Un confronto tra America e
Italia, che si vince alla grande. Anche se, ribadisco, Elena Ferrante non
sempre riesce a coinvolgermi. Certo il primo libro è molto “forte”, mentre il
secondo, secondo anche come storie delle amiche napoletane, ha avuto, nel mio
immaginario una impennata dovuta ad alcune corde che tocca sui discorsi
adolescenziali – universitari. Amy Homes è senz’altro interessante, il primo
libro forse non ti salva la vita ma aiuta. Il secondo (che poi è uscito per primo)
sono racconti forse in minore, anche se hanno momenti alti ed avvincenti. Se si
trova in italiano (penso di si) vale la pena di leggerne.
A. M. Homes “Questo libro ti salverà la vita” Feltrinelli euro 9 (in
realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 01/02/2014– I:
12/03/2015 – T: 14/03/2015] - &&& e ¾
[tit. or.: This Book Will Save Your Life; ling. or.: inglese; pagine: 310; anno 2006]
Non
è che non sappia come si chiama (il suo nome completo è Amy Michael Homes), ma
questo con i punti è il suo nome da scrittrice, quello con cui firma tutti i
suoi lavori. Cinquantenne newyorchese, a me prima di questo libro ignota, pur
nella non completa riuscita del libro, mi ha incuriosito, divertito, ed anche
fatto riflettere qua e là. Le prime cinque pagine mi stavano frenando, come se
non si riuscisse a decollare. Poi sono stato preso dalla vicenda di Richard,
ma, soprattutto, dall’uso che fa la scrittrice di un racconto per fare critiche
alla società americane ed alle sue degenerazioni palesi. Con l’abilità di
farmi, in fondo, fare il tifo per lo sballottato Richard, anche se non è
proprio l’esempio del paladino dalle mille virtù che ci si aspetta per farne il
tifo. Richard ha un pacco di soldi, essendo un abilissimo online trader che
vende e compra azioni come fossero noccioline, ed in questo che non sembra
essere un gran lavoro, accumula dollari su dollari. Ad un certo punto si separa
dalla moglie, molto più di lui work-aholic come si dice oggi in America,
lasciandola a New York con il loro figlio Ben e trasferendosi a Los Angeles.
Qui vive in una villa su una collina, si mette cuffie con musica la mattina, si
allena sul suo tapis roulant mentre la sua tata accudisce la casa, mangia la
sua colazione ed i suoi pranzi che gli prepara la sua nutrizionista, interrompe
il collegamento con il PC per un po’ di ginnastica con la sua Personal Trainer,
e poco altro. Guarda la collina del suo mondo, e sta lì, ibernato, tanto che la
tata gli dice che sono 35 giorni che non parla con nessuno. Il punto di crisi,
la “zeppa” che viene messa nell’ingranaggio è un dolore che sente al petto. Sto
per morire? Un infarto? Dalla visita al pronto soccorso comincia un percorso
suo per comprendersi, tanto che tutti cominciano a non “riconoscerlo” più. Si
“interessa”! E gli capitano tante cose, cui, forse, prima neanche avrebbe
scorto. Si crea una buca in giardino che sta per inghiottire il cavallo di una
sua vicina, che lui e un vicino famoso che si scopre poi essere un grande divo
del cinema, salvano con un elicottero. Vagando per il quartiere con la sua
Mercedes in leasing incontra un immigrato indiano che fa delle ciambelle
favolose, che entrano a poco a poco a sostituire i cereali che punteggiano la
sua vita. In un super mercato incontra una donna che piange e … le parla. Un
altro incontro che sarà di buon auspicio per il resto del libro. Diventano
amici e lui la incoraggia a seguire una nuova vita, lontano da un marito
violento e da figli che si accorgono di lei solo se non cucina o non lava i
panni. Lo strano (per il mondo di L.A.) è che saranno solo amici. Per un
terremoto la casa minaccia di crollare, e lui si trasferisce a Malibu. Dove
incontra uno vicino stralunato, che si rivela essere uno scrittore di grido.
Dove adotta un cane. Dove, dopo anni, fa di nuovo sesso (ma non con l’amica di
cui sopra). Dove lo raggiunge il figlio Ben che ha deciso di fare il coast to
coast con il cugino Barth. E lunghe saranno le difficoltà che Richard e Ben
dovranno superare per avvicinarsi e comunicare realmente. E Richard capirà
quello che aveva già capito ma non vissuto: la necessità di Ben della sua
figura, anche distante, ma in modo da scambiarsi parole e sostenersi a vicenda
nei momenti di crisi. Richard continua a fare il buon samaritano, salvando una
signorina che stava per essere rapita da un bruto, facendo regali a tutti,
senza volere niente in cambio (ricordate i discorsi sui doni che avevo fatto
parlando di padre Bianchi?), pagando l’operazione all’anca alla sua tata. Ed
avendo anche un riavvicinamento, almeno verbale, con l’ex-moglie.
Fortunatamente Holmes non spinge tutto verso l’happy end, che sarebbe uno
stucchevole strato di miele su di una storia che invece, anche se facciamo il
tifo, è ben amara. E si ipotizza che, benché sperso su di una zattera davanti
alla spiaggia di Malibu, Richard ci sarà, per gli altri, e soprattutto per Ben.
Il piacevole della scrittura è che tutta questa scrittura, che potrebbe essere
solo una specie di sceneggiatura per un mélo americano (alla Paul Mazursky)
diventa una critica serrata della società americana: incomunicabilità, passione
per il “cibo sano” ma solo se lo dice la nutrizionista, macchine in leasing,
attori che fanno i simpatici, lo scrittore che scrive i suoi capolavori perché
si isola, ginnastica che “deve” essere fatta (tapis roulant e piscina in casa),
divorzi senza parole, famiglie che pensano la donna solo come serva, e tutte le
peggiori insensatezze americane (fino al dottore che cura bene ma che si scopre
non essere laureato). Certo, non un capolavoro né un libro immancabile, ma ho
trovato la nostra scrittrice capace di gettare un bell’occhio sulla realtà
americana attuale.
“[della mia infanzia] io non mi ricordo
niente … e poi, tutto a un tratto, mi torna un pezzetto e penso: ma guarda, me
n’ero completamente dimenticato.” (236)
“Non basta dire ‘mi dispiace’ come se
significasse qualcosa.” (258)
Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[A: 01/10/2014– I: 25/05/2015 – T: 28/05/2015] - &&&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 211;
anno 2002]
È
il secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha
lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere,
di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia ogni tanto non riesco
ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece, generalmente,
mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su argomento
analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è invece qualcosa
nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si riesca a
leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra lettore e
pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche
personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la pagina
scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta durezza. Una
coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8 anni e Ilaria
di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto, abbandona Olga e
famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di Olga nelle peggiori
paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui non ci si risolleva
più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a farci sentire il
dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella mente di Olga. E ad
ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non capisce i motivi di
Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o sodali nella cerchia
delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più difficoltà a gestire i
figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era stato voluto da Mario,
ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente avventate. Urla, dice
parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di una quindicina di
anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso la quarantina).
Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di testa. Pensa di
potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista Carrano. Fallendo
anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul fuoco. Si scorda
di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta di casa, e spesso
non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del libro e della pazzia,
laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non dico alla normalità,
ma quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci sono formiche in casa,
e Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri dedicati alla sua vita con
Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente, Gianni ha un attacco di febbre
e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche sulla fronte (le solite idee
pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la chiave si blocca e la porta non si
apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui male, anche lui vomita, e Olga
trova l’insetticida mangiato dal povero cane. Ancora più panico, si urla dalle
finestre, il telefono non funziona (il cellulare perché scaraventato giorni
prima contro il muro, il fisso, non avendolo pagato, è stato sospeso). Come
chiamare il veterinario? Come chiamare un medico? Come comperare la Tachipirina
per il malato?. Come chiamare anche il povero Carrano, per essere aiutate?
Parlo al femminile che le uniche persone ancora vigili sono proprio Olga ed
Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o ci si salva o si muore. Fortunatamente,
ma un po’ casualmente nella scrittura, Olga si salva. Non si salva il povero
Otto, che muore avvelenato dall’insetticida. Si salvano (almeno parzialmente) i
figli: di sicuro dalla febbre, ed in parte dalle “pazzie” materne. Un po’
perché ricominciano le scuole, un po’ perché cominciano a frequentare il padre.
Che all’inizio sembra contento, poi capisce che anche quello è un onere. E come
tutte le persone che scelgono le vie più facili, anche se meno intelligenti,
comincia a manifestare segni di indolenza. Olga, invece, alleggerita da questi
pesi di cui si era autocaricata, ricomincia a vedere la luce. Accetta il suo
ruolo di “abbandonata”, non pensa più al suicidio, e più distesa con i figli,
si dispiace (ma in fondo è sollevata) della morte di Otto, e comincia a
frequentare, con molta leggerezza il musicista del piano di sotto. Ripeto, la
scrittura della Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non riesco ad
entrarci bene. Al solito, penso sia il problema di punti di vista
maschili-femminili, dove non è facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga
verso il fondo della pazzia, mi risulta altrettanto semplicistica la risalita
verso la “normalità”. Comunque un forte libro sulla fine dell’amore tra due
persone supposte mature. Dove, e non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille
è il maschio che si perde dietro a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la
scrittrice. Quindi, donne, leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei
bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno
rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)
A. M. Homes “The
Safety of the Objects” Perennial euro 13,50 (in realtà, scontato a 6,30 euro)
[A: 25/06/2015– I: 08/07/2015 – T: 11/07/2015] - &&
e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 173;
anno 1990]
Eccoci
di nuovo ad un libro da viaggio. Stavo trascorrendo un piacevole pomeriggio a
Jackson nel Wyoming, aspettando la fine del bel viaggio americano nei Parchi
degli Stati del West, e, al solito, cercavo un libro che mi legasse un po’ ai
giorni trascorsi. E nella non fornitissima ed anche unica libreria del posto,
trovo questo primo libro di una scrittrice di cui da poco avevo letto altro, e
con gradimento. Preso al volo e letto in un torrido luglio ripensando al fresco
del Montana, l’ho trovato interessante, anche se non all’altezza del primo.
Intanto sono racconti, e questo, come sapete, se non sono scritti
magistralmente (leggi Alice Munro) mi lascia sempre un po’ storto. È inoltre,
come detto, il primo libro della scrittrice, e ne risente in fluidità di
scrittura. Anche in una certa sottolineatura di alcune situazioni, a volte
decisamente forzate al seguire una sua linea descrittiva. In nuce, sono
presenti altri suoi temi (critiche sempre e comunque all’inadeguatezza della
vita americana). Rivolgendo una sguardo alle cose inanimate, che forse ci
possono portare alla salvezza, al miglioramento, quando gli uomini, i pensanti
non riescono a farlo. La scrittura della nostra autrice poi ben si intreccia,
quasi che le tematiche, le tesi che vuole sottendere prescindano dai racconti
stessi e possano essere incastrate in un unico grande romanzo. Tanto che dal
libro ne è stato tratto un film, che fa proprio questa operazione, che cercherò
di ripercorrere, tramando i nove racconti così come fossero una sola scrittura
dedicata agli oggetti, perché sono gli oggetti, le cose inanimate che creano la
spina dorsale della scrittura stessa. Ci si immagina quindi di essere in un quartiere
di periferia, dove troviamo Paul nella sua camera da letto in coma. Ha avuto un
traumatico incidente d'auto (“Esther in the Night”) ed è curato dalla madre,
Esther che standogli vicino, si è isolata ed allontanata dal marito Howard e dalla
figlia adolescente Julie. Cercando di suscitare l'attenzione di sua madre,
Julie la iscrive ad un concorso della radio locale, nella speranza di vincere
una macchina nuova (“The Bullet Catcher”). Nel frattempo, dopo anni che mette
al primo posto della sua vita il suo lavoro, Jim sente che la sua famiglia,
specialmente la sua efficiente moglie Susan, può fare a meno di lui (“Jim
Train”). Egli tenta di interagire con il figlio Jake, sulle soglie della
pubertà, ma il giovane si imbarca in romantiche fantasie che riversa sulla bambola
di plastica di sua sorella minore (“A Real Doll”). Quando Jim viene scavalcato
da un collega nella carriera, smette di andare a lavorare, sostenendo che una bomba
è stata trovata nel suo ufficio. Sentendosi incompreso dalla sua famiglia,
incontra Esther e Julie ed inizia ad aiutarle nel concorso. Intanto la sua
compagnia di pendolarismo sul treno per New York, Helen, sente il passare del
tempo e cerca qualcosa che la renda ancora e nuovamente desiderabile, come ad
esempio una storia di sesso con uno sconosciuto (“Adults Alone”). Ma i suoi
sforzi riescono solo ad allontanarle il marito, che invece la ama così com’è.
Un’amica di Helen, Annette, durante un disastroso divorzio, si sforza di provvedere
al mantenimento delle sue due figlie. Sam, la maggiore, è un maschiaccio, ed è
disperata per dover andare ad un campo estivo (“Chunky in Heat” e “The I of
It”). La sorella minore soffre di disabilità mentale e richiede una
scolarizzazione speciale, che suo padre, l'ex marito di Annette, si rifiuta di
pagare. Annette è anche in lutto per la perdita di Paul, con il quale aveva
iniziato una relazione. Randy, il giardiniere del quartiere, sta vivendo (male)
la morte del proprio fratello minore, morte avvenuta nello stesso incidente
d'auto che ha ferito gravemente Paul. L’ex marito di Annette durante la
periodica visita settimanale alle figlie dichiara di voler prendere Sam per le
vacanze, ma Annette rifiuta sia perché Sam non vuole stare con il padre sia
perché l’ex-marito non vuole prendersi cura della figlia minore (“Yours Truly”).
Sam ascolta la loro lite e fugge quando il padre cerca di parlare con lei. Nella
fuga incontra Randy, che sostiene essere stato mandato dalla madre a
riprenderla (“Looking for Johnny”). Randy porta Sam in una sperduta capanna nel
bosco e la tiene lì, non permettendole di chiamare casa. Inoltre la chiama
'Johnny', come il suo defunto fratello. Dopo circa tre giorni di isolamento, Randy
prende la macchina e si aggira nottetempo per la cittadina, quasi a ricreare la
notte in cui la vita dei personaggi si è incrociata. Quando chiede una birra a
Sam, seduta sul sedile posteriore, e la birra non esplode quando la apre (vedi
sotto il perché) realizza improvvisamente che Sam non è Johnny e la riporta,
incolume, a casa. Esther finalmente arriva alla finale del concorso, quando rimangono
solo in due. Ma non resiste alla tensione (i concorrenti devono toccare la
macchina in palio e chi si stacca perde). Sono ormai tre giorni che sta così,
in piedi, emotivamente provata. Sviene e viene eliminata. Julie si arrabbia e
scappa via. Jim, arrabbiato anche lui perché pensa il secondo premio essere
inadeguato, diventa violento ma viene cacciato da Bobby, il figlio di Helen,
che lavora come guardia di sicurezza del centro commerciale. Esther, tornando a
casa si rende conto di quanto lei abbia trascurato la figlia. Giunta al
capezzale di Paul, tra le lacrime, soffoca il figlio in coma. Anche Jim torna a
casa sua ed al suo lavoro. Helen, infine, quasi tradisce il marito, ma alla
fine torna a casa senza aver compiuto questo passo (“Slumber Party”). Possiamo,
seguendo il film, ipotizzare un finale flashback che spieghi i rapporti tra i
vari personaggi ed il meccanismo dell’incidente d'auto: Randy, Paul, e Johnny
stavano viaggiando in una macchina dopo un concerto della band di Paul. Johnny dà
una birra a Randy e Paul, birra che per gioco aveva agitato. Randy la apre e la
schiuma esplode sulla faccia di Paul che stava alla guida (così si spiega cosa
faceva Randy con Sam). Un'altra macchina viene dalla direzione opposta, dove
sono Julie e Bobby, che guida come un pazzo per portare la ragazza a casa prima
dell’ora impostale dai severi genitori. I due piloti (per la birra e la fretta)
si distraggono, sterzano improvvisamente e l’auto di Paul ha la peggio. Randy e
Julie saranno per sempre rosi dai loro sensi di colpa. Alla fine comunque tutti
i personaggi mostrano una migliore comprensione degli effetti che gli oggetti
inanimati (birre, auto, bambole, trucchi, ed altri) hanno sulla loro vita. E
forse, ne usciranno migliori. Così come speriamo migliori la scrittura della
nostra brava newyorchese che aspetto ad altre e più consistenti prove.
Elena Ferrante “Storia del nuovo cognome” E/O s.p. (regalo di
Rosa&Emilio)
[A: 07/05/2015– I: 26/07/2015 – T: 01/08/2015] - &&&&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 470;
anno 2012]
E
siamo al secondo volume della tetralogia di Elena Ferrante (su cui non ritorno)
dedicato all’amicizia. Chi mi legge assiduamente sa che del primo volume
(sempre regalo di Rosa & Emilio che spero ora mi regalino anche gli altri),
letto lo scorso anno, ho apprezzato la scrittura, potente e fluida, ma il libro
in sé non mi aveva convinto del tutto. Qui siamo senz’altro in ripresa. Sarà
forse che le protagoniste crescono e le loro storie mi avvincono più delle
vicende infantili (cioè dell’infanzia) narrate nel primo. Sarà che esce di più
la personalità della scrittrice, dell’io narrante, questa Elena Greco che
cerca, attraverso lo studio di uscir fuori dal mondo chiuso e gretto del rione
di Napoli che ne ha visto i natali (uscire per poi apprezzare il buono che
comunque quel mondo le ha dato). Sarà anche che Lila, l’amica geniale (che non
mi sta per ora proprio simpatica) è a volte più sullo sfondo, anzi talvolta
viene lasciata da parte per pagine e pagine. Pur se la sua presenza, ed il
rapporto simbiotico palesemente nascosto tra Lila e Lenù è sempre vivo e sempre
fa da filo rosso della storia. Se devo fare solo una prima critica personale,
mi trovo in difficoltà con tutti i personaggi che girano introno alle pagine.
Certo, alla fine delle quasi 550 di questo libro, molti hanno ormai una loro
caratteristica, una loro presenza, anche se tuttora, dopo due libri, continuo a
confondere Antonio ed Alfonso. Ed anche se c’è una specie di indice dei
personaggi all’inizio del volume, riesco sempre a mescolare i parenti tra di
loro. Anzi mi sfugge spesso chi è parente a chi. Comunque, si terminò il primo
volume con il matrimonio di Lila che poco aveva convinto Lenù. In tutto questo
secondo volume assistiamo alle due parabole di vita che coinvolgono le due
amiche, tra discese ardite e le risalite (come diceva Lucio). Lenù come detto
studia, anche se all’inizio con fatica. E ribadisco che vede lo studio solo
come mezzo di uscita dalla vita che sta vivendo, anche se non focalizza uscita
per dove e da dove. Si illude di voler bene ad Alfonso (o era Antonio?) ma è
fumo. Per 2/3 invece parla del suo trasporto verso Nino, che nel primo l’aveva
baciata. Che ora è universitario, che fa grandi discorsi politici (siamo
comunque nei primi anni ’60). Nino che ritrova in vacanza ad Ischia, che lei
cerca in tutti i modi di conquistare. Ma Nino non se la fila de pezza, perché
invece è preso, e da sempre da Lila. Delusione tremenda, tanto che Lenù si
concede addirittura al maturo padre di Nino per perdere la verginità. Poi però
passa la maturità con buoni voti, tanto che partecipa al concorso e vince una
borsa di studio per la Normale di Pisa. L’ultimo terzo del libro è quindi
narrato un po’ su ricordi, e molto su quanto poi apprenderà al ritorno dalla
città degli studi. A Pisa, fa vita libera, finalmente lontano dalla madre
oppressiva. E soprattutto dalla presenza di Lila che ogni volta la tarpa. Così
che riesce anche a scrivere un corto libro (137 pagine, dice) trasponendo le vicende della sua pur breve
vita. Ed il suo ultimo amore, tal Pietro di Genova, dai buoni natali e dai
buoni contatti, riesce a farlo pubblicare. Dall’altra parte vediamo la parabola
inversa di Lila, che si accorge ben presto di non amare Stefano, di aver
pensato di sposarlo per raggiungere una agiatezza economica che le consenta di
uscire dal suoi mondo chiuso e gretto (quello che Lenù vuole ottenere con lo
studio). Ma non è la “sua” vita quella di bottegaia di salumeria, o anche di
padrona di negozio di scarpe. E non riesce a far figli con Stefano. E sono
proprio le vicende dei negozi che complicano tutto (ed i soldi a quello
legati). Con il suo modo “strampalato” di vedere le cose, che solo Lenù riesce
a decrittare, si inimica Pina, poi Carmen, litiga sempre di più con i Solara (i
mafiosi del rione), e soprattutto si avvia verso la rottura con Ada. Come
detto, ovvio, ha delle uscite geniali. Il primo modello di scarpe, l’arredo del
negozio. Ma è un giullare, capace di singole imprese mirabili ma a cui manca la
continuità. E quando ad Ischia ritrova Nino, un’altra persona capace di
risvegliare il suo lato geniale, si dà fino in fondo all’amore proibito. Pur
sapendo che Lenù è presa da Nino, lo vuole per sé, lo prende. E tornata a
Napoli continua ad averlo come amante. Tanto che finalmente rimane in cinta. Ma
quando decide di fuggire con Nino, la quotidiana convivenza sopravvivrà solo 23
giorni. Troppo forte il suo carattere. Per chiunque. Ed anche Nino si perde e
fugge. Lila torna per un po’ con Stefano. Partorisce Rinuccio, il figlio di Nino.
Cerca di sopravvivere. Ma intanto il marito si era già allontanato, instaurando
una tresca stabile con Ada. Allora si, che Lila e Rinuccio fuggono,
rifugiandosi dall’amico Enzo, in un rapporto di convivenza e di amicizia senza
sesso. Anche se Enzo è da sempre innamorato di Lila. Il libro si chiude con un
dibattito in una libreria di Milano per la presentazione del libro di Lenù. E
sull’intervento, più o meno critico, che fa uno spettatore. Che guarda caso è
proprio lo scomparso Nino. Mi accorgo, rileggendo, che ho narrato la storia a
modo mio. Saltando molte parti. Ma questo è il mio modo di tramare. Non è detto
che si debba fare un riassunto del libro. Io tiro fuori quelle bolle che le
parole mi hanno fatto scaturire. Saltando, tralasciando, fissandomi magari su
elementi marginali, che a me hanno comunicato qualcosa. Ed alla fine, sono
comunque contento di aver avuto questo regalo che mi ha forzato a leggere
questo secondo libro. E mi ha incuriosito di sapere cosa succede negli altri.
Essendo
questo novembre trascorso molto altrove, solo in quest’ultima settimana vi
posso deliziare con una nuova puntata delle cure libropeutiche, anche se
l’argomento ed il commento non sono centrati come al solito.
Si
affaccia quindi un operoso dicembre, forse anche affollato, crescendo bambini
ed aumentando viaggi. Che l’anno nuovo si dovrebbe iniziare a Cuba, e questo
vecchio finirlo un po’ come si era cominciato or saranno cinquantacinque anni
fa. Io continuerò ad essere misterioso, come sono e fui.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NOVEMBRE 2015
Per questo novembre passato
nell’India mistica, le nostre ineffabili curatrici ci propongono opportunamente
un discorso sulla fede. Anche se vista da diversi angoli, e se dobbiamo sempre
chiederci cosa intendiamo con questo “nome”.
FEDE, PERDERE LA
Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen”
William Peter Blatty “L’esorcista”
Rachel Joyce “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry”
Per
alcune persone, avere fede significa credere in Dio, per altre significa
credere che la vita abbia un senso e per altre ancora significa credere nella
bontà del mondo. Qualunque cosa significhi per voi, perdere la fede può
spegnere la luce nella vostra vita. In momenti del genere abbiamo bisogno di
romanzi che ci restituiscano ai principi di cui abbiamo bisogno per trovare
sostegno, se vogliamo andare avanti con gioia e con fiducia. La nostra cura
prevede tre approcci diversi alla fede; scegliete quello che sembra più adatto
a voi.
Se
per voi la fede è il trionfo delle convinzioni personali sul dato scientifico, “Pesca al salmone nello Yemen” diventerà
la vostra Bibbia. Quando Fred Jones, funzionario responsabile del Centro Nazionale
per l’Eccellenza nel settore della pesca, riceve una lettera che chiede il suo
aiuto per introdurre il salmone, e la pesca al salmone, nello Yemen, lui fa
quello che farebbe ogni scienziato che si rispetti - rifiuta. È «senza senso» -
«risibile» - sfidare le leggi della natura per il capriccio di uno sceicco con
troppi soldi e privo di cultura. Questo, però, succede prima che Jones incontri
lo sceicco Muhammad e scopra il potere di un uomo determinato. Lo sceicco
Muhammad infatti è un visionario e, come il dottor Jones presto si renderà
conto, non si tratta tanto di pesca quanto di fede. Questo rassicurante romanzo
servirà a rinnovare la vostra convinzione che la fede, come si sa, può spostare
le montagne.
Se
è la vostra fede in Dio a essere messa in dubbio “L’esorcista” vi procurerà una scossa elettrica lungo la colonna
vertebrale così forte che potrebbe anche bastare a farvi cambiare idea. In
questo agghiacciante romanzo - forse il più terrificante che conosciamo - una
madre si convince sempre di più che la figlia, Regan, sia posseduta e in preda
alla disperazione fa venire a casa Padre Karras. Anche lui, in quel momento,
sta mettendo in discussione la propria fede in Dio, ma l’orrore tangibile e
infernale che vede agire nella povera Regan afferma con tale chiarezza la
presenza del Diavolo che l’uomo ricomincia a credere all’esistenza del Bene e
del Male. Il romanzo potrebbe farvi lo stesso effetto.
Se
invece avete smarrito il senso di tutto - e pensate che non ha più importanza
nemmeno essere buoni o cattivi - possiamo proporvi una cura più leggera. Harold
Fry è un pensionato dai capelli grigi, scoraggiato, che a stento scambia
convenevoli con la moglie e che ha perso i contatti con il figlio adulto.
Quando riceve una lettera dalla sua vecchia amica Queenie e viene a sapere che
sta morendo di cancro, le scrive una cartolina e va subito a imbucarla. Durante
il tragitto gli rimane in testa una conversazione del tutto casuale con una
benzinaia (la «ragazza del garage»), e quando arriva alla cassetta delle
lettere invece di imbucare la cartolina continua a camminare – e fa tutta la
strada da Devon a Berwick-on-Tweed, in effetti, dove vive Queenie, sempre più
convinto che finché camperà per raggiungere l’amica lei resterà in vita.
Durante
quel viaggio, la fede di Harold viene messa alla prova molte volte, ma lui crede
nella Provvidenza, non prende mai più di quanto gli serva, dorme all’aria
aperta piuttosto che nelle case della gente e diventa sempre più simile a un
pellegrino di un’altra epoca. Alla fine i media si accorgono di lui e presto
diventa famoso proprio come «il pellegrino»: tutti vogliono toccarlo ed essere
toccati da lui. La fede, a quanto pare, è contagiosa. Sua moglie Maureen si
innamora di nuovo di lui, a distanza, e Queenie... Beh, non vi resta che
leggere e scoprirlo.
Nei
momenti di maggiore desolazione, quando avrete perso la fede nella vita, in
Dio, nell’amore, in qualcun altro o in voi stessi, rivolgetevi a questi romanzi
per affermare di nuovo alcune verità fondamentali. Perché la ragazza del garage
ha ragione: «Se hai fede, puoi fare qualunque cosa».
Bugiardino
Non ho letto, anche se ci farò un
pensierino, il libro di Rachel Joyce. Ma soprattutto non ho né letto il libro
né visto il film dell’indemoniata Regan. E ancora più fermamente non credo che
lo farò in futuro. Per cui, mi rimane nel solco della fede di cui si parla
sopra, lo strano libro di Paul Torday sul salmone e lo Yemen. Che ha un pregio
diverso, per me, dove cerca di mettere in crisi tutto un modo di affrontare la
politica estera da parte dei paesi occidentali. Certo c’è anche lo sceicco, e
la sua fede nella sua idea. Ma vediamo meglio.
Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen” LIT euro 9,90
[pubblicato il 30 agosto 2015]
Anche
questo è uno di quei libri che non sarebbero entrati nella mia copiosa
biblioteca senza la spinta di opportuni e mirati suggerimenti. E bene ho fatto,
che, anche se non è un libro stravolgente, mostra una indubbia capacità
dell’autore di cogliere aspetti assurdi della vita, trattarli con efficacia e
costruirvi intorno un libro rimarchevole. Peccato che poco dopo la
pubblicazione di questa opera prima (scritta dall’autore già sessantenne) il
nostro Torday muoia di un male incurabile. Anzi, è proprio questa malattia che
lo aveva spinto, lui industriale di discreto successo nel campo petrolifero, a
riprendere in mano la sua passione giovanile e dedicarsi alla scrittura. Ma non
parliamo degli altri suoi lavori, rimaniamo a questo, ed alla sua natura eclettica
ed umoristica. Che inizia già dal titolo che ci cattura: pesca al salmone nello
Yemen? Infatti, se doveste immaginare di pescare salmoni – un pesce tipico di
corsi d’acqua freddi e impetuosi, generalmente molto nordici – in un polveroso
uadi tra gli infuocati canyon delle montagne dello Yemen penserete tutti ad un
errore. Una cosa fuori da ogni logica, senza alcun senso, priva di qualsivoglia
razionalità, scientifica, biologica. Un’assurdità, insomma. In effetti è la
stessa opinione che matura il professor Fred Jones, idrobiologo dell’ENPI –
l’ente per la tutela e lo sviluppo del patrimonio ittico nei fiumi. Lo pensa
fin da subito, ne andrebbe peraltro del proprio onore scientifico imbarcarsi in
una assurdità del genere e non lo ritiene proprio il caso, dato che pure la
vita privata non gira certo nel migliore dei modi – Mary, la moglie, è una
donna in carriera alla quale prospettano un prestigioso trasferimento
all’estero che lei decide di accettare subito, palesando così la fragilità del
rapporto matrimoniale con Fred, probabilmente fin dall’inizio mancante di
autentico amore e semmai soprattutto conveniente e “funzionale” ad entrambi.
Una crisi matrimoniale in piena regola, insomma, durante la quale il professor
Jones, gioco forza costretto dai suoi capi a prendere in mano il folle progetto
di introduzione del salmone nello Yemen, conosce il fautore di esso, lo sceicco
Muhammad ibn Zaidi, ricchissimo yemenita con la passione per la cultura
britannica e, ancor più, per la pesca sportiva nei fiumi di Sua Maestà: una
persona affascinante, visionaria e spiritualmente assai profonda. Ma,
soprattutto, Jones conosce la giovane e bella Harriet, dipendente della società
incaricata dallo sceicco di realizzare materialmente il progetto, della quale,
stante la sua situazione matrimoniale e nonostante lei sia già impegnata con
Robert, un ufficiale dei Royal Marines di stanza in Iraq, ben presto si
innamora. Noi seguiremo tutta l’intricata vicenda attraverso quello che è uno
dei punti forza del romanzo: la sua particolare struttura narrativa. Il
progetto che dà il nome al libro viene infatti raccontato al lettore prima
attraverso le pagine del diario personale di Fred, poi dalle lettere di
Harriet, poi dalle mail tra Fred e Mary, dallo scambio di mail tra l'ENPI e il
Ministero dell'Ambiente e dell'Agricoltura, dalle note del Ministero degli
Esteri, da stralci di giornale, dalle lettere secretate di Robert dall’Iraq,
dai resoconti stenografici delle Commissioni Parlamentari. Seguiamo il progetto,
passo dopo passo, dalla sua ideazione fino alla sua concreta, ma non priva di
ostacoli, realizzazione. Un invito, in altre parole, a cercare di dare sempre
il meglio di noi stessi, anche quando tutto sembra andare per il verso sbagliato.
È comunque ed alla fine un tentativo non solo di dare un senso umoristico al
tutto, ma anche di critica sociale (castiga ridendo mores, che, ricordo ai più
smemorati, non è una tradizione del latino antico, ma una frase del latinista
francese del XVII° secolo, Jean de Santeul). Dalle manie di successo della
moglie Mary, agli strani comportamenti di fondamentalisti mediorientali, dalle
follie della politica estera britannica ai comportamenti giornalieri di chi
quella politica dovrebbe attuarla per il bene della patria. terminando,
realisticamente, con una citazione di Tertulliano che riassume sia il senso del
progetto “Salmone” sia quella della vita dei protagonisti: Certum est quia
impossibile est (è certo perché è impossibile). Solo nel finale, il nostro
Torday si incarta un po’, ma non ci saremmo mai aspettati un lieto fine da
tutta la storia. E così sarà, anche se vi esorto a leggere il libro per
scoprirne meglio tutte le sfumature. Vale la pena.
Conclusioni
Per quanto detto
nell’introduzione al bugiardino, e per quanto mi consentono le mie capacità di
cui so bene i limiti, non mi addentro in un discorso più dettagliato su cosa
sia fede, su cosa rappresenti nella testa e nel cuore di ognuno di noi, e cosa
possa voler dire la sua scomparsa dall’orizzonte dei nostri punti ideali. Mi
limito a sottolineare quanto detto nella trama, dove il detto di Tertulliano
penso sia riproponibile anche per gli altri libri citati e non letti.
Soprattutto perché Tertulliano è un apologeta cristiano del II° secolo, nato e
vissuto in Tunisia.