Con un conto alla rovescia: quattro trame,
tre autori, due premi Nobel ed uno io, vostro tramatore che con ardire (ed incoscienza)
ne parla (anche) male. Perché leggere non è solo una questione di testa. E se
la testa gode su Garcia Marquez o su Hesse, la pancia resta fredda. Si scalda
un po’ per il giapponese (che prima o poi avrà anche lui il suo bel Nobel), ma
poi neanche tanto. In ogni caso, vi prego di leggere di Haruki, che tanto mi ha
impegnato sia in lettura che in scrittura. Ci vuole poi qualcuno che ne prenda le
difese, di questi autori così bistrattati…
Gabriel Garcia Marquez “L’autunno del patriarca” Mondadori euro 9 (in
realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 12/04/2016– I: 12/05/2016 – T: 19/05/2016] - & e ½
[tit. or.: El otoño del
patriarca; ling. or.: spagnolo; pagine: 216; anno 1975]
Sarà pure consigliato dalle
libropeute di cui (abbastanza) mi fido, e sarà inoltre stato scritto da un
Gabbo appena uscito da un trip super-vincente come quello di “Cento anni”, e
sarà che il nostro grande colombiano ha impiegato anni e anni per scriverlo,
insomma sarà quel che sarà stato, ma devo dirlo subito (e lo avrete anche
capito dal voto): non mi è piaciuto. Ho trovato difficile la lettura, poco
coinvolgente, un lungo pamphlet contro il potere e le sue degenerazioni,
trasfigurato nella lingua come solo Gabbo sapeva fare. Ma non ce la posso fare
a sostenere con piacere dei periodi così lunghi senza punti che Marcel Proust
si sta ancora rivoltando nella tomba cercando di leggere questo scritto, senza
però riuscire a trovarne piacere. Come purtroppo è successo a me. Di certo è un
libro complesso, di certo è un libro che è frullato nella testa dell’autore per
anni ed anni. Ne parla alla moglie nel ’58, inizia a scriverne nel ’68, lo
termina solo nel ’75. Diciassette anni, amici miei, non è certo poco. Per una
serie di scelte personali poi Gabbo decide di farne un libro diverso dai
precedenti, risultando in una specie di flusso di coscienza, joyciano di
impianto con “lunghissimi periodi pieni di subordinate che compongono anacoluti
interminabili”, mescolando inoltre persone di riferimento, passando da punti di
vista differenti, anche all’interno della stessa frase. Alla fine, i critici
che sanno ben parlare, lo descrivono come un libro barocco, e forse lo è, e
proprio come il barocco per questo risulta distante dal mio sentire. Posso
guardare un’architettura barocca, anche con piacere, ma non sono mai riuscito
ad amarne una. Il nostro narratore, in questo lungo canto di morto di questo
fittizio dittatore caraibico (che mescola in sé tratti dei peggiori dittatori
sudamericani: da Marcos Pérez Jiménez venezuelano, a Rafael Trujillo della Repubblica
Domenicana, da Fulgencio Batista cubano a Anastasio Somoza García del Nicaragua)
ce ne prospetta tutte le venature e le sfaccettature, l’ipocondria, la mania di
persecuzione, la ricerca del piacere sessuale ad ogni costo (in alcune parti
sembra leggere con venticinque anni di anticipo alcune vicende italiane), la
repressione, la venerazione verso la madre (e non mi ripeto). Insomma di tutto,
di più. Faccio un solo esempio, del parossismo dittatoriale. Periodicamente
(ogni mese, ogni settimana, non si capisce) avviene l’estrazione della
lotteria. Tre bambini estraggono tre palle numerate da tre sacchetti.
Ovviamente, le palle sono state tenute giorni in frigorifero così da essere più
fredde delle altre. Ovviamente, il numero è quello del biglietto del
presidente. Ovviamente i bambini vengono sequestrati per non far rivelare
l’imbroglio. Ovviamente, ad un certo punto, i bambini sono talmente tanti che
non si gestisce più la situazione. Vengono messi su macchine di spostamento
(treni, aerei, navi) e fatti saltare in aria. L’unico (poco) respiro al testo
viene dato dalla suddivisione in sei capitoli, anche se non numerati, dedicati
ognuno ad uno degli aspetti della vita del dittatore. Anche se ogni capitolo si
apre con la descrizione delle scene del palazzo che si presentano a coloro che,
a causa di un lungo silenzio, si accorgono che il dittatore è morto. Poi ogni
pezzo di storia va per la sua strada. Nel primo si narra del sosia del
dittatore Patricio Aragonés, che lo sostituisce in pubblico e che morirà anche
al suo posto, così da permettergli di inscenare la scena di un funerale che dovrà
essere replicata alla sua vera morte. Nel secondo si narra della sua passione
senile per la bellissima Manuela Sánchez, in onore della quale riuscirà ad
organizzare un’eclisse di sole, durante il cui tempo oscuro Manuela riesce a
fuggire, lasciando in pianti e rimpianti il dittatore. Nel terzo si gustano le
vicende del generale Rodrigo de Aguilar, suo maggior secondo, quello letterato,
che il nostro dittatore, sorto al potere dopo un colpo di stato, non sapeva
leggere (glielo insegnerà Leticia) ed era solo dotato del fiuto per il potere.
Mentre tutto veniva fatto e disfatto da Rodrigo, che ovviamente ad un certo
punto complotterà contro il dittatore, e questi lo farà servire cotto a mo’ di
porchetta ad un pranzo di palazzo. Nel quarto c’è il lungo panegirico per le
gesta e l’amore della madre, Benedición Alvarado, umile popolana che non capirà
mai né il potere né i soldi che ha, continuando a (fingere di) campare vendendo
uccelli dipinti al mercato. Questo capitolo contiene anche il lungo tema della
rottura dei rapporti tra il dittatore ed il Vaticano, quando tenta di
convincere il papa a canonizzare la madre. Tematica che si riallaccia nel
capitolo seguente perché la cacciata delle suore permette al dittatore di
vederne una, nuda, e di invaghirsene tanto da rapirla. È Leticia Nazareno, che
prima resisterà al dittatore, poi ne diventerà la moglie legittima, gli darà un
erede, farà di tutto per far tornare i papisti nell’isola, fino a morire (non
si sa se per colpa dei nemici o degli amici del dittatore) sbranati lei ed il
figlio, da una muta di cani. A questo episodio si collega l’ultimo capitolo,
con le tremende repressioni, uccisioni e torture guidate da José Ignacio Saenz
de la Barra, che fanno piombare il paese in un clima di terrore. Ed ovviamente
di povertà, tanto che il dittatore dovrà vendere tutto, anche il mare, agli
americani. Per poi trovare in Ignacio il capro espiatorio su cui far convergere
l’ira dei cittadini, invece che verso di lui. Così che alla fine, come pochi
dittatori (ed a mia memoria solo Francisco Franco in quelli dell’area ispanica)
muore nel proprio giaciglio. Tuttavia, questa difficile ed anche compendiosa
ricostruzione è merito di letture trasversali, ricostruzioni mentali del vostro
tramatore, nonché della bellissima e difficilissima introduzione al libro di
Cesare Segre. Al quale rendiamo omaggio, come rendiamo omaggio alla fatica del
bravissimo spagnolista Enrico Cicogna per una traduzione che non esito a
pensare di grande difficoltà. Ma ripeto, non è un libro che mi è piaciuto, non
è un libro che consiglierei di leggere a cuor leggero. Certo, è un libro
importante, e si può capire come l’autore sia degno di aver vinto il Nobel.
Tuttavia, se oltre la testa i libri devono nutrire la pancia, questo fallisce
il suo scopo. À la proxima, Gabbo!
Hermann Hesse “Narciso e Boccadoro” Mondadori s.p. (prestito di
Alessandra)
[A: 13/02/2016– I:
20/05/2016 – T: 30/05/2016] - & e ½
[tit. or.: Narziss und Goldmund; ling. or.: tedesco; pagine: 264; anno 1930]
Non
sono qui certo per discutere la bravura della scrittura del premio Nobel
tedesco, né la sua capacità di riempire le pagine di idee sul mondo, la vita e
tutto il resto. Lo sa bene chi ha letto “Siddhartha”, sicuramente. Però ci sono
i due soliti livelli di interpretazione, quella cerebrale e quella personale.
Se sulla prima torneremo a lungo, è questa seconda che è rimasta insoddisfatta.
Sì la storia, come storia in sé, si legge, scorre, ma non mi ha coinvolto, mi è
rimasta lì, come una bella tela su cui posare gli occhi. Una Cappella Brancacci
di Firenze piuttosto che la chiesa di Auvers dipinta da Van Gogh. Certo, la
capacità stilistica di Hesse è indubbia, che, narrandoci le avventure dei due
amici, tanto altro ci fa scorrere sotto gli occhi. Siamo nel Medioevo, dove la
nostra storia comincia nel convento di Mariabronn. Narciso è un giovane
studioso, stimato per la sua erudizione e saggezza, nonché per la sua profonda
fede. Nel convento entra come studente Boccadoro, lì costretto dal padre. I due
coetanei, si trovano, si riconoscono opposti ma simili nella ricerca di
qualcosa. E nasce un’amicizia per la vita. Boccadoro è tormentato dalla figura
della madre, morta prematuramente, e che cercherà per tutta la sua vita.
Narciso è pieno di fede e buoni propositi, sa scrutare dentro la gente, e, capendo
inutile la vita religiosa per Boccadoro, gli parla di quella che secondo lui è
la natura dell’amico: le arti e la creatività. A seguito di un (piacevole)
incontro sessuale, Boccadoro decide di andare per il mondo alla ricerca di sé.
È piacente, sa parlare, sa farsi ben volere. E soprattutto, sa conquistare le
donne. Si ferma in un castello dove seduce Lidia, la figlia del castellano.
Scoperto deve fuggire, deve salvarsi la vita errando, rubando ed uccidendo,
fino a trovare un maestro nello scultore Nicola, di cui diventa allievo. Presso
Nicola, realizza una stupenda statua di San Giovanni con le fattezze di
Narciso. Nicola lo vorrebbe genero, ma Boccadoro irrequieto riprende il
cammino, giunge in un paese colpito dalla peste, dove si innamora riamato della
bella Lena, che presto soccomberà alla pestilenza. Boccadoro riprende allora il
cammino, si innamora di Agnese, la donna del governatore. Scoperto è messo a
morte, ma per la sua ultima confessione ritrova Narciso, diventato abate del
convento di Mariabronn. Narciso intercede per l’amico, gli salva la vita, e lo
ospita in convento. Qui ha luogo un secondo lungo confronto tra i due, dove
Boccadoro cerca di spiegare l’arte, la creazione, la bellezza terrena all’amico
abate, che vive una vita serena, lontano dai turbamenti del mondo. E
l’inquietudine non ferma Boccadoro, che di nuovo si mette in cammino, cerca di
riprendersi Agnese, ma ora non è più il bel giovane di un tempo. Deve fuggire,
cade da cavallo ferendosi mortalmente, ed andando a morire da Narciso. Lì ci
sarà l’ultimo confronto dialettico tra i due. Ma ora Boccadoro, fatte tutte le
sue esperienze, e ritrovando in sé i segni della madre perduta (madre reale o
madre spirituale che sia), muore serenamente, lasciando Narciso a vegliare
sulle sue ultime ore, meditando sulle ultime parole dell’amico: “Senza madre
non si può amare. Senza madre non si può morire”. Sembra un racconto epico,
pieno di azione, ma solo perché lo riduciamo ad un sunto veloce. Tutto, le
azioni, le parole, i confronti tra i due, rimandano sempre ad altro. Qui viene
quella parte cerebrale, il contesto del testo, il rimando costante sia a Jung
(presso cui Hesse fece sessioni di analisi), di cui qualcosa intuisco, sia a
Nietzsche, che poco conosco e di cui molto mi sfugge. La metafora che mi suona
dentro l’ho capito dopo aver letto il libro, quando ho ripreso a camminare, in
tutti i sensi. La ricerca della propria identità attraverso l’azione del
camminare, sia in senso materiale verso l’arte e la creazione sia in senso
spirituale verso sé stessi. Qualcuno più aduso di me alla filosofia che ne esce
fuori parla (e non posso che convenirne) come di un lungo confronto tra
l’individualità dell’uomo (punto di partenza di ogni caso, per cui non si può
che partire da sé stessi per poter camminare) e l’armonia dell’universo (punto
d’arrivo per chi, come Siddhartha, comprende la verità delle cose). E non a
caso cito il protagonista dell’altro e più famoso testo di Hesse, che a quello
questo rimanda idealmente. Ma se quello mi prese, per la sinteticità e
l’immediatezza della scrittura, questo mi lascia esterno ed un poco freddo.
Certo, qualcosa gira nella testa, ma la pancia rimane lontana. Senza nessuna
farfalla che ne fa vibrare i sensi.
“Ogni uomo corre senza posa e si trasforma e
infine si dissolve, mentre la sua immagine, creata dall’artista, rimane sempre
immutabilmente la stessa.” (130)
“Solo la scissione e il contrasto rendono
ricca e fiorente una vita.” (162)
“Non c’è una felicità che duri a lungo.”
(176)
“Così era stata tutta la sua vita: prendere
congedo, fuggire, essere dimenticato, rimanere a mani vuote e col cuore
gelato.” (231)
“Poi si meravigliava a un tratto di trovarsi
lì seduto, come un vecchio, a raccontare di viaggi e di vicende del passato,
mentre la sua vita doveva cominciare proprio allora.” (238)
Haruki Murakami “1Q84” Einaudi euro 26 (in realtà scontato 22,10 euro)
[A: 25/09/2014 – I: 20/05/2016 – T: 01/09/2016] - &&&
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[tit. or.: 1Q84 –
Ichi-kew-hachi-yon; ling. or.: giapponese; pagine: 1157; anno 2009]
Diciamo
subito che è un libro complesso, soprattutto per la mole di pagine che mette in
gioco. Tanto che l’autore decise, con l’editore, di farlo uscire in tre volumi.
Anzi, per la precisione, Murakami pare avesse deciso di fermarsi ai primi due
(e poteva essere quella una fine possibile) e solo in un secondo momento
completò l’opera con il terzo. La scelta multi-volume è ora riproposta anche da
Einaudi, dopo una prima uscita in due volumi separati. Si diceva subito, libro
complesso e dai molteplici spunti (che spero qualcuno esca fuori da queste
righe). Comunque, su tutti, è ovvia la discendenza dalla distopia di Orwell
contenuta in “1984”. Tra le molteplici discendenze da Orwell, devo subito fare
un plauso a Haruki per l’idea del titolo. In Giapponese (come tutti sanno) 9 si
pronuncia “kyuu”, con una dizione molto simile alla Q. Lettera che poi è
l’iniziale di “question mark”, punto interrogativo. L’autore quindi, da un lato
vuole fare un omaggio – rivisitazione del libro di Orwell, dall’altro si
interroga di dove si sia noi realmente (e vedremo che questo non è un aggettivo
casuale), mettendo appunto il “?”. Ci sono altri due grandi punti di contatto
che citerei subito. L’inizio delle storie, entrambi i libri infatti cominciano
nell’aprile del 1984. E la dipendenza, la discendenza della storia da un libro
che transita tra le mani del protagonista. Qui c’è “La crisalide d’aria” di cui
parlo più estesamente nel proseguo. In Orwell, c’è il libro che Winston legge
per iniziare la sua opposizione al regime del “Grande Fratello”: “Teoria e
prassi del collettivismo oligarchico”. Non entro maggiormente nella struttura
del libro di Orwell che tanti hanno meglio di me letto ed analizzato. Poiché
qui ci dedichiamo a questa nostra distopia giapponese. Facendo comunque
un’osservazione preliminare: qui, come in molte delle opere di Haruki, il
Giappone è in un certo senso “modificato”, influenzato dalle esperienze
occidentali che lo stesso autore ha avuto nel corso degli anni. Non è il
Giappone di Banana, che mi rimanda quello che ho visitato alcuni anni fa (e
dove spero di tornare). È anch’esso una fantasia, un luogo – nonluogo (un’utopia,
per chi sa di greco). Ed è per questo che risulta alla fine un posto in cui
anche noi, non giapponesi, possiamo stare, possiamo vivere. Un posto dove le
nostre fantasie, i nostri momenti reali ed irreali hanno comunque un loro
senso. Ma sul senso e sul realismo spero di tornare alla fine di questa storia.
Proviamo per ora ad entrare nei diversi libri, cercando di uscirne prima delle
più di mille pagine che ci propone l’autore, ricordando solo che nei primi due
libri ci sono 48 capitoli, 24 visti dall’ottica di Aomame e 24 in quella di
Tengo, mentre nel terzo ci sono 31 capitoli: 10 nell’ottica di Aomame, 10 in
quella di Tengo, 10 in quella di Ushikawa ed 1 di coppia. Inoltre ogni capitolo
ha un titolo, che sarà poi una frase contenuta nel capitolo stesso. E mi fermo
qui nell’analisi meta testuale.
Libro Primo (Aprile – Giugno)
[pag. 5 – 393]
Mi
soffermo un attimo ancora sull’attacco del libro che ci dà alcune chiavi
importanti per la sua comprensione. Siamo nell’aprile 1984 (data importante
come rilevato sopra), ed incontriamo uno dei due protagonisti, la trentenne
Aomame Masami. Sta andando ad un importante appuntamento, ma è imbottigliata
nel traffico. Sta in un taxi, dalla cui radio esce una musica che lei riconosce
subito essere la sinfonietta di Janacek, oscura musica scritta nel 1926. Qui
abbiamo il primo colpo dello scrittore alle sicurezze ed al reale. La musica
non è particolarmente nota (l’ho ascoltata e non mi ha fatto una impressione
stravolgente), ma Aomame la riconosce. Haruki già nelle prime righe ci invita
ad una sospensione del reale. Non sappiamo come (né mai lo sapremo) ma Aomame
riconosce la musica. Quindi guarda ad un tabellone pubblicitario della Esso,
con la famosa “tigre nel motore”. Altro elemento importante: la presenza della
pubblicità, che ridà il realismo ad un mondo che potremmo pensare immaginaria.
Invece qui, ed in molte parti del romanzo, i marchi, il marketing è presente. Vorrà
dire qualcosa? Per non tardare all’appuntamento Aomame scende dall’auto ed
imbocca una scala di sicurezza che dalla soprelevata la porterà alla
metropolitana. Qui c’è lo spostamento definitivo del reale: come attraversando
una porta magica, Aomame entra in una diversa realtà, un mondo parallelo dove
tutto è quasi uguale al mondo che lei conosce. Ma solo quasi. Ad esempio i
poliziotti hanno armi diverse da quelle standard. Da qui si diparte la storia
di Aomame, che in realtà è un killer professionista che per conto dell’anziana
e ricca vedova Ogata uccide uomini che hanno commesso atti contro le donne e che
sono rimasti impuniti. Parlando con Tamaru, la guardia del corpo di Ogata,
scopre inoltre l’esistenza di avvenimenti che non ricorda, confermando nella
sua mente l’irreale passaggio in una realtà diversa. E scopre anche l’esistenza
in questa realtà di due lune. Noi scopriamo inoltre che lei non ha legami
fissi, essendo ancora innamorata di un ragazzo che le strinse la mano quando
aveva 10 anni: Kawana Tengo. Piccola parentesi: soggettivamente rilevo
l’importanza del linguaggio dei corpi nei rapporti umani (se ce n’era bisogno).
Aomame si fa amica della poliziotta Ayumi, e conosce la bimba Tsubasa, fuggita
dalla setta Sakigake dopo essere stata abusata dal Leader della setta stessa.
In parallelo alternato seguiamo anche la storia proprio di Kawana Tengo, insegnante
di matematica (un punto a suo favore) ed aspirante scrittore (altro punto). Per
una serie di vicissitudini viene coinvolto nella riscrittura di un romanzo
molto curioso scritto dalla giovane Fukaeri “La crisalide d’aria”. La giovane,
essendo dislessica, l’ha dettato alla figlia di un professore ex-amico del
padre. Mentre vanno a trovarlo, Tengo ricorda la sua giovinezza, legata ai giri
che faceva con il padre esattore delle tasse, e l’incontro con una ragazza che
girava con i genitori Testimoni di Geova. Ovvio che la ragazza è Aomame, e che
Tengo ne sia ancora innamorato. Il professore racconta che Fukaeri è figlia del
suo ex-collega Tamotsu, fondatore di Sakigake, una comune di agricoltura
biologica, che pochi anni prima si è trasformata in una setta religiosa chiusa
all’esterno. Da dove la ragazza è fuggita. Tengo riscrive, con successo, il
libro che narra dell’incontro tra una ragazza e degli esseri misteriosi
chiamati “Piccolo popolo”. Mentre Tengo comincia a scrivere un nuovo romanzo
nello stesso ambiente del primo, Fukaeri scompare perché si sente minacciata.
Sapremo presto che lei è dotata di strani poteri che le fanno intuire cose
prima o mentre accadono, in modo che lei possa proteggersi.
“In ogni caso, non posso fare altro che
continuare a vivere questa vita. Non posso restituirla e farmene dare in cambio
una nuova. Per quanto atipica o complicata possa essere, è l’espressione di
quel veicolo di geni che sono io.” (315)
Libro Secondo (Luglio – Settembre)
[pag. 397 – 745]
Come
detto sopra, anche il secondo libro è tutto basato sul dualismo Tengo/Aomame.
Tengo è ossessionato dal ricordo della madre, che gli sfugge, e dalla
sensazione interna che il proprio padre non sia quello biologico. Per cercare
di capire lo va a trovare, senza successo, nella clinica dove è ricoverato.
Tornato, in una sera con un terribile temporale, trova Fukaeri ad aspettarlo e
decide di tenerla nascosta presso di sé. Lei è convinta che il Piccolo Popolo
stia tramando qualcosa. Durante quella notte, Tengo, incapace di muoversi, ha
un lungo rapporto sessuale con Fukaeri. Dal giorno successivo Tengo decide di
mettersi alla ricerca di Aomame. Ma il padre entra in coma, lui è costretto di
nuovo ad andarlo a trovare, e scopre sul letto del padre una crisalide con il
corpo di Aomame bambina. Intanto la sua vita si intreccia con Ushikawa, uno
strano personaggio, che non ce la conta giusta. In parallelo, Aomame viene a
sapere che la sua amica Ayumi è stata uccisa. E che la signora Ogata le sta
organizzando un incontro con Tamotsu, il leader di Sakigake, per ucciderlo.
Mentre infuria il temporale di cui sopra, Aomame ha un lungo incontro con il
Leader, che le fa capire di sapere tutto di lei. Chi è, cosa faccia, ed anche
il suo amore per Tengo. Ed il rapporto tra Tengo e sua figlia Fukaeri. Presa
dai dubbi non sa cosa fare, ma Tamotsu le pone davanti un ultimatum: o lo
uccide salvando Tengo, o se ne va, ma Tengo morirà. Nel primo caso dovrà
attendersi una feroce vendetta su di lei. Aomame allora porta a termine la sua
missione, ma non entra in clandestinità. Anzi, una notte riconosce la figura di
Tengo in un parco. Cerca allora di fuggire dal 1Q84, tornando sulla
tangenziale, ma la scala è scomparsa. Sulla sua decisione di togliersi la vita,
per mettere fine a tutta la vicenda, si chiude il secondo libro.
Libro Terzo (Ottobre – Dicembre)
[pag. 749 – 1157]
Questo
terzo libro sembra non fosse previsto nel piano originale, ma credo che Haruki
si sia trovato con tanti dubbi personali che è stato naturale andare avanti,
anche se non tutto (anzi molto poco) sarà sciolto. Aomame non si uccide, ed Ushikawa
si scopre essere un investigatore al soldo di Sakigake per rintracciare Aomame.
Pur essendo antipatico, è bravo e scopre una serie di legami, tanto che capisce
di dover tenere sott’occhio Tengo per arrivare ad Aomame. Così facendo scopre
anche che Fukaeri è nascosta proprio lì da Tengo. La ragazza, con i suoi poteri
“extra” capisce e fugge. Aomame scopre di essere incinta ed è sicura che il
padre sia Tengo (il nascituro è stato concepito la famosa notte del temporale).
Mentre Aomame continua a vagare alla ricerca di Tengo, si imbatte in Ushikawa
che pedina Tengo. Segue l’investigatore scoprendo la casa di Tengo, ma
scoprendo anche che Ushikawa si sta avvicinando troppo a lei. Sarà Tamaru a
fungere da catalizzatore: uccide Ushikawa e fa in modo che Tengo e Aomame si
riuniscano. Insieme capiscono molte cose (che non vi dico) e trovano il modo
(ora che sta finendo l’anno 1Q84) di uscirne. Prendo la metropolitana e
percorrono la scala (che qui c’è) al contrario sbucando sulla Tangenziale.
Guardano il cielo: la luna è una sola, tuttavia la tigre della Esso è girata
verso sinistra e non verso destra, come nel primo capitolo.
Qui
finisce il libro, o i libri. Qui rimangono ancora in sospeso domande su
domande. Al solito, Haruki non svela tutta, i suoi non sono romanzi “realisti”.
C’è sempre spazio per l’immaginazione, il lato onirico di ognuno di noi. E noi
rimaniamo con tante domande. Chi sono i “Little People”? Quanti sono i mondi
paralleli (anche se a questa domanda un attento lettore di fantascienza darebbe
una risposta sicura)? Quant’è forte l’amore? Dove sta il Giappone? Che setta è
Sakigake? Chi è Fukaeri? Vogliamo continuare, potendolo con una domanda quasi
per ogni riga dello scritto. Ma ne riporto un’altra sola: perché lo scrittore
ha chiesto di scrivere per una trentina di pagine il numero delle pagine
dispari al contrario, poi per una nuova trentina quello delle pagine pari, e
così via per tutte le quasi 1200 pagine del romanzo? C’è un algoritmo dietro a tutto
ciò? Mi rendo conto, rileggendo gli spunti tramatori che, così riportato,
sembrerebbe quasi un thriller americano. In realtà, è un lungo viaggio. Dentro
di noi, dentro le nostre paure, sorretti dalle nostre convinzioni. Haruki è
assolutamente convinto della potenza dell’amore per sconfiggere i mali del
mondo. Vedremo (e vedremo cosa ne dicono le spesso consultate libropeute). Io
ne faccio una fede, ma anche una domanda. Come altri e con ben altro spazio e
capacità hanno detto, c’è molto altro dentro questo mondo 1Q84 (e dentro tutti
i mondi possibili). C’è Dostoevskij e Bulgakov, ci sono i Sette Nani e la
Strega Cattiva, c’è Frazer (quello del “Ramo d’oro”) e Farrell (quello della
“Vita di Studs Lonigan”). Ci sono le riflessioni sulle sette e sul terrorismo.
C’è il sesso ed il femminicidio. C’è, come detto fin dall’inizio, Orwell.
Forse, per me, c’è troppo. Che non riesco ad uscirne indenne. Che non riesco ad
andare sopra un’onesta sufficienza come gradimento. Anche se so che Haruki è
più di quanto io possa sostenere (e non è un caso che venga nelle mie prime
posizioni per un Nobel, sempre però dopo Amos Oz). Riesco solo a pensare che
sono contento alla fine che Aomame e Tengo vengano in contatto. E mi domando,
sarà finita qui?
Hermann Hesse “Il giuoco delle perle di vetro (Saggio biografico sul
Magister Ludi Josef Knecht pubblicato insieme con i suoi scritti postumi)”
Mondadori euro 12
[A: 01/10/2014– I: 01/10/2016
– T: 26/10/2016] - && e ½
[tit. or.: Das Glasperlenspiel. Versuch einer Lebensbeschreibung des Magister Ludi
Josef Knecht samt Knechts hinterlassenen Schriften; ling. or.: tedesco; pagine: 587; anno 1943]
Un’opera
ponderosa, complessa, che mi ha impegnato per quasi un mese di lettura non sempre
agevole. Ma alla fine, mi ha lasciato con un po’ di delusione nel fondo del
cervello. Meno, sicuramente, del precedente Narciso. Lontanissimo, tuttavia,
dal mio ricordo di “Siddhartha”. Intanto, inizio subito trasversalmente, che
comprai questo libro su indicazione della bibliografia delle libropeute che
conoscete ormai bene. Collocandolo prima tra i libri che devono leggere i
cinquantenni. Mistero, ma ci si tornerà sopra. poi tra i libri che gli amanti
della fantascienza devono leggere per tornare sulla terra. È vero, come dice
l’ottima introduzione di Hans Mayer, che l’azione dovrebbe svolgersi intorno al
2200, ma è tutt’altro il pregio ed il difetto di questo libro. Mi permetto di
parlare di difetto in senso personale, che non sempre (anzi sempre più spesso)
libri osannati e celebrati nell’universo mondo, ad un mio approccio diretto mi
forniscono meno stimoli di quanto speravo. Così anche in questo caso, sebbene
devo riconoscere che la scrittura, e le cose che Hesse riesce a dire durante
tutta la storia di Josef Knecht, sono da leggere e soppesare ad una ad una.
Intanto c’è l’impianto generale del libro, imperniato sul giuoco del titolo e
su di un Magister dello stesso. Con quattro divisioni generali che ne fanno
un’opera come sopra detto complessa. Una prima parte in cui, con parole oscure,
si cerca di spiegare l’inspiegabile: cosa sia mai “il giuoco delle perle di
vetro”. Una seconda ben ampia che percorre tutta la vita di Knecht. Una breve
esposizione di alcune sue poesie (di cui riporto sotto due versi che mi hanno
affascinato). Infine, un bellissimo gioco nel gioco. Gli studenti del mondo di
Knecht, a varie riprese nella loro vita, sono invitati a scrivere una loro
biografia fantastica. Un piccolo inciso: lo trovo un modo bellissimo di esporre
la propria personale visione di sé stessi; dovrebbe essere presa come esempio
in molte situazioni in cui bisogno presentare sé stessi. Per tornare al libro,
Knecht scriverà tre finte autobiografie, e sono altrettanti momenti importanti
per capire l’uomo, ma anche per capire Hesse, ed il suo grande tentativo.
Quello non solo e non tanto di scagliarsi contro le brutture e le storture del
mondo (non dimentichiamo che il libro vede la luce nel 1943 in piena Guerra
Mondiale), contro la guerra, contro la febbre del denaro, contro i
nazionalismi, ma con il tentativo di sostituirli con valori etici altri.
Purtroppo noi, oggi, siamo ancora lontani dalle utopie del tedesco premio Nobel
bandito in patria (tanto che prenderà la cittadinanza svizzera); purtroppo i
valori etici che ci descrive sono ancora di là da venire. E spero di non dover
aspettare anche io il 2200! Per chi non conoscesse (ancora) il complicato
incastro di Hesse, la sua finzione si basa su di una sorta di consorteria
(Castalia) dove giovani dotati vengono educati al meglio (e non è un caso che
nel meglio siano in primo piano la musica e la matematica). Ogni elemento di
Castalia, eccellendo, cresce in qualche arte, e l’andrà insegnando ad altri.
L’arte suprema è, poi, il giuoco delle perle di vetro (indescrivibile momento
di vita) che governa Castalia e (forse) il mondo intero, e, come tutti i
giuochi, deve essere guidato da un grande Maestro, il Magister Ludi. La
Castalia è comunque inserita nel mondo (la Provincia), debole e fallace, dove
vivono tutti gli altri umani. Ci sono i seminaristi castali che vivono solo per
questi ideali e i seminaristi provinciali che torneranno a governare la
Provincia (e il Mondo). Knecht, in base a circostanze descritte nel libro ma
ininfluenti, viene scelto per far parte dei seminaristi castali. L’ignoto
biografo futuro ci descrive tutto il suo percorso di crescita, da umile
seminarista a grande (o forse ultimo dei grandi) Magister. Il suo percorso,
così come il modo di Hesse di porci le sue idee, si imbatte sin dall’infanzia
in una sorta di alter-ego provinciale, tal Designori, con il quale entra in
discussione alta e forte, ognuno dei due cercando di portare avanti le giuste
ragioni e di Castalia e della Provincia. Designori andrà nel mondo, e Knecht
proseguirà nella sua ascesa. Fino a diventare uno dei più giovani e promettenti
Magister Ludi. Finalmente, in questa veste, oltre ad insegnare, girerà per la
Provincia, capendo che Castalia è un’isola forse felice, ma slegata dalla
realtà del mondo. Incontrerà di nuovo Designori, la sua famiglia, la moglie ed
il figlio. Perché, scordavo, ma lo avete ovviamente capito, i Castali sono
dedicati allo studio, quindi niente sesso per favore. Riprende nella parte
finale della sua vita il dibattito acerrimo con Designori, dove però le parti
si sono smussate alquanto. Il provinciale, vivendo nel mondo, capisce la
bellezza dell’isolamento castalio. Knecht, dalla “torre di vetro”, comprende la
bellezza e la necessità della Provincia. La comprende talmente che capisce che
solo un gesto estremo potrà dare una scossa alla cristallizzazione castalia.
Decide allora di dimettersi dal suo ruolo e tornare nel mondo. Gesto che
metterà in crisi tutto l’edificio delle perle di vetro, facendo capire come
l’etica senza la pratica possa diventare un momento sterile di vita. Knecht
decide di insegnare al figlio di Designori, ma deve, moralmente, pagare il fio
del suo abbandono. Morirà quindi annegando in un lago che ha tutte le
caratteristiche di un lago di montagna elvetico, e che ricorda, nel sacrifico,
la morte di Empedocle (almeno quella leggendaria di una sua caduta nel fuoco
etneo). Difficile, complicato ed irrappresentabile per me è tutto il percorso
delle onerose pagine. Mi ha coinvolto, cerebralmente, il discorso etico. Ho
cercato di seguirne i risvolti, i voli pindarici di Hesse scrittore. E di Hesse
travestito in un “Faber Ludi” che vuole insegnarci questa via verso un’etica
diversa, ma che, senile ma non invecchiato (in fondo pubblica questo ritenuto
uno dei suoi capolavori a 66 anni; ho ancora speranza), non riesce a portarmici
dentro fino in fondo. Ci vuole personale più filosofico, più erudito di me. Io
mi accontento di sentire la mia testa (spesso) e la mia pancia (sempre). Ed è
quest’ultima che non mi porta molto più in là di un apprezzamento formale. E di
una sostanziale stanchezza verso tutta l’opera del grande svizzero. È giusto,
quanto abbiamo lottato e lotteremo per avere davanti una vita che spazzi via
(tanto per fare nomi alla rinfusa) i Berlusconi, i Trump, i Putin. Ma dobbiamo
avere accanto, noi uomini e donne fallaci, i nostri amici, i nostri amori, i
nostri sostegni reciproci. Insomma, mi mancano dei pezzi verso la felicità, e
non riesco ad incollarli a me. Ed Hesse non riesce a farmeli sostituire con
altro. Quindi, essendo confuso, finisco qui, facendo l’ipotesi di riuscire, un
dì, a scrivere anche io una mia biografia fantastica, dove fare convergere in
pace ed armonia tutti i pezzi del me stesso diverso e diviso.
“Studiare storia significa abbandonarsi al
caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno.” (172)
“Quanto più invecchiava, tanto più lo
attirava la gioventù.” (246)
“Knecht, che in quei mesi si era sentito
talvolta molto vecchio, si persuase di essere giovane e forte.” (251)
“Vide che l’altro … non ascoltava come si
ascolta una chiacchierata o magari un racconto interessante, ma con quella
dedizione assoluta con la quale ci si concentra nel meditare.” (307)
“Ogni inizio contiene una magia / che ci
protegge e a vivere ci aiuta.” (465)
“Si racconta di santi e di esseri celesti
che, affascinati da una donna deliziosa, la tennero abbracciata per giorni,
mesi e anni fondendosi con lei, tutti compresi del piacere, dimentichi di ogni
altra preoccupazione.” (556)
Prima
domenica dell’ultimo mese dell’anno, ed ecco quindi le letture dell’ultimo mese
viaggiante, quel settembre luminoso del cielo indiano. Un mese cominciato in
sordina, ma finito in un crescendo, con i buoni libri tedeschi (Neuhaus),
giapponesi (Yoshimoto) e per fortuna anche italiani (Rebecchi e Carofiglio). Di
Haruki parlo anche troppo più in alto.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Haruki Murakami
|
1Q84
|
Einaudi
|
26
|
2
|
2
|
Giuseppe Culicchia
|
Tutti giù per terra Remixed
|
Mondadori
|
10
|
3
|
3
|
Françoise Sagan
|
Bonjour tristesse
|
Mondadori
|
9
|
2
|
4
|
Anne Perry
|
Gli inganni di Dorchester Terrace
|
Mondadori
|
4,90
|
3
|
5
|
Nele Neuhaus
|
Biancaneve deve morire
|
Repubblica MondoNoir
|
7,90
|
4
|
6
|
Banana Yoshimoto
|
Moschi moshi
|
Feltrinelli
|
8
|
4
|
7
|
Alessandro Robecchi
|
Questa non è una canzone d‘amore
|
Sellerio
|
15
|
4
|
8
|
Gianrico Carofiglio
|
La regola dell’equilibrio
|
Repubblica Noir
|
7,90
|
4
|
Chiudo
velocemente queste trame, che troppo a lungo vi ho intrattenuto in questo
domenica prima di San Nicola. Speriamo che i progetti per il prossimo anno
comincino ad incastrarsi, con il vostro aiuto.
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