Un’altra settimana dedicato ad un quartetto
italiano, con tre autori “moderni” ed uno storico. Sebbene Flaiano mi piaccia
in molte forme, non mi ha esaltato in questa, pur degna di essere letta e commentata.
Meglio i nuovi allora: meglio Presta, anche quando non parla dai microfoni
della radio, meglio Stassi con questa opera prima che forse andava segnalata
meglio da Sellerio, meglio Culicchia, con questa rivisitazione della sua opera
prima.
Fabio Stassi “Fumisteria” Sellerio euro 12 (in realtà, scontato a 10,20
euro)
[A: 01/09/2015– I: 14/05/2016 – T: 18/05/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 166;
anno 2006]
Torno
dopo quattro anni allo scrittore siculo-romano-viterbese, con piacere ed una
punta di nervosismo. Non per lui ovviamente, ma per la nuova casa editrice cui
si è affidato, anche se da me generalmente amata. Sellerio qui fa un’operazione
“sporchetta” non citando (anche se può farlo perché Fabio ha rivisto la prima
stesura) che il libro è del 2006, come indico sopra, e non del 2015, che è solo
il copyright di Sellerio. In realtà, questa è la prima opera dello scrittore,
con la quale, una decina di anni fa, ha pure vinto il Premio Vittorini opera
prima. Ma tra i primi libri ed ora, Stassi è passato da Minimum Fax a Sellerio,
e spesso, questi cambi portano a rinverdire qualche “verginità”. Tutto senza
venir meno al rispetto ed al piacere di leggere dello scrittore, soprattutto a
valle di quel monumentale libro che tengo sempre accanto al computer per ogni
vario ed eventuale riferimento, “Curarsi con i libri”, di cui Fabio è il
curatore italiano (dove ha saggiamente integrato citazioni e dolori con esempi
provenienti dal panorama letterario italiano che le autrici non conoscono a
fondo come noi). Detto inoltre, che, dopo il libro sugli scacchi e Capablanca,
e quello sul calcio e la Coppa del Mondo, sto aspettando di capire se riuscirò
a leggere il libro su Charlot, veniamo allora a questo esordio letterario di un
autore allora già quarantenne. Un esordio che, come nell’appendice finale
dedicata ad un intervento fatto dall’autore in occasione di una mostra su
“Portella della Ginestra”, nasce dai racconti siciliani dei parenti, che, poco
dopo i fatti narrati, emigrano al Nord, fermandosi nel Lazio. Come da lì
riportato, tutto nasce da alcune riflessioni sui muli, su cosa rappresentino,
sulle loro morti nel giorno della strage, per allargarsi poi ad una allegoria
del potere e delle sue ramificazioni in quella Sicilia che era da non molto
uscita, come tutta l’Italia, dalla guerra, ma che non si era (né si sarebbe)
affrancata da servilismi e mafiosità. Spesso, inoltre, come documentato e
variamente spiegato, in collusione aperta con chi detiene il potere, chiunque
esso sia. Spiace solo a noi lettori e amanti delle lettere che l’attacco
risuoni un po’ troppo “colombiano”. Nel senso che come nei migliori romanzi di
Garcia Marquez, il libro comincia con una morte, e da quella si risale per ricostruire
glia avvenimenti di cui si vuole narrare. Infatti, iniziamo subito con la
morte, anzi l’assassinio di Rocco La Paglia, accoltellato nella piazza
principale della fittizia cittadina sicula di Kalamet (ricalcata su tante
simili addensate nella Piana degli Albanesi, dove viveva la comunità arbëreshë
degli Stassi; per inciso, la stessa comunità, ma di origine calabrese, di
Carmine Abate). Da questo fatto nascono alcuni racconti, che parlano di tutto e
di contorni, cha alla fine servono a completare il quadro di cosa succede, di
come e di perché. C’è la storia dell’avvocato Licata, legale dei latifondisti,
misogino (e forse inconsapevolmente gay) che sposa in tarda età Ester, e che si
lascia sfuggire un commento inopportuno su donne e fumo. C’è Rocco appunto, con
la sua storia di comunista e sindacalista, colpito nel profondo dalla strage
del bandito Giuliano, dalle collusioni con il potere, e da un bacio che
quindici anni prima aveva scambiato con la bella Ester. Rocco che è un fumatore
accanito. C’è lei, Ester, bella (e impossibile? ripercorrendo Gianna Nannini),
colpita ventenne dal bacio di Rocco, da cui non si riprende mai, che aspetta il
suo ritorno, ma Rocco sa che sono di classi diverse e rimarrà sempre
nell’ombra, che sposa Licata con affetto ma senza amore, e che sviene vedendo
il corpo di Rocco nella piazza. Ci sono i fantastici “tutori dell’ordine”, che,
sviati ad arte da una lettera anonima, provvederanno ad incriminare Licata per
delitto d’onore. C’è Donna Mariannina, domestica dell’avvocato, cameriera di
Ester, sempre un po’ svagata, persa tra la cucina, il lavaggio e lo stiraggio,
che si concede una sigaretta ogni tanto. C’è il contrabbandiere balbuziente,
compagno di cella di Licata, che ci racconta gli avvenimenti al contorno (e non
è un caso che viene esposto in corsivo), tra cui la possibile discesa nella
paranoia dell’avvocato, ma che soprattutto ci parla della Sicilia, dei
sindacalisti e di Portella. C’è infine Santo Cicala, l’amico fidato di Rocco,
che alla fine ci svelerà (e lo farà ad Ester) tutti i retroscena, i come ed i
perché. Ma questi non ve li dico. Non vi dico se Rocco era l’amante di Ester,
se fu un delitto d’onore o un delitto di mafia, se… Val la pena di leggere
queste poche pagine (che si riducono di molto se passiamo dal formato minimo di
Sellerio ad una tiratura “normale”). Come nei primi libri, non mi dispiace lo
stile di Stassi, il suo modo di porgere la storia, ed anche il fatto che non ci
si dimentica mai degli umili e dei derelitti, di cui si costella il mondo
intero. Non è completamente risolto in tutte le sue parti, ogni tanto
riecheggia altro, ma lo considero una lettura affidabile. Finendo tuttavia con
una piccola tiratina d’orecchi: a pagina 50 si parla di “ex potestà”, per
indicare un funzionario fascista poi reintegrato dall’amnistia di Togliatti.
Credo che il termine corretto sia invece “ex podestà”.
Marco Presta “Un calcio in bocca fa miracoli” Einaudi euro 12 (in
realtà, scontato a 9 euro)
[A: 27/07/2015 – I: 09/06/2016 – T: 15/06/2016] – &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 190;
anno 2011]
Avevo
da tempo adocchiato negli scaffali delle librerie qualche libro di Presta, e,
memore della mia (sopita) passione del su “Ruggito del coniglio” condotto in
coppia con l’ottimo Antonello Dose, mi ripromettevo prima o poi di aprirne
delle pagine ad una tranquilla lettura. Ed eccoci allora affrontare questa
strana storia, che mi ha attratto e respinto in ugual misura. Respinto perché
non è che succeda poi tanto, siamo sempre nella testa del protagonista che
attraversa uno squarcio di vita, e ad ogni piè sospinto, una frase, una
situazione, sono spunti per narrare altro, per raccontare, per tornare
indietro, ed anche per andare avanti. Si rimane sempre un po’ sorpresi da
questo “vecchiaccio” di settantasei anni, che affronta questo suo momento di
vita aggressivamente, ma inframmezzandolo con brani teneri e delicati. Bravo
Presta! Anche perché sceglie come protagonista un vecchio scassacoglioni, uno
di quei vecchietti che a leggerli ti fanno ridere, ma se ce l'hai come vicino
di casa, l'unica cosa che desideri è lanciarlo giù per la tromba delle scale
nella speranza che vada, finalmente, all'altro mondo. Il nostro “innominato” è
pensionato, vive da solo, è separato dalla moglie, beh già mi sembrava di volergli
bene. Poi è astioso, brontolone, misantropo, pieno di pulsioni, e di acciacchi.
Mirabile la sua pisciata dal balcone! A fargli da contraltare c’è il suo
storico amico Armando che ora, morta la moglie ed avvicinandosi al suo addio,
decide di fare il cupido, di far mettere insieme due ragazzi che secondo lui
sono fatti l’uno per l’altra. Riuscendo anche a coinvolgere il nostro. Nel
mentre che i due cercano di far nascere la “felice” unione, Presta ci mostra
come poi noi ci sia una grande differenza tra young e old. Il protagonista,
infatti, ha un certo moto di interesse per la portinaia, vedova, ma che è
interessata ed interessa ad un altro inquilino del palazzo. Ne nasce un
triangolo simpatico e attempato (niente riferimenti a Renato Zero per favore),
inframmezzando le voglie del nostro con le sue acide battute. Quelle appunto
che fanno salire i punti del libro anche oltre le mie iniziali aspettative.
Come quando la portinaia gli lascia il suo pappagallo da custodire dovendo
andare in un viaggio di piacere con l’altro. E lui commenta: "Guardai la
gabbietta con il pappagallino e trattenni la battuta per rispetto, ma avrei
voluto farle notare che a me aveva dato l'uccello, al barista la passera."
Nonostante sia asociale e cattivo, la bontà di Armando lo conquista, riuscendo
a fargli fare cose che non pensa di fare. Cercare di rimettere insieme alcuni
cocci della sua vita, non maltratta la figlia in crisi, anzi la ospita e le
parla civilmente. Così come con civiltà riesce a rivolgersi alla ex moglie. Nel
mezzo dei pugni e dei calci, in bocca e altrove, riesce a farci rivivere la
storia d’amore di Armando e Francesca con una tenerezza malinconica. Così come,
alla morte anche di Armando, continua la sua opera di “procacciatore di
affetti”. Pieno di acciacchi che non vuole confessare, come il siparietto che
riporto sotto verso i medici e gli anziani, alla fine si arrende al fatto che,
nonostante tutto, è meno vecchio di quanto sostiene al mondo intero. Da anziano
anche io (ma non così giurassico) mi ha fatto comunque nascere una piccola
speranza. Che nel mondo ci possa essere la bontà di qualcuno, l’altruismo,
forse il fatto che nei rapporti umani non tutto sia perduto, e che se si vuole
le cose possono avviarsi ad essere aggiustate. Come ho detto, mi ha fatto ridere
empaticamente lo sguardo del protagonista sulla sua salute: se non vado dal
medico non può dirmi che sto male e quindi sto bene. Infine, mi piace quella
sua cleptomania dedicata alle penne, che ho anche io. Non le rubo, ma le prendo
in prestito in tutti gli alberghi che ho visitato in giro per il mondo.
Insomma, mi aspettavo qualcosa di più forte, ma al solito, come per radio,
Presta mi ha spiazzato, dandomi qualcosa di forte, ma anche di dolce. Che non è
sempre alla stessa altezza ed intensità, ma che ho letto di gusto. Se ne
riparlerà, Presta (ah, che battutaccia…).
“Mi è sempre mancato il coraggio di apparire
ridicolo, la sola vera forma di coraggio.” (22)
“Conviene curarsi quando si sta bene, per
rimanere in salute. A settantasei anni, si sta male per forza.” (120)
Giuseppe Culicchia “Tutti giù per terra Remixed” Mondadori euro 10
[A: 05/07/2016 – I: 01/09/2016 – T: 15/09/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 139;
anno 2014]
Non
stupisca il lungo tempo occorso a leggere questo breve libretto. L’ho
cominciato sull’aereo per il Ladakh, e poi abbandonato a lungo preso da tutte
le cose che servivano al bellissimo viaggio (organizzazioni, mal di montagna,
godersi panorami incantanti e mistiche atmosfere, e scusate se l’elenco
potrebbe essere più lungo, ma qui si parla di libri. O no?). Poi l’ho anche
finito e gustato. Sempre come spesso nei libri di Culicchia, di cui continua a
piacermi la scrittura. Anche se questo è un libro particolare. Perché il primo
libro che ha scritto nel 1994 è stato “Tutti giù per terra” (e ne ho parlato
tramando il saggio sulla scrittura del nostro torinese). Qui fa un’operazione
interessante. Passati venti anni, molte cose sono cambiate nella vita
quotidiana. Ecco allora nasce l’idea di un remix. Come dice correttamente
Wikipedia: “La caratteristica principale del remix è appropriarsi di materiale
preesistente e modificarlo per creare qualcosa di nuovo”. Ecco quindi che
Culicchia remixa il suo primo libro, introducendo elementi attuali (il
cellulare o i social network, che non erano presenti allora), per vedere se il
plot generale possa resistere all’usura del tempo. Credo che in opere maggiori
il tempo non incida mai sulla struttura della storia. Difficile per me pensare
ad un remix della Divina Commedia, anche se… Ma in opere molto legate alla
quotidianità, se questa evolve, è bene, è utile, è interessante fare un lavoro
“alla Culicchia”. Chi ha letto (o ricorda) il libro primigenio di Culicchia
(quello non remixed, cioè) o che ha visto il film che ne ha tratto Ferrario nel
’97 con una stupenda interpretazione di Valerio Mastrandrea non ha bisogno che
io ne riparli qui. Ma brevemente è utile, per gli altri, delineare la trama
originaria: Walter è un ragazzo senza arte né parte, oppresso da un padre che
lo spinge a cercare un posto fisso. Decide di occupare il tempo facendo il
servizio civile. È difficile, non riesce a coltivare amicizie, ha difficoltà
dei rapporti con le donne (non riesce ad avere un rapporto sessuale con
Beatrice, e rimane un po’ sconvolto). Pur immerso nella Torino delle
contraddizioni quotidiane, non si appassiona ai movimenti di protesta. L’unico
suo chiodo fisso è scrivere. Dopo il servizio civile, trova posto come commesso
in una libreria, dove mette in mostra il libro che contiene un suo racconto. E
rimane folgorato da una signorina che entra nel negozio. Spostandosi venti anni
in avanti, i tratti principali rimangono gli stessi. Ma si aggiornano i
comportamenti. Il padre ora lo spinge a partecipare ai talent show, ed aspetta
tutti i giorni una telefonata da Maria De Filippi. Si guardano video hard su Youporn,
si socializza su Facebook, si sente la musica su YouTube. Ma in fondo Walter
continua a rimanere solo. E continua a rifiutare l’omologazione. Non vuole
partecipare ai social, non usa il cellulare. Memorabile la discussione-litigio
con l’impiegata delle Poste che gli vuole vendere una SIM mentre lui vuole solo
fare una raccomandata. Continua anche a non avere facilità nei rapporti. Né con
Tamara, che lo sfrutta (tenta di sfruttarlo…) sessualmente, e con la quale non
ha sintonia, né con Enza, che avrebbero anche qualcosa in comune, ma che pensa
solo a farsi canne o altro. Cose che a Walter non vanno. Le vede ma non le fa.
Sempre più tristi sono inoltre le rappresentazioni dei nomadi che Walter deve
schedare, dove Culicchia ci rappresenta ora una realtà che è andata, giorno
dopo giorno, anno dopo anno, diventando una cancrena inestirpabile. Ovviamente
non troverà lavoro in una libreria, ma in un negozio di elettronica, magari in
un Apple store (ci vuole sempre un po’ di pubblicità per sopravvivere). Anche
qui verrà folgorato da una bellezza, e si dimenticherà finalmente di tutto. E
si potrà liberare. Concludendo quel girotondo inconcludente iniziato nella
prima pagina, dove tutto gira senza cambiare nulla. Alla fine, gira che ti
gira, come nella canzoncina, siamo “tutti giù per terra”. Anch’io, ovvio. Ma io
sono un ragazzo più ottimista di Culicchia. E da terra ci solleveremo ancora
una volta per un nuovo girotondo. Fino a che, non accorgendoci più di cadere,
non potremo risollevarci. Forse saremo passati ad altra vita. Per ora ci
godiamo i sorrisi anche duri e cattivi di questo libro. Ci godiamo l’operazione
di remixaggio che è stata per me divertente e riuscita. Ci godiamo il ricordo
della lettura del libro, dei paesaggi indiani limpidi e puliti. Della
sensazione di comunanza che nessuno, mai, cancellerà. Del libro stesso,
fisicamente, che volò verso altri lidi, ma che sono sicuro rimarrà, in qualche
modo, presente. Insomma, Culicchia aggiorna ed io non dimentico.
Ennio Flaiano “Tempo di uccidere” BUR euro 10,50
[A: 01/10/2014 – I: 25/09/2016 – T: 01/10/2016] - &&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313;
anno 1947]
Unico
libro scritto dal mago della penna di Pescara, che preferiva (ed io con lui, di
quello che ho letto) l’aforisma, la corta battuta, al massimo l’elzeviro. Come
dimenticare la caustica brevità di “Si arriva a una certa età nella vita
e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano
diretti a noi.” (dal “Diario degli errori”) o di “La stupidità degli altri mi
affascina ma preferisco la mia.” (dal “Frasario per passare inosservati in
società”). O meglio ancora quando si nascondeva dietro un regista per
stendere una sceneggiatura (come dimenticare la collaborazione con Fellini in
“La dolce vita” o in “8 e ½”?). Ma qui siamo di fronte al suo unico romanzo e
di questo vogliamo parlare. Romanzo strano, complesso nella genesi, fulminante
nella riuscita. Dopo aver scritto brevi racconti sulla sua esperienza di guerra
africana, viene stimolato dall’amico Leo Longanesi a raccordarli in una trama
unica, ed a farne un libro. Con l’idea, visto che Flaiano era già discretamente
noto per scritti su vati giornali e riviste, di usarlo per lanciare un premio
letterario che nasce proprio all’uscita del libro. E che viene vinto proprio da
Flaiano con questo libro pubblicato da … Longanesi. Torniamo allora al testo. Un
libro sulla guerra, ed in particolare sulla guerra di conquista in Etiopia,
quella del 1936, quella della fondazione dell’Impero, secondo Mussolini. Un
libro però in cui non si parla direttamente della guerra (o se ne parla poco e
di sfuggita). La guerra c’è, ci sono morti, odi, attacchi narrati, ed altro. Ma
mai direttamente. Si vede più il quotidiano del protagonista, con tutte le sue
avventure, con tutte le sue peregrinazioni mentali che lo postano spesso e
volentieri fuori dal seminato. Mi ha ricordato talvolta il film di Scola “Il
mondo nuovo” (che spero avrete visto, un film fondamentale per leggere la
Storia dalla parte della storia). Pur partendo dalla propria esperienza
etiopica, e dai brevi racconti che ne aveva già tratto, quando si avventura nel
complesso del romanzo, il tutto viene avvolto da un’atmosfera surreale, da una
concatenazione di eventi che rischia di travolgere il protagonista (e forse lo
fa). Tutto comincia con un mal di denti che il nostro soldato, anzi tenente,
vuole curare. Per questo chiede una mini-licenza per andare da un dentista
normale e non dal cavadenti della compagnia. Durante il viaggio, rallentato da
camion che saltano in aria ed altre vicissitudini simili dovute alla guerra in
corso, decide di proseguire a piedi. In una valle, di una calma altrettanto
surreale, incontra una donna bellissima con un turbante bianco in testa. Dato
che, come diceva Villaggio in “Carlo Martello”, “più che l’onor poté il
digiuno”, sappiamo come va a finire. Ma nella notte africana, riposando accanto
alla bella, sente i rumori che tutti noi, passati per il continente nero,
abbiamo imparato a sentire. Ha paura, spara, ed una pallottola vagante
accidentalmente uccide la donna. Qui cominciano le “follie” del nostro.
Seppellisce la donna, fugge, comincia a sentire male ad una mano, viene
informato che le donne con turbante bianco sono bandite dai villaggi in quanto
portatrici di lebbra, si convince che ha la lebbra lui stesso. Cerca di farsi
curare da un medico senza scoprirsi, ha paura della reazione di questo, gli
spara ma lo manca. Continua a fuggire raggiungendo Massaua, dove pensa di
potersi imbarcare clandestinamente per l’Italia. Ma non ha i soldi, si lega ad
un maggiore che si sta arricchendo con traffici illegali, lo deruba, e tenta di
uccidere anche lui (togliendo i bulloni ad una ruota del camion). Il tenente
continua ad accumulare paure: che si trovi il cadavere dell’africana, che il
dottore ed il maggiore lo denuncino, che abbia seriamente la lebbra. Si rifugia
allora nel bosco, presso il nero Johannes, che, dopo lunghi momenti di
reciproca insofferenza (muta che nessuno parla la lingua dell’altro) arrivano
ad una convivenza (quasi) pacifica. Tanto che Johannes lo cura, ed una volta
guarito e stanco, il nostro eroe decide di tornare al comando per costituirsi.
Ma dove scopre che nessuno lo ha denunciato, che la licenza non è scaduta, e
che potrà tornare in Italia e riabbracciare la moglie. Sostenuto da lirismo
surreale nella prima parte (stupenda la scena in cui il tenente mette una
sigaretta in bocca ad un caimano), ad un certo punto Flaiano si rende conto che
non può continuare ad accumulare storie su storie e deve avviarsi verso la
fine. Scendendo dal surreale al reale si perde di slancio, di compattezza, e
tutta la parte in cui l’antagonista non è più il tenente con sé stesso, ma si
presenta nel nero Johannes, la trovo lenta e poco felice. Per questo non sono
stato soddisfatto della lettura di pancia. Rimane quella di testa, rimane un
libro che deve essere letto se si vuole entrare nei meandri di un’epoca che
spesso viene poco seguita in libri e testi e romanzi ed altro. Ma un voto di
testa a me non basta per arrivare ad una piena sufficienza. Mi dispiace per
Flaiano, e tornerò a rileggere (e lo consiglio) solo l’appendice finale, quella
“Aethiopia”, diario scritto durante la guerra dove vengono alla luce,
direttamente, i pensieri e le sensazioni di un tenente a contatto con quello
strano continente. Dove si capisce anche la nascita dell’antifascismo di
Flaiano. Che qui saluto con un’altra sua frase “Da ragazzo ero anarchico,
adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi
dello Stato vengano rispettate da chi governa” (da “La solitudine del satiro”).
“Sessanta [chilometri], insomma
dodici ore di marcia di buon passo [cioè cinque chilometri all’ora, sotto il
sole africano, mi sembra una buona prova… nota mia].” (229)
Essendo
la seconda trama del mese non può mancare una cura, che gli strani voleri del
caso ci portano verso un’elaborazione del lutto, guidati da un grande piccolo
libro di Tabucchi.
Seppur
con tutte le difficoltà del caso, pare che, mattoncino dopo mattoncino, un
nuovo viaggio si vada delineando per il prossimo anno. Per ora ci si lavora, e
si vedrà. Per ora ci si prepara ad affrontare il rush finale verso il Natale,
salutandovi sempre con affetto.CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE 2016
Non me ne vogliate se, in questi
giorni che si avvicinano ad una grande nascita, sia capitato un momento
dedicato all’elaborazione del lutto. Ci vuole anche questo, per continuare a
vivere e raccontare.
LUTTO, ELABORAZIONE DEL
Antonio
Tabucchi “Requiem”
Andrea Bajani “Mi riconosci”
Elaborare un
lutto è un viaggio lungo, difficile, doloroso. “Requiem” può essere un compagno
ideale, una lettura intrisa di nostalgia e di commozione. Tabucchi lo scrisse
in portoghese. In quella lingua esiste una parola che altre lingue non hanno, e
questa parola è “adeusinho”. Un diminutivo per la più difficile delle
cerimonie: il momento di dire addio a qualcuno a cui si è voluto bene. Come se
si potesse essere delicati anche nella separazione e addomesticare con un
piccolo trucco verbale la tristezza. Questo libro di Tabucchi è un “adeusinho”
a tante persone e a tante cose. Una specie di sogno, di visione o di
allucinazione, nell’attesa di incontrare per le strade di Lisbona il fantasma
di Pessoa. Si sale e si scende sudati da un taxi, ci si ferma davanti al Tago,
si dorme in un albergo a ore. Per scoprire che tutto è sulla stessa linea del
tempo, le persone e i segreti, i Padri Giovani, gli amici. Leggetelo in treno,
come si conviene a un viaggio. Raccontare, e ascoltare in fondo, è uno dei
pochi modi che gli uomini hanno inventato per procrastinare la morte.
A Tabucchi
stesso, un anno dopo la sua scomparsa, è toccata la sorte più strana per uno
scrittore, quella di essere trasformato in un personaggio. E il regalo-congedo
che gli ha fatto un suo amico, un altro giovane scrittore, Andrea Bajani,
scrivendo per lui un secondo requiem, elaborazione universale e tenerissima di
un lutto che vale per ogni perdita e per ogni dolore. La storia è vera, ma come
sempre la buona letteratura, non potendo ripetere la realtà, la inventa di
nuovo, in altra forma, ne resuscita il sentimento, mette in relazione il tempo
passato, sfida la casualità dei fatti che sono accaduti e cerca di recuperare
un senso. E così un libro privato si trasforma, cambia natura e gli stessi
protagonisti diventano degli archetipi: il giovane scrittore indossa i panni di
tutti i giovani scrittori in cerca di un maestro, e il maestro incarna tutti i
maestri e il loro sguardo di fronte all’alunno che si è riconosciuto come il
più simile a sé stesso.
Perché è
proprio il riconoscimento il grande tema del romanzo. Già dal titolo, tratto da
un verso di Rilke contenuto nei Sonetti a Orfeo, che Tabucchi stesso spedì in
un sms ad Andrea, dopo il loro primo incontro: “Mi riconosci, tu aria, piena
ancora di luoghi un tempo miei?”. Nessuno dei due poteva sospettare la coerenza
che quelle lettere digitate su un telefonino avrebbero assunto qualche anno
dopo. Rilke aveva composto i sonetti a Orfeo per una ragazza giovanissima, una
ballerina morta di leucemia. Il suo era un canto elegiaco che seguiva un lutto
e il mito di Orfeo una metafora perfetta della poesia: lo sforzo estenuante di
far tornare in vita ciò che si è perduto, di strappare al tempo un’effimera
visione.
Così, quando
tre o quattro anni dopo lo scrittore grande si ammala, il più giovane riprende
l’aereo e al ricovero finale lo va a trovare, contro il suo volere. A Lisbona,
questa volta. Per un’ultima galanteria, le ultime parole. E poi solo una cucina
vuota, il dolore dei famigliari, le tazzine nel lavello, le sedie ripiegate
contro il muro. Il loro è un dialogo tra un padre e un figlio elettivi di
fronte allo sgomento della scrittura, della vecchiaia, della malattia, del
silenzio definitivo e dell’orfanezza. Un fado struggente e malinconico, ma di
consapevole e luminosa ricomposizione della mancanza. Una vicenda di porte
chiuse al momento di cenare, di isolamenti e di case, di telefonate notturne,
di sorprese e confessioni, di dispetti, ironie e anche bisticci. Un piccolo
atlante del pianto pieno di luce e di pudore, coraggioso nel pendolare tra le
impertinenze della morte e quelle della vita, tra un battesimo e un commiato.
Bugiardino
Sono
da sempre un estimatore delle piccole elegie di Tabucchi, di cui ho letto
moltissimo, e sono anche io tra i tanti che hanno dolorosamente registrato la
sua dipartita. Non ho però letto il libro di Bajani, e dopo questa lettura “luttuosa”,
penso che prima o poi dovrò farlo.
Antonio Tabucchi “Requiem – un’allucinazione” Feltrinelli euro 7 (in
realtà scontato a 6,30 euro)
[trama pubblicata l’8 febbraio 2015]
La
prima sorpresa che mi ha dato la lettura di questo libro di Tabucchi è quella
che vedete nella prima pagina interna una volta aperto il libro. Perché questo
racconto è scritto in portoghese, sua lingua di adozione, perché solo in questa
lingua l’autore ritiene sia possibile dar vita e suono a quella sensazione di
“saudade” che non sarebbe esprimibile in altri idiomi, quell’utilizzo del
termine legato all’addio verso chi ci ha lasciato (adeusinho) che non è
trasferibile dal portoghese in altre lingue. Tant’è che Tabucchi la traduzione
in italiano ha voluto fosse fatta da altri, sempre per ribadire il concetto di
inesprimibilità, e sottolineando quindi l’immancabile tradimento che una
traduzione produce verso il testo. Quindi, seppur impoverito nel testo, ora ne
seguiamo e ne leggiamo. Non per parlare di un romanzo (che spesso Tabucchi
scrive ma non si riesce a catalogarne la scrittura), né tanto meno di un
racconto lungo. In effetti, è un’allucinazione quella che cerca di descrivere.
O meglio, una serie di sogni, di segni e di racconti, che fanno in modo e
consentono all’autore di dire addio ad uno scrittore e ad un personaggio che
tanta parte hanno avuto nella vita stessa di Tabucchi. Dopo aver contribuito
alla riscoperta ed al rilancio in Italia di Ferdinando Pessoa, ora Tabucchi se
ne deve staccare, deve proseguire la sua strada di letterato. Deve quindi
rivolgere un Requiem a Pessoa, e lo fa in queste pagine, dove, mescolando sogno
e realtà, parla di sé, ma anche di Pessoa. Parla con i personaggi di Pessoa,
mischiati con amici e compagne della sua vita. Ma in definitiva è un libro
intramabile, è talmente rarefatto negli accadimenti che narrarne vorrebbe quasi
dire riproporlo per intero. Certo il personaggio che si muove per le pagine, e
per Lisbona, fa alcune cose. Cerca un amico in un cimitero, sogna una donna, va
in un Museo a vedere un quadro (con una descrizione che mi ricorda la mia
ricerca della chiesa di Van Gogh al Museo d’Orsay), va in un bar (magari nella
rua Garrett). I personaggi che si incontrano sono tanti e ognuno racconta
qualcosa: essi riflettono insieme al protagonista sulla propria vita, su modi
di pensare o costumi. Li si potrebbe definire suggestive figure di fantasia,
divertenti. Al lettore piace guardarli e scoprirli nel corso della lettura come
se fossero dei casi umani che stuzzicano la curiosità. Sono molto vari, ma
hanno qualcosa in comune: sono romantici, quasi poetici. Persino la Vecchia
Zingara, la Moglie del Guardiano del Faro o il Venditore di Storie hanno, pur
nella loro semplicità, un fascino misterioso, forse dovuto alla profondità
delle emozioni che trasmettono attraverso le loro parole. L'incontro
fondamentale, quello al quale il narratore si prepara fin dal mattino, è
l'ultimo della giornata, e ha come protagonista il grande poeta portoghese
Fernando Pessoa (1888-1935), o forse il suo fantasma. Dal quale alla fine
riesce a staccarsi, lì sul molo della città, ed a tornare alla propria vita. O
al proprio sogno. Infatti, tutto è avvolto da quella atmosfera onirica che
speso compare negli scritti di Tabucchi (soprattutto nei primi). Ed in realtà
appunto non è la trama, quella che risalta alla fine, ma la scrittura, le
piccole microstorie che compaiono (e che certamente un amante e conoscitore di
Pessoa saprebbe collocare meglio di me nell’universo mondo dello scrittore
portoghese), la ricerca e la necessità di accomiatarsi da qualcosa che per
lungo tempo è stata vicina all’autore, e che adesso ne diventa un fardello.
Come detto, ci riesce, riuscendo anche a regalarmi un ultimo sussulto di
felicità, con quelle note finali, dedicate a cosa si è mangiato durante tutto
il sogno: la feijoada (minestra di fagioli), i papos de anjos (dolcetti di uova
e mandorle), i piatti di pane come le migas e l’açorda, la fresca bevanda di
frutta chiamata sumol, l’arroz de tamburi (il riso alla rana pescatrice),
l’ensopado de borreguinho (stufato di interiora di agnello). Per poi finire con
il menu futurista della Mariazinha: zuppa “Amor de Perdiçao” (zuppa di
coriandolo e pollo dal titolo di un libro di Camilo Castelo Branco), insalata “Mendes
Pinto” (con avocado, gamberi e soia, dal nome del grande navigatore
portoghese), cernia “tragico-marittima” (come dall’omonima Historia di naufragi
del Seicento), sogliola “intersezionista” (dal nome del movimento artistico
creato da Pessoa nel 1914), anguille di Gafeira alla Delfino (luogo inventato
dallo scrittore José Cardos Pires per il suo romanzo “O Delfim”) e baccalà allo
“scherno e maldicenza” (così come venivano chiamate le liriche satiriche del
Duecento portoghese). Con questa cena tutta intellettuale, Tabucchi lascia
finalmente Pessoa perché “ero io ad aver bisogno di lei, però adesso vorrei
smettere di avere bisogno”. Ecco una bella, agile, veloce lettura,
intellettuale quanto basta, ma eponima della capacità e del bisogno di dire
addio a qualcuno o a qualcosa. Un bisogno di adeusinho.
“Non era possibile che ora il quadro fosse
diverso solo perché i miei occhi lo avrebbero visto in un altro modo?” (73)
Conclusioni
Mi trovo in totale comunione
questa volta con il libro, con la patologia e con la cura. Abbiamo tutti,
spesso, nella vita, un bisogno di “adeusinho”. Nella grande accezione che ce ne
dà Tabucchi (e forse anche Bajani), certo non in quel comodo “arrivederci”
della normale traduzione italiana del termine portoghese. A chi si sta allontanando,
meglio questo piccolo addio. E quelle parole che dice Tabucchi quando finalmente
riesce a “non aver bisogno” di Pessoa.
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