Non nel senso della frutta, pur degna e
sostenitrice dei nostri momenti di sconforto in molte parti del mondo carenti
di potassio. No, qui siamo a celebrare la Banana giapponese, con un altro libro
che mi ha emozionato moltissimo. E che distanzia alla grande le altre scrittrici
di questa trama. Certo, la turco-tedesca Aykol continua a darmi soddisfazione.
Meno invece la Winterson delle ciliegie. Rimanendo invece sospesi tra il più ed
il meno con la scrittura della francese Sagan, che tuttavia va più sul
negativo.
Esmahan Aykol “Tango a Istanbul” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato
a 12,60 euro)
[A: 25/09/2014– I: 30/03/2016 – T: 01/04/2016] - &&&
[tit. or.: Tango Istanbul; ling. or.: tedesco; pagine: 297;
anno 2012]
[tit. or.: İstanbul Tango; ling. or.: turco; pagine: 297;
anno 2012]
Rimane
sempre il mistero, non sciolto neanche da lunghe ricerche librarie, su quale
sia la lingua in cui scrive Esmahan e da quale lingua sia tradotta in italiano.
Le ultime prove, non definitive purtroppo, ci portano alla scrittura in turco,
con versione in tedesco della stessa autrice (che come spero ricordiate è
bilingue) e traduzione in italiano dal tedesco, come risulterebbe anche dalle
precedenti uscite presso Sellerio. Detto ciò, ritorno dopo quattro anni alla
lettura delle avventure stambuliote di Kati Hirschel, e continuo a collocarla
tra le scritture di romanzo e non di genere. I media ed internet proseguono ad
indicare Esmahan Aykol come autrice di “kriminalroman”, ma io insisto nel dire
che qui di kriminal c’è poco o nulla. C’è molta Turchia, ci sono molte
situazioni di immigrati in terra turca, ci sono anche, di contorno, una o forse
due morti, ma queste, pur scatenanti le ricerche della nostra Kati, non entrano
nel computo di misteri da risolvere. Certo, all’inizio non sono chiare, ma si
chiariranno, e daranno vita ad un sotto finale con alcune (poche) spiegazioni.
E di certo non è la loro soluzione che porta acqua al mulino del libro. Che,
purtroppo, rispetto agli altri romanzi della nostra scrittrice, non è che abbia
molta acqua. Forse ci si concentra troppo sulle paturnie comportamentali di
Kati, dandole molto (troppo) spazio, senza riuscire a sviluppare in modo più
coerente tutto il contorno. Ovvio che non dimentico, e rimango sempre favorevolmente
colpito, dal tono scanzonato di Esmahan, della vita di Kati, proprietaria di
una libreria specializzata in libri gialli e sita vicino alla Torre di Galata
(ahi, quanti bei ricordi…), sfortunata partecipe ci molti idilli amorosi (nei
precedenti romanzi) e qui in procinto di cadere nella rete del fascinoso Armin
(ma rimane tutto sospeso, rimandandoci, spero, ad una nuova puntata),
contornata dai suoi dipendenti: il gay Fofo, qui molto defilato, e la sempre
impaurita Pelin, che qui invece dà il via alla vicenda (essendo amica della
comatizzante Nil). Con la presenza, puntuale e precisa, dell’amica Lele, suo
contraltare tutto turco (ritardataria, innamorata, giornalista e tecnologica).
Si diceva di Nil, l’amica di Pelin, che cade inaspettatamente (giovane di una
trentina d’anni) in coma. Kati, curiosa ed impertinente, si pone al centro
della scena, prima accogliendo il fratello di Nil, poi assumendo l’incarico di
capire motivi ed azioni che stanno portando Nil alla morte (e forse anche
Karem, il suo ricco fidanzato). Qui si innestano, con un po’ difficoltà invero,
la trama di tipo A, quella che ha portato al titolo, e che cerca di portarci
fuoristrada. Perché Nil sta scrivendo un libro sulla fuga in Argentina di suo
nonno, che lascia moglie e figli, per scappare addirittura con una “greca”
(eresia per un turco…). Libro complesso che dovrebbe spaziare tra Smirne e
Buenos Aires, tra balli tradizionali e tanghi bollenti (tanto che Nil si era
anche iscritta ad un corso di Tango, vicino ad Istiklal Caddesi, e non dico
altro, che chi conosce Istanbul sa già di che zona sto parlando). Nel libro si
dovrebbe anche parlare della dittatura Argentina, facendo sottili paragoni con
Erdogan e compagnia. Ma è tutto fumo negli occhi, perché noi ci concentriamo
sul libro, pensando che qualcuno abbia cercato di uccidere Nil perché svelava
segreti turco-argentini. Ma in questa piccola ricerca, Kati, con l’aiuto della
colf di colore di Nil, scopre i veri segreti di Nil, filmati con diversi e
pesanti ricatti a sfondo sessuale. Questo il secondo filone del racconto, dove
la nostra scrittrice se la prende (a ragione) con i guasti della corrotta
società turca (e come non fare subito paralleli con la nostra società di facile
corruzione e di uscita difficile dal suo marasma). Ripeto però che tutto serve
solo a dare uno spaccato della Turchia di oggi, del suo traffico, di Besiktas
ed Uskudar, di Galata e Karakoy, del Pera Palace e di Piazza Taksim, dei
giornalisti (quelli imprigionati da Erdogan) e delle piccole o grandi rivolte
locali, del caffè, dei panini al formaggio. Portandoci per mano verso la
conoscenza di un miele (il “miele matto” della Colchide, noto e ben descritto
fin nell’Anabasi i Senofonte), che risorge dalle sue ceneri come miele tossico
neozelandese, derivante dalle radici del “tutu”, una specie di rododendro
locale. Ma non mi interessa questa strada, preferisco tornare all’altra, ed
alla citazione, non casuale, di pagina 255 del nostro Roberto Saviano e della
sua lotta per la libertà e contro le mafie. Per questo torno a collocare Aykol
tra le scrittrici di buoni romanzi e non di genere, e spero di leggere ancora
qualcosa di suoi, magari che si migliori un po’. Inciso finale: in casa di Nil
c’è una installazione di Julian Opie, e chi sa di arte capisce che per quella
casa devono passare di soldi, e molti. Io mi scuso della mia ignoranza, e sono
dovuto andare a cercarne in rete; e devo dire che non mi dispiace.
“Gli elementi decorativi del tappeto erano
esattamente ventidue. I numeri a cifra ripetuta non portano mai a niente di
buono … I numeri primi [invece] sono fantastici, i migliori in assoluto.”
(17)
Jeanette Winterson “Il sesso delle ciliegie” Mondadori euro 9,50
[A: 19/10/2015– I: 21/08/2016 – T: 24/08/2016] - &&
e ½
[tit. or.: Sexing the Cherry; ling. or.: inglese; pagine: 189; anno 1989]
Devo
dire che mi lascia alquanto perplesso l’idea delle “dottoresse dei libri” di
inserire questo come libro fondamentale per chi ha venti anni. Ho letto altro
di Jeanette Winterson, mi è discretamente piaciuto. Questo, lasciandomi anche
abbastanza perplesso, non credo lo consiglierei a molti. E di certo non ha chi
abbia venti anni, cui probabilmente suggerirei di dedicarsi ancora agli epigoni
del giovane Holden. Forse il solo elemento che un ventenne potrebbe apprezzare
è questo bandire il tempo. Non esiste passato o futuro, c’è forse un eterno
presente, che è quello che viviamo. Che come un pendolo ci porta qua e là,
riportandoci sempre, ed è questo il suggerimento che direi di cogliere, verso
noi stessi. Per gustare il libro, quindi, bisogna mollare qualche freno,
sganciarsi un po’ dalla pesantezza del nostro essere, e far viaggiare la
fantasia. Il tentativo della scrittrice inglese tuttavia non mi ha convinto
fino in fondo. Troppe e troppo intriganti le metafore, i salti, anche le
capriole. Tutto sembra da un lato ribadire un vezzo che trovo deleterio negli
scrittori moderni. Quanto sono bravo, vediamo se riesci a seguire i miei voli
pindarici. Per questo, a volte, preferisco tornare ad un ruvido presente,
magari chiazzato di giallo, come sanno bene i miei appassionati, seppur pochi,
estimatori. Allora, veniamo quindi a noi, a queste ciliegie, che per la maggior
parte del tempo ci fanno vivere la vicenda ai tempi di Cromwell. Dato poi che
noi non siamo inglesi, un po’ di fatica abbiamo a seguirne le trame nascoste,
che la storia inglese non è pane di tutti i giorni per me. Una vicenda quindi
che si snoda, principalmente, poco dopo la metà del 1600, tra le vicende della
rivolta di Cromwell appunto (circa 1658) e la grande peste di Londra (che fece
75.000 morti intorno al 1665). Almeno è così che l’autrice ci porta a leggere.
Ed in quel tempo vediamo snodarsi la storia di Jordan e di sua madre. Una donna
enorme, allevatrice di cani, che salva un bimbo dalle acque del Tamigi (tipo Mosè
salvato dalle acque) e lo chiama Jordan (cioè Giordano). Vediamo Jordan
crescere, vediamo la madre adottiva fare mille attività, raccontarci mille
episodi, anche truculenti, del suo essere enorme. Vediamo infine Jordan trovare
una propria strada, prima come aiuto del giardiniere del Re. Poi, il Re
deposto, ed altre vicende inglesi che non vi sto a narrare, Jordan che parte su
di una nave. Per tornare alla madre solo in morte di quest’ultima. Storia nella
storia, c’è la vicenda della ballerina e delle sue sorelle. Che Jordan vede (o
sogna) di una fantastica ballerina. La cercherà per tutto il mondo e per tutte
le isole del mondo. Veniamo così a conoscere la storia fantastica delle dodici
principesse. Che ogni notte fuggono dal loro letto per visitare una città
sospesa in cielo. Che vengono scoperte e date in moglie a dodici fratelli.
Vediamo anche come ognuna, a proprio modo, effettuerà una truculenta vendetta.
Solo una però fugge prima del matrimonio, vola su di una fune e non farà più
ritorno. Anche quando Jordan, innamorato, la cercherà ovunque. Facile la
metafora di una fuga dai propri ruoli verso un’autentica libertà non solo di
facciata. Poi nel finale, l’autrice ci spiazza ancora, portandoci ad una storia
del presente (almeno del presente della scrittura). Dove ritroviamo, e senza
troppa difficoltà riconosciamo, tutti i personaggi della storia. Qui il cerchio
si chiude. Qui la storia, almeno per la scrittrice, dovrebbe avere un senso. Il
passato è un presente traslato. Noi siamo qui ed ora, e le nostre vicende
possono collocarsi ovunque nel tempo. Anche nel futuro delle dodici sorelle.
Anche, e soprattutto, nel ruolo immaginario della ballerina. Dobbiamo seguire i
nostri sogni, senza condizionamenti. Dobbiamo essere noi stessi, sia se siamo
sognatori come Jordan. Sia se siamo enormi e sgraziati come la madre adottiva.
Ci dice, infine, che è anche l’amore (ed ovvio che l’amore e l’immaginazione
vanno sempre a braccetto) che ricongiunge luoghi e persone. L’amore opera
miracoli. L’amore ed il viaggio. Come non essere d’accordo? Sembra quasi che si
parli di me. Purtroppo, la scrittura non rende felice questo viaggio tra le
pagine. Mi sono appassionato all’idea. Mi ha sconcertato e raffreddato la sua
realizzazione. Allora, bando alla scrittura, e largo all’amore. Con tutto
quello che ne consegue.
Françoise Sagan “Bonjour tristesse” Mondadori euro 9 (in realtà,
scontato a 7,65 euro)
[A: 09/02/2016– I: 16/09/2016 – T: 19/09/2016] - &&&---
[tit. or.: Bonjour tristesse; ling. or.: francese; pagine: 151;
anno 1954]
Ero
sempre stato tra l’incudine ed il martello verso la Sagan ed i suoi libri. Mi
dicevo che valeva forse la pena leggerne, poi me ne allontanavo spinto dalle
polemiche da lei suscitate in vita, e in cui non volevo, mentalmente, essere
coinvolto. Spinto alfine dalla biblioterapia che ne consiglia la lettura a chi
sia molto triste, ed acquistato in un periodo che, fortunatamente, triste non
era, ne ho letto con una cura premonitiva, sgomberando la mente da preconcetti,
evitando anche di leggere il bel commento che ne fa Valeria Parrella (una
scrittrice che io amo). Il risultato è una buona lettura, un libro
interessante, che, se poi lo inquadriamo nel periodo di scrittura e nel mondo
in cui nasce, assume anche altri significati trasversali. Era la Francia del poco
dopo guerra. Quella dei Sarte, dei Camus, dei bistrò con Boris Vian e Juliette
Greco. Françoise è una diciannovenne sveglia, irrequieta, che con difficoltà (viene
più volte rimandata) riesce a diplomarsi e ad entrare in università. E scrive
di getto questo libro, che si presenta come contraltare di quel mondo. Che
descrive una modalità inquieta sì, ma spensierata (forse anche troppo), dedita
ai piaceri della vita, anche se non (almeno nell’apparenza) fatua. Di certo
ingenua, anche se qualcuno direbbe volutamente. Come quando Françoise fa dire
alla sua alter-ego Cécile: "Avevo spiegato a mio padre che volevo
iscrivermi a Lettere, frequentare gente colta e diventare famosa e pedante”. La
storia, narrata da Cécile in prima persona, e che ce ne presenta i turbamenti,
i segni che la storia stessa le lascerà addosso, comincia con un inno a Paul
Éluard, ed alla sua poesia, riproposta in esergo, che inizia con “Addio
tristezza / Buongiorno tristezza”. E sarà questo buongiorno che diverrà il
marchio di fabbrica di Françoise-Cécile. Che ci racconta la storia di questa
estate trascorsa sulla Costa Azzurra. Con il gaudente padre Raymond,
imperterrito donnaiolo, e la sua ultima amante, Elsa, di poco più grande di
Cécile. Seppur sul filo della noia, anche se con qualche punto di batticuore,
dovuta alla presenza di tal Cyril, ventenne studente di legge poco più grande
di lei; Cecile non è innamorata di lui, lei è innamorata del contatto fisico e
del piacere che ne ricava. I giorni trascorrano così, lenti e mondani. Il tutto
si rompe con l’arrivo di una vecchia amica di famiglia, Anne. Aristocratica,
raffinata, colta e sensibile. Che cerca di fare la vice-madre alla nostra
giovane (la cui madre è morta da qualche anno). Ma che soprattutto (e bene
risalta nella scrittura) fa fare delle figure barbine alla povera Elsa. Questa
si brucia al sole, Anne si abbronza. Elsa si sbronza, Anne regge l’alcool e le
situazioni difficili. Raymond, com’è ovvio, ben presto si sbarazza di Elsa, e
propone addirittura ad Anne di sposarla. Ovvio che Cécile diventi super gelosa.
Vedersi portare via il padre è già un trauma, e vederselo portare via da una
donna che si ammira, non può che centuplicare il già latente complesso di
Elettra (in psicoanalisi il complesso di Elettra è una sorta di analogo
femminile del complesso di Edipo; secondo la definizione di Carl Gustav Jung
tale complesso si definisce come il desiderio della bambina di possedere il
padre e della competizione con la propria madre per il possesso del genitore).
Cécile quindi mette in scena un teatrino micidiale. Convince Cyril a
corteggiare Elsa pubblicamente, certa che il padre ne diventi geloso. Cosa che
puntualmente accade, dove Raymond tenta un nuovo approccio con Elsa, e con Anne
che li scopre, vedendo anche lei che l’uomo non cambierà mai. Delusa e
disillusa, parte in macchina per Parigi, ed avrà (o si lascerà avere) un
incidente mortale. Qui finalmente arriva la tristezza in fondo al cuore (e che
con il grande Lucio ripetiamo “come la neve, non fa rumore”). Qui arrivano le
domande di Cécile-Françoise se sia stata lei la causa del tutto, quasi a
credersi Dio essa stessa, fattrice e disfattrice della vita di tutti. Poi la
vita prosegue, come era prima di Anne, quasi che fosse un solo piccolo intoppo
nel corso della vita stessa. E nel futuro, pur rimanendo la tristezza, se ne
potrà parlare come una cara amica che ci è stata strappata. Come qualcuno ha
notato, io non sono riuscito ad entrare in empatia con nessun personaggio, e la
scrittura denota i nostri sessanta anni. Pur tuttavia è un libro importante, anche
al di là di questo. Per quello che ha rappresentato, per le capacità della
scrittrice, per il bando che ne fece il Vaticano (troppo licenzioso, ma se lo
leggete vi domanderete a lungo il perché). Mi è quindi piaciuto a metà, forse
solo per quella rabbia che ha dentro e che noi non si riesce a tirare fuori. O
forse perché, incongruamente, dalla tristezza del poeta di Françoise è emerso
il mio analogo poeta francese, quel Jacques Prévert di cui mi venivano in mente
quelle righe meravigliose dei “Trois allumettes” (Tre fiammiferi accesi uno per
uno nella notte / Il primo per vederti tutto il viso / Il secondo per vederti
gli occhi / L'ultimo per vedere la tua bocca / E tutto il buio per ricordarmi
queste cose / Mentre ti stringo fra le braccia). Ma si sa che io sono un
incorreggibile francofilo romantico.
“Avevamo … le risate e l’amore; li
ritroveremo mai come erano in quell’estate, con quello splendore, con quella
intensità?” (114)
Banana Yoshimoto “Moshi moshi” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato
a 6 euro)
[A: 12/06/2015 – I: 20/09/2016 – T: 24/09/2016] - &&&&
+
[tit. or.: もしもし下北沢 Moshi Shimokitazawa; ling. or.: giapponese; pagine: 206; anno 2010]
Intanto, per chi (e sono pochi,
ovvio) non conosce il giapponese, avverto che “moshi moshi” è il modo, in
generale, con cui i giapponesi rispondono al telefono. Corrispondente,
all’incirca, all’inglese “Hello”. Ed il titolo giapponese riporta infatti correttamente
quel “Hello Shimokitazawa”, dove il secondo è il nome di un quartiere
commerciale di Tokyo dove si trasferisce la protagonista. Senza questo
preambolo, poco risalta della vicenda successiva, seppur intensa, triste, e
scritta benissimo (oltre che tradotta magistralmente da Gala Maria Follaco). E
si comprende l’accenno al telefono ad un certo punto delle vicissitudini
oniriche della protagonista, la simpatica Yoshie. Anche se intriso in ogni riga
di tristezza, è anche un libro che sulla tristezza costruisce una speranza, o
una via di percorrenza che ci porta ad una speranza, che ci porta fuori da un
tunnel. Seguiamo per le molte (per Banana) pagine la vicenda di Yoshie, che sta
cercando di elaborare un terribile lutto: il padre si è (sembra si sia, non si
capisce molto bene, ma è poco importante) suicidato insieme ad una sua amante.
Doppio lutto: morte del padre tanto amato, musicista, session man, sempre
allegro. Presenza di un’amante accanto a lui. Certo sapevano tutti che il padre
non è un modello di virtù, ma era uno che tornava sempre a casa. Stava sempre
molto in giro (anche chi è musicista è un viaggiatore, no?), ma tornava sempre
dalla moglie (con cui si poteva parlare anche di sciocchezze) e dalla figlia.
Per superare il trauma, Yoshie si trasferisce dalla sua casa di Meguro a un
minuscolo e vecchio appartamento a Shimokitazawa, un quartiere di Tokyo famoso
per le sue stradine chiuse al traffico, i ristoranti, i negozietti, nonché meta
degli alternativi della capitale. Qui Yoshie spera, aiutata dall’atmosfera
vivace, di superare il dolore e dare una nuova direzione alla sua vita.
Soprattutto avendo iniziato a lavorare in un ristorante. Il rapporto con il
cibo, oltre che la musica, è fondamentale per Yoshie, ma anche per Banana. Si
parla di cibi giapponesi, di come cucinarli, di quale sia il momento migliore
della giornata per gustarli. Un giorno, però, sua madre le si presenta a casa
all’improvviso con una borsa Birkin di Hermès e qualche sacchetto. Yoshie non
se la sente di mandarla via (anche se ne ha la tentazione), instaurando così un
momento di vita a due che, alla fine, servirà ad entrambe per uscire. Anche la
madre, poi, dopo momenti di sbandamento, si mette a lavoro in una situazione di
ristorazione. E spesso madre e figlia, si ritrovano a parlare davanti ad una
tavola imbandita. Se fatto con le persone giuste, è uno dei migliori momenti di
condivisione che ci possano essere. Cibo è istinto, è immediatezza, lo si ama o
lo si odia senza mediazioni. Così come si ama o si odia che ci sta vicino. Così
Banana ci parla di pranzi, di cene, del tè delle cinque, ma anche della
giornata lavorativa e dei clienti. Di quello che viene sempre lì e con il quale
avrà una storia. Della signora che era la moglie di un diverso amante della
donna che si è uccisa con il padre di Yoshie. Qualcuno parla di banalità del
quotidiano. Io ci vedo i piccoli moti del cuore, le piccole cose giganti che ci
impegnano la vita. Importante sarà per Yoshie riuscire a parlare anche con gli
amici del padre, con i suoi compagni di musica. Uno in particolare, che con le
sue parole di amicizia (e forse anche qualcosa di più) le farà fare gli ultimi
passi. Ma non è importante seguire tutta la vicenda, come poco a me è importato
seguire anche le storie sessuali di Yoshie (ognuno può fare l’amore con chi
vuole e non ci si scandalizzi troppo). Quello che seguo (anche con dolore) è la
forza di chi non si nasconde, di chi si mette in discussione, quando e
soprattutto c’è da mettersi in discussione. Come in molti scritti di Banana
tutto è delicato, accennato, sorvolato. Ma se si legge con cuore aperto e mente
sgombra, molti sono gli stimoli che ci somministra ed i pensieri che ci
suscita, le riflessioni su noi stessi, sul nostro modo di vivere. Tanto che le
prime tre frasi che riporto mi hanno impegnato a lungo, anche perché lette
appena tornato dal mistico viaggio ladako. Con tutti glia alti e bassi, con
tutti i distinguo, credo che continuerò a leggere della simpatica giapponesina
(anche se ormai anche lei cinquantenne).
“Adesso voglio fare cose senza senso.” (18)
“Non ci crederai, ma al mondo non sono poi molte le persone con cui si
può parlare di sciocchezze.” (31)
“Per conoscersi ci vuole tempo, per capire se una persona ci piace o no
ce ne vuole ancora di più.” (50)
“Nei rapporti tra uomini e donne l’intelligenza non c’entra.” (92)
“Era il momento di smettere di compatirmi … tutt’a un tratto è accaduto
qualcosa che nessuno poteva prevedere, facendomi perdere il controllo, ma
questo può sempre succedere.” (110)
Siamo anche questo mese alla
terza trama, quindi un allegato sui libri che portano la felicità, che
ovviamente non può che essere legato al Natale. Tuttavia, essendo troppo
stringata la trama di Buzzati (una delle prime che ho buttato giù dieci anni
fa), ed essendo Natale, vi do in regalo un suo breve racconto.
Per il
resto si lavora, più o meno alacremente, alla definizione del prossimo viaggio,
che, tra un mese e mezzo, dovrebbe (e lo sottolineo più volte) portarci di
nuovo in Laos. Non manco però di augurare a tutti un Natale ricco di riposo e
di belle presenze.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
DICEMBRE 2016
Poiché siamo quasi a Natale, ecco che l’ottima Giulia ci
propone alcune pillole di Natale, che dovrebbero servire da contraltare alla
celebrata festa, qui intesa come uno dei possibili malanni di stagione.
MALANNI STAGIONALI (I)
NATALE D’AUTORE
Tanti i grandi scrittori che si sono confrontati con questo
tema perché, come non si può evitare di festeggiare il Natale, non si può
neanche evitare di scriverne.
Pasticche
d’autore
Non ne potete più di buonismo, buoni sentimenti e allegria
forzata? Siete esausti di storie tutte elfi, renne, slitte e Babbi Natale? Le
feste vi hanno spossato e privato delle forze? Sedetevi comodi in poltrona e
riacquistate energia e tono con “Il giorno più crudele”. È un antinfiammatorio
arricchito di vitamina C, un blister composto da do-dici racconti dedicati al
Natale da altrettanti mostri sacri della letteratura mondiale. Hans Christian
Andersen, Anton Cechov, Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Nikolaj Gogol’,
Mark Twain, Lev Tolstoj, Guy de Maupassant, Dylan Thomas, O. Henry, Carlo
Collodi e Luigi Pirandello. Sono storie a sfondo morale, ovviamente, ma non
moraleggianti per una lettura anticonvenzionale della più convenzionale delle
feste, uno sguardo un po’ dark sulla festività tutta luci e jingle bells. Sono
racconti di speranze perdute, tradimenti, tresche amorose, infanzie violate,
disperazione, povertà, infelicità, crudeltà, fantasmi, streghe, diavoli, ladri,
assassini... ma che ansia, starete pensando, ridatemi Santa Claus, Frosty, Rudy
la renna e pure tutto il mio parentado! Non temete, c’è spazio anche per
solidarietà, amore, coraggio e dignità, spesso conditi con umorismo (nero) e
una sferzante dose di saggezza d’autore. La raccolta è cattiva quanto basta per
concedersi un po’ di sana crudeltà, ma rigorosamente d'autore, in quello che
spesso si rivela “Il giorno più crudele”.
Avvertenza: se la medicina fosse troppo amara, si consiglia
di non assumerla a stomaco vuoto ma solo dopo aver affondato i denti in una
soffice fetta di pandoro. Non commerciale, ovviamente, ma d’autore.
Tra le altre chicche-pasticche d’autore natalizie per
autoimmunizzarsi alle feste o ammortizzarne i postumi, consiglio “Sogno di
Natale e altri racconti” in cui Luigi Pirandello si muove tra spiritualità e
senso del divino unendo nove racconti con il filo rosso, con tanto di fiocco,
delle festività. Disincanto, ingenuità, slancio e cinismo, le sfumature emotive
che colorano questa festa ci sono tutte, opportunamente filtrate
dall'interpretazione multi sfaccettata di Pirandello.
Tenero e struggente è “Ricordo di Natale” di Truman Capo-te,
incantevole storia d’amicizia tra un bambino e una signora che, soli al mondo,
ogni Natale mettono in atto un personale rituale di cui è difficile non
innamorarsi. Il ricordo cui allude il titolo è quello dell’ultimo Natale
trascorso insieme. Una lettura terapeutica e analgesica, da non lasciar-si
sfuggire.
Se vi sentite bisognosi di un’iniezione di spiritualità, immergetevi
nel “Racconto di Natale” di Dino Buzzati, contenuto nella raccolta “La boutique
del mistero”. In questo racconto fiabesco e surrealista, laico ma fortemente
spirituale, l’autore si interroga sui significati più autentici della
festività, ovvero l'amore divino e la condivisione contrapposti all’egoismo. È
possibile prolungare la cura in compagnia di Buzzati leggendo gli scritti, i
racconti e le fiabe natalizie raccolte ne “Il panettone non bastò”.
Giallo
Natale
Se saltare i festeggiamenti natalizi è un delitto che non vi
sentite di compiere, ma vi mettono i brividi e avete l’impressione che la
follia delle feste potrebbe farvi commettere gesti insani, rimediate subito con
un giallo Natale. Prescrivo l’assunzione di due classici una sorta di pandoro e
panettone della letteratura di genere.
Nelle favole edificanti a Natale le famiglie si riunisco-no
e mettono da parte ogni contrasto per festeggiare insieme. Nelle favole
edificanti, però, perché questo non accade quasi mai nella vita e tantomeno in
un libro firmato Agatha Christie. Ne “Il Natale di Poirot” la regina del giallo
mette in scena una situazione che rischia di accadere spesso quando i membri di
una famiglia si ritrovano sotto lo stesso tetto e ciascuno sembra fare di tutto
per tirare fuori il peggio di sé. Nel romanzo una riunione familiare si
trasforma in dramma quando il vecchio e tirannico capofamiglia vie-ne trovato
assassinato il giorno della vigilia. Come nella migliore tradizione, i parenti
hanno tutti un movente. Ma ci pensa Poirot, a cui nulla sfugge, che si tratti
di indizi o di sfumature dell’animo umano: “C’è in loro molta ipocrisia, a
Natale, onorevole ipocrisia, senza dubbio, ipocrisia pour le bon motif, ma
sempre ipocrisia. E lo sforzo per essere buoni e amabili crea un malessere che
può essere in definitiva pericoloso. Chiudete le valvole di sicurezza del
vostro contegno e presto o tardi la caldaia scoppierà provocando un disastro”.
Date retta al dottor Poirot.
Altro grande incubo delle festività natalizie sono i party,
i brindisi aziendali, gli auguri in ufficio, i festeggiamenti tra amici e
colleghi. C’è un piacevole antidoto an-che per questo, una delle più divertenti
avventure dell’investigatore amante della buona cucina e delle orchi-dee: Nero
Wolfe. “Natale di morte” di Rex Stout. Durante un Christmas party il padrone di
casa viene avvelenato con un bicchiere di Pernod. II sospettato è, come da
copione, il cameriere che, in osservanza alla tradizione natalizia, è
travestito da Babbo Natale. Ma sarà davvero lui il colpevole? (Trovate altri
rimedi di Agatha Christie e Rex Stout nella sezione Brividi di…).
Rimedio
indolore per un Capodanno d'autore
Capodanno vi mette di malumore? Ne detestate il
diverti-mento forzato? Siete allergici a cotillon, trenini, lustri-ni, botti e
fuochi d’artificio? Vi mette l’ansia dover aspettare la mezzanotte ingozzandovi
di zampone, cotechino e lenticchie c brindando con lo spumante mentre in TV
tutti cantano immancabilmente YMCA dei Village People? In conclusione, se il 31
dicembre vorreste andare in letargo dalle quattro del pomeriggio fino alla
mattina dopo, vi consiglio un rimedio per esorcizzare in modo diverso (e
indolore) la mezzanotte.
Per un Capodanno d’autore, suggerisco “Le intermittenze
della morte” di José Saramago. La surreale vicenda raccontata dallo scrittore
premio Nobel prende il via proprio il 31 dicembre, quando la Morte decide di
entrare in sciopero. Da quel momento nessuno muore più. Non ci sarebbe modo
migliore per cominciare il nuovo anno senonché, dopo l’iniziale euforia, cominciano
a verificarsi i primi problemi, anche di ordine pratico. Tutto il Sistema si
regge sulla morte, ci dice Saramago, dimostrando come l’immortalità sia in
fondo un ulteriore scherzo della vita. La Morte si vedrà costretta ad assumere
le sembianze di una donna e riprendere servizio. Ma “umanizzarsi” vuol dire
diventare fragili. Se pensate che questo libro sia il modo più deprimente per
aspettare il nuovo anno e avete il dubbio che forse sarebbe meglio andare al
veglione con i cotillon e il trenino piuttosto che sorbirvi questa veglia
funebre, vi sbagliate. Ironico, assurdo e paradossale, il romanzo di Saramago è
un originale inno alla vita che senza la morte sarebbe, purtroppo, priva di
senso, una lucida e profonda riflessione sulla fragilità umana ma anche sulla
forza che è in grado, se non di sconfiggere, quantomeno di piegare perfino la
morte.
Commenti
Ovviamente ho letto Agatha Christie ed a lungo ne parlo più
in basso. Ma lessi, in una delle prime trame, or son trascorsi dieci anni, il
bel libro di racconti di Dino Buzzati. Come facevo allora, la mia trama era
ridotta all’osso (tanto che qui raggiunge appena le tre righe). Allora, per
rimediare, non parlerò di altro del libro, che dovrete leggere, ma vi faccio un
piccolo regalo di Natale con un piccolo (tutto minuscolo questa volta)
racconto, che io ed il buon Achille abbiamo trovato superlativo.
Dino Buzzati “Il
panettone non bastò” Mondadori 8,40
[pubblicato il 24 dicembre 2006]
Una raccolta di scritti sul Natale. Non conosco molto
Buzzati, ma qui (e altrove, lì dove è superfluo) sto imparando a capire la
concisione di una parola, quando va dritta allo scopo. Mitico il Natale
eritreo, abeti e deserti.
Agatha Christie “Il
Natale di Poirot” Corriere della Sera 21 euro 6,90
[pubblicato il 14 febbraio 2016]
Se avete letto (o ricordate) quanto ho detto per “La
domatrice”, qui non possiamo che ripeterci. È un periodo che Agatha scrive
molto, e la forma “Orient-Express” ha ormai preso piede. Così che la
ritroviamo, e con efficacia, anche qui. Qui la complicazione è dovuta alla
difficoltà di spiegare le modalità della morte del personaggio centrale, di
quel Simeon Lee, donnaiolo e miliardario, ex trafficanti di diamanti in
Sudafrica, patriarca di una famiglia un po’ scombiccherata, e poi super ricco
tornato in quel dell’Inghilterra. Ma la situazione inziale è di pura routine
“agathesca”. Descrizione della famiglia Lee (oltre al patriarca
insopportabile): i coniugi Alfred e Lydia, quelli che sono rimasti per
proseguire la tradizione di famiglia; i coniugi George e Magdalena, lui
deputato, lei “spendacciona”, fuori di casa, ma il vecchio li foraggia sempre;
i coniugi David e Hilde, lui andato via di casa alla morte della madre, e
fattosi una vita da pianista, lei molto empatica, ma non ha mai conosciuto il
vecchio. Poi c’è Harry, la pecora nera, andato via di casa da giovane in
seguito a qualche ruberia verso il padre, e mai tornato. E Jennifer, l’unica
donna, fuggita con uno spagnolo e da poco morta, lasciando la ventenne Pilar
unica nipote di famiglia. Sentendo che la fine si avvicina, Simeon convoca
tutti per il Natale. E tutti arrivano, anche Pilar dalla Spagna, dopo un
avventuroso viaggio attraversando le zone della guerra civile ancora alle
ultime battute (siamo nel ’38). E dal Sudafrica arriva anche Stephen, figlio di
Eb, vecchio amico e socio di Simeon ai tempi dei diamanti. La scrittrice spende
una buona metà del libro per descrivere i caratteri dei presenti, incluso il
losco maggiordomo Horbury. E la vigilia di Natale, quando sono tutti in casa, e
tutti ad un tiro d’occhio o di voce dagli altri, con un gran fracasso ed un
urlo belluino, muore il vecchio. Ovviamente la porta della stanza è chiusa
dall’interno. Ovviamente, una volta aperta, tutte le finestre sono sbarrate, a
parte un filo d’aria che viene dal balconcino, ma da dove non passerebbe
neanche un gatto magro. Altrettanto ovviamente, Poirot è ospite del capo della
polizia locale, e con lui si precipita sulla scena del delitto, dove il
sovraintendente Sugden già coordina le indagini. Anche qui, Poirot tira fuori
tutta la sua baldanza, sostenendo (come al solito per il suo modo di indagare)
che parlando con gli ospiti della casa riuscirà ad arrivare alla verità. E
all’artefice del delitto. Assistiamo così alle felici scaramucce verbali cui
tanto ci ha abituato la nostra. Aumentate da un felice scambio di opinioni tra
Poirot e Sugden, sui modi, sulle possibilità, sulla ricostruzione del delitto.
Altro trucco della nostra signora del giallo, quello che all’inizio sembrava
essere, viene a poco a poco smontato. Non l’alibi di Alfred e Harry, rimasti in
salone a litigare sul tema del figliol prodigo. Né quello di Lydia, in sala
grande e vista dal cameriere. Né infine quello di Horbury, che era al cinema.
Resiste anche David, nella sala da ballo al pianoforte. Ma George finisce la
telefonata 10 minuti prima dell’urlo. Magdalena mente dicendo che telefonava,
invece era il marito al telefono. Pilar sosteneva di stare nella sua stanza da
letto, ma da lì non si sarebbe sentito l’urlo. Hilda era nelle sue stanze, ma
non sarebbe potuta arrivare per prima. Infine Stephen non è stato visto da
nessuno. Inoltre spariscono i diamanti dalla cassaforte, così come Simeon
avrebbe detto a Sugden, ultimo ad averlo visto in vita. Poi si scopre che
Stephen è solo un amico del sudafricano, che in realtà è morto due anni prima.
E la sua posizione si aggrava. E si scopre che Pilar in realtà è la sua amica
Conchita, essendo Pilar morta in Spagna sotto le bombe. E perché Sugden ha i
baffi finti? Pilar-Conchita dice di aver voluto visitare Simeon, ma che davanti
alla porta c’era Hilda. Così si nasconde tra le statue, ma raccoglie un pezzo
di plastica sul luogo del delitto. Viene però vista dal colpevole, che tenterà
di ucciderla. Anche Magdalena non era dove doveva essere. Nel solito finale con
tutti i presenti, Poirot spiega che il trambusto è stato provocato da una fune
che, tirata dalla finestra socchiusa, ha fatto cadere i mobili. E l’urlo era
provocato dallo scoppio guidato di un palloncino da fiera. Scoprendo così il
vero colpevole nella persona di… Piccola suspense, che anche qui, nella trama
che solca i binari collaudati, Agatha mette una piccola zeppa, sempre per
rendere meno consueti i suoi finali. Ricorda, in minore, il famoso caso Akroyd.
Tuttavia, pur nella ripetitività e nel solco di avventure similari, le sue
storie hanno il fascino della complicazione degli elementi. Hanno la bellezza
dello svelamento totale dei misteri. E fa piacere seguire, a distanza a volte
di giorni, a volte di mesi, cosa faranno i protagonisti usciti indenni dalla
vicenda. In questi primi romanzi c’è quasi sempre Poirot come abbiamo notato.
Con una capacità di soluzione che ammiro. Pavento quando si tornerà a Miss
Marple, che ancora non ho inquadrato bene. Vedremo.
“- Tesoro, quanta
pazienza hai avuto in tutti questi anni. Sei stata così buona con me. – E sai
perché? Perché ti amo!” (272)
Finalino
Spero che vi sia piaciuto l’omaggio, e spero che questo
Natale sia di buon auspicio e di belle speranze, per tutti i miei amici cari, e
per tutti quelli che mi leggono per passare qualche momento di tranquilla
spensieratezza. Che le due entità hanno quasi tutti i punti in comune.
Inviti superflui - Dino Buzzati
Vorrei che tu venissi da me in una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri,
guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni
delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri
fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso
le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spianavano dai ciuffi di muschio
sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là
forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi
palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti
ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda
stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daranno tetro suono le
lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole
antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti,
rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, ne battesti mai
alla porta del castello deserto, ne camminasti nella notte verso il lume
lontano lontano, ne ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da
piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo
muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io
chiederei "Ti ricordi?", ma
tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera,
col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno
prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che
fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi;
e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono
bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti
sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione.
Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose
insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai
casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i
vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché
le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi
dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche
che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora
giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione.
Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove
dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel
giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient'altro.
Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria,
continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei
boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di
legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella
lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai.
E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole,
contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime
delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché
noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime
divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza
capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi
chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti
"Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché
purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei
pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie
della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo.
Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera,
in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di
età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una
specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce
degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi
manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saranno costretti a guardarci, non
per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per
via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene -
invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti
dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le
ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi,
né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte
orgogliosa. Ne udresti quella specie di musica, ne capiresti perché la gente ci
guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra
di tè le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io
sarei solo. E inutile.
Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me,
non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido
tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi
staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di
giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa
disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò
qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né
guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste
cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico,
se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei
soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie
così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere
abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole
accadere in ogni parte del mondo. Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana,
centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una
vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente
sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti
dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome.
Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli
ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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