domenica 18 dicembre 2016

Banana forever 18 dicembre 2016

Non nel senso della frutta, pur degna e sostenitrice dei nostri momenti di sconforto in molte parti del mondo carenti di potassio. No, qui siamo a celebrare la Banana giapponese, con un altro libro che mi ha emozionato moltissimo. E che distanzia alla grande le altre scrittrici di questa trama. Certo, la turco-tedesca Aykol continua a darmi soddisfazione. Meno invece la Winterson delle ciliegie. Rimanendo invece sospesi tra il più ed il meno con la scrittura della francese Sagan, che tuttavia va più sul negativo.
Esmahan Aykol “Tango a Istanbul” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 12,60 euro)
[A: 25/09/2014– I: 30/03/2016 – T: 01/04/2016] - &&&
[tit. or.: Tango Istanbul; ling. or.: tedesco; pagine: 297; anno 2012]
[tit. or.: İstanbul Tango; ling. or.: turco; pagine: 297; anno 2012]
Rimane sempre il mistero, non sciolto neanche da lunghe ricerche librarie, su quale sia la lingua in cui scrive Esmahan e da quale lingua sia tradotta in italiano. Le ultime prove, non definitive purtroppo, ci portano alla scrittura in turco, con versione in tedesco della stessa autrice (che come spero ricordiate è bilingue) e traduzione in italiano dal tedesco, come risulterebbe anche dalle precedenti uscite presso Sellerio. Detto ciò, ritorno dopo quattro anni alla lettura delle avventure stambuliote di Kati Hirschel, e continuo a collocarla tra le scritture di romanzo e non di genere. I media ed internet proseguono ad indicare Esmahan Aykol come autrice di “kriminalroman”, ma io insisto nel dire che qui di kriminal c’è poco o nulla. C’è molta Turchia, ci sono molte situazioni di immigrati in terra turca, ci sono anche, di contorno, una o forse due morti, ma queste, pur scatenanti le ricerche della nostra Kati, non entrano nel computo di misteri da risolvere. Certo, all’inizio non sono chiare, ma si chiariranno, e daranno vita ad un sotto finale con alcune (poche) spiegazioni. E di certo non è la loro soluzione che porta acqua al mulino del libro. Che, purtroppo, rispetto agli altri romanzi della nostra scrittrice, non è che abbia molta acqua. Forse ci si concentra troppo sulle paturnie comportamentali di Kati, dandole molto (troppo) spazio, senza riuscire a sviluppare in modo più coerente tutto il contorno. Ovvio che non dimentico, e rimango sempre favorevolmente colpito, dal tono scanzonato di Esmahan, della vita di Kati, proprietaria di una libreria specializzata in libri gialli e sita vicino alla Torre di Galata (ahi, quanti bei ricordi…), sfortunata partecipe ci molti idilli amorosi (nei precedenti romanzi) e qui in procinto di cadere nella rete del fascinoso Armin (ma rimane tutto sospeso, rimandandoci, spero, ad una nuova puntata), contornata dai suoi dipendenti: il gay Fofo, qui molto defilato, e la sempre impaurita Pelin, che qui invece dà il via alla vicenda (essendo amica della comatizzante Nil). Con la presenza, puntuale e precisa, dell’amica Lele, suo contraltare tutto turco (ritardataria, innamorata, giornalista e tecnologica). Si diceva di Nil, l’amica di Pelin, che cade inaspettatamente (giovane di una trentina d’anni) in coma. Kati, curiosa ed impertinente, si pone al centro della scena, prima accogliendo il fratello di Nil, poi assumendo l’incarico di capire motivi ed azioni che stanno portando Nil alla morte (e forse anche Karem, il suo ricco fidanzato). Qui si innestano, con un po’ difficoltà invero, la trama di tipo A, quella che ha portato al titolo, e che cerca di portarci fuoristrada. Perché Nil sta scrivendo un libro sulla fuga in Argentina di suo nonno, che lascia moglie e figli, per scappare addirittura con una “greca” (eresia per un turco…). Libro complesso che dovrebbe spaziare tra Smirne e Buenos Aires, tra balli tradizionali e tanghi bollenti (tanto che Nil si era anche iscritta ad un corso di Tango, vicino ad Istiklal Caddesi, e non dico altro, che chi conosce Istanbul sa già di che zona sto parlando). Nel libro si dovrebbe anche parlare della dittatura Argentina, facendo sottili paragoni con Erdogan e compagnia. Ma è tutto fumo negli occhi, perché noi ci concentriamo sul libro, pensando che qualcuno abbia cercato di uccidere Nil perché svelava segreti turco-argentini. Ma in questa piccola ricerca, Kati, con l’aiuto della colf di colore di Nil, scopre i veri segreti di Nil, filmati con diversi e pesanti ricatti a sfondo sessuale. Questo il secondo filone del racconto, dove la nostra scrittrice se la prende (a ragione) con i guasti della corrotta società turca (e come non fare subito paralleli con la nostra società di facile corruzione e di uscita difficile dal suo marasma). Ripeto però che tutto serve solo a dare uno spaccato della Turchia di oggi, del suo traffico, di Besiktas ed Uskudar, di Galata e Karakoy, del Pera Palace e di Piazza Taksim, dei giornalisti (quelli imprigionati da Erdogan) e delle piccole o grandi rivolte locali, del caffè, dei panini al formaggio. Portandoci per mano verso la conoscenza di un miele (il “miele matto” della Colchide, noto e ben descritto fin nell’Anabasi i Senofonte), che risorge dalle sue ceneri come miele tossico neozelandese, derivante dalle radici del “tutu”, una specie di rododendro locale. Ma non mi interessa questa strada, preferisco tornare all’altra, ed alla citazione, non casuale, di pagina 255 del nostro Roberto Saviano e della sua lotta per la libertà e contro le mafie. Per questo torno a collocare Aykol tra le scrittrici di buoni romanzi e non di genere, e spero di leggere ancora qualcosa di suoi, magari che si migliori un po’. Inciso finale: in casa di Nil c’è una installazione di Julian Opie, e chi sa di arte capisce che per quella casa devono passare di soldi, e molti. Io mi scuso della mia ignoranza, e sono dovuto andare a cercarne in rete; e devo dire che non mi dispiace.
“Gli elementi decorativi del tappeto erano esattamente ventidue. I numeri a cifra ripetuta non portano mai a niente di buono … I numeri primi [invece] sono fantastici, i migliori in assoluto.” (17) 
Jeanette Winterson “Il sesso delle ciliegie” Mondadori euro 9,50
[A: 19/10/2015– I: 21/08/2016 – T: 24/08/2016] - && e ½ 
[tit. or.: Sexing the Cherry; ling. or.: inglese; pagine: 189; anno 1989]
Devo dire che mi lascia alquanto perplesso l’idea delle “dottoresse dei libri” di inserire questo come libro fondamentale per chi ha venti anni. Ho letto altro di Jeanette Winterson, mi è discretamente piaciuto. Questo, lasciandomi anche abbastanza perplesso, non credo lo consiglierei a molti. E di certo non ha chi abbia venti anni, cui probabilmente suggerirei di dedicarsi ancora agli epigoni del giovane Holden. Forse il solo elemento che un ventenne potrebbe apprezzare è questo bandire il tempo. Non esiste passato o futuro, c’è forse un eterno presente, che è quello che viviamo. Che come un pendolo ci porta qua e là, riportandoci sempre, ed è questo il suggerimento che direi di cogliere, verso noi stessi. Per gustare il libro, quindi, bisogna mollare qualche freno, sganciarsi un po’ dalla pesantezza del nostro essere, e far viaggiare la fantasia. Il tentativo della scrittrice inglese tuttavia non mi ha convinto fino in fondo. Troppe e troppo intriganti le metafore, i salti, anche le capriole. Tutto sembra da un lato ribadire un vezzo che trovo deleterio negli scrittori moderni. Quanto sono bravo, vediamo se riesci a seguire i miei voli pindarici. Per questo, a volte, preferisco tornare ad un ruvido presente, magari chiazzato di giallo, come sanno bene i miei appassionati, seppur pochi, estimatori. Allora, veniamo quindi a noi, a queste ciliegie, che per la maggior parte del tempo ci fanno vivere la vicenda ai tempi di Cromwell. Dato poi che noi non siamo inglesi, un po’ di fatica abbiamo a seguirne le trame nascoste, che la storia inglese non è pane di tutti i giorni per me. Una vicenda quindi che si snoda, principalmente, poco dopo la metà del 1600, tra le vicende della rivolta di Cromwell appunto (circa 1658) e la grande peste di Londra (che fece 75.000 morti intorno al 1665). Almeno è così che l’autrice ci porta a leggere. Ed in quel tempo vediamo snodarsi la storia di Jordan e di sua madre. Una donna enorme, allevatrice di cani, che salva un bimbo dalle acque del Tamigi (tipo Mosè salvato dalle acque) e lo chiama Jordan (cioè Giordano). Vediamo Jordan crescere, vediamo la madre adottiva fare mille attività, raccontarci mille episodi, anche truculenti, del suo essere enorme. Vediamo infine Jordan trovare una propria strada, prima come aiuto del giardiniere del Re. Poi, il Re deposto, ed altre vicende inglesi che non vi sto a narrare, Jordan che parte su di una nave. Per tornare alla madre solo in morte di quest’ultima. Storia nella storia, c’è la vicenda della ballerina e delle sue sorelle. Che Jordan vede (o sogna) di una fantastica ballerina. La cercherà per tutto il mondo e per tutte le isole del mondo. Veniamo così a conoscere la storia fantastica delle dodici principesse. Che ogni notte fuggono dal loro letto per visitare una città sospesa in cielo. Che vengono scoperte e date in moglie a dodici fratelli. Vediamo anche come ognuna, a proprio modo, effettuerà una truculenta vendetta. Solo una però fugge prima del matrimonio, vola su di una fune e non farà più ritorno. Anche quando Jordan, innamorato, la cercherà ovunque. Facile la metafora di una fuga dai propri ruoli verso un’autentica libertà non solo di facciata. Poi nel finale, l’autrice ci spiazza ancora, portandoci ad una storia del presente (almeno del presente della scrittura). Dove ritroviamo, e senza troppa difficoltà riconosciamo, tutti i personaggi della storia. Qui il cerchio si chiude. Qui la storia, almeno per la scrittrice, dovrebbe avere un senso. Il passato è un presente traslato. Noi siamo qui ed ora, e le nostre vicende possono collocarsi ovunque nel tempo. Anche nel futuro delle dodici sorelle. Anche, e soprattutto, nel ruolo immaginario della ballerina. Dobbiamo seguire i nostri sogni, senza condizionamenti. Dobbiamo essere noi stessi, sia se siamo sognatori come Jordan. Sia se siamo enormi e sgraziati come la madre adottiva. Ci dice, infine, che è anche l’amore (ed ovvio che l’amore e l’immaginazione vanno sempre a braccetto) che ricongiunge luoghi e persone. L’amore opera miracoli. L’amore ed il viaggio. Come non essere d’accordo? Sembra quasi che si parli di me. Purtroppo, la scrittura non rende felice questo viaggio tra le pagine. Mi sono appassionato all’idea. Mi ha sconcertato e raffreddato la sua realizzazione. Allora, bando alla scrittura, e largo all’amore. Con tutto quello che ne consegue.
Françoise Sagan “Bonjour tristesse” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 09/02/2016– I: 16/09/2016 – T: 19/09/2016] - &&&--- 
[tit. or.: Bonjour tristesse; ling. or.: francese; pagine: 151; anno 1954]
Ero sempre stato tra l’incudine ed il martello verso la Sagan ed i suoi libri. Mi dicevo che valeva forse la pena leggerne, poi me ne allontanavo spinto dalle polemiche da lei suscitate in vita, e in cui non volevo, mentalmente, essere coinvolto. Spinto alfine dalla biblioterapia che ne consiglia la lettura a chi sia molto triste, ed acquistato in un periodo che, fortunatamente, triste non era, ne ho letto con una cura premonitiva, sgomberando la mente da preconcetti, evitando anche di leggere il bel commento che ne fa Valeria Parrella (una scrittrice che io amo). Il risultato è una buona lettura, un libro interessante, che, se poi lo inquadriamo nel periodo di scrittura e nel mondo in cui nasce, assume anche altri significati trasversali. Era la Francia del poco dopo guerra. Quella dei Sarte, dei Camus, dei bistrò con Boris Vian e Juliette Greco. Françoise è una diciannovenne sveglia, irrequieta, che con difficoltà (viene più volte rimandata) riesce a diplomarsi e ad entrare in università. E scrive di getto questo libro, che si presenta come contraltare di quel mondo. Che descrive una modalità inquieta sì, ma spensierata (forse anche troppo), dedita ai piaceri della vita, anche se non (almeno nell’apparenza) fatua. Di certo ingenua, anche se qualcuno direbbe volutamente. Come quando Françoise fa dire alla sua alter-ego Cécile: "Avevo spiegato a mio padre che volevo iscrivermi a Lettere, frequentare gente colta e diventare famosa e pedante”. La storia, narrata da Cécile in prima persona, e che ce ne presenta i turbamenti, i segni che la storia stessa le lascerà addosso, comincia con un inno a Paul Éluard, ed alla sua poesia, riproposta in esergo, che inizia con “Addio tristezza / Buongiorno tristezza”. E sarà questo buongiorno che diverrà il marchio di fabbrica di Françoise-Cécile. Che ci racconta la storia di questa estate trascorsa sulla Costa Azzurra. Con il gaudente padre Raymond, imperterrito donnaiolo, e la sua ultima amante, Elsa, di poco più grande di Cécile. Seppur sul filo della noia, anche se con qualche punto di batticuore, dovuta alla presenza di tal Cyril, ventenne studente di legge poco più grande di lei; Cecile non è innamorata di lui, lei è innamorata del contatto fisico e del piacere che ne ricava. I giorni trascorrano così, lenti e mondani. Il tutto si rompe con l’arrivo di una vecchia amica di famiglia, Anne. Aristocratica, raffinata, colta e sensibile. Che cerca di fare la vice-madre alla nostra giovane (la cui madre è morta da qualche anno). Ma che soprattutto (e bene risalta nella scrittura) fa fare delle figure barbine alla povera Elsa. Questa si brucia al sole, Anne si abbronza. Elsa si sbronza, Anne regge l’alcool e le situazioni difficili. Raymond, com’è ovvio, ben presto si sbarazza di Elsa, e propone addirittura ad Anne di sposarla. Ovvio che Cécile diventi super gelosa. Vedersi portare via il padre è già un trauma, e vederselo portare via da una donna che si ammira, non può che centuplicare il già latente complesso di Elettra (in psicoanalisi il complesso di Elettra è una sorta di analogo femminile del complesso di Edipo; secondo la definizione di Carl Gustav Jung tale complesso si definisce come il desiderio della bambina di possedere il padre e della competizione con la propria madre per il possesso del genitore). Cécile quindi mette in scena un teatrino micidiale. Convince Cyril a corteggiare Elsa pubblicamente, certa che il padre ne diventi geloso. Cosa che puntualmente accade, dove Raymond tenta un nuovo approccio con Elsa, e con Anne che li scopre, vedendo anche lei che l’uomo non cambierà mai. Delusa e disillusa, parte in macchina per Parigi, ed avrà (o si lascerà avere) un incidente mortale. Qui finalmente arriva la tristezza in fondo al cuore (e che con il grande Lucio ripetiamo “come la neve, non fa rumore”). Qui arrivano le domande di Cécile-Françoise se sia stata lei la causa del tutto, quasi a credersi Dio essa stessa, fattrice e disfattrice della vita di tutti. Poi la vita prosegue, come era prima di Anne, quasi che fosse un solo piccolo intoppo nel corso della vita stessa. E nel futuro, pur rimanendo la tristezza, se ne potrà parlare come una cara amica che ci è stata strappata. Come qualcuno ha notato, io non sono riuscito ad entrare in empatia con nessun personaggio, e la scrittura denota i nostri sessanta anni. Pur tuttavia è un libro importante, anche al di là di questo. Per quello che ha rappresentato, per le capacità della scrittrice, per il bando che ne fece il Vaticano (troppo licenzioso, ma se lo leggete vi domanderete a lungo il perché). Mi è quindi piaciuto a metà, forse solo per quella rabbia che ha dentro e che noi non si riesce a tirare fuori. O forse perché, incongruamente, dalla tristezza del poeta di Françoise è emerso il mio analogo poeta francese, quel Jacques Prévert di cui mi venivano in mente quelle righe meravigliose dei “Trois allumettes” (Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte / Il primo per vederti tutto il viso / Il secondo per vederti gli occhi / L'ultimo per vedere la tua bocca / E tutto il buio per ricordarmi queste cose / Mentre ti stringo fra le braccia). Ma si sa che io sono un incorreggibile francofilo romantico.
“Avevamo … le risate e l’amore; li ritroveremo mai come erano in quell’estate, con quello splendore, con quella intensità?” (114)
Banana Yoshimoto “Moshi moshi” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 12/06/2015 – I: 20/09/2016 – T: 24/09/2016] - &&&& +   
[tit. or.: もしもし下北沢 Moshi Shimokitazawa; ling. or.: giapponese; pagine: 206; anno 2010]
Intanto, per chi (e sono pochi, ovvio) non conosce il giapponese, avverto che “moshi moshi” è il modo, in generale, con cui i giapponesi rispondono al telefono. Corrispondente, all’incirca, all’inglese “Hello”. Ed il titolo giapponese riporta infatti correttamente quel “Hello Shimokitazawa”, dove il secondo è il nome di un quartiere commerciale di Tokyo dove si trasferisce la protagonista. Senza questo preambolo, poco risalta della vicenda successiva, seppur intensa, triste, e scritta benissimo (oltre che tradotta magistralmente da Gala Maria Follaco). E si comprende l’accenno al telefono ad un certo punto delle vicissitudini oniriche della protagonista, la simpatica Yoshie. Anche se intriso in ogni riga di tristezza, è anche un libro che sulla tristezza costruisce una speranza, o una via di percorrenza che ci porta ad una speranza, che ci porta fuori da un tunnel. Seguiamo per le molte (per Banana) pagine la vicenda di Yoshie, che sta cercando di elaborare un terribile lutto: il padre si è (sembra si sia, non si capisce molto bene, ma è poco importante) suicidato insieme ad una sua amante. Doppio lutto: morte del padre tanto amato, musicista, session man, sempre allegro. Presenza di un’amante accanto a lui. Certo sapevano tutti che il padre non è un modello di virtù, ma era uno che tornava sempre a casa. Stava sempre molto in giro (anche chi è musicista è un viaggiatore, no?), ma tornava sempre dalla moglie (con cui si poteva parlare anche di sciocchezze) e dalla figlia. Per superare il trauma, Yoshie si trasferisce dalla sua casa di Meguro a un minuscolo e vecchio appartamento a Shimokitazawa, un quartiere di Tokyo famoso per le sue stradine chiuse al traffico, i ristoranti, i negozietti, nonché meta degli alternativi della capitale. Qui Yoshie spera, aiutata dall’atmosfera vivace, di superare il dolore e dare una nuova direzione alla sua vita. Soprattutto avendo iniziato a lavorare in un ristorante. Il rapporto con il cibo, oltre che la musica, è fondamentale per Yoshie, ma anche per Banana. Si parla di cibi giapponesi, di come cucinarli, di quale sia il momento migliore della giornata per gustarli. Un giorno, però, sua madre le si presenta a casa all’improvviso con una borsa Birkin di Hermès e qualche sacchetto. Yoshie non se la sente di mandarla via (anche se ne ha la tentazione), instaurando così un momento di vita a due che, alla fine, servirà ad entrambe per uscire. Anche la madre, poi, dopo momenti di sbandamento, si mette a lavoro in una situazione di ristorazione. E spesso madre e figlia, si ritrovano a parlare davanti ad una tavola imbandita. Se fatto con le persone giuste, è uno dei migliori momenti di condivisione che ci possano essere. Cibo è istinto, è immediatezza, lo si ama o lo si odia senza mediazioni. Così come si ama o si odia che ci sta vicino. Così Banana ci parla di pranzi, di cene, del tè delle cinque, ma anche della giornata lavorativa e dei clienti. Di quello che viene sempre lì e con il quale avrà una storia. Della signora che era la moglie di un diverso amante della donna che si è uccisa con il padre di Yoshie. Qualcuno parla di banalità del quotidiano. Io ci vedo i piccoli moti del cuore, le piccole cose giganti che ci impegnano la vita. Importante sarà per Yoshie riuscire a parlare anche con gli amici del padre, con i suoi compagni di musica. Uno in particolare, che con le sue parole di amicizia (e forse anche qualcosa di più) le farà fare gli ultimi passi. Ma non è importante seguire tutta la vicenda, come poco a me è importato seguire anche le storie sessuali di Yoshie (ognuno può fare l’amore con chi vuole e non ci si scandalizzi troppo). Quello che seguo (anche con dolore) è la forza di chi non si nasconde, di chi si mette in discussione, quando e soprattutto c’è da mettersi in discussione. Come in molti scritti di Banana tutto è delicato, accennato, sorvolato. Ma se si legge con cuore aperto e mente sgombra, molti sono gli stimoli che ci somministra ed i pensieri che ci suscita, le riflessioni su noi stessi, sul nostro modo di vivere. Tanto che le prime tre frasi che riporto mi hanno impegnato a lungo, anche perché lette appena tornato dal mistico viaggio ladako. Con tutti glia alti e bassi, con tutti i distinguo, credo che continuerò a leggere della simpatica giapponesina (anche se ormai anche lei cinquantenne).
“Adesso voglio fare cose senza senso.” (18)
“Non ci crederai, ma al mondo non sono poi molte le persone con cui si può parlare di sciocchezze.” (31)
“Per conoscersi ci vuole tempo, per capire se una persona ci piace o no ce ne vuole ancora di più.” (50)
“Nei rapporti tra uomini e donne l’intelligenza non c’entra.” (92)
“Era il momento di smettere di compatirmi … tutt’a un tratto è accaduto qualcosa che nessuno poteva prevedere, facendomi perdere il controllo, ma questo può sempre succedere.” (110)
Siamo anche questo mese alla terza trama, quindi un allegato sui libri che portano la felicità, che ovviamente non può che essere legato al Natale. Tuttavia, essendo troppo stringata la trama di Buzzati (una delle prime che ho buttato giù dieci anni fa), ed essendo Natale, vi do in regalo un suo breve racconto.
Per il resto si lavora, più o meno alacremente, alla definizione del prossimo viaggio, che, tra un mese e mezzo, dovrebbe (e lo sottolineo più volte) portarci di nuovo in Laos. Non manco però di augurare a tutti un Natale ricco di riposo e di belle presenze.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2016
Poiché siamo quasi a Natale, ecco che l’ottima Giulia ci propone alcune pillole di Natale, che dovrebbero servire da contraltare alla celebrata festa, qui intesa come uno dei possibili malanni di stagione.

MALANNI STAGIONALI (I)

NATALE D’AUTORE

Tanti i grandi scrittori che si sono confrontati con questo tema perché, come non si può evitare di festeggiare il Natale, non si può neanche evitare di scriverne.
Pasticche d’autore
Non ne potete più di buonismo, buoni sentimenti e allegria forzata? Siete esausti di storie tutte elfi, renne, slitte e Babbi Natale? Le feste vi hanno spossato e privato delle forze? Sedetevi comodi in poltrona e riacquistate energia e tono con “Il giorno più crudele”. È un antinfiammatorio arricchito di vitamina C, un blister composto da do-dici racconti dedicati al Natale da altrettanti mostri sacri della letteratura mondiale. Hans Christian Andersen, Anton Cechov, Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Nikolaj Gogol’, Mark Twain, Lev Tolstoj, Guy de Maupassant, Dylan Thomas, O. Henry, Carlo Collodi e Luigi Pirandello. Sono storie a sfondo morale, ovviamente, ma non moraleggianti per una lettura anticonvenzionale della più convenzionale delle feste, uno sguardo un po’ dark sulla festività tutta luci e jingle bells. Sono racconti di speranze perdute, tradimenti, tresche amorose, infanzie violate, disperazione, povertà, infelicità, crudeltà, fantasmi, streghe, diavoli, ladri, assassini... ma che ansia, starete pensando, ridatemi Santa Claus, Frosty, Rudy la renna e pure tutto il mio parentado! Non temete, c’è spazio anche per solidarietà, amore, coraggio e dignità, spesso conditi con umorismo (nero) e una sferzante dose di saggezza d’autore. La raccolta è cattiva quanto basta per concedersi un po’ di sana crudeltà, ma rigorosamente d'autore, in quello che spesso si rivela “Il giorno più crudele”.
Avvertenza: se la medicina fosse troppo amara, si consiglia di non assumerla a stomaco vuoto ma solo dopo aver affondato i denti in una soffice fetta di pandoro. Non commerciale, ovviamente, ma d’autore.
Tra le altre chicche-pasticche d’autore natalizie per autoimmunizzarsi alle feste o ammortizzarne i postumi, consiglio “Sogno di Natale e altri racconti” in cui Luigi Pirandello si muove tra spiritualità e senso del divino unendo nove racconti con il filo rosso, con tanto di fiocco, delle festività. Disincanto, ingenuità, slancio e cinismo, le sfumature emotive che colorano questa festa ci sono tutte, opportunamente filtrate dall'interpretazione multi sfaccettata di Pirandello.
Tenero e struggente è “Ricordo di Natale” di Truman Capo-te, incantevole storia d’amicizia tra un bambino e una signora che, soli al mondo, ogni Natale mettono in atto un personale rituale di cui è difficile non innamorarsi. Il ricordo cui allude il titolo è quello dell’ultimo Natale trascorso insieme. Una lettura terapeutica e analgesica, da non lasciar-si sfuggire.
Se vi sentite bisognosi di un’iniezione di spiritualità, immergetevi nel “Racconto di Natale” di Dino Buzzati, contenuto nella raccolta “La boutique del mistero”. In questo racconto fiabesco e surrealista, laico ma fortemente spirituale, l’autore si interroga sui significati più autentici della festività, ovvero l'amore divino e la condivisione contrapposti all’egoismo. È possibile prolungare la cura in compagnia di Buzzati leggendo gli scritti, i racconti e le fiabe natalizie raccolte ne “Il panettone non bastò”.
Giallo Natale
Se saltare i festeggiamenti natalizi è un delitto che non vi sentite di compiere, ma vi mettono i brividi e avete l’impressione che la follia delle feste potrebbe farvi commettere gesti insani, rimediate subito con un giallo Natale. Prescrivo l’assunzione di due classici una sorta di pandoro e panettone della letteratura di genere.
Nelle favole edificanti a Natale le famiglie si riunisco-no e mettono da parte ogni contrasto per festeggiare insieme. Nelle favole edificanti, però, perché questo non accade quasi mai nella vita e tantomeno in un libro firmato Agatha Christie. Ne “Il Natale di Poirot” la regina del giallo mette in scena una situazione che rischia di accadere spesso quando i membri di una famiglia si ritrovano sotto lo stesso tetto e ciascuno sembra fare di tutto per tirare fuori il peggio di sé. Nel romanzo una riunione familiare si trasforma in dramma quando il vecchio e tirannico capofamiglia vie-ne trovato assassinato il giorno della vigilia. Come nella migliore tradizione, i parenti hanno tutti un movente. Ma ci pensa Poirot, a cui nulla sfugge, che si tratti di indizi o di sfumature dell’animo umano: “C’è in loro molta ipocrisia, a Natale, onorevole ipocrisia, senza dubbio, ipocrisia pour le bon motif, ma sempre ipocrisia. E lo sforzo per essere buoni e amabili crea un malessere che può essere in definitiva pericoloso. Chiudete le valvole di sicurezza del vostro contegno e presto o tardi la caldaia scoppierà provocando un disastro”. Date retta al dottor Poirot.
Altro grande incubo delle festività natalizie sono i party, i brindisi aziendali, gli auguri in ufficio, i festeggiamenti tra amici e colleghi. C’è un piacevole antidoto an-che per questo, una delle più divertenti avventure dell’investigatore amante della buona cucina e delle orchi-dee: Nero Wolfe. “Natale di morte” di Rex Stout. Durante un Christmas party il padrone di casa viene avvelenato con un bicchiere di Pernod. II sospettato è, come da copione, il cameriere che, in osservanza alla tradizione natalizia, è travestito da Babbo Natale. Ma sarà davvero lui il colpevole? (Trovate altri rimedi di Agatha Christie e Rex Stout nella sezione Brividi di…).
Rimedio indolore per un Capodanno d'autore
Capodanno vi mette di malumore? Ne detestate il diverti-mento forzato? Siete allergici a cotillon, trenini, lustri-ni, botti e fuochi d’artificio? Vi mette l’ansia dover aspettare la mezzanotte ingozzandovi di zampone, cotechino e lenticchie c brindando con lo spumante mentre in TV tutti cantano immancabilmente YMCA dei Village People? In conclusione, se il 31 dicembre vorreste andare in letargo dalle quattro del pomeriggio fino alla mattina dopo, vi consiglio un rimedio per esorcizzare in modo diverso (e indolore) la mezzanotte.
Per un Capodanno d’autore, suggerisco “Le intermittenze della morte” di José Saramago. La surreale vicenda raccontata dallo scrittore premio Nobel prende il via proprio il 31 dicembre, quando la Morte decide di entrare in sciopero. Da quel momento nessuno muore più. Non ci sarebbe modo migliore per cominciare il nuovo anno senonché, dopo l’iniziale euforia, cominciano a verificarsi i primi problemi, anche di ordine pratico. Tutto il Sistema si regge sulla morte, ci dice Saramago, dimostrando come l’immortalità sia in fondo un ulteriore scherzo della vita. La Morte si vedrà costretta ad assumere le sembianze di una donna e riprendere servizio. Ma “umanizzarsi” vuol dire diventare fragili. Se pensate che questo libro sia il modo più deprimente per aspettare il nuovo anno e avete il dubbio che forse sarebbe meglio andare al veglione con i cotillon e il trenino piuttosto che sorbirvi questa veglia funebre, vi sbagliate. Ironico, assurdo e paradossale, il romanzo di Saramago è un originale inno alla vita che senza la morte sarebbe, purtroppo, priva di senso, una lucida e profonda riflessione sulla fragilità umana ma anche sulla forza che è in grado, se non di sconfiggere, quantomeno di piegare perfino la morte.

Commenti

Ovviamente ho letto Agatha Christie ed a lungo ne parlo più in basso. Ma lessi, in una delle prime trame, or son trascorsi dieci anni, il bel libro di racconti di Dino Buzzati. Come facevo allora, la mia trama era ridotta all’osso (tanto che qui raggiunge appena le tre righe). Allora, per rimediare, non parlerò di altro del libro, che dovrete leggere, ma vi faccio un piccolo regalo di Natale con un piccolo (tutto minuscolo questa volta) racconto, che io ed il buon Achille abbiamo trovato superlativo.
Dino Buzzati “Il panettone non bastò” Mondadori 8,40
[pubblicato il 24 dicembre 2006]
Una raccolta di scritti sul Natale. Non conosco molto Buzzati, ma qui (e altrove, lì dove è superfluo) sto imparando a capire la concisione di una parola, quando va dritta allo scopo. Mitico il Natale eritreo, abeti e deserti.
Agatha Christie “Il Natale di Poirot” Corriere della Sera 21 euro 6,90
[pubblicato il 14 febbraio 2016]
Se avete letto (o ricordate) quanto ho detto per “La domatrice”, qui non possiamo che ripeterci. È un periodo che Agatha scrive molto, e la forma “Orient-Express” ha ormai preso piede. Così che la ritroviamo, e con efficacia, anche qui. Qui la complicazione è dovuta alla difficoltà di spiegare le modalità della morte del personaggio centrale, di quel Simeon Lee, donnaiolo e miliardario, ex trafficanti di diamanti in Sudafrica, patriarca di una famiglia un po’ scombiccherata, e poi super ricco tornato in quel dell’Inghilterra. Ma la situazione inziale è di pura routine “agathesca”. Descrizione della famiglia Lee (oltre al patriarca insopportabile): i coniugi Alfred e Lydia, quelli che sono rimasti per proseguire la tradizione di famiglia; i coniugi George e Magdalena, lui deputato, lei “spendacciona”, fuori di casa, ma il vecchio li foraggia sempre; i coniugi David e Hilde, lui andato via di casa alla morte della madre, e fattosi una vita da pianista, lei molto empatica, ma non ha mai conosciuto il vecchio. Poi c’è Harry, la pecora nera, andato via di casa da giovane in seguito a qualche ruberia verso il padre, e mai tornato. E Jennifer, l’unica donna, fuggita con uno spagnolo e da poco morta, lasciando la ventenne Pilar unica nipote di famiglia. Sentendo che la fine si avvicina, Simeon convoca tutti per il Natale. E tutti arrivano, anche Pilar dalla Spagna, dopo un avventuroso viaggio attraversando le zone della guerra civile ancora alle ultime battute (siamo nel ’38). E dal Sudafrica arriva anche Stephen, figlio di Eb, vecchio amico e socio di Simeon ai tempi dei diamanti. La scrittrice spende una buona metà del libro per descrivere i caratteri dei presenti, incluso il losco maggiordomo Horbury. E la vigilia di Natale, quando sono tutti in casa, e tutti ad un tiro d’occhio o di voce dagli altri, con un gran fracasso ed un urlo belluino, muore il vecchio. Ovviamente la porta della stanza è chiusa dall’interno. Ovviamente, una volta aperta, tutte le finestre sono sbarrate, a parte un filo d’aria che viene dal balconcino, ma da dove non passerebbe neanche un gatto magro. Altrettanto ovviamente, Poirot è ospite del capo della polizia locale, e con lui si precipita sulla scena del delitto, dove il sovraintendente Sugden già coordina le indagini. Anche qui, Poirot tira fuori tutta la sua baldanza, sostenendo (come al solito per il suo modo di indagare) che parlando con gli ospiti della casa riuscirà ad arrivare alla verità. E all’artefice del delitto. Assistiamo così alle felici scaramucce verbali cui tanto ci ha abituato la nostra. Aumentate da un felice scambio di opinioni tra Poirot e Sugden, sui modi, sulle possibilità, sulla ricostruzione del delitto. Altro trucco della nostra signora del giallo, quello che all’inizio sembrava essere, viene a poco a poco smontato. Non l’alibi di Alfred e Harry, rimasti in salone a litigare sul tema del figliol prodigo. Né quello di Lydia, in sala grande e vista dal cameriere. Né infine quello di Horbury, che era al cinema. Resiste anche David, nella sala da ballo al pianoforte. Ma George finisce la telefonata 10 minuti prima dell’urlo. Magdalena mente dicendo che telefonava, invece era il marito al telefono. Pilar sosteneva di stare nella sua stanza da letto, ma da lì non si sarebbe sentito l’urlo. Hilda era nelle sue stanze, ma non sarebbe potuta arrivare per prima. Infine Stephen non è stato visto da nessuno. Inoltre spariscono i diamanti dalla cassaforte, così come Simeon avrebbe detto a Sugden, ultimo ad averlo visto in vita. Poi si scopre che Stephen è solo un amico del sudafricano, che in realtà è morto due anni prima. E la sua posizione si aggrava. E si scopre che Pilar in realtà è la sua amica Conchita, essendo Pilar morta in Spagna sotto le bombe. E perché Sugden ha i baffi finti? Pilar-Conchita dice di aver voluto visitare Simeon, ma che davanti alla porta c’era Hilda. Così si nasconde tra le statue, ma raccoglie un pezzo di plastica sul luogo del delitto. Viene però vista dal colpevole, che tenterà di ucciderla. Anche Magdalena non era dove doveva essere. Nel solito finale con tutti i presenti, Poirot spiega che il trambusto è stato provocato da una fune che, tirata dalla finestra socchiusa, ha fatto cadere i mobili. E l’urlo era provocato dallo scoppio guidato di un palloncino da fiera. Scoprendo così il vero colpevole nella persona di… Piccola suspense, che anche qui, nella trama che solca i binari collaudati, Agatha mette una piccola zeppa, sempre per rendere meno consueti i suoi finali. Ricorda, in minore, il famoso caso Akroyd. Tuttavia, pur nella ripetitività e nel solco di avventure similari, le sue storie hanno il fascino della complicazione degli elementi. Hanno la bellezza dello svelamento totale dei misteri. E fa piacere seguire, a distanza a volte di giorni, a volte di mesi, cosa faranno i protagonisti usciti indenni dalla vicenda. In questi primi romanzi c’è quasi sempre Poirot come abbiamo notato. Con una capacità di soluzione che ammiro. Pavento quando si tornerà a Miss Marple, che ancora non ho inquadrato bene. Vedremo.
“- Tesoro, quanta pazienza hai avuto in tutti questi anni. Sei stata così buona con me. – E sai perché? Perché ti amo!” (272)

Finalino


Spero che vi sia piaciuto l’omaggio, e spero che questo Natale sia di buon auspicio e di belle speranze, per tutti i miei amici cari, e per tutti quelli che mi leggono per passare qualche momento di tranquilla spensieratezza. Che le due entità hanno quasi tutti i punti in comune.

Inviti superflui - Dino Buzzati

Vorrei che tu venissi da me in una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati pas­sammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spianavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svo­lazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guar­dammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desi­deri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolce­mente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa men­tre fuori daranno tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passa­sti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, ne battesti mai alla porta del castello deserto, ne camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, ne ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'an­no prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgo­no spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, fa­vorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fug­genti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplice­mente per mano e andremo con passo leggero, dicendo co­se insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sini­stre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allo­ra noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le ani­me si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quin­di amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa par­lare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incan­tesimo delle città, né le speranze che scendono dal setten­trione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guar­dano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient'altro.
Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti per­ché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno sen­za capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere co­se che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta co­sì. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di no­vembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fanta­smi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietu­dini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passa­no sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musi­ca. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascor­rono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saranno costretti a guardarci, non per invidia e malani­mo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fer­marti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fanta­smi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Ne udresti quella specie di musica, ne capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di tè le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E inutile.
Forse tutte que­ste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e tro­veremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'e­state o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa di­sadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vici­na. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scric­chiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inu­tili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poe­sia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abba­stanza felici, con molta semplicità, uomo con donna sola­mente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Proba­bilmente non riesci più a ricordare il mio nome.
Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Ep­pure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

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