domenica 20 settembre 2015

Italiani soggettivi - 20 settembre 2015

Tornati dalle fatiche della Valdarno, eccoci ad un bel quartetto italiano. Tutto sopra la sufficienza di almeno mezzo libro (e vi dirò subito perché tutto). Con autori italiani collaudati anche se non da me amatissimi come Gianni Mura (anche se ne apprezzo gli articoli repubblicani). Con autori invece da molto amati, come Francesco Piccolo. Con autori poco visitati ma gradevoli, come l’ottima Versilia di Fabio Genovesi. E con il lavoro di un collettivo di scrittura, a me vicino per molta amicizia, ed a cui dedico il titolo. Ed a cui ho tolto qualcosa non per la scrittura, ma per un editing che potrebbe essere migliorato.
Gianni Mura “Ischia” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato a 6,38 euro)
[A: 01/07/2014– I: 25/12/2014 – T: 27/12/2014] - &&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 175; anno 2012]
Devo dire che mi aspettavo qualcosa in più dal secondo libro di Mura sulle inchieste (o presunte tali) del suo ineffabile commissario Jules René Magrite, anche se alla fine il libro non mi ha certo deluso. Di Mura ricordo la buona prova d’esordio (“Giallo su giallo”) nonché il gioco di parole del commissario, che ricorda, appunto, il Jules Maigret del buon Simenon ed il René Magritte dei quadri surrealisti. E pensavo fosse un altro “giallo”, anche se atipico. Invece è un inno d’amore. Per una serie di cose, alcune palesi altre meno, care al giornalista – scrittore. Amore per la cucina, di cui si parla una pagina si ed una no, cominciando dai ristoranti di Milano, per proseguire con la cucina ischitana, di terra e di mare. Con il vino. Con le citazioni gastronomiche. Amore per Ischia, di cui si parla a più riprese, si analizza, si esamina. E se ne tirano fuori particolari, forse ad altri noti, ma interessanti e coinvolgenti: dall'esilio foriano di Donna Rachele, vedova di Mussolini, alla morte sull'isola dell’anarchico Gino Lucetti, responsabile del fallito attentato al dittatore nel 1926, passando per i soggiorni dei due premi Pulitzer, Auden e Capote negli anni ‘50 del secolo scorso, fino alla recente presenza sul Castello Aragonese del compositore Vinicio Capossela. Amore per la politica, e per un’Italia che rischia di affondare in mezzo a tante storture. Certo si parla della politica dell’isola, dei mostri che con il cemento deturpano i sassi e le scogliere, delle frane provocate dall’incuria. Amore per la Francia, cui Mura è da sempre legato per tutti gli anni passati a seguire il Tour de France, ma non solo. Un amore che si istanzia nei due protagonisti, il commissario Magrite, appunto, e l’amore della sua vita, trovato ora in tarda età, il giudice Michelle Lapierre di Vannes. Bella è la loro scoperta di un amore d’età (visto che Jules ha 58 anni), con tanti rimandi a luoghi sia parigini che bretoni (da cui è originaria Michelle). Soprattutto due intriganti: la storia della cantante Fréhel e quella dei due suicidi, di Jean Seberg e Romain Gary (chi ne vuole sapere di più di tutte queste storie, può leggerne sunti in Wikipedia sezione francese, o leggere il libro di Mura o anche le anime baltiche su cui si tornerà; io ne parlerei ma andremmo un po’ fuori dal seminato). Amore per l’amicizia (e non è un ossimoro), quella che ben presto lega i nostri a Giuseppe Iovine, detto Pépé le couteau.  Peppe è il personaggio cui lo scrittore affida il compito, centrale nella trama, di svelare il lato oscuro, nascosto dell’isola. Un personaggio di cui conosciamo presto la tragica storia ai limite della legge, dove per difendere la sua donna uccide un pappone slavo e farà più di dieci anni di carcere in Francia. Ma ne uscirà, ritrovando la sua Denise, ritrovando l’aiuto del commissario Jolivet (conoscenza anche di Magrite), mettendo su prima un ristorante a Parigi, poi tornando nel buon ritiro di Ischia con la sua bella, fino alla morte di lei per tumore. Ma Peppe continua a vivere con lei la sua esistenza, pur isolato, continua a cercare di mettere pezze ai brandelli delle storie isolane, e dei tanti soprusi che ne possono venir fuori. E che Mura ci fa scorrere, un po’ in secondo piano, ma non tanto da farci dimenticare come possono andare male le cose in Italia. Qui abbiamo le parti poliziesche, che però, come detto, ne sono da sfondo anche se a forti tinte. Si comincia con la morte del giovane romeno Ovidiu, che non ha voluto piegarsi a fare il corriere della droga per Rocco o Purp’. Si intramezza con l’assalto alle due donne gay da parte di uno scalmanato isolano, che viene ben sistemato da Magrite a suon di pugni, e che per questo viene avvertito (neanche tanto velatamente) da un poliziotto corrotto di farsi gli affari suoi. E si finisce con il suicidio provocato della piccola Anna, che qualcuno (Rocco? Il poliziotto? Qualcuno da loro protetto?) vorrebbe avviare a sordidi mestieri, ma che, rosa dalla vergogna, preferisce togliersi la vita. Tutta una somma di elementi che fanno si che Peppe decida di fare piazza pulita, facendosi saltare in aria insieme ai camorristi ed ai poliziotti corrotti. Noi, invece, pur dolenti, prenderemo il traghetto con Jules e Michelle, ricordando si tutti i momenti poco felici passati, ma ricordando ed aspettando tutti quegli altri momenti di grande amore che Mura ci ha fatto vivere, pur nella brevità delle men che duecento pagine. Insomma, un libro che avevo comperato come giallo italiano, e che si è rivelato invece una guida letteraria per un’isola che si dovrà tornare a visitare, prima o poi.
“Tu sei … una persona perbene, un ottimo professionista e un buon compagno. Un buon amante, vorrei aggiungere, ma non dispongo di una vasta campionatura in cui inserirti. Sai quand'è il momento di ridere e quando è meglio tacere. Con te sto bene a tavola, in giro e a letto.” (78)
“Una volta ho sentito dire che conoscere il passato è fondamentale per capire il presente e immaginarsi il futuro.” (83)
Francesco Piccolo “Momenti di trascurabile infelicità” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 03/04/2015– I: 04/04/2015 – T: 08/04/2015] - &&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 140; anno 2015]
Sto mangiando un churro con Chiara in una grigia Pasqua limeña, mentre Nadia vomita e Sergio telefona. Beh, in questo momento di (non) trascurabile felicità, inizio la lettura del secondo capitolo dell’enciclopedia tascabile dei momenti della vita, scritta dall'esimio Francesco Piccolo, di cui tanto ho già letto e parlato. Perché qui il nostro passa dalla felicità, e dal desiderio di omologazione, alla descrizione dei momenti infelici della vita. Anche di questi ognuno ha i propri personali (ricordate sempre l’attacco di Anna Karenina di Tolstoj). Ma se noi si sa individuare e sorridere di questi momenti, già si sono fatti passi avanti verso il terzo libro che scriverà il nostro autore (Momenti di trascurabile serenità, suggerisco).  Ovviamente anche questo è un libro non raccontabile. Non è una storia, sono momenti, che partono dai suoi personali, per poi collegarsi ai miei ed a quelli di molti altri. Solo uno di questi piccoli cammei mi ha un po’ irritato, non capendone l’uso e la necessità, quello del bambino giapponese (adottato?) e della sua non inseribilità nel contesto italico. Forse mi mancano dei parametri per giudicarne, ma è una parte che non mi ha dato né felicità né infelicità, ma solo un po’ di fastidio. Perché se è vero che cercare la felicità è la continua e giornaliera ricerca di sensazioni ed emozioni che facciano star bene, individuare l’infelicità serve a dribblare quegli stati d’animo che ci mettono a disagio. Come la storia (mia e di altri e non di Piccolo) del regalo, fatto sottolineando che se non piace lo posso cambiare. Con la solita risposta, ma no, mi piace tantissimo. E l’omaggiato il giorno dopo va al negozio a cambiarlo. O le storie sentite e risentite (ma che non mi sono ancora capitate) di gente lasciate con un messaggio su WhatsApp. Certo, questi sono momenti di autentica infelicità. O di grande inc…tura. Ricordo gli asciugamani stesi con cura sulla sabbia, per evitare gli odiosi granelli, ed i bambini che corrono e li riempiono nuovamente (e ripenso alla scena di Nanni Moretti, ai bimbi che giocano a pallone sulla spiaggia, ed a quando lui, ferocemente, prende il pallone e lo buca, cattiveria mitica). Continuare a leggere libri che non mi piacciono solo per stroncarli scrivendo queste trame (ma possibile che riesca a trovare poche letture “immortali”?). Come fare poi a non essere d’accordo con Francesco, nel ribadire che quando qualcuno ti dice che devi sapere che ti vuole molto bene, quasi sempre sta per dirti qualcosa di terribile. Mi capita di stare con mia madre e veder lo sport in tv (si sa che lei è patita di tutto dal grande calcio ai campionati mondiali di snooker). E di fare il tifo (io che non faccio tifo per quasi nulla) per i più deboli sperando che battano i più forti. Poi non trovo la tristezza dell’autore, ma il gusto sadico di infierire sui perdenti, quali essi siano. Nell'agile manuale di pennellate infelici, ci sono anche capitoletti più lunghi (a parte quello del bambino giapponese di cui ho già parlato male), come quello molto intrigane sulla dieta Dukan. O quello sulle feste dei bambini (terribili e da abolire in toto). Ma questi non diventano più momenti trascurabili (che come dice il mitico Devoto – Oli sta per momenti di cui si può non tenere conto) ma sono i momenti fondanti della nostra vita. Che è sempre a tutto tondo, come dice l’ultima delle frasi che sotto riporto. Vorrei finire con delle parole altrui, dove in un intervista di Nicola Mirenzi al nostro grande Piccolo, si dice: “Il mondo è terribile. Però quando leggi Francesco Piccolo ti sembra più lieve, pieno di godimenti nascosti. La forza di Piccolo è che sa vedere, e sa far vedere, il lato esaltante di ogni piccolo istante che viviamo.” A proposito, qual è il vostro momento di trascurabile infelicità preferito?
“Quest’anno è volato. Si dice di tutti gli anni, alla fine dell’anno. Mi chiedo come sono gli anni lenti, che non passano mai. Perché non li ho mai vissuti.” (13)
“Quando i ristoranti (o i bar o qualsiasi negozio), dopo il nome scrivono ‘dal 1972’ o ‘dal 1983’. E io ero già nato. E alle volte ero già grande.” (75)
“I camerieri non sentono mai quando li chiamo.” (92)
“Sei su WhatsApp, vedi che l’altro “sta scrivendo”, ti sta rispondendo, aspetti, e non arriva niente. Ci ha ripensato.” (95)
“Ognuno di noi è fatto di un equilibrio finissimo di tutte le cose, belle e brutte; e ho imparato che – come i bastoncini dello shangai – se tirassi via la cosa che meno mi piace della persona che amo, se ne verrebbe via anche quella che mi piace di più.” (140)
Terzi Soggettivi “Né capo né coda” Unilibro euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)
[A: 25/08/2014– I: 17/05/2015 – T: 19/05/2015] - &&&--   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 204; anno 2014]
Confessione numero uno: io (e si sa) non amo molto i libri di racconti e questo è un libro di racconti. Confessione numero due: io sono moderatamente scettico sui libri autoprodotti e questo è un libro autoprodotto. Confessione numero tre: ho fatto stampare, comperato e letto questo libro perché uno degli autori è un mio amico e volevo vedere che effetto mi faceva non più leggerne su foglietti volanti, ma su della carta stampata e rilegata. Fatte queste confessioni veniamo allora al merito del libro, ed al fatto che, come nella mia vecchia scuola, si sia meritato un bel 6 meno meno. Cioè di quelli che il prof diceva, sarebbe da 5, ma la buona volontà ed alcuni spunti gli fanno meritare una stringata sufficienza. Gli autori presenti in questa raccolta sono scrittori appassionati, che si riuniscono settimanalmente sotto la guida di Claudia Masia, curatrice dell’antologia, per le loro scritture “creative”. Che si consolidano annualmente in una raccolta, e che nel 2014, pur autoprodotta, è la prima che rendono pubblica. Devo dire, preliminarmente, che il titolo rispecchia grandemente la raccolta. I racconti non hanno un grande filo che li accomuna (primo significato del termine) né possiamo dire che ce ne sia qualcuno che si stacca dagli altri in alto o in basso (secondo significato). Almeno nella scrittura. Qualcosa di diverso, certo, nel mio gradimento, che come tutti i sentimenti è puramente soggettivo ed a volte inspiegabile. In tutti, comunque, ho trovato una stessa mancanza, di una qualche conclusività. Non che per forza un racconto deve avere un mondo chiuso intorno, ma sento come se in ognuno ci sia (volutamente o meno) qualcosa di lasciato in sospeso, di zona grigia in cui possa intervenire il lettore (come sagacemente viene detto in “Provvisoriamente inconcluso”), ma che, proprio per alcuni momenti slabbrati del discorso, sia troppo poco concluso. Ne “Il mare al di là” c’è una interessante trama di fondo, un bambino trovato sotto le macerie del terremoto di Skoplje (quello del ’63, per chi non ne avesse memoria), adottato, amato ma non compreso, che, cresciuto nelle marche anconetane, da quel mare è attratto. Tanto da abbandonare appena possibile i genitori adottivi per farsi una propria vita in mare. Tanto da crescervi, da diventare un bravo pescatore, da cadere nelle trappole della vita con amori poco leciti. Cadere e rialzarsi, trovare (pare) un amore vero, ritrovare (forse) alcune sue radici visitando le terre natie. E poi cadere (qui senza spiegazioni, se non qualche lontana eco di genetica che rifuggo immediatamente) nel turbine del malaffare, del guadagno immediato, e nel poco e per nulla lecito. Tanto da perdere nave e moglie e tutto il resto. Con un ultimo soprassalto di coscienza che lo porterà dove forse non sarebbe voluto andare. Ma la coda non ci porta dentro di lui, dentro le sue motivazioni. Rimane tutto sospeso ed inspiegato. La “Promozione a Roma” è forse quello che più mi ha deluso: una ditta trasferisce i propri quadri a Roma, seguiamo il buon Elio trasferirsi da Monza, pensare alla sua Franca lontana. Per poi inserirsi in una trama gialla di bassa fattura. La moglie del capo viene uccisa, e non si fa fatica a capirne le motivazioni e l’identità dell’assassino. Lasciando il buon Elio a metà racconto, mentre ne sembrava il protagonista. E scivolando nelle ricerche del buon commissario, con tanta fatica che noi lettori già s’era capito tutto. E con molta fortuna, che se non bussavano i poliziotti a quella porta di mercoledì staremmo ancora lì ad aspettare la soluzione. Abbastanza inconcluso anche “Ritorno a casa” dove c’è un lungo racconto che vorrebbe tracciarci la vita della protagonista (un memoir appunto), ma che, usando quella tecnica, che io odio, del flashback, quando abusato, ci lascia tante zone grigie. Qual è il nesso tra le tante operazioni che la protagonista subisce da bambina per curare credo qualcosa di poliomielitico ed i noduli al seno che la attanagliano ora nell'età adulta? Certo, ci fa piacere seguire le vicende familiari e quel traslocare dal Quadraro al centro e poi di nuovo in periferia (buona questa parte). Ma mi sono perso con i suoi amori, chi è questo e chi è quello, e da chi va e da chi ritorna. Certo, non possiamo non sottoscrivere il quasi urlo soggettivo finale, dopo tutte le peripezie, che è quello di “viverre” (ma in sottofondo io cattivo e maligno, mi chiedo che differenza ci sia tra “imparare un’altra lingua” e “studiare inglese e francese”). Troppo scontato il “Ritorno a Silvi”: mini-incidente in motorino, mentre Anna va dalla sua amica ad Amelia, Luca che prima la aiuta poi cerca di violentarla, poi si ferma prima di e si pente. Meglio del flashback (anche se il principio è simile) quell'uso alla Vasco Rossi di “forward” e “rewind”. Ma come dire scontato che quando scopriamo che Luca si butta nell'eroina e che Anna fa la volontaria in un centro alla “don Ciotti” essendo essa stessa uscita dal tunnel, il fatto che i due si incontrino, e lei decida (forse) di aiutarlo ad uscire anche lui. Giocato sul filo dell’autoironia “Cose dell’altro mondo”, laddove le protagoniste non sono altro che due aspiranti scrittrici, che seguono un corso di scrittura poliziesca, cercando nella loro realtà di tutti i giorni di trovare uno spunto. E ben dosate le descrizioni (il condominio, il colonnello, i possibili intrighi). Tuttavia cade su quegli intarsi dove intervengono improbabili alieni, di cui non si capisce cosa ci siano a fare. Né perché i bambini li possano vedere. Né perché questo crei panico negli alieni stessi. Un po’ di sorrisi, ma poco altro. Più complesso invece l’impianto di “Provvisoriamente inconcluso”, che mostra da un lato una sapiente capacità di utilizzare diversi registri di scrittura, che ha una intrigante idea di fondo, ma che si perde forse proprio nella gestione complessiva di troppe cose. Come si diceva una volta “troppa carne al fuoco”. Uno scrittore che ha successo perché pubblica sotto pseudonimo. Che è una specie di Jekyll e Hyde tra il se stesso pubblico e quello che esce dalla penna. E tutta la prima parte è gradevole: presentazione in libreria, due registri di scrittura (forse tre, con la prosopopea dei critici), confusione e litigi. Ecco, se il racconto si fermava qui mi sembrava interessante e riconciliante con la forma racconto. Poi un’altra ventina di pagine tra ospedale, rapporto con i genitori, ricordo di un amore, quotidianità squallida, sogni pieni di promesse e di altre possibilità. Per finire con lo scontro tra il se della scrittura ed il se della vita, senza saper decidere per quale dei due propendere. Ed una domanda: perché usa come pseudonimo “//327//” che è anche la scrittura che compare nella sacca di plasma in ospedale, ma che l’autore già utilizza prima di essere ferito? Ringrazio comunque gli autori per il loro sforzo, citandoli in nominale ordine alfabetico: Clelia di Cicco, Eduardo Conte, Fako, Maria Laura Rocchetti, Mirella Fasiolo e Renata Comandini. Che ho volutamente mescolato, per evitare di collegarli facilmente ai racconti tramati, così che sarete costretti, piacevolmente, a cercarvi anche voi questo libro. Un ultima confessione, legato al mio amico Fako, motivo per cui parlo di questo libro. Ho letto per primo il tuo racconto, e mi era piaciuto fino ad un certo punto. Poi l’ho riletto dopo aver letto anche gli altri dell’antologia. E si è meglio sedimentato nelle mie corde. Forse è un po’ come il buon vino rosso che ogni tanto ci beviamo: aveva bisogno di essere un po’ ossigenato. Comunque, bravi tutti. E grazie a te, Fako. Dimenticavo: come per la citazione che riporto, un editing migliore avrebbe fatto salire ancora il gradimento finale.
“Sono io, ho l’età mia ma vedo girare automobili vecchie: Fiat 500, 600, 125, una Duphine, una Giulietta spider una Ami 6, un’Anglia Ford e poi una Vespa 50, un Ciao, un motorino Marelli, un Gilera 125, una Lambretta…” (70) [ho riprodotto fedelmente quanto scritto, ed opino: la Renault era Dauphine,, tra spider e una ci va la virgola e il motorino forse era Garelli; l’ho già detto altrove: un po’ di editing…]
Fabio Genovesi “Versilia Rock City” Mondadori euro 10
[A: 05/08/2014– I: 19/05/2015 – T: 21/05/2015] - &&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 211; anno 2008]
Un arguto suggerimento venuto da quella piccola fucina di idee, che sembra ora scomparsa, che fu la fanzine “Satisfiction”. Una cosa che si trovava qua e là un po’ per caso, ma che aveva una rubrica che mi rimandava ai tempi mitici della nostra radio (vero Luciano?). Si intitolava: “Recensioni / soddisfatti o rimborsati”, dove se la parole della rivista ti convincevano a comperare il libro, che poi si dimostrava una schifezza, ti rimborsavano il prezzo di copertina. Ora, io ne ho comperati alcuni, e devo dire non sono mai stato deluso. Come in questo caso, con Genovesi, che, tuttavia, aveva anche altri due atout nel suo arco: avevo già letto un bel reportage sulla Versilia, di quelli scritti per la bellissima Contromano di Laterza, dal titolo “Morte dei Marmi” e questo romanzo uscito un paio d’anni fa da Mondadori, aveva visto la luce, come dico sopra, nel 2008 presso Transeuropa, casa editrice legata a Massa . Ed anche qui, insieme a Fabio, siamo in Versilia vista sotto gli occhi da antropologo di chi si domanda come sia possibile una mutazione genetica del toscano della costa, che, docile e compagnone, diventa insopportabile ed odioso al cospetto dei nordici colonizzatori. Ma qui non siamo, tuttavia, nell'analisi, un po’ spietata ma reale, del divenire di Forte dei Marmi, dai villeggianti milanesi ai mafiosi russi. Qui seguiamo le vicende di alcuni sfigati versiliesi che, con la loro stessa vita, ci presentano il degrado della vita lì al Forte. Per cercare di essere obiettivamente crudeli, a volte si ha l’impressione che i piccoli capitoli siano una specie di siparietto teatrale, in cui abbiamo delle scenette, a volte comiche, spesso tragiche, caparbiamente fini a sé stesse. Poi ci pensa la penna di Genovesi a creare un cappello ed una coda, a mettere gli stessi personaggi, ed a rendere il tutto un godibile libro di lettura. I tre eroi eponimi del romanzo sono i due coetanei Mario e Renato nonché lo zio del primo, Nello detto il Botta (e scopriremo anche il perché del soprannome). Si inizia con i due dodicenni che cercano di rubare partite ai videogiochi, rimediando (Renato) una solenne schicchera elettrica che secondo lui da primo della classe lo fa diventare un normale sfigato, guardati di là della strada da Nello, già preso nel vortice di sesso, droga e rock’n’roll della metà degli anni Ottanta. Li ritroviamo poi venti anni dopo. Nello ha passato molti stadi di droga, si è disintossicato in Comunità ed ora “riga dritto”, solo la testa è un po’ fumina, dove insegue il mito delle rock star e, nel suo buco in giardino (che come ex-tossico non lo fanno più entrare in casa) costruisce una zattera per andare a rapinare gli yacht (parole di Nello: “le vecchie professioni non le fa più nessuno, stanno morendo, e secondo me è un peccato. Ci vuole qualcuno che continua a fare il fabbro, il maniscalco, e anche il pirata.”). Mario ha fatto il dj per anni, poi, improvvisamente (ma alla fine ci viene spiegato il perché) sono tre anni che non esce di casa, legato ai suoi computer da cui scarica (non si sa perché) film porno e musica a raffica, senza esserne legato in maniera particolare, ma con degli aneliti di idiozia pura verso una pornostar (Vanessa Sex), che però vede solo in video. Infatti in tre anni che sta chiuso in casa, come dice lui stesso, “l’unica donna vera che ho visto, a parte la mamma e la psicologa, è quella volta che entrarono le zingare a rubare”. E poi c’è Renato, quello dello shock al videogioco, quello che era la star del Carnevale del Forte, ma che dopo lo shock si fa un vestito da Gianni Agnelli (ricordate l’Andreotti di Pif? Uguale), dove non lo caca nessuno e da dove comincia la sua parabola discendente. Tanto che ora fa il raccontatore di viaggi per persone che vogliono andare altrove ma non hanno soldi o coraggio. Queste tre vite in caduta sono, quasi involontariamente catalizzate da Roberta, avvocato rampante ed insoddisfatto, unica donna a circolare nel libro. Donna che in gioventù ebbe una cotta per Nello, che poi per tutti questi anni ha fatto carriera in modo triste ed insoddisfatto. Che rivede Nello, il quale le fa avere orgasmi a ripetizione (avete capito il soprannome?). Cosa che sconvolge la nostra, che vuole abbandonare tutto e tutti, che ricostruisce parte dei venti anni di Nello che lui aveva buttato nel tunnel della droga. E gli restituisce un figlio che lui non sapeva di aver avuto. Poi, come uscendo da un sogno, si rende conto della realtà, e disumana come è sempre stata, esce dalla scena per tornare al suo algido mondo di enoteche, prime a teatro ed altre freddezze. Intanto ha buttato Nello jr. nella mischia, e sarà proprio il bimbo a prendere metaforicamente per mano i tre sbandati (e vi tralascio tutte le peripezie di contorno che sono da leggere per quanto sono tristi e divertenti) per portarli verso un improbabili sbarco in Sardegna. Con alla testa Nello sr., con di lato Renato, sempre più spaventato, ed in coda Mario, che finalmente esce di casa. Speriamo per non tornarci mai più. Il finale è discretamente aperto per lasciar spazio ad eventuali idee che possano passare nel lettore. Intanto noi abbiamo passato in rassegna due grandi ordini di problemi: quello dei versiliesi che per tre mesi all'anno vengono colonizzati, e per nove mesi vivono la loro normale miseria e quello di tre possibili eroi di questa vita, immersi, fino alla gola, nel degrado che ci può stare nella provincia italiana degli ultimi venti anni. Libro amaro, libro divertente, a tratti scorrevole, a volte con qualche invenzione che non gira come vorrebbe. Ma complessivamente un libro che si legge tutto di un fiato, e che ho piacere di aver letto. C’è una bella immagine che poi mi rimane tra tutte, ad un certo punto, un personaggio si chiede da dove dovrebbe cominciare a raccontare una storia (o la sua storia). Ha senso iniziare ad un certo punto? E tutto quello che viene prima? Non è arbitrario, ad esempio, iniziare a parlare di Mario d quando sta chiuso in casa. E tutto quello che c’era prima ed intorno? E non è un problema di filologia letteraria, che ce ne ritroveremo a parlare, magari più apertamente, in un saggio di storia che sto leggendo in questi giorni ed a cui rimando la palla (1914 di Luciano Canfora, per essere precisi).
Si diceva della Valdarno, della partecipazione mia per la prima volta ad un raduno di avventurieri. Ne sono rimasto colpito nel bene delle tante voglie di fare e nel male delle tante goliardate a volte un po’ fini a se stesse. Ma anche con delle riflessioni che vedremo se matureranno. Come dovrà maturare la sfiga che “bersaglio di guai era e centro” (e vediamo se qualcuno mi sa riconoscere questa citazione), per fare si che si raddrizzino un po’ le prossime giornate.

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