Ovviamente sto parlando dei
Gialli editi dall’esimia casa editrice, che, come dico nella critica, da quando
sono in mano a Costanzo, hanno fatto un’impennata verso il basso degna del miglior
Cagnotto. Così troviamo due illeggibili romanzi il primo di Manuela Costantini
ma soprattutto il secondo di Stefano Pigozzi. In una settimana dove le altre
trame proposte non certo brillano: abbiamo un onesto Biondillo ed un rivedibile
Carofiglio. E niente di più, tanto che nessuno dei quattro libri si avvicina
alla sufficienza.
Gianni Biondillo “Nelle mani di Dio” Guanda euro 5,50 (in realtà,
scontato a 4,68 euro)
[A: 12/06/2015– I: 13/06/2015 – T: 15/06/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 72;
anno 2014]
Per
le mie letture di Biondillo mi aspettavo qualche scatto in più, forse sulla
strada dell’ironia che, latente o meno, circondava i primi passi dell’ispettore
Ferrero. E quella Quarto Oggiaro che tanto mi ricordava le canzoni di
Gianfranco Manfredi (dall’album “Ma non è una malattia”). Questa riprende l’edizione
uscita un anno prima nei racconti del Corriere della Sera, e che avevo
bellamente perso, anche perché erano quasi tutti (o tutti) usciti in digitale e
non in cartaceo. Il nostro ispettore, che tanto si muoveva empaticamente con le
zone della sua infanzia, si trova coinvolto quasi per caso nell’omicidio di una
professoressa di matematica (un mestiere molto pericoloso, invero). Aveva
accettato un passaggio da un collega, e si ritrova coinvolto nelle indagini,
che il PM lo interessa alla ricerca del colpevole. In fondo, Ferrero conosce
queste zone, e può dare una mano. E lui comincia a girare per il quartiere. Per
il bar ormai gestito da cinesi. Per il centro islamico, dove i capannoni sono
trasformati in moschea. L’unico indizio è che la professoressa sgridava spesso
e volentieri gli studenti che mettono poco impegno nello studio. Ancora di più,
inoltre, se la prendeva con i genitori, colpevoli di voler coprire le magagne
dei figli. E sappiamo come in questo modo, invece di aiutarli, li si spinge verso
derive a volte sconosciute. Ferrero parla con tutti, con i filippini genitori
di Alvaro, con i sudanesi genitori di Abdullah, con i bianchi genitori di
Beatrice. Nella vicenda si inserisce anche un furto di computer che non si
capisce se sia stato il fatto scatenante o un elemento di copertura. Biondillo
usa anche una pluralità di voci, facendo parlare genitori, baristi, imam ed
anche e soprattutto, ragionare il nostro esimio ispettore. Che ha la mia stessa
qualità: se ha bisogno di pensare si mette a camminare. Lo trovo uno dei modi
migliori per mettere in riga le parole prima ed i pensieri poi. E quando tutto
sembra convergere verso Salih, il padre di Abdullah, questi scompare. Tuttavia,
convinto dall’imam, torna ed alla fine racconta a Ferrero la sua verità. Tutti
i genitori erano in collera con la professoressa Loretta. Che questa li
accusava appunto di scarsa responsabilità. E nella collera montante, si accende
un parapiglia, dove alla fine è il padre di Bea che dà il colpo finale
all’insegnante. Biondillo cerca di ricalcare le vicende alla Agatha Christie de
“L’assassinio sull’Orient Express”, dove se tutti uccidono nessuno è colpevole.
Ma qui non c’è accordo. Anzi c’è vero e proprio astio. I bianchi fanno
comunella, ed isolano il povero Salih. È un racconto, è breve, e Biondillo non
se la sente di andare verso un happy end in cui dovrebbe prendere posizione. La
sua posizione la lascia capire, quando Ferrero, pur arrestando Salih, e pur
cercando le prove verso i veri colpevoli, usa quella locuzione araba, spesso
usata maldestramente, e ripresa dal titolo. Finale aperto ed amaro, che ognuno
interpreta come vuole. Sapendo che spesso i condizionamenti di pelle e
religione sono più forti di prove tangibili verso i WRC (White Roman Catholic).
Lasciando per un attimo da parte la storia, e le sue interpretazioni, mi permetto
di tornare su quell’”inschallah”, che, per l’appunto, viene mal interpretato
come siamo nelle mani di Dio. O sarà fatta la volontà di Dio. O se Dio vuole.
Nell’espressività islamica, c’è invece un elemento in più. Non ci si abbandona
fideisticamente ad una risoluzione che viene dall’alto o dall’esterno. Si fa e
si tenta tutto il possibile. Solo alla fine, quando tutto è stato tentato,
analizzato, provato, magari senza risultato, dicevo solo alla fine si potrà
rivolgere verso l’alto un sentito “Inschallah”. Per tornare dalla religione
alla scrittura, dicevo che, pur con elementi di riflessione, manca sia lo
strato ironico che ha sempre caratterizzato le vicende di Ferrero, sia una
riflessione meno superficiale sui quartieri multietnici e sulla convivenza di
razze e religioni come sempre più stiamo vivendo. Dove, almeno questo è il mio
parere, dovremmo mantenere un totale rispetto dell’altro, pur mantenendo totalmente
la nostra identità. Io ho sempre cercato, nel mio peregrinare per il mondo, di
capire dove stavo mettendo i piedi e quale fosse il modo di vivere che stavo
condividendo. Rispettandolo, e mantenendo in ogni caso il mio. Questo,
reciprocamente, dovrebbe essere fatto da chi ci viene a trovare sul nostro
suolo. Ma qui il discorso si fa altro, e ben lontano da Biondillo e dalle sue
storie. Che spero di ritrovare con partecipazioni e scritture più intense.
Gianrico Carofiglio “Una mutevole verità” Einaudi euro 12 (in realtà,
scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015– I: 08/08/2015 – T: 10/08/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 118;
anno 2014]
Dov’è
finito l’avvocato Guido Guerrieri? Le sue passeggiate, le sue pensate, le sue
scazzottate? Fino ad ora, ho letto tutti i libri di Carofiglio in cui agisce il
buon avvocato, tanto che mi è diventato un personaggio - totem, di quelli che
ti aspetti di ritrovare sempre, anche se mutati, in tutti i libri. Ed ho letto
soltanto due libri “altri” di Carofiglio: le bellissime passeggiate per Bari di
“Né qui né altrove”, e la delusione di quel molto antico “Il passato è una
terra straniera”. E fino ad ora ero convinto sia delle indubbie capacità
scrittorie dell’ex-magistrato sia della sua difficoltà patologica di lasciare
da parte Guerrieri. Dato il battage che se n’è fatto e la vittoria che ha
ottenuto lo scorso anno nel Premio Scerbanenco, mi aspettavo quindi che questa
verità cangiante smentisse i miei assunti. Purtroppo no. Il racconto lungo è
ben scritto, si fa leggere quasi con piacere, ma non ha spessore. Non prende,
come giallo, neanche alle prime pagine. Sembra quasi l’autore voglia costruire
un plot per imbastire storie future, e non per presentare una storia, ed
eventualmente su quella costruire un personaggio. Al centro il maresciallo
Pietro Fenoglio, che inquadriamo subito essere un tipo di cuore (da buon
maresciallo italiano), di pensiero (passeggia per riflettere, un po’ come il
Ferrero di Biondillo, e legge molto), ma non un fulmine di guerra (e questa è
la maggior pecca del libro, che, dopo poche pagine ha già svelato tutti i suoi
misteri e noi si attende che anche la Benemerita arrivi presto alle sue conclusioni).
Di contorno, il carabiniere Montemurro, spalla di Fenoglio, da questi usato per
verificare le sue elucubrazioni, di rapida mente anche se non d’azione. E la
città di Bari, che sempre sta nel cuore di Carofiglio. Ma la storia, appunto,
non ha slanci. Un usuraio viene trovato sgozzato nella sua abitazione. Problemi?
Ricerca nei meandri della torbida vita? Non facciamo in tempo a formulare ipotesi
che una simpatica vecchietta ci fornisce la descrizione di un giovane che si
allontana dal luogo del delitto e della sua macchina. E poiché la signora è un
po’ maniaca, si segna sempre i numeri di targa sospetti. Quindi, macchina trovata
e giovane, Nicola, individuato. Interrogatorio con Nicola accompagnato dalla fidanzata
Maria. Non parla e non ci si può esimere dall’arresto. Indubbiamente, a meno di
non essere in un thriller alla Grisham, sappiamo che Nicola non può essere
stato l’assassino. Vita normale, niente problemi di soldi, nessun contatto con la
vittima. Ecco che ci sorbiamo un’ottantina di pagine ben scritte ma poco
funzionali alla trama poliziesca. Abbiamo, ed avete, capito tutto quando si scopre
che l’usuraio frequentava un bar malfamato, e la mattina incriminata si allontana
dal suo “luogo di lavoro” in compagnia di una ragazza. Dobbiamo solo aspettare
che anche Fenoglio arrivi al punto, guidato da un ineffabile profumo sentito
nelle stanze del morto (per chi è curioso, il pungente “Poison” di Dior). C’è anche
un inutile siparietto con un rapinatore buonista ed un figlio a rischio tumore.
L’unico punto di divertimento è l’inserimento verso la fine come avvocato
difensore di Nicola proprio dell’avvocato Guerrieri (le solite operazioni di
mix trasversali), di cui apprezziamo il fatto consigli al maresciallo di
leggere “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, un libro che
consiglierei comunque a tutti. Nient’altro resta delle verità che non si capisce
perché siano mutevoli. Certo, a guardar bene, ogni avvenimento, visto da persone
diverse, presenta aspetti e verità che solo quello può percepire. Vogliamo sostenere
che la verità è soggettiva? Non c’era bisogno di questo libro per capirlo, né tantomeno
questo libro lo spiega. Rimanendo immutato l’affetto per lo scrittore barese,
aspetto di leggere altro, di rivedere il giudizio, che qui è salito più per
stima che per intrinseca bontà dello scritto. A romanzo breve, quindi, rispondo
con trama corta. Capite la mia delusione, rispetto al fatto che, generalmente,
gli scritti di Carofiglio sono pieni di frasi che mi rimangono impigliate in testa.
Qui, nulla.
Manuela Costantini “Le immagini rubate” Mondadori euro 4,90
[A: 03/10/2014– I: 01/09/2015 – T: 04/09/2015] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 209;
anno 2014]
Dopo
aver letto un fiume di libri della maestra del giallo (e di cui parlo altrove),
torno ai miei “italiani”, con questo che risulta essere vincitore del Premio
Tedeschi 2014 (in onore del capofila dei giallisti italiani editi da
Mondadori). Ed il confronto risulta purtroppo impietoso. Pur avendo una scrittura
abbastanza scorrevole, l’onesta Costantini non riesce a legarti alla pagina,
non riesce a coinvolgere nella sua esile trama, pur costellando il suo romanzo
di personaggi quanto meno simpatici. Non ci riesce perché sembra voler troppo,
sembra promettere una vicenda appassionata, ma che alla fine si salva solo per
quei pochi personaggi che, nel corso del libro, ne punteggiano la trama. Anche
se la storia “gialla” in sé è di una semplicità disarmante. Alcune persone vengono
uccise e poi, alla maniera dei nativi americani, privati dello scalpo.
L’avvocato Filippo Dolci ed il commissario Pietro Ciccone, in tandem ma neanche
tanto, portano avanti una parvenza di indagine. La giustizia sembra puntare su
di un fotografo (da cui il titolo, forse, ma le foto c’entrano quasi nulla alla
fine). Poi su di un parrucchiere. Alla fine si arriva ai contorni del colpevole,
che si poteva pensare già chi fosse da un bel pezzo, ma che non si riesce a capirne
i motivi, se non una ormai conclamata pazzia. Il tutto costellato, come detto,
da falsi indizi che vorrebbero portare il lettore fuoristrada, senza purtroppo
riuscirci. Uno dei più clamorosi risulta la visita ad un parrucchiere di una
donna con la parrucca che chiede notizie di extension per capelli. C’era bisogno
di una parrucca per fare domande? Altro tentativo di depistaggio. Durante una
visita alla martoriata città de L’Aquila (e qui un devoto omaggio all’autrice
che ne ricorda ed ai miei parenti che ancora tentano di viverci), un professore
universitario inserito nella trama solo perché andava a scuola con Filippo ed è
gay, parla di una sua studentessa morta durante il terremoto, ricordandone gli
ultimi giorni, attaccata alle flebo, senza capelli in testa. E tutti a pensare:
ecco il colpevole, che vuole farla pagare a chi non si cura della
ricostruzione. Poi ci sono casualità incomprensibili. Possibile che Filippo
incontri i suoi ex-compagni di scuola e che questi, i loro congiunti e la
sorella gemella siano in quale modo implicati nella trama? Filippo è un penalista
ma accetta sia di gestire il divorzio (incomprensibile) di Agnese sia una
pratica di risarcimento della gemella di lei, Irene. E come motivo del divorzio
Agnese accampa la gelosia, a fronte di un misterioso (e strappato) biglietto
che parla di stelle in cielo. Altra casualità: Filippo incontra il biglietto
intero, e non è un cartoncino amoroso, ma l’invito ad una conferenza sulle
stelle in generale e sulla Chioma di Berenice in particolare. E Alberto, il
marito di Agnese, che tanto lottò per averla, possibile che assomigli a Rod
Stewart e che a Filippo viene in mente, guardandolo, la canzone “Have you ever
seen the rain?” (che è una cover di Stewart dall’originale dei Creedence
Clearwater Revival)? Soprattutto dato che Filippo ha uno strano rapporto con la
pioggia stessa. Tanto che prova a spiegarcelo, ma non si capisce gran che. Filippo
poi che di cognome fa Dolci, e non perde occasione di mangiare paste,
pasticcini ed altre leccornie? E come si fa a non capire cosa abbia Lavinia, la
moglie di Filippo, quando comincia ad avere strani disturbi. E come si fa ad
emozionarsi alla sparizione di oggetti dalla casa di Filippo e Lavinia? Certo
anche qui un tentativo di depistaggio. Spariscono camicie di Filippo, e tutti
sono portati a pensare: ecco, erano sporche di sangue perché è lui il
colpevole. Poi ci sono quelle frasi di passaggio, che dovrebbero collegarsi ad
altro, ma che sono messe lì non si sa perché (forse ci sono stati dei tagli, ma
perché dovremmo sapere qualcosa del fatto che Irene e Saverio cominciano a
frequentarsi a poche pagine dalla fine del libro, senza che questo rendez-vous
sia stato annunciato da elementi concreti). Infine, c’è tutta la storia basata
su Fausto Minardi, il fotografo, quelle delle immagini rubate del titolo. Che
ha sempre delle connessioni con il luogo del delitto, per cui viene
incriminato. E che Filippo difende. Fausto che risulterebbe “ritardato”, ma non
si capisce in che. Quando parla, ragiona meglio del 90% dei personaggi del
libro. Descrivendo motivi e sensazioni intorno agli scatti, ci convince e ci
coinvolge nelle sue idee. Poi anche qui scopriamo che sicuramente lui non
c’entra nulla, ma il padre è impiegato nella ditta dove un dirigente … Boh? Mi
sembrano liaison molto flebili. Se a tutto ciò leghiamo una motivazione
dell’assegnazione del premio che sembra aver letto un romanzo diverso, ci si
domanda: ma sono io che penso sempre male, o Andreotti aveva ragione? Bando
alle facezie, sono comunque contento che un premio vada ad un’impiegata nativa
di Giulianova. Così almeno, durante la lettura sono tornato indietro nel tempo
e nello spazio, alle mie infanzie tortoretane.
Stefano Pigozzi “Non riuscirai a salvarle tutte” Mondadori euro 4,90
[A: 29/04/2014– I: 21/09/2015 – T: 22/09/2015] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 235;
anno 2014]
Ed
eccoci ancora ritornati alle scuderie giallistiche mondadoriane, che, anche se
mi ripeto, da quando sono nelle mani di Maurizio Costanzo, mi sembrano
precipitare verso le più basse espressioni letterarie. Certo, rimangono autori
storici che bene o male se la cavano, come Annamaria Fassio di cui aspetto di
leggere altro. O autori che, dopo un inizio promettente, scivolano libro dopo
libro verso un aureo anonimato. Così sembra si avvii anche Pigozzi, di cui
lessi il promettente avvio nonché Premio Tedeschi nel 2007. Che si ripeté con
un buon romanzo nel 2008. Ma che ora, dopo qualche anno di silenzio, esce fuori
con uno zibaldone poco avvincente e poco convincente. Perché riprende ancor una
volta i personaggi dei precedenti romanzi, ne aggiunge di nuovi, ma alla fine
tutto si risolve in una grande confusione, in cui si elimina qualche elemento
ormai “bollito”, e qualcuno rimane in pista per una nuova avventura, che spero
di ricordarmi di non leggere. Intanto, come avevo predetto, la fine del
precedente romanzo preludeva ad una terza puntata. In cui il filo conduttore
rimane sempre il poliziotto cattivo ma non troppo Angelo Schwarz. Ormai
separato dalla moglie, che gli da filo da torcere citandolo in giudizio per la
morte del fratello. Lui sempre innamorato, ma con la testa ad Anna, l’avvocato
morto alla fine del secondo libro. E qui, appunto, si ricomincia con i soliti
noti. Il mafioso Aleksj, che ha la peggio in uno scontro con le nuove mafie, che
cercano collegamenti con la riviera romagnola tramite il solito Levati (un po’
in ombra nel secondo romanzo). Ma questi ora è aiutato dall’ex-capo di Angelo,
Michele Soresini che da buon ex-Digos ha molte frecce al suo arco. E tutto ricomincia
con una carneficina al locale di Mosca ormai arcinoto, il Metal Detector. I
nuovi vengono uccisi, Aleksj è ferito a morte, ma salva la bella Katrina.
Levati, ferito gravemente ad una gamba è invece salvato da Soresini. Aleksj,
prima di morire, affida Zoya (quella che aveva tre anni ed un pupazzo di pezza
nel secondo libro) a Katrina e le fa partire per l’Italia, alla ricerca della
salvezza presso Angelo. Che però è ben nelle peste. Il clan mafioso dei
Constabile lo cerca ovunque, utilizzando l’ignara ex-moglie come pedina ed il
suo avocato come trait d’union. I Servizi lo aiutano un po’, ma neanche tanto.
Nella trama s’inserisce allora Elena, la bella e forse poco presente moglie di
Levati. Quella che, per evitare trappole, si vede intestati tutti i patrimoni
familiari. Quella che Levati maltratta un giorno sì e l’altro pure. Quella che,
Levati ferito, si vede comandata anche da Soresini. Quella che incontra Angelo
e pensa che possa essere la sua valvola di salvezza. Angelo, per salvarsi,
vende in un primo tempo Katrina a Soresini, che la cerca in quanto unica
testimone della strage moscovita. Poi, si accorge che c’è anche Zoya, a cui
vuole bene, e fa una potente marcia indietro. Nasconde le due in un albergo sul
lago di Como, e comincia un pericoloso triangolo mentale, attratto sia dalla
bella Elena che dall’ancor più bella Katrina. Ma Elena lo tradisce, rivelando i
nascondigli segreti a Soresini. I Constabile, vedendo di non riuscire a far
leva sull’ex-moglie di Angelo, la fanno fuori. Ed Angelo va fuori di testa. Ha
perso Silvia, l’ex-moglie, ha perso Anna nel romanzo precedente, e quando Elena
gli confessa i suoi traffici, sceglie Katrina. Peccato che anche l’albergo vada
a fuoco, ed una tra Katrina e Zoya farà una brutta fine. Ma Angelo, sempre più
inc…to riesce almeno ad uccidere Soresini, ed a ritrovarsi in una stanza
d’ospedale con la superstite ed un pupazzo di pezza. Il tutto, partito da una
predizione di una santera in un losco bar milanese, che guarda Angelo e gli
dice che non potrà salvare tutte le persone cui vuole bene. E così è. Ma che
fatica arrivare alla fine delle oltre 200 pagine. Dove si susseguono oltre ad
episodi alla Spillane, anche tentativi di costruire castelli mafiosi
ragionevoli, intrecciando crudeltà ed alta finanza. Con una ben misera riuscita
dal punto di vista attrattiva. Peccato Pigozzi, avevi scritto di meglio.
Aspettando
la fine di questo Carnevale anticipato, dedichiamoci allora a mettere a posto
un po’ di cose di casa (libri e nanetti in primis). Organizziamo anche qualche
cena che gli amici vanno frequentati anche in patria, e rimettiamoci, come ogni
tanto si fa, a sentire un po’ di sana musica (magari con Stanley Clarke che mi
fa da guida verso il prossimo concerto di Carlo). Ed allora un saluto a tutti,
sperando che si concretizzino promesse di viaggi.
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