché la guerra che mette fine a tutte le guerre non c’è mai stata.” (26)
“Vi auguro … di fare qualcosa che vi piaccia … allora non avrete bisogno di week-end, di hobby, perché l’hobby è semplicemente una distrazione, per dimenticare l’orrore della vita quotidiana. Ma se fate della vita quotidiana qualcosa di bello … non avrete bisogno di hobby.” (42)
“La formula del mio matrimonio è questa: grandi presenze e grandi assenze.” (55)
“Io ho fatto il viaggiatore, perché il viaggiare non ha una meta … [anzi] la meta è il viaggiare stesso.” (61)
“Rimuovere la morte vuol dire perdere la bellezza della via, della sua terminabilità.” (77)
“Essere … non avere. Ognuno di noi può fare un piccolo passo e tutti insieme ne possiamo fare uno molto grande.” (83) [ed io penso subito a Don Milani].
Siamo alla seconda trama del mese, e quindi vi prendete in sovrappiù anche il solito allegato dei medicamentosi libri. Questa volta dedicato alla gestione della famiglia, con il bel libro, anch’esso da poco tramato, di Seth.
Visto comunque che le partenze tardano a venire, sto anche pensando ad altri momenti di approfondimento dei viaggi. Motivo per cui il prossimo fine settimana sarò alla grande convention di Avventure per capirne meglio l’andamento attuale. Ora, sotto il diluvio romano, non posso altro che salutarvi.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE 2015
Incominciamo al ripresa invernale con un argomento di sicuro interesse, anche se, forse, non di altrettanta presa sul pubblico. Un Settembre che suggerisce un buon (anche se lunghissimo) libro su come gestire (o non gestire) la propria famiglia.

FAMIGLIA, GESTIRE LA PROPRIA

Vikram Seth “Il ragazzo giusto”
Quando siamo in famiglia stiamo benissimo e malissimo, per parafrasare Dickens. Si sa, è nel nucleo famigliare che nascono i nostri peggiori conflitti – affrontati a viso aperto o nascosti sotto il tappeto. Chiunque sia che vi dà sui nervi più degli altri - quel piccolo tiranno di vostro figlio, i vostri fratelli che non fanno che litigare, i vostri genitori che vi stanno sempre addosso, i suoceri che non la smettono di criticarvi, i vostri fuorilegge adolescenti, il vostro gatto crepuscolare - o magari quel membro della famiglia che continua a non voler fare la propria parte e lavare i piatti - vi proponiamo di leggere “Il ragazzo giusto” di Vikram Seth, un discreto tomo sugli infiniti giochi di potere all’interno delle case.
La storia non è proprio nuova: la signora Rupa Mehra vuole scegliere l’uomo giusto da sposare per Lata, la figlia più giovane, ma Lata ha altre idee. «Io so cosa è meglio per te» dice la signora Mehra, e «lo faccio solo per te». Non c’è bisogno di essere indiani per avere già sentito queste parole. (Immaginate che, invece che di un marito, la signora Mehra stia parlando di un capo d’abbigliamento, un taglio di capelli, o dell’ora giusta per alzarsi). Per quasi 1.500 pagine Lata rimbalza tra Haresh, il «ragazzo giusto» scelto dalla madre, «robusto come un paio di scarpe Goodyear», Kabir, il giovane attore suo compagno di corso di cui si innamora, e Amit, il simpatico poeta dilettante sostenuto dalle sorelle.
Lata è circondata da persone che cercano di influenzarla. E comunque, di chi è la vita che sta vivendo? Lei sa che alla fine dovrà essere lui a scegliere – non come atto di ribellione o per ottenere l’approvazione di qualcuno, ma liberamente. La lunghezza del romanzo dimostra quanto sia difficile.
La scelta che farà dimostra che per quanto possiamo lottare con le nostre famiglie per la libertà di essere noi stessi, siamo anche parte integrante di queste famiglie - immersi nella loro cultura, nelle loro tradizioni e nei loro valori. Possiamo voltare loro le spalle, ma sono loro che ci hanno resi ciò che siamo. Combattete con le vostre famiglie, dunque, ma siate consapevoli che in fin dei conti state combattendo con voi stessi.

Bugiardino

Sebbene ne abbia parlato poco più di un mese fa, ecco che ne ripropongo la scrittura per chi lo avesse perduto per qualche insondabile ragione (non capisco come si fa a non leggere i miei superlativi scritti).
Vikram Seth “Il ragazzo giusto” TEA euro 16
 [pubblicato il 2 agosto 2015]
In vista della partenza per il lungo tour indiano di gennaio ero preso dall’atroce dubbio se e come portare materiale da leggere, visto che, a parte le guide, non riesco ad usare iPad ed affini per leggere libri (ho ancora bisogno della carta…). Molti libri piccoli o il contrario? Ho deciso il contrario ed ho scelto questo veramente grosso libro, che credo sia il libro con il più alto numero di pagine che io abbia letto. E che ho portato da Delhi a Kolkata impiegando ben 20 giorni per assimilarlo. Devo senza dubbio dire, che soprattutto l’ultima parte del viaggio mi ha riconciliato con il libro, perché è lì, tra Orissa e Calcutta (uso i nomi del libro e non gli attuali) che si svolge una gran parte dell’azione. Che è vero si colloca nel 1950 (circa) ma che ha risvolti ancora attuali (mentre in alcuni aspetti sembra di una modernità che l’India attuale non pare avere). Siamo verso il confine tra India e East Bengala (ora Bangladesh) con gli ovvi attriti tra indù e mussulmani, dopo la grande separazione del 1948. Siamo nel Bengala, che è sempre stato abbastanza all’avanguardia nelle riforme del paese (governato a lungo dal partito comunista), ed in un’epoca in cui si cerca di limitare lo strapotere dei latifondisti. Ma siamo ancora nell’epoca dei matrimoni combinati (e qualcuno mi dice che non è che sia cambiato molto anche in questi ultimi 50 anni). E stranamente, una serie di usi e costumi sembrano invece essere più liberali allora che ora. Quasi che delle ragazze possano andare in giro da sole, o che, non dico abbiano rapporti fuori dal matrimonio, ma quasi quasi… È certamente un  libro pieno di cose, di avvenimenti, di storie. E tuttavia non mi ha soddisfatto in pieno. Ci sono lunghe pause “politiche” con discorsi sul latifondo, e con alcuni interventi addirittura di Nehru. Ci sono momenti in cui sembra aprirsi lo spazio per nuove idee e nuove prospettive. Ma sempre più ci sono momenti in cui tutto si chiude, per ritornare “nel solco della tradizione”, dove si accettano le regole solo per trasgredirle. E chi invece accetta le regole per sovvertirle sarà sempre destinato ad un ruolo secondario. O a perdere. Tutta la storiellona di 1500 pagine ruota, come indica il titolo, nella ricerca di un ragazzo appropriato (questo il più corretto significato di “suitable” secondo me) da far sposare all’eroina del romanzo, Lata Mehra. Iniziando dal matrimonio combinato della sorella Savita con il dolce Pran, per terminare, appunto, mesi ed anni dopo, con quello di Lata. Al primo matrimonio Rupa Mehra (vedova, 45 anni) è molto contenta di aver trovato  un giovane di casta Karthi (la seconda dopo i bramini) per sua figlia Savita. Inoltre Pran è di buona famiglia (il padre è il ministro delle finanze dello stato inventato del Purva Pradesh). Per questo Rupa inizia a tramare per trovare un buon partito anche per la figlia Lata, 19 anni. Anche il consuocero Mahesh Kapoor decide di ricordare nella stessa occasione a suo figlio Maan che è lui il prossimo che si devi sistemare. Entrambi i giovani, però, sono contrari e contrariati, tanto che immaginavo una loro convergenza, cosa che invece non accade. Sistemati quindi i due figli (l’altro maschio, Arun, ha sposato la chic Meenakshi, una signorina di buona famiglia di Calcutta, anche se è una Bengali, cioè di una casta diversa), Rupa può dedicarsi ai suoi progetti. Intanto assistiamo alle schermaglie discorsive tra Lata e la sua amica Malati, sia sui rapporti interpersonali, sia domandandosi come si possa amare qualcuno visto solo una volta prima delle nozze, ed in compagnia dei genitori. In questo frangente, Lata incontra in libreria un giovane che, anche se non immediatamente, sarà fondamentale nel corso del romanzo. La narrazione si sposta ore a Calcutta, per conoscere meglio l’antipatico Arun, la sua avversione e prepotenza per lo sfaticato e timido fratello, Varun. Si ritorna a Brahmpur per seguire la festività religiosa di Holi, durante la quale nella casa di Mahesh Kapoor, viene organizzato un concerto e viene invitata a cantare la bellissima Saeeda Bai, una cortigiana musulmana di 35 anni con una voce fantastica. Maan perde la testa per Saeeda, fa di tutto per attirarne l’attenzione, e ben presto entra nelle grazie (e non solo) della bella cortigiana, facendole visita regolarmente, non come cliente, ma come corteggiatore. La notizia della tresca di Maan con Saeeda certo non fa piacere al padre, uomo politico la cui credibilità rischia di essere messa in dubbio dalla condotta del figlio, e tanto meno a Pran, che è un lettore di inglese all'università di Brahmpur e spera di ottenere un posto da assistente. Tuttavia Maan è innamorato di Saeeda al punto di decidere di imparare a scrivere in Urdu, la lingua dei musulmani-indiani, per poterle scrivere lettere di amore. Il padre di Maan esasperato dal figlio, lo caccia di casa e Maan ne approfitta per andare con Rashid, il suo insegnate di Urdu fornito da Saeeda Bai, nella zona rurale dello stato. Nel frattempo Lata incontra nuovamente, per caso il giovane della libreria finendo per accettare un suo invito ad una romantica passeggiata sul fiume, dove scopre una cosa tremenda: il giovane si chiama Kabir Durrani ed è, quindi, musulmano e di certo un matrimonio misto nell'India del 1951, poco dopo la sanguinosa partizione del Pakistan è fuori discussione. Rupa Mehra grazie ai pettegolezzi riesce a scoprire che la figlia si è incontrata con un giovane a sua insaputa e quando viene a sapere che è Musulmano impazzisce di dolore e trascina Lata a Calcutta, lontano da Brahmpur e dal quel bel giovane. A Calcutta Lata frequenta spesso la famiglia di sua cognata Meenakshi, i Cattereji, e diventa amica di Amit, il figlio maggiore, poeta e scrittore, ma sua madre nel frattempo trama per avere un ragazzo adatto a Lata (i Cattereji come detto non sono Karthi, ma Bengali e il matrimonio di Arun fu una gran vergogna per lei). Ben presto va a trovare la sua amica Kalpana che le fa il nome di Haresh Khanna, un giovane Karthi, che ha studiato in Inghilterra e si occupa di produzione di scarpe, che andava a scuola con lei. Rupa decide di prendere contatti con Haresh e ben presto convoca Lata a conoscere questo candidato alla sua mano. Lata si trova ben presto con tre ammiratori: Kabir, Amit e Haresh e deve decidere quale sposare. Questo il nocciolo su cui si dipana e si annoda il resto delle più di mille pagine. Con parti politiche, importanti anche se abbastanza lente. Con la dolente parte religiosa, indotta dalla recente separazione nel continente sub-indiano tra stato indù (India) e stato mussulmano (Pakistan). Ci sono inoltre miriadi di altri personaggi, che ogni tanto entrano, agiscono, poi per un po’ spariscono, fino a riapparire in altra veste. Come ad esempio Haresh, ci erano stati presentati ben prima dell'incontro con gli altri protagonisti, a metà del libro, divagando lungamente sulle sue abitudini, i suoi amici eccetera, creando non poca confusione al lettore, del tipo "e chi è questo, adesso?". Oppure, seguendo le vicende di Maan incontriamo Saeeda Bai, seguendo Saeeda Bai seguiamo il suo suonatore Isaq che se ne va in giro per la città, litiga con un musicista e ci mostra i suoi problemi personali. Quale funzione ha Isaq al fine della storia? Nessuna, è solo un ornamento, interagisce a stento con altri protagonisti, eppure ha vari paragrafi dedicati a lui. Insomma, partendo dalla ricerca del ragazzo appropriato il romanzo racconta la vita politica, le scappatelle dei fratelli, i tradimenti delle mogli, le feste religiose che scandiscono il passare degli anni, le apprensioni di una madre e la voglia di libertà di una figlia, gli incontri poetici e letterari, la nascita di una nipotina da viziare, le lettere scritte con amore, la passione furibonda, gli esami all’università e gli incontri mondani. Alla fine Lata, tra il ragazzo dalle scarpe bicolori, il romantico poeta o il compagno di università musulmano farà la sua scelta, chiudendo il romanzo. Ma lasciandoci un po’ di delusione, che, come in una fiction che ci appassiona si vorrebbe continuare a seguire le vicende di tutti. Grazie comunque per lo sforzo che avete fatto nel seguire una trama che non può che adeguarsi alla lunghezza del romanzo. E che consiglierei di leggere nelle lunghe serate prima di addormentarsi, magari guardando ogni tano gli alberi genealogici ad inizio libro, che con tutti quei nomi si rischiano confusioni a non finire.

Conclusioni

Concordo sulla scelta di in(di)gestione familiare. Un perfetto manuale su quello che non si deve fare. E fortunatamente, come il diamox, con tanti effetti collaterali: descrizione del mondo indiano dal di dentro con una (possibile) migliore comprensione dei meccanismi atavici che governano i rapporti sociali di quel paese. Insomma una medicina a lento rilascio, dovendo affrontare le ben oltre mille pagine del libro, ma di sicuro effetto. Se volete qualcosa di rapido, invece, consiglierei di puntare su “Come ho perso la guerra” di Filippo Bologna.

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