domenica 11 dicembre 2016

Meglio i nuovi - 11 dicembre 2016

Un’altra settimana dedicato ad un quartetto italiano, con tre autori “moderni” ed uno storico. Sebbene Flaiano mi piaccia in molte forme, non mi ha esaltato in questa, pur degna di essere letta e commentata. Meglio i nuovi allora: meglio Presta, anche quando non parla dai microfoni della radio, meglio Stassi con questa opera prima che forse andava segnalata meglio da Sellerio, meglio Culicchia, con questa rivisitazione della sua opera prima.
Fabio Stassi “Fumisteria” Sellerio euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 01/09/2015– I: 14/05/2016 – T: 18/05/2016] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 166; anno 2006]
Torno dopo quattro anni allo scrittore siculo-romano-viterbese, con piacere ed una punta di nervosismo. Non per lui ovviamente, ma per la nuova casa editrice cui si è affidato, anche se da me generalmente amata. Sellerio qui fa un’operazione “sporchetta” non citando (anche se può farlo perché Fabio ha rivisto la prima stesura) che il libro è del 2006, come indico sopra, e non del 2015, che è solo il copyright di Sellerio. In realtà, questa è la prima opera dello scrittore, con la quale, una decina di anni fa, ha pure vinto il Premio Vittorini opera prima. Ma tra i primi libri ed ora, Stassi è passato da Minimum Fax a Sellerio, e spesso, questi cambi portano a rinverdire qualche “verginità”. Tutto senza venir meno al rispetto ed al piacere di leggere dello scrittore, soprattutto a valle di quel monumentale libro che tengo sempre accanto al computer per ogni vario ed eventuale riferimento, “Curarsi con i libri”, di cui Fabio è il curatore italiano (dove ha saggiamente integrato citazioni e dolori con esempi provenienti dal panorama letterario italiano che le autrici non conoscono a fondo come noi). Detto inoltre, che, dopo il libro sugli scacchi e Capablanca, e quello sul calcio e la Coppa del Mondo, sto aspettando di capire se riuscirò a leggere il libro su Charlot, veniamo allora a questo esordio letterario di un autore allora già quarantenne. Un esordio che, come nell’appendice finale dedicata ad un intervento fatto dall’autore in occasione di una mostra su “Portella della Ginestra”, nasce dai racconti siciliani dei parenti, che, poco dopo i fatti narrati, emigrano al Nord, fermandosi nel Lazio. Come da lì riportato, tutto nasce da alcune riflessioni sui muli, su cosa rappresentino, sulle loro morti nel giorno della strage, per allargarsi poi ad una allegoria del potere e delle sue ramificazioni in quella Sicilia che era da non molto uscita, come tutta l’Italia, dalla guerra, ma che non si era (né si sarebbe) affrancata da servilismi e mafiosità. Spesso, inoltre, come documentato e variamente spiegato, in collusione aperta con chi detiene il potere, chiunque esso sia. Spiace solo a noi lettori e amanti delle lettere che l’attacco risuoni un po’ troppo “colombiano”. Nel senso che come nei migliori romanzi di Garcia Marquez, il libro comincia con una morte, e da quella si risale per ricostruire glia avvenimenti di cui si vuole narrare. Infatti, iniziamo subito con la morte, anzi l’assassinio di Rocco La Paglia, accoltellato nella piazza principale della fittizia cittadina sicula di Kalamet (ricalcata su tante simili addensate nella Piana degli Albanesi, dove viveva la comunità arbëreshë degli Stassi; per inciso, la stessa comunità, ma di origine calabrese, di Carmine Abate). Da questo fatto nascono alcuni racconti, che parlano di tutto e di contorni, cha alla fine servono a completare il quadro di cosa succede, di come e di perché. C’è la storia dell’avvocato Licata, legale dei latifondisti, misogino (e forse inconsapevolmente gay) che sposa in tarda età Ester, e che si lascia sfuggire un commento inopportuno su donne e fumo. C’è Rocco appunto, con la sua storia di comunista e sindacalista, colpito nel profondo dalla strage del bandito Giuliano, dalle collusioni con il potere, e da un bacio che quindici anni prima aveva scambiato con la bella Ester. Rocco che è un fumatore accanito. C’è lei, Ester, bella (e impossibile? ripercorrendo Gianna Nannini), colpita ventenne dal bacio di Rocco, da cui non si riprende mai, che aspetta il suo ritorno, ma Rocco sa che sono di classi diverse e rimarrà sempre nell’ombra, che sposa Licata con affetto ma senza amore, e che sviene vedendo il corpo di Rocco nella piazza. Ci sono i fantastici “tutori dell’ordine”, che, sviati ad arte da una lettera anonima, provvederanno ad incriminare Licata per delitto d’onore. C’è Donna Mariannina, domestica dell’avvocato, cameriera di Ester, sempre un po’ svagata, persa tra la cucina, il lavaggio e lo stiraggio, che si concede una sigaretta ogni tanto. C’è il contrabbandiere balbuziente, compagno di cella di Licata, che ci racconta gli avvenimenti al contorno (e non è un caso che viene esposto in corsivo), tra cui la possibile discesa nella paranoia dell’avvocato, ma che soprattutto ci parla della Sicilia, dei sindacalisti e di Portella. C’è infine Santo Cicala, l’amico fidato di Rocco, che alla fine ci svelerà (e lo farà ad Ester) tutti i retroscena, i come ed i perché. Ma questi non ve li dico. Non vi dico se Rocco era l’amante di Ester, se fu un delitto d’onore o un delitto di mafia, se… Val la pena di leggere queste poche pagine (che si riducono di molto se passiamo dal formato minimo di Sellerio ad una tiratura “normale”). Come nei primi libri, non mi dispiace lo stile di Stassi, il suo modo di porgere la storia, ed anche il fatto che non ci si dimentica mai degli umili e dei derelitti, di cui si costella il mondo intero. Non è completamente risolto in tutte le sue parti, ogni tanto riecheggia altro, ma lo considero una lettura affidabile. Finendo tuttavia con una piccola tiratina d’orecchi: a pagina 50 si parla di “ex potestà”, per indicare un funzionario fascista poi reintegrato dall’amnistia di Togliatti. Credo che il termine corretto sia invece “ex podestà”.
Marco Presta “Un calcio in bocca fa miracoli” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 27/07/2015 – I: 09/06/2016 – T: 15/06/2016] – &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 190; anno 2011]
Avevo da tempo adocchiato negli scaffali delle librerie qualche libro di Presta, e, memore della mia (sopita) passione del su “Ruggito del coniglio” condotto in coppia con l’ottimo Antonello Dose, mi ripromettevo prima o poi di aprirne delle pagine ad una tranquilla lettura. Ed eccoci allora affrontare questa strana storia, che mi ha attratto e respinto in ugual misura. Respinto perché non è che succeda poi tanto, siamo sempre nella testa del protagonista che attraversa uno squarcio di vita, e ad ogni piè sospinto, una frase, una situazione, sono spunti per narrare altro, per raccontare, per tornare indietro, ed anche per andare avanti. Si rimane sempre un po’ sorpresi da questo “vecchiaccio” di settantasei anni, che affronta questo suo momento di vita aggressivamente, ma inframmezzandolo con brani teneri e delicati. Bravo Presta! Anche perché sceglie come protagonista un vecchio scassacoglioni, uno di quei vecchietti che a leggerli ti fanno ridere, ma se ce l'hai come vicino di casa, l'unica cosa che desideri è lanciarlo giù per la tromba delle scale nella speranza che vada, finalmente, all'altro mondo. Il nostro “innominato” è pensionato, vive da solo, è separato dalla moglie, beh già mi sembrava di volergli bene. Poi è astioso, brontolone, misantropo, pieno di pulsioni, e di acciacchi. Mirabile la sua pisciata dal balcone! A fargli da contraltare c’è il suo storico amico Armando che ora, morta la moglie ed avvicinandosi al suo addio, decide di fare il cupido, di far mettere insieme due ragazzi che secondo lui sono fatti l’uno per l’altra. Riuscendo anche a coinvolgere il nostro. Nel mentre che i due cercano di far nascere la “felice” unione, Presta ci mostra come poi noi ci sia una grande differenza tra young e old. Il protagonista, infatti, ha un certo moto di interesse per la portinaia, vedova, ma che è interessata ed interessa ad un altro inquilino del palazzo. Ne nasce un triangolo simpatico e attempato (niente riferimenti a Renato Zero per favore), inframmezzando le voglie del nostro con le sue acide battute. Quelle appunto che fanno salire i punti del libro anche oltre le mie iniziali aspettative. Come quando la portinaia gli lascia il suo pappagallo da custodire dovendo andare in un viaggio di piacere con l’altro. E lui commenta: "Guardai la gabbietta con il pappagallino e trattenni la battuta per rispetto, ma avrei voluto farle notare che a me aveva dato l'uccello, al barista la passera." Nonostante sia asociale e cattivo, la bontà di Armando lo conquista, riuscendo a fargli fare cose che non pensa di fare. Cercare di rimettere insieme alcuni cocci della sua vita, non maltratta la figlia in crisi, anzi la ospita e le parla civilmente. Così come con civiltà riesce a rivolgersi alla ex moglie. Nel mezzo dei pugni e dei calci, in bocca e altrove, riesce a farci rivivere la storia d’amore di Armando e Francesca con una tenerezza malinconica. Così come, alla morte anche di Armando, continua la sua opera di “procacciatore di affetti”. Pieno di acciacchi che non vuole confessare, come il siparietto che riporto sotto verso i medici e gli anziani, alla fine si arrende al fatto che, nonostante tutto, è meno vecchio di quanto sostiene al mondo intero. Da anziano anche io (ma non così giurassico) mi ha fatto comunque nascere una piccola speranza. Che nel mondo ci possa essere la bontà di qualcuno, l’altruismo, forse il fatto che nei rapporti umani non tutto sia perduto, e che se si vuole le cose possono avviarsi ad essere aggiustate. Come ho detto, mi ha fatto ridere empaticamente lo sguardo del protagonista sulla sua salute: se non vado dal medico non può dirmi che sto male e quindi sto bene. Infine, mi piace quella sua cleptomania dedicata alle penne, che ho anche io. Non le rubo, ma le prendo in prestito in tutti gli alberghi che ho visitato in giro per il mondo. Insomma, mi aspettavo qualcosa di più forte, ma al solito, come per radio, Presta mi ha spiazzato, dandomi qualcosa di forte, ma anche di dolce. Che non è sempre alla stessa altezza ed intensità, ma che ho letto di gusto. Se ne riparlerà, Presta (ah, che battutaccia…).
“Mi è sempre mancato il coraggio di apparire ridicolo, la sola vera forma di coraggio.” (22)
“Conviene curarsi quando si sta bene, per rimanere in salute. A settantasei anni, si sta male per forza.” (120)
Giuseppe Culicchia “Tutti giù per terra Remixed” Mondadori euro 10
[A: 05/07/2016 – I: 01/09/2016 – T: 15/09/2016] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 139; anno 2014]
Non stupisca il lungo tempo occorso a leggere questo breve libretto. L’ho cominciato sull’aereo per il Ladakh, e poi abbandonato a lungo preso da tutte le cose che servivano al bellissimo viaggio (organizzazioni, mal di montagna, godersi panorami incantanti e mistiche atmosfere, e scusate se l’elenco potrebbe essere più lungo, ma qui si parla di libri. O no?). Poi l’ho anche finito e gustato. Sempre come spesso nei libri di Culicchia, di cui continua a piacermi la scrittura. Anche se questo è un libro particolare. Perché il primo libro che ha scritto nel 1994 è stato “Tutti giù per terra” (e ne ho parlato tramando il saggio sulla scrittura del nostro torinese). Qui fa un’operazione interessante. Passati venti anni, molte cose sono cambiate nella vita quotidiana. Ecco allora nasce l’idea di un remix. Come dice correttamente Wikipedia: “La caratteristica principale del remix è appropriarsi di materiale preesistente e modificarlo per creare qualcosa di nuovo”. Ecco quindi che Culicchia remixa il suo primo libro, introducendo elementi attuali (il cellulare o i social network, che non erano presenti allora), per vedere se il plot generale possa resistere all’usura del tempo. Credo che in opere maggiori il tempo non incida mai sulla struttura della storia. Difficile per me pensare ad un remix della Divina Commedia, anche se… Ma in opere molto legate alla quotidianità, se questa evolve, è bene, è utile, è interessante fare un lavoro “alla Culicchia”. Chi ha letto (o ricorda) il libro primigenio di Culicchia (quello non remixed, cioè) o che ha visto il film che ne ha tratto Ferrario nel ’97 con una stupenda interpretazione di Valerio Mastrandrea non ha bisogno che io ne riparli qui. Ma brevemente è utile, per gli altri, delineare la trama originaria: Walter è un ragazzo senza arte né parte, oppresso da un padre che lo spinge a cercare un posto fisso. Decide di occupare il tempo facendo il servizio civile. È difficile, non riesce a coltivare amicizie, ha difficoltà dei rapporti con le donne (non riesce ad avere un rapporto sessuale con Beatrice, e rimane un po’ sconvolto). Pur immerso nella Torino delle contraddizioni quotidiane, non si appassiona ai movimenti di protesta. L’unico suo chiodo fisso è scrivere. Dopo il servizio civile, trova posto come commesso in una libreria, dove mette in mostra il libro che contiene un suo racconto. E rimane folgorato da una signorina che entra nel negozio. Spostandosi venti anni in avanti, i tratti principali rimangono gli stessi. Ma si aggiornano i comportamenti. Il padre ora lo spinge a partecipare ai talent show, ed aspetta tutti i giorni una telefonata da Maria De Filippi. Si guardano video hard su Youporn, si socializza su Facebook, si sente la musica su YouTube. Ma in fondo Walter continua a rimanere solo. E continua a rifiutare l’omologazione. Non vuole partecipare ai social, non usa il cellulare. Memorabile la discussione-litigio con l’impiegata delle Poste che gli vuole vendere una SIM mentre lui vuole solo fare una raccomandata. Continua anche a non avere facilità nei rapporti. Né con Tamara, che lo sfrutta (tenta di sfruttarlo…) sessualmente, e con la quale non ha sintonia, né con Enza, che avrebbero anche qualcosa in comune, ma che pensa solo a farsi canne o altro. Cose che a Walter non vanno. Le vede ma non le fa. Sempre più tristi sono inoltre le rappresentazioni dei nomadi che Walter deve schedare, dove Culicchia ci rappresenta ora una realtà che è andata, giorno dopo giorno, anno dopo anno, diventando una cancrena inestirpabile. Ovviamente non troverà lavoro in una libreria, ma in un negozio di elettronica, magari in un Apple store (ci vuole sempre un po’ di pubblicità per sopravvivere). Anche qui verrà folgorato da una bellezza, e si dimenticherà finalmente di tutto. E si potrà liberare. Concludendo quel girotondo inconcludente iniziato nella prima pagina, dove tutto gira senza cambiare nulla. Alla fine, gira che ti gira, come nella canzoncina, siamo “tutti giù per terra”. Anch’io, ovvio. Ma io sono un ragazzo più ottimista di Culicchia. E da terra ci solleveremo ancora una volta per un nuovo girotondo. Fino a che, non accorgendoci più di cadere, non potremo risollevarci. Forse saremo passati ad altra vita. Per ora ci godiamo i sorrisi anche duri e cattivi di questo libro. Ci godiamo l’operazione di remixaggio che è stata per me divertente e riuscita. Ci godiamo il ricordo della lettura del libro, dei paesaggi indiani limpidi e puliti. Della sensazione di comunanza che nessuno, mai, cancellerà. Del libro stesso, fisicamente, che volò verso altri lidi, ma che sono sicuro rimarrà, in qualche modo, presente. Insomma, Culicchia aggiorna ed io non dimentico.
Ennio Flaiano “Tempo di uccidere” BUR euro 10,50
[A: 01/10/2014 – I: 25/09/2016 – T: 01/10/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313; anno 1947]
Unico libro scritto dal mago della penna di Pescara, che preferiva (ed io con lui, di quello che ho letto) l’aforisma, la corta battuta, al massimo l’elzeviro. Come dimenticare la caustica brevità di “Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi.” (dal “Diario degli errori”) o di “La stupidità degli altri mi affascina ma preferisco la mia.” (dal “Frasario per passare inosservati in società”). O meglio ancora quando si nascondeva dietro un regista per stendere una sceneggiatura (come dimenticare la collaborazione con Fellini in “La dolce vita” o in “8 e ½”?). Ma qui siamo di fronte al suo unico romanzo e di questo vogliamo parlare. Romanzo strano, complesso nella genesi, fulminante nella riuscita. Dopo aver scritto brevi racconti sulla sua esperienza di guerra africana, viene stimolato dall’amico Leo Longanesi a raccordarli in una trama unica, ed a farne un libro. Con l’idea, visto che Flaiano era già discretamente noto per scritti su vati giornali e riviste, di usarlo per lanciare un premio letterario che nasce proprio all’uscita del libro. E che viene vinto proprio da Flaiano con questo libro pubblicato da … Longanesi. Torniamo allora al testo. Un libro sulla guerra, ed in particolare sulla guerra di conquista in Etiopia, quella del 1936, quella della fondazione dell’Impero, secondo Mussolini. Un libro però in cui non si parla direttamente della guerra (o se ne parla poco e di sfuggita). La guerra c’è, ci sono morti, odi, attacchi narrati, ed altro. Ma mai direttamente. Si vede più il quotidiano del protagonista, con tutte le sue avventure, con tutte le sue peregrinazioni mentali che lo postano spesso e volentieri fuori dal seminato. Mi ha ricordato talvolta il film di Scola “Il mondo nuovo” (che spero avrete visto, un film fondamentale per leggere la Storia dalla parte della storia). Pur partendo dalla propria esperienza etiopica, e dai brevi racconti che ne aveva già tratto, quando si avventura nel complesso del romanzo, il tutto viene avvolto da un’atmosfera surreale, da una concatenazione di eventi che rischia di travolgere il protagonista (e forse lo fa). Tutto comincia con un mal di denti che il nostro soldato, anzi tenente, vuole curare. Per questo chiede una mini-licenza per andare da un dentista normale e non dal cavadenti della compagnia. Durante il viaggio, rallentato da camion che saltano in aria ed altre vicissitudini simili dovute alla guerra in corso, decide di proseguire a piedi. In una valle, di una calma altrettanto surreale, incontra una donna bellissima con un turbante bianco in testa. Dato che, come diceva Villaggio in “Carlo Martello”, “più che l’onor poté il digiuno”, sappiamo come va a finire. Ma nella notte africana, riposando accanto alla bella, sente i rumori che tutti noi, passati per il continente nero, abbiamo imparato a sentire. Ha paura, spara, ed una pallottola vagante accidentalmente uccide la donna. Qui cominciano le “follie” del nostro. Seppellisce la donna, fugge, comincia a sentire male ad una mano, viene informato che le donne con turbante bianco sono bandite dai villaggi in quanto portatrici di lebbra, si convince che ha la lebbra lui stesso. Cerca di farsi curare da un medico senza scoprirsi, ha paura della reazione di questo, gli spara ma lo manca. Continua a fuggire raggiungendo Massaua, dove pensa di potersi imbarcare clandestinamente per l’Italia. Ma non ha i soldi, si lega ad un maggiore che si sta arricchendo con traffici illegali, lo deruba, e tenta di uccidere anche lui (togliendo i bulloni ad una ruota del camion). Il tenente continua ad accumulare paure: che si trovi il cadavere dell’africana, che il dottore ed il maggiore lo denuncino, che abbia seriamente la lebbra. Si rifugia allora nel bosco, presso il nero Johannes, che, dopo lunghi momenti di reciproca insofferenza (muta che nessuno parla la lingua dell’altro) arrivano ad una convivenza (quasi) pacifica. Tanto che Johannes lo cura, ed una volta guarito e stanco, il nostro eroe decide di tornare al comando per costituirsi. Ma dove scopre che nessuno lo ha denunciato, che la licenza non è scaduta, e che potrà tornare in Italia e riabbracciare la moglie. Sostenuto da lirismo surreale nella prima parte (stupenda la scena in cui il tenente mette una sigaretta in bocca ad un caimano), ad un certo punto Flaiano si rende conto che non può continuare ad accumulare storie su storie e deve avviarsi verso la fine. Scendendo dal surreale al reale si perde di slancio, di compattezza, e tutta la parte in cui l’antagonista non è più il tenente con sé stesso, ma si presenta nel nero Johannes, la trovo lenta e poco felice. Per questo non sono stato soddisfatto della lettura di pancia. Rimane quella di testa, rimane un libro che deve essere letto se si vuole entrare nei meandri di un’epoca che spesso viene poco seguita in libri e testi e romanzi ed altro. Ma un voto di testa a me non basta per arrivare ad una piena sufficienza. Mi dispiace per Flaiano, e tornerò a rileggere (e lo consiglio) solo l’appendice finale, quella “Aethiopia”, diario scritto durante la guerra dove vengono alla luce, direttamente, i pensieri e le sensazioni di un tenente a contatto con quello strano continente. Dove si capisce anche la nascita dell’antifascismo di Flaiano. Che qui saluto con un’altra sua frase “Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa” (da “La solitudine del satiro”).
“Sessanta [chilometri], insomma dodici ore di marcia di buon passo [cioè cinque chilometri all’ora, sotto il sole africano, mi sembra una buona prova… nota mia].” (229)
Essendo la seconda trama del mese non può mancare una cura, che gli strani voleri del caso ci portano verso un’elaborazione del lutto, guidati da un grande piccolo libro di Tabucchi.
Seppur con tutte le difficoltà del caso, pare che, mattoncino dopo mattoncino, un nuovo viaggio si vada delineando per il prossimo anno. Per ora ci si lavora, e si vedrà. Per ora ci si prepara ad affrontare il rush finale verso il Natale, salutandovi sempre con affetto.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2016
Non me ne vogliate se, in questi giorni che si avvicinano ad una grande nascita, sia capitato un momento dedicato all’elaborazione del lutto. Ci vuole anche questo, per continuare a vivere e raccontare.

LUTTO, ELABORAZIONE DEL

Antonio Tabucchi “Requiem”
Andrea Bajani     “Mi riconosci”
Elaborare un lutto è un viaggio lungo, difficile, doloroso. “Requiem” può essere un compagno ideale, una lettura intrisa di nostalgia e di commozione. Tabucchi lo scrisse in portoghese. In quella lingua esiste una parola che altre lingue non hanno, e questa parola è “adeusinho”. Un diminutivo per la più difficile delle cerimonie: il momento di dire addio a qualcuno a cui si è voluto bene. Come se si potesse essere delicati anche nella separazione e addomesticare con un piccolo trucco verbale la tristezza. Questo libro di Tabucchi è un “adeusinho” a tante persone e a tante cose. Una specie di sogno, di visione o di allucinazione, nell’attesa di incontrare per le strade di Lisbona il fantasma di Pessoa. Si sale e si scende sudati da un taxi, ci si ferma davanti al Tago, si dorme in un albergo a ore. Per scoprire che tutto è sulla stessa linea del tempo, le persone e i segreti, i Padri Giovani, gli amici. Leggetelo in treno, come si conviene a un viaggio. Raccontare, e ascoltare in fondo, è uno dei pochi modi che gli uomini hanno inventato per procrastinare la morte.
A Tabucchi stesso, un anno dopo la sua scomparsa, è toccata la sorte più strana per uno scrittore, quella di essere trasformato in un personaggio. E il regalo-congedo che gli ha fatto un suo amico, un altro giovane scrittore, Andrea Bajani, scrivendo per lui un secondo requiem, elaborazione universale e tenerissima di un lutto che vale per ogni perdita e per ogni dolore. La storia è vera, ma come sempre la buona letteratura, non potendo ripetere la realtà, la inventa di nuovo, in altra forma, ne resuscita il sentimento, mette in relazione il tempo passato, sfida la casualità dei fatti che sono accaduti e cerca di recuperare un senso. E così un libro privato si trasforma, cambia natura e gli stessi protagonisti diventano degli archetipi: il giovane scrittore indossa i panni di tutti i giovani scrittori in cerca di un maestro, e il maestro incarna tutti i maestri e il loro sguardo di fronte all’alunno che si è riconosciuto come il più simile a sé stesso.
Perché è proprio il riconoscimento il grande tema del romanzo. Già dal titolo, tratto da un verso di Rilke contenuto nei Sonetti a Orfeo, che Tabucchi stesso spedì in un sms ad Andrea, dopo il loro primo incontro: “Mi riconosci, tu aria, piena ancora di luoghi un tempo miei?”. Nessuno dei due poteva sospettare la coerenza che quelle lettere digitate su un telefonino avrebbero assunto qualche anno dopo. Rilke aveva composto i sonetti a Orfeo per una ragazza giovanissima, una ballerina morta di leucemia. Il suo era un canto elegiaco che seguiva un lutto e il mito di Orfeo una metafora perfetta della poesia: lo sforzo estenuante di far tornare in vita ciò che si è perduto, di strappare al tempo un’effimera visione.
Così, quando tre o quattro anni dopo lo scrittore grande si ammala, il più giovane riprende l’aereo e al ricovero finale lo va a trovare, contro il suo volere. A Lisbona, questa volta. Per un’ultima galanteria, le ultime parole. E poi solo una cucina vuota, il dolore dei famigliari, le tazzine nel lavello, le sedie ripiegate contro il muro. Il loro è un dialogo tra un padre e un figlio elettivi di fronte allo sgomento della scrittura, della vecchiaia, della malattia, del silenzio definitivo e dell’orfanezza. Un fado struggente e malinconico, ma di consapevole e luminosa ricomposizione della mancanza. Una vicenda di porte chiuse al momento di cenare, di isolamenti e di case, di telefonate notturne, di sorprese e confessioni, di dispetti, ironie e anche bisticci. Un piccolo atlante del pianto pieno di luce e di pudore, coraggioso nel pendolare tra le impertinenze della morte e quelle della vita, tra un battesimo e un commiato.

Bugiardino

Sono da sempre un estimatore delle piccole elegie di Tabucchi, di cui ho letto moltissimo, e sono anche io tra i tanti che hanno dolorosamente registrato la sua dipartita. Non ho però letto il libro di Bajani, e dopo questa lettura “luttuosa”, penso che prima o poi dovrò farlo.
Antonio Tabucchi “Requiem – un’allucinazione” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 6,30 euro)
[trama pubblicata l’8 febbraio 2015]
La prima sorpresa che mi ha dato la lettura di questo libro di Tabucchi è quella che vedete nella prima pagina interna una volta aperto il libro. Perché questo racconto è scritto in portoghese, sua lingua di adozione, perché solo in questa lingua l’autore ritiene sia possibile dar vita e suono a quella sensazione di “saudade” che non sarebbe esprimibile in altri idiomi, quell’utilizzo del termine legato all’addio verso chi ci ha lasciato (adeusinho) che non è trasferibile dal portoghese in altre lingue. Tant’è che Tabucchi la traduzione in italiano ha voluto fosse fatta da altri, sempre per ribadire il concetto di inesprimibilità, e sottolineando quindi l’immancabile tradimento che una traduzione produce verso il testo. Quindi, seppur impoverito nel testo, ora ne seguiamo e ne leggiamo. Non per parlare di un romanzo (che spesso Tabucchi scrive ma non si riesce a catalogarne la scrittura), né tanto meno di un racconto lungo. In effetti, è un’allucinazione quella che cerca di descrivere. O meglio, una serie di sogni, di segni e di racconti, che fanno in modo e consentono all’autore di dire addio ad uno scrittore e ad un personaggio che tanta parte hanno avuto nella vita stessa di Tabucchi. Dopo aver contribuito alla riscoperta ed al rilancio in Italia di Ferdinando Pessoa, ora Tabucchi se ne deve staccare, deve proseguire la sua strada di letterato. Deve quindi rivolgere un Requiem a Pessoa, e lo fa in queste pagine, dove, mescolando sogno e realtà, parla di sé, ma anche di Pessoa. Parla con i personaggi di Pessoa, mischiati con amici e compagne della sua vita. Ma in definitiva è un libro intramabile, è talmente rarefatto negli accadimenti che narrarne vorrebbe quasi dire riproporlo per intero. Certo il personaggio che si muove per le pagine, e per Lisbona, fa alcune cose. Cerca un amico in un cimitero, sogna una donna, va in un Museo a vedere un quadro (con una descrizione che mi ricorda la mia ricerca della chiesa di Van Gogh al Museo d’Orsay), va in un bar (magari nella rua Garrett). I personaggi che si incontrano sono tanti e ognuno racconta qualcosa: essi riflettono insieme al protagonista sulla propria vita, su modi di pensare o costumi. Li si potrebbe definire suggestive figure di fantasia, divertenti. Al lettore piace guardarli e scoprirli nel corso della lettura come se fossero dei casi umani che stuzzicano la curiosità. Sono molto vari, ma hanno qualcosa in comune: sono romantici, quasi poetici. Persino la Vecchia Zingara, la Moglie del Guardiano del Faro o il Venditore di Storie hanno, pur nella loro semplicità, un fascino misterioso, forse dovuto alla profondità delle emozioni che trasmettono attraverso le loro parole. L'incontro fondamentale, quello al quale il narratore si prepara fin dal mattino, è l'ultimo della giornata, e ha come protagonista il grande poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935), o forse il suo fantasma. Dal quale alla fine riesce a staccarsi, lì sul molo della città, ed a tornare alla propria vita. O al proprio sogno. Infatti, tutto è avvolto da quella atmosfera onirica che speso compare negli scritti di Tabucchi (soprattutto nei primi). Ed in realtà appunto non è la trama, quella che risalta alla fine, ma la scrittura, le piccole microstorie che compaiono (e che certamente un amante e conoscitore di Pessoa saprebbe collocare meglio di me nell’universo mondo dello scrittore portoghese), la ricerca e la necessità di accomiatarsi da qualcosa che per lungo tempo è stata vicina all’autore, e che adesso ne diventa un fardello. Come detto, ci riesce, riuscendo anche a regalarmi un ultimo sussulto di felicità, con quelle note finali, dedicate a cosa si è mangiato durante tutto il sogno: la feijoada (minestra di fagioli), i papos de anjos (dolcetti di uova e mandorle), i piatti di pane come le migas e l’açorda, la fresca bevanda di frutta chiamata sumol, l’arroz de tamburi (il riso alla rana pescatrice), l’ensopado de borreguinho (stufato di interiora di agnello). Per poi finire con il menu futurista della Mariazinha: zuppa “Amor de Perdiçao” (zuppa di coriandolo e pollo dal titolo di un libro di Camilo Castelo Branco), insalata “Mendes Pinto” (con avocado, gamberi e soia, dal nome del grande navigatore portoghese), cernia “tragico-marittima” (come dall’omonima Historia di naufragi del Seicento), sogliola “intersezionista” (dal nome del movimento artistico creato da Pessoa nel 1914), anguille di Gafeira alla Delfino (luogo inventato dallo scrittore José Cardos Pires per il suo romanzo “O Delfim”) e baccalà allo “scherno e maldicenza” (così come venivano chiamate le liriche satiriche del Duecento portoghese). Con questa cena tutta intellettuale, Tabucchi lascia finalmente Pessoa perché “ero io ad aver bisogno di lei, però adesso vorrei smettere di avere bisogno”. Ecco una bella, agile, veloce lettura, intellettuale quanto basta, ma eponima della capacità e del bisogno di dire addio a qualcuno o a qualcosa. Un bisogno di adeusinho.
“Non era possibile che ora il quadro fosse diverso solo perché i miei occhi lo avrebbero visto in un altro modo?” (73)

Conclusioni


Mi trovo in totale comunione questa volta con il libro, con la patologia e con la cura. Abbiamo tutti, spesso, nella vita, un bisogno di “adeusinho”. Nella grande accezione che ce ne dà Tabucchi (e forse anche Bajani), certo non in quel comodo “arrivederci” della normale traduzione italiana del termine portoghese. A chi si sta allontanando, meglio questo piccolo addio. E quelle parole che dice Tabucchi quando finalmente riesce a “non aver bisogno” di Pessoa.

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