Tornati dalle fatiche della
Valdarno, eccoci ad un bel quartetto italiano. Tutto sopra la sufficienza di
almeno mezzo libro (e vi dirò subito perché tutto). Con autori italiani
collaudati anche se non da me amatissimi come Gianni Mura (anche se ne apprezzo
gli articoli repubblicani). Con autori invece da molto amati, come Francesco
Piccolo. Con autori poco visitati ma gradevoli, come l’ottima Versilia di Fabio
Genovesi. E con il lavoro di un collettivo di scrittura, a me vicino per molta
amicizia, ed a cui dedico il titolo. Ed a cui ho tolto qualcosa non per la
scrittura, ma per un editing che potrebbe essere migliorato.
Gianni Mura “Ischia” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato a 6,38
euro)
[A: 01/07/2014– I: 25/12/2014 – T: 27/12/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 175;
anno 2012]
Devo
dire che mi aspettavo qualcosa in più dal secondo libro di Mura sulle inchieste
(o presunte tali) del suo ineffabile commissario Jules René Magrite, anche se
alla fine il libro non mi ha certo deluso. Di Mura ricordo la buona prova
d’esordio (“Giallo su giallo”) nonché il gioco di parole del commissario, che
ricorda, appunto, il Jules Maigret del buon Simenon ed il René Magritte dei
quadri surrealisti. E pensavo fosse un altro “giallo”, anche se atipico. Invece
è un inno d’amore. Per una serie di cose, alcune palesi altre meno, care al
giornalista – scrittore. Amore per la cucina, di cui si parla una pagina si ed
una no, cominciando dai ristoranti di Milano, per proseguire con la cucina
ischitana, di terra e di mare. Con il vino. Con le citazioni gastronomiche.
Amore per Ischia, di cui si parla a più riprese, si analizza, si esamina. E se
ne tirano fuori particolari, forse ad altri noti, ma interessanti e
coinvolgenti: dall'esilio foriano di Donna Rachele, vedova di Mussolini, alla
morte sull'isola dell’anarchico Gino Lucetti, responsabile del fallito
attentato al dittatore nel 1926, passando per i soggiorni dei due premi
Pulitzer, Auden e Capote negli anni ‘50 del secolo scorso, fino alla recente
presenza sul Castello Aragonese del compositore Vinicio Capossela. Amore per la
politica, e per un’Italia che rischia di affondare in mezzo a tante storture.
Certo si parla della politica dell’isola, dei mostri che con il cemento
deturpano i sassi e le scogliere, delle frane provocate dall’incuria. Amore per
la Francia, cui Mura è da sempre legato per tutti gli anni passati a seguire il
Tour de France, ma non solo. Un amore che si istanzia nei due protagonisti, il
commissario Magrite, appunto, e l’amore della sua vita, trovato ora in tarda
età, il giudice Michelle Lapierre di Vannes. Bella è la loro scoperta di un
amore d’età (visto che Jules ha 58 anni), con tanti rimandi a luoghi sia
parigini che bretoni (da cui è originaria Michelle). Soprattutto due
intriganti: la storia della cantante Fréhel e quella dei due suicidi, di Jean
Seberg e Romain Gary (chi ne vuole sapere di più di tutte queste storie, può
leggerne sunti in Wikipedia sezione francese, o leggere il libro di Mura o
anche le anime baltiche su cui si tornerà; io ne parlerei ma andremmo un po’
fuori dal seminato). Amore per l’amicizia (e non è un ossimoro), quella che ben
presto lega i nostri a Giuseppe Iovine, detto Pépé le couteau. Peppe è il personaggio cui lo scrittore
affida il compito, centrale nella trama, di svelare il lato oscuro, nascosto
dell’isola. Un personaggio di cui conosciamo presto la tragica storia ai limite
della legge, dove per difendere la sua donna uccide un pappone slavo e farà più
di dieci anni di carcere in Francia. Ma ne uscirà, ritrovando la sua Denise,
ritrovando l’aiuto del commissario Jolivet (conoscenza anche di Magrite),
mettendo su prima un ristorante a Parigi, poi tornando nel buon ritiro di
Ischia con la sua bella, fino alla morte di lei per tumore. Ma Peppe continua a
vivere con lei la sua esistenza, pur isolato, continua a cercare di mettere
pezze ai brandelli delle storie isolane, e dei tanti soprusi che ne possono
venir fuori. E che Mura ci fa scorrere, un po’ in secondo piano, ma non tanto
da farci dimenticare come possono andare male le cose in Italia. Qui abbiamo le
parti poliziesche, che però, come detto, ne sono da sfondo anche se a forti tinte.
Si comincia con la morte del giovane romeno Ovidiu, che non ha voluto piegarsi
a fare il corriere della droga per Rocco o Purp’. Si intramezza con l’assalto
alle due donne gay da parte di uno scalmanato isolano, che viene ben sistemato
da Magrite a suon di pugni, e che per questo viene avvertito (neanche tanto
velatamente) da un poliziotto corrotto di farsi gli affari suoi. E si finisce
con il suicidio provocato della piccola Anna, che qualcuno (Rocco? Il
poliziotto? Qualcuno da loro protetto?) vorrebbe avviare a sordidi mestieri, ma
che, rosa dalla vergogna, preferisce togliersi la vita. Tutta una somma di
elementi che fanno si che Peppe decida di fare piazza pulita, facendosi saltare
in aria insieme ai camorristi ed ai poliziotti corrotti. Noi, invece, pur
dolenti, prenderemo il traghetto con Jules e Michelle, ricordando si tutti i
momenti poco felici passati, ma ricordando ed aspettando tutti quegli altri
momenti di grande amore che Mura ci ha fatto vivere, pur nella brevità delle
men che duecento pagine. Insomma, un libro che avevo comperato come giallo
italiano, e che si è rivelato invece una guida letteraria per un’isola che si
dovrà tornare a visitare, prima o poi.
“Tu sei … una persona perbene, un ottimo
professionista e un buon compagno. Un buon amante, vorrei aggiungere, ma non
dispongo di una vasta campionatura in cui inserirti. Sai quand'è il momento di ridere e quando è meglio tacere. Con te sto bene a tavola, in giro e a letto.”
(78)
“Una volta ho sentito dire che conoscere il
passato è fondamentale per capire il presente e immaginarsi il futuro.” (83)
Francesco Piccolo “Momenti di trascurabile infelicità” Einaudi euro 13
(in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 03/04/2015– I: 04/04/2015 – T: 08/04/2015] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 140;
anno 2015]
Sto
mangiando un churro con Chiara in una grigia Pasqua limeña, mentre Nadia vomita
e Sergio telefona. Beh, in questo momento di (non) trascurabile felicità,
inizio la lettura del secondo capitolo dell’enciclopedia tascabile dei momenti
della vita, scritta dall'esimio Francesco Piccolo, di cui tanto ho già letto e
parlato. Perché qui il nostro passa dalla felicità, e dal desiderio di
omologazione, alla descrizione dei momenti infelici della vita. Anche di questi
ognuno ha i propri personali (ricordate sempre l’attacco di Anna Karenina di
Tolstoj). Ma se noi si sa individuare e sorridere di questi momenti, già si
sono fatti passi avanti verso il terzo libro che scriverà il nostro autore
(Momenti di trascurabile serenità, suggerisco).
Ovviamente anche questo è un libro non raccontabile. Non è una storia,
sono momenti, che partono dai suoi personali, per poi collegarsi ai miei ed a
quelli di molti altri. Solo uno di questi piccoli cammei mi ha un po’ irritato,
non capendone l’uso e la necessità, quello del bambino giapponese (adottato?) e
della sua non inseribilità nel contesto italico. Forse mi mancano dei parametri
per giudicarne, ma è una parte che non mi ha dato né felicità né infelicità, ma
solo un po’ di fastidio. Perché se è vero che cercare la felicità è la continua
e giornaliera ricerca di sensazioni ed emozioni che facciano star bene,
individuare l’infelicità serve a dribblare quegli stati d’animo che ci mettono
a disagio. Come la storia (mia e di altri e non di Piccolo) del regalo, fatto sottolineando
che se non piace lo posso cambiare. Con la solita risposta, ma no, mi piace
tantissimo. E l’omaggiato il giorno dopo va al negozio a cambiarlo. O le storie
sentite e risentite (ma che non mi sono ancora capitate) di gente lasciate con
un messaggio su WhatsApp. Certo, questi sono momenti di autentica infelicità. O
di grande inc…tura. Ricordo gli asciugamani stesi con cura sulla sabbia, per
evitare gli odiosi granelli, ed i bambini che corrono e li riempiono nuovamente
(e ripenso alla scena di Nanni Moretti, ai bimbi che giocano a pallone sulla
spiaggia, ed a quando lui, ferocemente, prende il pallone e lo buca, cattiveria
mitica). Continuare a leggere libri che non mi piacciono solo per stroncarli
scrivendo queste trame (ma possibile che riesca a trovare poche letture “immortali”?).
Come fare poi a non essere d’accordo con Francesco, nel ribadire che quando
qualcuno ti dice che devi sapere che ti vuole molto bene, quasi sempre sta per
dirti qualcosa di terribile. Mi capita di stare con mia madre e veder lo sport
in tv (si sa che lei è patita di tutto dal grande calcio ai campionati mondiali
di snooker). E di fare il tifo (io che non faccio tifo per quasi nulla) per i
più deboli sperando che battano i più forti. Poi non trovo la tristezza
dell’autore, ma il gusto sadico di infierire sui perdenti, quali essi siano.
Nell'agile manuale di pennellate infelici, ci sono anche capitoletti più lunghi
(a parte quello del bambino giapponese di cui ho già parlato male), come quello
molto intrigane sulla dieta Dukan. O quello sulle feste dei bambini (terribili
e da abolire in toto). Ma questi non diventano più momenti trascurabili (che
come dice il mitico Devoto – Oli sta per momenti di cui si può non tenere
conto) ma sono i momenti fondanti della nostra vita. Che è sempre a tutto
tondo, come dice l’ultima delle frasi che sotto riporto. Vorrei finire con
delle parole altrui, dove in un intervista di Nicola Mirenzi al nostro grande
Piccolo, si dice: “Il mondo è terribile. Però quando leggi Francesco Piccolo ti
sembra più lieve, pieno di godimenti nascosti. La forza di Piccolo è che sa
vedere, e sa far vedere, il lato esaltante di ogni piccolo istante che
viviamo.” A proposito, qual è il vostro momento di trascurabile infelicità
preferito?
“Quest’anno è volato. Si dice di tutti gli anni, alla fine dell’anno.
Mi chiedo come sono gli anni lenti, che non passano mai. Perché non li ho mai
vissuti.” (13)
“Quando i ristoranti (o i bar o qualsiasi negozio), dopo il nome
scrivono ‘dal 1972’ o ‘dal 1983’. E io ero già nato. E alle volte ero già grande.”
(75)
“I camerieri non sentono mai quando li chiamo.” (92)
“Sei su WhatsApp, vedi che l’altro “sta scrivendo”, ti sta rispondendo,
aspetti, e non arriva niente. Ci ha ripensato.” (95)
“Ognuno di noi è fatto di un equilibrio
finissimo di tutte le cose, belle e brutte; e ho imparato che – come i
bastoncini dello shangai – se tirassi via la cosa che meno mi piace della
persona che amo, se ne verrebbe via anche quella che mi piace di più.” (140)
Terzi Soggettivi “Né capo né coda” Unilibro euro 15 (in realtà,
scontato a 12,75 euro)
[A: 25/08/2014– I: 17/05/2015 – T: 19/05/2015] - &&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 204;
anno 2014]
Confessione
numero uno: io (e si sa) non amo molto i libri di racconti e questo è un libro
di racconti. Confessione numero due: io sono moderatamente scettico sui libri
autoprodotti e questo è un libro autoprodotto. Confessione numero tre: ho fatto
stampare, comperato e letto questo libro perché uno degli autori è un mio amico
e volevo vedere che effetto mi faceva non più leggerne su foglietti volanti, ma
su della carta stampata e rilegata. Fatte queste confessioni veniamo allora al
merito del libro, ed al fatto che, come nella mia vecchia scuola, si sia meritato
un bel 6 meno meno. Cioè di quelli che il prof diceva, sarebbe da 5, ma la
buona volontà ed alcuni spunti gli fanno meritare una stringata sufficienza.
Gli autori presenti in questa raccolta sono scrittori appassionati, che si
riuniscono settimanalmente sotto la guida di Claudia Masia, curatrice
dell’antologia, per le loro scritture “creative”. Che si consolidano
annualmente in una raccolta, e che nel 2014, pur autoprodotta, è la prima che
rendono pubblica. Devo dire, preliminarmente, che il titolo rispecchia
grandemente la raccolta. I racconti non hanno un grande filo che li accomuna
(primo significato del termine) né possiamo dire che ce ne sia qualcuno che si
stacca dagli altri in alto o in basso (secondo significato). Almeno nella
scrittura. Qualcosa di diverso, certo, nel mio gradimento, che come tutti i
sentimenti è puramente soggettivo ed a volte inspiegabile. In tutti, comunque,
ho trovato una stessa mancanza, di una qualche conclusività. Non che per forza
un racconto deve avere un mondo chiuso intorno, ma sento come se in ognuno ci
sia (volutamente o meno) qualcosa di lasciato in sospeso, di zona grigia in cui
possa intervenire il lettore (come sagacemente viene detto in “Provvisoriamente
inconcluso”), ma che, proprio per alcuni momenti slabbrati del discorso, sia
troppo poco concluso. Ne “Il mare al di là” c’è una interessante trama di
fondo, un bambino trovato sotto le macerie del terremoto di Skoplje (quello del
’63, per chi non ne avesse memoria), adottato, amato ma non compreso, che,
cresciuto nelle marche anconetane, da quel mare è attratto. Tanto da abbandonare
appena possibile i genitori adottivi per farsi una propria vita in mare. Tanto
da crescervi, da diventare un bravo pescatore, da cadere nelle trappole della
vita con amori poco leciti. Cadere e rialzarsi, trovare (pare) un amore vero,
ritrovare (forse) alcune sue radici visitando le terre natie. E poi cadere (qui
senza spiegazioni, se non qualche lontana eco di genetica che rifuggo
immediatamente) nel turbine del malaffare, del guadagno immediato, e nel poco e
per nulla lecito. Tanto da perdere nave e moglie e tutto il resto. Con un
ultimo soprassalto di coscienza che lo porterà dove forse non sarebbe voluto
andare. Ma la coda non ci porta dentro di lui, dentro le sue motivazioni.
Rimane tutto sospeso ed inspiegato. La “Promozione a Roma” è forse quello che
più mi ha deluso: una ditta trasferisce i propri quadri a Roma, seguiamo il
buon Elio trasferirsi da Monza, pensare alla sua Franca lontana. Per poi inserirsi
in una trama gialla di bassa fattura. La moglie del capo viene uccisa, e non si
fa fatica a capirne le motivazioni e l’identità dell’assassino. Lasciando il
buon Elio a metà racconto, mentre ne sembrava il protagonista. E scivolando
nelle ricerche del buon commissario, con tanta fatica che noi lettori già s’era
capito tutto. E con molta fortuna, che se non bussavano i poliziotti a quella
porta di mercoledì staremmo ancora lì ad aspettare la soluzione. Abbastanza
inconcluso anche “Ritorno a casa” dove c’è un lungo racconto che vorrebbe
tracciarci la vita della protagonista (un memoir appunto), ma che, usando
quella tecnica, che io odio, del flashback, quando abusato, ci lascia tante
zone grigie. Qual è il nesso tra le tante operazioni che la protagonista
subisce da bambina per curare credo qualcosa di poliomielitico ed i noduli al
seno che la attanagliano ora nell'età adulta? Certo, ci fa piacere seguire le
vicende familiari e quel traslocare dal Quadraro al centro e poi di nuovo in
periferia (buona questa parte). Ma mi sono perso con i suoi amori, chi è questo
e chi è quello, e da chi va e da chi ritorna. Certo, non possiamo non
sottoscrivere il quasi urlo soggettivo finale, dopo tutte le peripezie, che è
quello di “viverre” (ma in sottofondo io cattivo e maligno, mi chiedo che
differenza ci sia tra “imparare un’altra lingua” e “studiare inglese e
francese”). Troppo scontato il “Ritorno a Silvi”: mini-incidente in motorino,
mentre Anna va dalla sua amica ad Amelia, Luca che prima la aiuta poi cerca di
violentarla, poi si ferma prima di e si pente. Meglio del flashback (anche se
il principio è simile) quell'uso alla Vasco Rossi di “forward” e “rewind”. Ma
come dire scontato che quando scopriamo che Luca si butta nell'eroina e che
Anna fa la volontaria in un centro alla “don Ciotti” essendo essa stessa uscita
dal tunnel, il fatto che i due si incontrino, e lei decida (forse) di aiutarlo
ad uscire anche lui. Giocato sul filo dell’autoironia “Cose dell’altro mondo”,
laddove le protagoniste non sono altro che due aspiranti scrittrici, che
seguono un corso di scrittura poliziesca, cercando nella loro realtà di tutti i
giorni di trovare uno spunto. E ben dosate le descrizioni (il condominio, il
colonnello, i possibili intrighi). Tuttavia cade su quegli intarsi dove intervengono
improbabili alieni, di cui non si capisce cosa ci siano a fare. Né perché i
bambini li possano vedere. Né perché questo crei panico negli alieni stessi. Un
po’ di sorrisi, ma poco altro. Più complesso invece l’impianto di
“Provvisoriamente inconcluso”, che mostra da un lato una sapiente capacità di
utilizzare diversi registri di scrittura, che ha una intrigante idea di fondo,
ma che si perde forse proprio nella gestione complessiva di troppe cose. Come
si diceva una volta “troppa carne al fuoco”. Uno scrittore che ha successo
perché pubblica sotto pseudonimo. Che è una specie di Jekyll e Hyde tra il se
stesso pubblico e quello che esce dalla penna. E tutta la prima parte è
gradevole: presentazione in libreria, due registri di scrittura (forse tre, con
la prosopopea dei critici), confusione e litigi. Ecco, se il racconto si
fermava qui mi sembrava interessante e riconciliante con la forma racconto. Poi
un’altra ventina di pagine tra ospedale, rapporto con i genitori, ricordo di un
amore, quotidianità squallida, sogni pieni di promesse e di altre possibilità.
Per finire con lo scontro tra il se della scrittura ed il se della vita, senza
saper decidere per quale dei due propendere. Ed una domanda: perché usa come
pseudonimo “//327//” che è anche la scrittura che compare nella sacca di plasma
in ospedale, ma che l’autore già utilizza prima di essere ferito? Ringrazio
comunque gli autori per il loro sforzo, citandoli in nominale ordine
alfabetico: Clelia di Cicco, Eduardo Conte, Fako, Maria Laura Rocchetti,
Mirella Fasiolo e Renata Comandini. Che ho volutamente mescolato, per evitare
di collegarli facilmente ai racconti tramati, così che sarete costretti,
piacevolmente, a cercarvi anche voi questo libro. Un ultima confessione, legato
al mio amico Fako, motivo per cui parlo di questo libro. Ho letto per primo il
tuo racconto, e mi era piaciuto fino ad un certo punto. Poi l’ho riletto dopo
aver letto anche gli altri dell’antologia. E si è meglio sedimentato nelle mie
corde. Forse è un po’ come il buon vino rosso che ogni tanto ci beviamo: aveva
bisogno di essere un po’ ossigenato. Comunque, bravi tutti. E grazie a te,
Fako. Dimenticavo: come per la citazione che riporto, un editing migliore
avrebbe fatto salire ancora il gradimento finale.
“Sono io, ho l’età mia ma vedo girare
automobili vecchie: Fiat 500, 600, 125, una Duphine, una Giulietta spider
una Ami 6, un’Anglia Ford e poi una Vespa 50, un Ciao, un motorino Marelli,
un Gilera 125, una Lambretta…” (70) [ho riprodotto fedelmente quanto scritto,
ed opino: la Renault era Dauphine,, tra spider e una ci va la virgola e il
motorino forse era Garelli; l’ho già detto altrove: un po’ di editing…]
Fabio Genovesi “Versilia Rock City” Mondadori euro 10
[A: 05/08/2014– I: 19/05/2015 – T: 21/05/2015] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 211;
anno 2008]
Un
arguto suggerimento venuto da quella piccola fucina di idee, che sembra ora
scomparsa, che fu la fanzine “Satisfiction”. Una cosa che si trovava qua e là
un po’ per caso, ma che aveva una rubrica che mi rimandava ai tempi mitici
della nostra radio (vero Luciano?). Si intitolava: “Recensioni / soddisfatti o
rimborsati”, dove se la parole della rivista ti convincevano a comperare il
libro, che poi si dimostrava una schifezza, ti rimborsavano il prezzo di
copertina. Ora, io ne ho comperati alcuni, e devo dire non sono mai stato
deluso. Come in questo caso, con Genovesi, che, tuttavia, aveva anche altri due
atout nel suo arco: avevo già letto un bel reportage sulla Versilia, di quelli
scritti per la bellissima Contromano di Laterza, dal titolo “Morte dei Marmi” e
questo romanzo uscito un paio d’anni fa da Mondadori, aveva visto la luce, come
dico sopra, nel 2008 presso Transeuropa, casa editrice legata a Massa . Ed
anche qui, insieme a Fabio, siamo in Versilia vista sotto gli occhi da
antropologo di chi si domanda come sia possibile una mutazione genetica del
toscano della costa, che, docile e compagnone, diventa insopportabile ed odioso
al cospetto dei nordici colonizzatori. Ma qui non siamo, tuttavia,
nell'analisi, un po’ spietata ma reale, del divenire di Forte dei Marmi, dai
villeggianti milanesi ai mafiosi russi. Qui seguiamo le vicende di alcuni
sfigati versiliesi che, con la loro stessa vita, ci presentano il degrado della
vita lì al Forte. Per cercare di essere obiettivamente crudeli, a volte si ha
l’impressione che i piccoli capitoli siano una specie di siparietto teatrale,
in cui abbiamo delle scenette, a volte comiche, spesso tragiche, caparbiamente
fini a sé stesse. Poi ci pensa la penna di Genovesi a creare un cappello ed una
coda, a mettere gli stessi personaggi, ed a rendere il tutto un godibile libro
di lettura. I tre eroi eponimi del romanzo sono i due coetanei Mario e Renato
nonché lo zio del primo, Nello detto il Botta (e scopriremo anche il perché del
soprannome). Si inizia con i due dodicenni che cercano di rubare partite ai
videogiochi, rimediando (Renato) una solenne schicchera elettrica che secondo
lui da primo della classe lo fa diventare un normale sfigato, guardati di là
della strada da Nello, già preso nel vortice di sesso, droga e rock’n’roll
della metà degli anni Ottanta. Li ritroviamo poi venti anni dopo. Nello ha
passato molti stadi di droga, si è disintossicato in Comunità ed ora “riga
dritto”, solo la testa è un po’ fumina, dove insegue il mito delle rock star e,
nel suo buco in giardino (che come ex-tossico non lo fanno più entrare in casa)
costruisce una zattera per andare a rapinare gli yacht (parole di Nello: “le vecchie professioni non le fa più
nessuno, stanno morendo, e secondo me è un peccato. Ci vuole qualcuno che
continua a fare il fabbro, il maniscalco, e anche il pirata.”). Mario ha
fatto il dj per anni, poi, improvvisamente (ma alla fine ci viene spiegato il
perché) sono tre anni che non esce di casa, legato ai suoi computer da cui
scarica (non si sa perché) film porno e musica a raffica, senza esserne legato
in maniera particolare, ma con degli aneliti di idiozia pura verso una
pornostar (Vanessa Sex), che però vede solo in video. Infatti in tre anni che
sta chiuso in casa, come dice lui stesso, “l’unica
donna vera che ho visto, a parte la mamma e la psicologa, è quella volta che
entrarono le zingare a rubare”. E poi c’è Renato, quello dello shock al
videogioco, quello che era la star del Carnevale del Forte, ma che dopo lo
shock si fa un vestito da Gianni Agnelli (ricordate l’Andreotti di Pif?
Uguale), dove non lo caca nessuno e da dove comincia la sua parabola
discendente. Tanto che ora fa il raccontatore di viaggi per persone che
vogliono andare altrove ma non hanno soldi o coraggio. Queste tre vite in caduta
sono, quasi involontariamente catalizzate da Roberta, avvocato rampante ed
insoddisfatto, unica donna a circolare nel libro. Donna che in gioventù ebbe
una cotta per Nello, che poi per tutti questi anni ha fatto carriera in modo
triste ed insoddisfatto. Che rivede Nello, il quale le fa avere orgasmi a
ripetizione (avete capito il soprannome?). Cosa che sconvolge la nostra, che
vuole abbandonare tutto e tutti, che ricostruisce parte dei venti anni di Nello
che lui aveva buttato nel tunnel della droga. E gli restituisce un figlio che
lui non sapeva di aver avuto. Poi, come uscendo da un sogno, si rende conto
della realtà, e disumana come è sempre stata, esce dalla scena per tornare al
suo algido mondo di enoteche, prime a teatro ed altre freddezze. Intanto ha
buttato Nello jr. nella mischia, e sarà proprio il bimbo a prendere
metaforicamente per mano i tre sbandati (e vi tralascio tutte le peripezie di
contorno che sono da leggere per quanto sono tristi e divertenti) per portarli
verso un improbabili sbarco in Sardegna. Con alla testa Nello sr., con di lato
Renato, sempre più spaventato, ed in coda Mario, che finalmente esce di casa.
Speriamo per non tornarci mai più. Il finale è discretamente aperto per lasciar
spazio ad eventuali idee che possano passare nel lettore. Intanto noi abbiamo
passato in rassegna due grandi ordini di problemi: quello dei versiliesi che
per tre mesi all'anno vengono colonizzati, e per nove mesi vivono la loro
normale miseria e quello di tre possibili eroi di questa vita, immersi, fino
alla gola, nel degrado che ci può stare nella provincia italiana degli ultimi
venti anni. Libro amaro, libro divertente, a tratti scorrevole, a volte con
qualche invenzione che non gira come vorrebbe. Ma complessivamente un libro che
si legge tutto di un fiato, e che ho piacere di aver letto. C’è una bella
immagine che poi mi rimane tra tutte, ad un certo punto, un personaggio si
chiede da dove dovrebbe cominciare a raccontare una storia (o la sua storia).
Ha senso iniziare ad un certo punto? E tutto quello che viene prima? Non è
arbitrario, ad esempio, iniziare a parlare di Mario d quando sta chiuso in
casa. E tutto quello che c’era prima ed intorno? E non è un problema di
filologia letteraria, che ce ne ritroveremo a parlare, magari più apertamente,
in un saggio di storia che sto leggendo in questi giorni ed a cui rimando la
palla (1914 di Luciano Canfora, per essere precisi).
Si diceva
della Valdarno, della partecipazione mia per la prima volta ad un raduno di
avventurieri. Ne sono rimasto colpito nel bene delle tante voglie di fare e nel
male delle tante goliardate a volte un po’ fini a se stesse. Ma anche con delle
riflessioni che vedremo se matureranno. Come dovrà maturare la sfiga che “bersaglio
di guai era e centro” (e vediamo se qualcuno mi sa riconoscere questa
citazione), per fare si che si raddrizzino un po’ le prossime giornate.
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