Mi sembra un buon modo di
cominciare il nuovo anno con una nuova full immersion nello sterminato dominio
della scrittura di Agatha Christie. E con quattro ottimi Poirot, inframmezzati
da un episodio senza protagonisti noti, ma che serve per dimostrare alla nostra
che sa scrivere e serve a noi per capire i meccanismi della scrittura dei
grandi.
Agatha Christie “Se morisse mio marito” Corriere della Sera 8 euro 6,90
[A: 22/09/2014– I: 06/06/2015 – T: 08/06/2015] - &&&
½
[tit. or.: Lord Edgware
Dies; ling. or.: inglese; pagine: 276; anno 1933]
Eccoci di nuovo alle prese con il
nostro Hercule. Per quattro anni Agatha Christie scrive d’altro. Vuoi perché
inizia il primo romanzo con Miss Marple, vuoi perché scrive racconti brevi, vuoi
ancora perché decide di sposare in seconde nozze l’archeologo Sir Max Mallowan
(che le rimarrà accanto per tutta la vita). Poi negli Anni Trenta, a parte
qualche romanzo di contorno, si dedicherà soltanto a Poirot. Questo è il
settimo romanzo che ha per protagonista l’ispettore belga, ed il quinto in cui
compare come spalla il capitano Hastings. Probabilmente, Agatha lo aveva
introdotto un po’ sul modello del dottor Watson per Sherlock Holmes. Tuttavia,
dopo averlo utilizzato molto nei primi romanzi, si accorge che Poirot “sta in
piedi” anche da solo. Qui, tuttavia, il capitano ha un suo ben preciso ruolo,
sia di narratore, sia di “alter ego stupido” dello stesso Poirot. Hastings si
pone le domande “sciocche” che ci poniamo anche noi lettori durante lo svolgimento
degli avvenimenti. E la mente fine del belga li smonterà uno ad uno per
arrivare alla soluzione finale. Il dramma questa volta si svolge nel bel mondo
londinese, con inserimenti anche d’oltre Atlantico. Mondo dove belle attrici
accalappiano ingenui (e danarosi) Lord. Il motore del romanzo è l’attrice Jane,
da alcuni anni Lady Edgware, che però vorrebbe da lui divorziare per sposare un
più altolocato e ricco signorotto inglese. Veniamo anche subito introdotti nel
bel mondo della notte londinese, con una mirabile pièce di Carlotta, un’attrice
americana, sola sulla scena, che tra l’altro propone un’esilarante parodia
della suddetta Jane. Al ristorante, la sera, Jane chiede a Poirot di aiutarla a
divorziare. Benché non nelle corde del nostro, la curiosità lo spinge ad un
colloquio con il Lord, che lo prende in contropiede, dicendo che già sei mesi
prima aveva scritto una lettera alla moglie per concederle il divorzio. Jane
trasecola, facendo anche una scena madre a pranzo rifiutandosi davanti a molti testimoni,
tra cui l’amico attore Bryan, il povero Ronald, figlio di Lord Edgware, e di
Carlotta, di andare la sera ad una cena. La notte stessa, Lord Edgware viene
ucciso da una donna che si presenta nella casa come Lady Edgware, anche se nasconde
un po’ la faccia. Tutti pensano quindi che le minacce di Jane, sempre sopra le
righe, l’abbiano portata all’uccisione. Tutti meno Poirot, che viene subito
aiutato dal fatto che Jane, cambiando idea, fosse andata alla cena di cui
sopra, avendo quindi un forte alibi. Noi però già pensiamo a Carlotta, e quando
ci pensa anche Poirot, la trova morta per un’overdose di Veronal. Si susseguono
allora lunghe indagini e discussioni. Si parla della cena cui partecipò Jane,
dove l’anfitrione parlò a lungo della Grecia. S’indaga sulla morte di Carlotta,
che Poirot pensa sia omicidio. Scava nelle amicizie, soprattutto la modista
Jenny Driver, che si scopre innamorata di Bryan. Poi nel falso alibi di Ronald,
che non era a teatro ma in casa del Lord, al momento del delitto, insieme alla
cugina Dina per cercare una collana di perle. Il tutto perché da Carlotta viene
trovata una misteriosa scatola firmata “D”. E viene fuori anche un nuovo
attore, Donald (una nuova D) che, partecipando ad una cena sente andare in
confusione Jane che (purtroppo qui la traduzione non ci aiuta) scambia Paride
(in inglese Paris) con la città di Parigi (sempre Paris). A Donald scatta un
campanello, ma prima che riesca a parlare con Poirot, anche lui muore (o meglio
viene ucciso). Tutto ruota sempre intorno alla scatola, che risulta essere
stata ritirata da una vecchina con occhialetti. Occhialetti ritrovati insieme
alla scatola nella borsa di Carlotta. Per la polizia è tutto chiaro: Carlotta,
per vendicarsi di Jane, sotto la spinta di Ronald, impersona Jane, uccide il
Lord, poi, presa dal rimorso, si uccide. E Ronald, prima che Donald sveli le
sue scoperte, trova il modo di farlo fuori. Tuttavia Poirot non è convinto.
Perché Jane non sapeva della concessione del divorzio? Come mai la lettera del
Lord era sparita? Come rivelerà il capitano, tutto si risolve accidentalmente,
quando Poirot sente, all’uscita di un cinema, parlare due signore del film, e
chiedersi perché il protagonista del film non avesse chiesto i documenti a
Ellis invece di iniziare una lunga sarabanda di avvenimenti. Lampadina! Ellis
si chiama la segretaria di Jane. Ellis porta occhialetti. Oramai tutto è
chiaro, ed il mistero verrà svelato. Che Carlotta aveva sì interpretato Jane,
ma alla cena del milord, mentre ad uccidere il lord era stata … Vi manca poco
per capire tutto. O forse ho detto troppo. Ma il romanzo è ben congeniato, pur
risentendo a volte di qualche sbavatura, dovuto naturalmente all’epoca della
scrittura. Sono passati ben 80 anni, e se si sentono nelle caratteristiche
descrittive, non se ne risente affatto nell’incedere del romanzo e nella sua
presa verso il lettore. Decisamente una buona prova.
Agatha Christie “Perché non l’hanno chiesto a Evans?” Mondadori euro 4,90
[A: 22/09/2014– I:
09/06/2015 – T: 10/06/2015] - &&& +
[tit. or.: Why They
didn’t ask Evans?; ling. or.: inglese; pagine: 190; anno 1934]
Uno scrittore, o una scrittrice,
quando trova una buona idea, spesso è tentato di reiterarla, anche se non in
forme identiche. Abbiamo visto, ad esempio, che sia il primo romanzo di Poirot
che il primo di Miss Marple sfiorano, abbastanza pesantemente, il concetto
della legislazione inglese detto “double jeopardy”. Qui è passato un anno
dall’ultimo scritto, Agatha si diverte a tirar fuori una nuova trama. Ed
utilizza, questa volta sin dalle prime righe, quel trabocchetto visto nel
precedente Poirot. Lì era una frase che univa un nome di un attore di un film
ad un completamente diverso contesto, collegato solo dal nome “Ellis”. Qui
abbiamo il giovane Bobby che, durante una partita di golf sulle scogliere
gallesi scopre un morente, probabilmente caduto nella nebbia, ma forse spinto,
che prima di morire pronuncia la frase del titolo. Bobby vede anche una foto di
una bella signora nel taschino, poi non può aspettare la polizia che deve aiutare
il padre vicario e lascia il posto ad un signore di passaggio, Roger. Da questo
punto la trama si dipana in modo lento, per poi accelerare man mano. Intanto
irrompe sulla scena una signorina locale, Lady Frances detta Frankie, che io
ipotizzo subito abbia un debole per Bobby, anche se sono di ceti diversi
(ricordo che siamo negli anni Trenta e chi scrive è da poco sposata con Sir
Max). Il morto viene riconosciuto da una fantomatica sorella, che a Bobby non
sembra quella della foto. Sorella che cerca di sapere se il morto ha detto
qualcosa. Quando Bobby si lascia sfuggire la frase, prima cercano di mandarlo
in Argentina, poi di ucciderlo con una dose normalmente letale di morfina.
Bobby e Frankie si domandano se non ci sia sotto qualcosa. E mentre Bobby si
trasferisce a Londra presso l’amico Badger, Frankie indaga su Roger. Ne trovano
le tracce in altra parte del territorio inglese (ma solo perché Roger si
presenta con un cognome poco diffuso: Bassington-ffrench!). Con un sotterfugio
Frankie s’installa in casa di Roger, facendo finta di essere ferita, dove
conosce il fratello Henry (cocainomane giudice di pace) e la cognata Sylvie.
Nel contorno familiare compaiono poi il dottor Nicholson, un canadese che
dirige una clinica per il recupero dei drogati, e la di lui moglie Moira. Per
star vicino a Frankie, Bobby si finge suo autista, ed anche lui si aggira nei
paraggi. Il comportamento dei personaggi è ambiguo, e ben presto i nostri
investigatori dilettanti si trovano a fare congetture, tutte molto plausibili,
nel solito stile della nostra scrittrice. Scoprono anche il passaggio di un
giramondo, tal Carstairs tornato pochi mesi prima per indagare sulla strana
morte del suo amico John e sul suo strano testamento. Seguendo questo filone,
scoprono la stranezza della morte di John e della redazione del testamento che
lascia tutto alla da poco sposata moglie poi scomparsa. Come scomparsa è la
cameriera Gladys. Intanto, nottetempo Bobby s’imbatte in Moira, e la riconosce
come persona della foto iniziale. Moira allora gli dice di aver paura di essere
uccisa dal marito John di voler fuggire. Il dottor John viene dipinto come un
mostro e Roger, che voleva far curare il fratello da lui, sembra ripensarci.
Mentre ne discute con Frankie, Sylvie scopre la malattia del marito e decide di
farlo ricoverare. In una fase convulsa, dove gli attori entrano ed escono di
scena, Henry muore per un colpo di pistola. Suicidio? Omicidio? Sono due ormai
le morti “inspiegate”. Bobby porta nel villaggio dove sono tutti riuniti la Bentley
di Frankie. Poi cerca Moira presso il dottore, di notte ovvio, ma viene
stordito e rapito. Frankie viene convinta da una falsa lettera di Bobby a
raggiungerlo in un cottage isolato, dove anche lei viene messa fuori uso. Al
loro risveglio si scoprono legati dentro la Bentley, destinati a morte certa quando
la macchina senza controllo uscirà di strada e per mano di … Piccola suspense.
Ma improvvisamente vengono salvati da Badger che, per cause fortuite, si era nascosto
proprio nella Bentley. Trovano anche Moira drogata in una stanza. Fuggono
tutti, ma le sorprese non sono finite. Perché finalmente scoprono che Gladys,
la cameriera di John fa di cognome … Evans, e vive nella cittadina di Bobby.
Mentre vanno a cercarla, Frankie sventa il tentativo di Moira di uccidere Bobby.
Era lei la “dama nera” che stava dietro a molti avvenimenti. Aveva sposato
John, insieme al complice lo aveva ucciso, complice che si trucca da John e
scrive il testamento facendolo firmare al giardiniere ed alla cuoca. Carstairs
cercando le tracce di Gladys, viene ucciso, e la domanda del titolo fa capire
ai nostri due che non hanno chiesto ad Evans di fare da testimone perché avrebbe
scoperto il gioco. Moira era comunque anche sposata legalmente con il dottore,
ed usufruendo del dispensario della clinica aveva accesso a traffici di droga.
Ci sono anche altri retroscena che soltanto la lettera finale del cattivo fuggiasco
farà scoprire ai nostri due, che, nell’ultima pagina, finalmente, si baciano! Un
meccanismo ben congeniato, che scorre come tutte le discrete scritture di
Agatha Christie. Che, come detto all’inizio, ha la capacità di imbastire
fluenti storie, spesso prendendo spunti similari, ma poi svolgendoli in modo
diverso. Certo, è un filo sotto lo standard dei migliori Poirot (penso al poco
successivo “Assassinio sull’Orient Express”) ma per ora meglio di quanto ho
letto di Miss Marple, che non mi ha ancora convinto. Vedremo nel resto. Un solo
appunto al traduttore: a pagina 79 si fa una lunga tirata su uno studio di
germi, chiamandolo “cultura”. Serve ad imbrogliare le carte del discorso,
peccato che in italiano si dica “coltura di germi”, e questo farebbe saltare il
senso delle frasi dette. Ah, che difficile mestiere il traduttore.
“Dopo i cinquanta [anni], non c’è una persona che ragioni. Se la
prendono tutti da morire per una stupidaggine.” (12)
Agatha Christie “Delitto in cielo” Corriere della Sera 23 euro 6,90
[A: 05/02/2015– I:
09/06/2015 – T: 10/06/2015] - &&& e ½
[tit. or.: Death in
the clouds; ling. or.: inglese; pagine: 277; anno 1935]
Ancora un Poirot, ma stiamo migliorando
di libro in libro. Forse si poteva limare qualcosa in lunghezza, anche se la
maestria della nostra Signora del Giallo è proprio questa di allungare un po’
il brodo, servendolo però sempre caldo e saporito. Qui l’idea di base è la
tipica “morte in una stanza chiusa”, con la variante, che un po’ ricalca quella
dell’Orient Express (scritto non a caso l’anno precedente), di avere tutte le
persone presenti sul luogo del delitto. Ovviamente, come ho detto in
precedenza, la capacità di Agatha è prendere un’idea, anche già usata, e poi
rimetterla a nuovo. Si sfrutta, in questa nuova trama, anche un diverso mezzo
di locomozione: l’aereo. Abbiamo 11 persone e 2 steward nella cabina di prima
classe dell’aereo di linea delle 12 della United Airlines che collega Parigi –
Le Bourget con Londra – Croydon (il primo aeroporto cittadino di Londra, chiuso
nel 1959). Una persona è il nostro Hercule Poirot. L’altra, madame Giselle,
muore. Si trova prima una vespa, pensando ad una morte per shock; ma Poirot
trova anche un dardo, con le piume gialle e nere come la vespa, la cui analisi
rivela la presenza di un veleno micidiale. È stato senza dubbio un delitto ed
abbiamo 11 sospettati. La bravura di Agatha è di far entrare ed uscire i
sospetti dalla possibilità di passare al ruolo di assassini, imbastendo tante
piccole micro-storie coinvolgendo i vari personaggi. L’altra abilità è di tenere
tutti con il fiato sospeso, che, anche se sospettati, sembra che nessuno dei
presenti abbia avuto modo di uccidere madame Giselle. Che il dardo dovrebbe
essere stato sparato con una cerbottana (anch’essa trovata in aereo). Ma in un
ambiente chiuso, si sarebbe visto qualcuno usarla. A meno che non fosse stata usata
una diversa arma per il dardo: un bocchino, una pipa, un flauto (tutti elementi
presenti sulla scena). Intanto si scopre che madame Giselle era una usuraia con
un discreto giro d’affari. Questo porta la nascita di un palese movente (i
soldi), anche se non si sa chi sia nelle grinfie dell’usuraia. La nostra
scrittrice quindi passa tutta la parte centrale a montare e smontare il
giocattolo. Abbiamo James Ryder, un uomo d’affari sull’orlo della bancarotta,
che avrebbe avuto movente ma non occasione. Abbiamo i signori Dupont, padre e
figlio, archeologi sempre a caccia di soldi per le loro ricerche. Sono loro che
hanno la pipa e che scoprono la vespa, ma pare difficile abbiano avuto rapporti
con madame. C’è Daniel Clancy, scrittore di romanzi polizieschi, con la testa
fra le nuvole, senza movente plausibile, ma che possiede una cerbottana (e sa
come usarla). Abbiamo il dottor Bryant, unico medico a bordo, che appurato il
decesso, sta per incolparne la vespa quando viene fermato da Poirot. Inoltre
possiede un flauto (possibile arma), ed ha una tormentata vicenda professionale
che potrebbe indurlo ad aver bisogno di soldi. Abbiamo Norman Gale, dentista,
una delle due persone che si è alzato durante il volo (per andare alla
toilette), proveniente dal sud della Francia, dove lo avevamo visto giocare al
casino, ed invaghitosi della simpatica Jane. C’è lei, Jane Grey, parrucchiera,
in gita francese giacché vincitrice di un biglietto della lotteria, che ha però
perso i soldi al casinò dove ha incontrato Norman. Inoltre è orfana, e ben
presto sappiamo che l’eredità cospicua di Giselle andrà ad una figlia da lei
abbandonata in tenera età. Potrebbe avere un movente, ma ha passato tutto il
tempo a guardare Norman di cui si sta innamorando. C’è Lady Horbury, ex-attrice
ed ora contessa, cocainomane, ed alla disperata ricerca di soldi (che ha perso
al gioco, o per pagare il suo gigolò). Che aveva visitato madame Giselle il
giorno prima per chiedere una dilazione (non ottenuta) di un prestito. Lei ha
un movente grande come una casa, ma è seduta davanti alla morta, e
difficilmente può aver lanciato il dardo. Così come difficilmente lo può aver
fatto la sua vicina di sedia, Venetia Kerr, nobildonna di campagna,
segretamente innamorata di Lord Horbury (potrebbe avere il movente di incolpare
lady Horbury, ma sarebbe una trama veramente diabolica). Infine ci sono i due
steward, gli unici che si muovono liberamente per la cabina, ma che non sembra
abbiano moventi. Andando avanti con le indagini si scopre inoltre che: Giselle
voleva partire con l’aereo precedente, ma un americano ha corrotto il
bigliettaio della UA per farla volare sull’aereo delle 12; lo stesso americano
(così almeno viene descritto) ha acquistato la cerbottana trovata poi
nell’aereo; si presenta a Parigi la famosa figlia di madame Giselle, che viene
riconosciuta da Poirot come essere la dama di compagnia di Lady Horbury. Per
non essere accusata del delitto, visto che anche lei era sull’aereo, fugge in
treno, ma viene anch’essa trovata morta. Noi sospettiamo, anche senza prove, un
preciso colpevole, più che altro perché è l’unico che farebbe vacillare
l’impianto globale della trama (evitando cioè di andare verso degli happy end
che non sono consoni alla nostra abile manipolatrice di trame). Ed alla fine,
prendendo sotto la sua ala protettrice la simpatica Jane, dopo aver eliminato
via via i possibili sospetti, in una riunione conviviale con Jane, lo scrittore
Clancy, Norman Gale e l’ispettore Japp di Scotland Yard, Poirot ricostruisce
tutta la vicenda. Il colpevole è … che è sicuramente uno sciupafemmine, che
aveva ideato l’assassinio per fuggire insieme all’ereditiera con i soldi, per
poi ucciderla quando non serviva più. Ma come ha fatto ha sparare con la
cerbottana? Ebbene, non l’ha fatto. Quella e la vespa (aveva una scatolina nel
suo bagaglio a mano) erano diversivi. L’assassino ha creato un diversivo
psicologico, indossando una giacca bianca da steward quando i due si erano allontanati,
portando un cucchiaino a madame Giselle (che in effetti ne aveva due sul tavolino)
e colpendolo a mano con il dardo avvelenato. Una bella trama che il nostro
Hercule sventa con maestria, anche se impiega quasi trecento pagine. Insistendo
molto sulla possibilità che i presenti siano stati “distratti” al momento
dell’uccisione. Con le capacità di scrittura e d’informazioni incrociate, tra
l’altro, nel capitolo 7 Poirot si riferisce ad un caso di avvelenamento in cui
il killer aveva proprio usato un diversivo psicologico per attuare l’uccisione
(ed in questo Agatha si riferisce al suo precedente romanzo “Tragedia in tre
atti”). E nel capitolo 21, Poirot menziona un caso in cui tutti i sospetti
mentono (chiara allusione all’altro suo libro “Assassinio sull’Orient
Express”). E devo dire che la trama è ben avvincente, che non mi ha fatto staccare
molto dalla pagina. Mi sembra un bel punto a favore. Come un punto a favore sono
le piccole pennellate di vita, sia inglese che francese. Dove ad esempio trovo
più gradevole la descrizione degli anacronismi delle classi agiate britanniche,
piuttosto che le lunghe descrizioni ormai imbalsamate che ne faceva
contemporaneamente Evelyn Waugh.
“Sbuffò davanti alla parola ‘psicologico’. Gli ricordava alla lontana
quella specie di imbroglio per poveri idioti che si chiamava psicoanalisi.”
(200)
Agatha Christie “Due mesi dopo” Corriere della Sera 29 euro 6,90
[A: 14/02/2015– I: 31/07/2015 – T: 02/08/2015] - &&&
e ½
[tit. or.: Dumb witness; ling. or.: inglese; pagine: 359;
anno 1937]
Siamo
ancora dalle parti di Poirot, per un periodo di intense scritture relative all’investigatore
belga. Pensate che dal ’35 al ’38 escono ben 10 titoli con protagonista il
commissario (anzi, l’ex-commissario) con i baffi. Ma prima che del libro,
accenniamo alla solita polemica sul titolo. È vero che è in linea con il
romanzo stesso, e poi vedremo perché. Il titolo originale era “Testimone muto”,
riferentesi al fatto che una spiegazione dei fatti poteva darla l’unico testimone
che non parla, il cagnetto Bob. Dicevo che il titolo è comunque coerente,
perché questa volta Poirot interviene sulla scena due mesi dopo che sono
avvenuti i fatti criminosi o presunti tali. L’anziana signorina Emily Arundell,
facoltosa zitella di campagna, riceve per Pasqua, nella sua casa fuori Londra,
i parenti che le sono rimasti: i nipoti, nonché fratelli, Charles e Theresa e
la loro cugina Arabella detta Bella con il di lei marito, il greco signor
Tanios. Tutti sono premurosi con lei, perché anziana e perché si aspettano una
ricca eredità alla sua morte. Charles perché spende, spande e perde soldi al
gioco. Theresa perché vive un filo sopra le sue possibilità, ed ha esaurito la
rendita paterna. Bella perché deve almeno far fronte alle ingenti perdite
dovute agli investimenti sbagliati del marito. Durante la visita, Emily ha un
incidente, cadendo dalle scale, probabilmente inciampando nella palla
giocattolo del cane Bob. Ma deve aver ipotizzato altro, che quando i parenti
vanno via, cambia il testamento lasciando tutto alla sua dama di compagnia. E
scrivendo una lettera dove chiede aiuto al nostro esimio Poirot. Peccato che pochi
giorni dopo muoia, non si sa se incidentalmente o dolosamente, per un attacco
di fegato di cui soffriva. Peccato che Poirot riceva la lettera, appunto, due
mesi dopo i fatti. Il nostro, tra le righe, subodora qualcosa di strano. E si
precipita, con il fido Hastings, ad indagare sul posto. Qui si dipana tutta una
parte, forse lunghetta, ma che consente a Poirot di entrare nella psicologia
dei personaggi, a noi di capire meglio i meccanismi anche sotterranei della
vicenda, ed alla scrittrice di fare un’opera di bravura letteraria. Infatti,
benché non abbia nessun appiglio, il nostro investigatore indaga, inventa,
mente anche, fino a sostenere di lavorare per … la morta! Non ci sarebbe voluto
molto, ai personaggi della vicenda, per interrompere i flussi d’indagine del
belga, ma tra l’indolenza dei protagonisti e la bravura di Agatha, l’inchiesta
va avanti. L’altra bravura di Agatha è di lasciare aperte tutte le porte che
non consentono, a noi poveri lettori, di escludere subito qualcuno dei sei
possibili assassini. Potrebbe essere stato Charles, che aveva anche minacciato
la zia Emily la quale non voleva onorare un suo debito, che ruba del denaro dal
cassetto della zia, quello dove sta la palla incriminata del primo incidente,
che chiede lumi al giardiniere sulla presenza di diserbanti all’arsenico per le
piante della casa. Potrebbe essere stata Theresa, sia per il bisogno dei soldi
per comperarsi vestiti ed altro, sia per sostenere economicamente le ricerche
del suo fidanzato, il dottor Donaldson. Potrebbe essere stato appunto
Donaldson, che, da dottore, aveva sicuramente accesso a possibili veleni, sempre
nel caso che Emily sia stata avvelenata. Potrebbe essere stato il signor
Tanios, anche lui dottore, molto a corto di soldi come detto, e che aveva fatto
una strana prescrizione medica per le indigestioni della zietta, anche se
sembra lei non ne avesse tenuto conto. Potrebbe essere stata Bella, in un primo
momento sicuramente per i soldi di Tanios, poi anche perché si scopre che in
fondo al marito non volesse molto bene, e cercasse un sostentamento economico
per lasciarlo ed andare via con i figli. Potrebbe infine essere stata la
signorina Lawson, almeno per la morte stessa, avendo saputo, incidentalmente,
che la zietta aveva diseredato i nipoti, che lei era diventata l’erede, tanto
che, quando Emily, malata, vuole rivedere ancora una volta il testamento, lei
glielo nasconde. Intanto, Poirot ha scoperto che Emily è caduta non per la
palla del testimone muto, ma per un filo testo per le scale sul quale la
signora è inciampata. Nel convulso finale, il primo ad essere scagionato è
Charles, che la zia gli aveva detto dell’eredità, e quindi non aveva più
interesse alla dipartita dell’anziana. Emily pensava che Charles spargesse la notizia,
ma lui non ne fa parola, quindi gli altri sono ancora in corsa. Soprattutto
quando la signorina Lawson sostiene di aver visto nello specchio della sua
stanza, una figura femminile con una spilla che disegnava il monogramma TA,
china per le scale là dove doveva essere stato messo il filo. Confessione che
nella mente di Poirot, ed anche nella nostra, scagiona la signorina ed incolpa
chi ha commesso sia il tentativo che l’omicidio stesso. C’è anche un lungo
sottofinale, dove la nostra scrittrice ci racconta la fine dei personaggi
implicati nella vicenda. Ed alla fine, c’è anche Poirot che adotta il cagnetto
Bob. C’è anche un punto misterioso, dove ad un certo momento compaiono i figli
dei signori Tanios, per poi eclissarsi senza una vera spiegazione. Ma di tutto
questo non ve ne parlo, come non vi parlo di chi esce colpevole dalla vicenda.
In fondo, pur non essendo né Assassinio sull’Orient Express né Dieci piccoli
indiani, è stata una piacevole lettura, dove, lo confesso, ho faticato molto a
decifrare la matassa, e fin quasi alla fine i miei sospetti erano puntati
altrove. Cosa che non fa che rendere sempre più corretta la definizione della
nostra scrittrice come LA signora del giallo (almeno per la parte Poirot, che
su Miss Marple ho ancora dei dubbi).
“I vecchi hanno una quantità incredibile di risorse. Sono i giovani che
si abbattono e finiscono per tirare le cuoia perché non provano abbastanza
interesse per la vita.” (89)
Agatha Christie “La domatrice” Corriere della Sera 26 euro 6,90
[A: 05/02/2015– I:
19/08/2015 – T: 21/08/2015] - &&&
[tit. or.: Appointment
with Death; ling. or.: inglese; pagine: 260; anno 1938]
Diciamo proprio “Poirot for
ever”! Più ne leggo, e più sono convinto che la prolificità (e la maestria)
della nostra esimia scrittrice, siano elementi ben costruiti ma certamente non
casuali. Il quadro generale delle opere migliori è sempre abbastanza simile:
c’è un personaggio che non è molto simpatico, ci sono molte persone intorno
(parenti, amici, semplici conoscenti, comunque in buon numero), il personaggio
muore, Poirot indaga e svela. Era così nell’Orient Express; era così nel
precedente “Due mesi dopo”; continua ad essere così anche in quest’appuntamento
con la morte. L’unica variante è l’ambientazione. E qui siamo in una delle
“migliori”, soggettivamente. Agatha aveva da poco pubblicato “Assassinio sul
Nilo”, e quindi decide, conoscendo bene le zone, di rimanere in Medio Oriente.
Ci spostiamo a Gerusalemme per l’inizio e la fine del romanzo. E viviamo
intensamente il dramma centrale niente di meno che a Petra! Lasciando da parte
le domande su quando, finalmente, si potrà tornare in Medio Oriente, veniamo
alla vicenda narrata. Che come detto s’impernia su di un personaggio che muore
e sulle persone che le sono intorno. Qui muore la domatrice del titolo,
l’anziana signora Boynton, in vacanza con figli, nuore e figliastri nelle calde
zone mediorientali che tanto bene conosce la nostra scrittrice. La signora è
appunto un tiranno, che comanda tutti a bacchetta, e gode, si presume, nel
metterli in difficoltà. E non solo loro, ma anche tutti quelli che le sono a
tiro. In quel di Petra, passato un pomeriggio seduta davanti ad una fresca
grotta in riposo, viene trovata morta. Tutti ne sono sollevati, ma un dottore
presente solleva dubbi sulla morte: non naturale ma omicidio. Tornati tutti a
Petra, il commissario locale vi ritrova anche il nostro buon Poirot, che, sfidando
tutti, sostiene di poter risolvere il mistero in 24 ore, interrogando i
convenuti al viaggio. Qui abbiamo il meglio della dialettica di Agatha, dei
duelli verbali, del detto e del non detto. Poirot, in queste avventure, è un
po’ similare al coevo d’oltreoceano Nero Wolfe: interroga, parla, ed alla fine,
in una seduta corale, svela. Anche qui comincia ad interrogare, quindi. Dalle
persone non di famiglia. Il dottor Gardner, che aveva sollevato i dubbi poiché dal
suo armamentario medico di viaggio gli è stata sottratta una siringa ed una
dose di digitossina. E la signora è morta di un attacco di cuore. Il dottore
passeggiava con gli altri, poi, per un attacco di malaria torna
all’accampamento e rimane fuori uso per 24 ore. C’è Stella King, psicologa e dottoressa,
innamoratosi nel frattempo del giovane Raymond Boyton. È lei che constata la
morte, ponendola alle 16 del pomeriggio. Peccato che dopo quell’ora tutta la
famiglia, singolarmente, sia passata a salutare la signora, senza che nessuno ne
riveli la morte. C’è Lady Westholme, ambiguo personaggio a spasso per l’Oriente
con dama di compagnia, sempre presente in alcuni momenti cruciali, e l’unica
che vede la signora litigare con uno strano arabo. Sfilano poi i familiari. La
piccola Ginevra, unica figlia di sangue della domatrice, che fugge la realtà
verso sogni astrusi, per evitare di confrontarsi con la madre, rimasta tutto il
giorno nell’accampamento, dove passa anche dei momenti nella tenda del dottore
(potrebbe aver fatti lei il furto?). Ci sono i due figliastri scapoli, Carol e
Raymond, che incautamente a Gerusalemme, ascoltati da Poirot, avevano detto di
dover uccidere la vecchia per potersi salvare ed entrambi, singolarmente, sono passati
a salutare l’anziana matrigna, chi per cucire chi per metterle un orologio.
Infine c’è la coppia, il primogenito Lennox e la moglie Nadine. Gli unici che
avevano tentato una ribellione in gioventù, poi rientrati nella tela di ragno della
madre domatrice. Ne soffre soprattutto Lennox, che sta scivolando verso
l’apatia. Nadine tenta di dargli una scossa, inventando una sua possibile fuga
con uno spasimante. Fuga che va a confessare alla vecchia durante le due famose
ore, tra le 16 e le 18, in cui questa dovrebbe essere morta. Anche Lennox va
dalla madre, per dirle che se ne sarebbe andato via con Nadine, per poterla riconquistare.
Incrociando tutte le testimonianze, Poirot arriva a far notare tre contraddizioni
negli avvenimenti. Primo: la signora Boynton pur godendo nel mettere in
difficoltà le persone lascia andare via tutti. Secondo: a Gerusalemme, rispondendo
ad una cattiveria di Sarah, dice “Non ho mai dimenticato niente”, in palese contrasto
con le parole di Sarah, e rivolte a qualcuno (ma a chi?). Terzo: benché tutti
premurosi (forzatamente) nessuno chiama la madre per la cena. Facilmente, nella
scena del gran finale, riunendo i Boynton, Sarah ed il dottore in una sala
dell’hotel, ma premurandosi che altri ascoltino, Poirot svela le contraddizioni.
Tutti erano passati dalla signora Boynton trovandola morta, ma pensando che
l’autore del delitto fosse uno della famiglia, passano tutto sotto silenzio,
sciogliendo il terzo mistero. I primi due son collegati alla morte, ed alla
vita passata della signora, che prima di convolare alle nozze, fece alcuni anni
come secondina in un carcere. Un colpo di pistola metterà fine alla vicenda.
Per poi ritrovare i personaggi “buoni” alcuni anni dopo, sposati in modo intrecciato,
avviati a carriere di grandi attrici, ed altre positive vicende. Insomma, un
buon impianto che Agatha continua a ripetere, con qualche variante. Qui con un
po’ meno di suspense, che tutti pensano fin dall’inizio che non può essere uno
della famiglia il “cattivo”. Ma sarà così? A voi una discreta lettura da sotto
l’ombrellone.
Essendo già la seconda trama del
mese, come i miei ormai affezionati lettori sanno, mettiamo anche un allegato
su libropatie e rimedi vari, dedicato questa volta a consigli “elevati” per
smettere di fumare.
Infine, ci sarà un altro mese di
mancate letture, per voi affezionati lettori, che il vostro scriba si appresta
ad una nuova partenza verso i caraibi cubani. A tutti un grande augurio di un
anno che superi le vostre aspettative.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GENNAIO 2016
Fumare, non fumare. Dilemmi che
molti hanno, hanno avuto. Altri (e spero tanti) non avranno mai. Vediamo allora
cosa ci dicono le nostre “dottoresse”.
FUMARE, SMETTERE DI
Tom
Robbins “Natura morta con
picchio”
Italo
Svevo “La coscienza di Zeno”
Patrick
McGrath “Follia”
Oggigiorno
fumare è un’attività improponibile – priva finalmente anche dell’ultima
scintilla di fascino, è uno sbaglio sotto ogni punto di vista. Questo,
tuttavia, non rende affatto più facile smettere. Un buon romanzo può essere
efficace quanto un cerotto alla nicotina per darsi una scossa. Non tentate,
però, di rinunciare alle bionde senza farvi aiutare dai seguenti titoli. Il
primo vi farà divertire con gli annessi e connessi del fumo senza inalare. Il
secondo vi illuderà con il suo reiterato elogio della bugia di un’ultima
sigaretta. Il terzo vi darà un bel pugno sul petto e vi convincerà a smetterla,
una buona volta, di rovinarvi i polmoni.
“Natura
morta con picchio” vi darà quasi certamente un brivido - per come imita un
pacchetto di Camel. La giustificazione dell’editore per questo spudorato
sfruttamento del marchio è che l’eroina dai capelli rossi, la principessa
Leigh-Cheri, medita per ore e ore su quelle piramidi e quelle palme mentre il
fidanzato fuorilegge, Bernard Mickey Wrangle detto «il picchio», si trova in
carcere - con un pacchetto di Camel identico al suo come unico compagno. Quando
si accorge di questo legame mentale, facilitato dall’icona che entrambi
condividono, la donna decide che non può fumare quelle sigarette, perché aprire
il pacchetto significherebbe distruggere quel mondo immaginario. «Per non
svanire, una realtà esterna dipende da un’immagine interna che resti intatta»,
pensa; e così viaggia davvero a dorso di cammello con i mercanti, i beduini e
gli sceicchi che incontra nel deserto al di là del pacchetto. Attraverso questa
meditazione, il lettore impara cose molto interessanti sulle piramidi, le donne
coi capelli rossi e il motivo per cui esiste la luna, oltre a meditare sulla
saggezza innata degli oggetti inanimati.
Verso
la fine del romanzo, Leigh-Cheri e Mickey Wrangle finiscono intrappolati
all’interno di una vera piramide, di nuova costruzione, e credono di essere
sepolti per sempre senza altro cibo che una torta nuziale e dello champagne.
Grazie all’abilità di Mickey con la polvere da sparo riescono a condividere
un’altra allucinazione, e a cadere in un altro pacchetto di Camel. Tutto questo
è molto più divertente che fumare una sigaretta, e dunque sarete molto contenti
di avere in tasca questo romanzo e non un vero pacchetto di Camel.
Uscire
invece con Zeno sarà come andare a far due passi con un vecchio amico che si è
incontrato per caso per strada, dopo molto tempo che non lo si vedeva. Ma vi
accorgerete presto che non corrisponde più al ricordo che avevate di lui. Lo
ricordavate il campione dell’inettitudine e dell’apatia per eccellenza e invece
vi verrà incontro un conversatore brillante e loquace, lucido e vendicativo,
uno in grado di prendersi i suoi piaceri e le sue rivincite. E allora vi
nascerà il dubbio che sia stato lui stesso a inventare per primo il mito della
sua incapacità. E anche che questa faccenda dell’ultima sigaretta non sia, in
fin dei conti, che una burla, la menzogna necessaria per far credere a tutti di
essere completamente “privo di volontà”, il cavallo di legno col quale vincere
la competizione dell’esistenza. Osservatelo bene: è un maestro della lusinga e
dell’inganno, altro che maldestro e pasticcione. Un abilissimo seduttore.
«Naturalmente», ammetterà lui stesso, senza fatica «io non sono un ingenuo».
Alla fine, vi renderete conto che il vostro amico è uno dei pochi che sono
riusciti nella vita, ha trionfato nel commercio e perfino il suo matrimonio è
l’unico della sua cerchia, rimasto in piedi. Allora capirete che il tema del
fumo era davvero il velo di un illusionista consumato, la cortina di vapore
dietro cui nascondere una terribile storia di vendetta, di affermazione e di
irriverente scherno a tutte le convenzioni borghesi. Non ci sarebbe da
sorprendersi se doveste scoprire che in realtà Zeno non sa nemmeno che sapore
ha il tabacco sulle labbra.
“Follia”
vi farà trattenere il respiro, schiacciandovi i polmoni e chiudendovi la gola
in un momento di terrore insopportabile. Se non siete ancora riusciti a
smettere questo vi convincerà che è proprio necessario. Al centro della storia
c’è Stella Raphael, moglie di uno psichiatra che lavora in un manicomio
criminale. Siamo nel 1959, e il manicomio è un reparto di massima sicurezza
all’interno di una vecchia prigione vittoriana – abbastanza lontano da Londra
perché Stella si senta isolata e leggermente depressa per la sua nuova vita. La
donna inizia una strampalata storia con Edgar Stark, un detenuto affascinante,
intelligente e colto, e tuttavia incline alla violenza. Stella decide di glissare
sul suo sadismo, sempre in agguato.
Una
volta tornato a Londra Edgar trova uno studio dove può lavorare ai suoi
splendidi, per quanto ossessivi, busti di argilla. Percepiamo il pericolo,
mentre il suo comportamento diventa più instabile. Stella, invece, è sempre più
attratta dal suo cupo mondo interiore. Per andare avanti fuma quasi senza
interruzione, costellando i giorni di lunghe, profonde boccate.
Arriva
un momento, nel romanzo, in cui Stella tocca il fondo. Un giorno, dopo che il
figlio Charlie la convince a partecipare a una gita scolastica, accade qualcosa
di terribile. Stella potrebbe intervenire, ma nel momento cruciale distoglie lo
sguardo, perché la sua attenzione si concentra esclusivamente sulla sigaretta.
«Con una mano si prese il gomito, mentre il braccio si alzava, dritto e rigido
verso la bocca. Girò la testa di lato, portò di nuovo la sigaretta alle labbra
e inspirò; ogni suo movimento era rigido, distinto e controllato».
È
questo il momento, gelido e terribile che vi farà spegnere per davvero l'ultima
sigaretta schiacciandola con decisione a terra.
Bugiardino
Non ho letto, né penso lo farò,
il libro di McGrath, mentre per l’esimio Zeno Cosini rimando ad una lettura di
aiuto avvenuta qualche anno fa, per aiutare (poco ma serve sempre) la mia Sara
durante l’esame di maturità. Rimane quindi Robbins, dove ricordo (per dovere di
chiarezza) che il libro originale (purtroppo non quello italiano, per problemi
di “pubblicità occulta”) aveva in copertina proprio un disegno di un pacchetto
di Camel. Inoltre, sottolineo che il traduttore trasporta in italiano il nome
del protagonista (Mickey, come Mickey Mouse, il nostro Topolino), con l’orrendo
“Pupo” (che ogni volta mi riporta alla mente l’orrido cantante italico).
Tom Robbins “Natura morta con Picchio” Baldini Castaldi Dellai euro
8,90
[pubblicato il 22 giugno 2014]
Ecco
un altro autore di cui avevo sentito parlare abbastanza qua e là durante anni
di convivenza con la letteratura, ma che, per una ragione o l’altra, non mi ero
mai deciso ad affrontare. A parte i panegirici che si trovano un po’ ovunque su
di lui (autore di culto, autore esimio, fuoco di fila di trovate intelligenti
ed esilaranti) e la sua sbandierata amicizia e vicinanza con Timothy Leary, elementi
appunto che mi avevano frenato, dopo la lettura devo dire che è moderatamente
interessante, sicuramente capace nell’uso della scrittura, con quelle capacità
descrittive che, probabilmente, gli derivano anche dagli inizi come critico,
sia di arte che di musica. Altrettanto sicuramente, per chi lo conosce, è però
anche un emulo di Kurt Vonnegut jr che, personalmente, trovo però più incisivo.
C’è la stessa capacità di entrare ed uscire dalla pagina, di parlare a ruota
libera un po’ di tutto, di mettere molta carne a fuoco. Troppa forse. E forse
con qualche inconcludenza in più. Kurt arrivava sempre al punto, Tom spara a
raffica, colpendo un po’ qua ed un po’ là, ma lasciando alla fine il dubbio su
quale fossero i suoi “veri” bersagli. O se ci fossero veri bersagli, e non sia
tutto frutto di una lunga serata con Tim. A cominciare dal titolo, dove Picchio
è maiuscolo non per banalità tipografiche, ma in quanto soprannome di uno dei
due personaggi al centro della storia: Pupo “Bernard” Wrangler detto Picchio.
L’altro personaggio è, fortunatamente, una donna, la principessa Leigh-Cheri. E
c’è anche una storia, all’interno del lungo narrare di Tom verso il lettore di
cose altre. La principessa vive in esilio a Seatlle insieme ai genitori,
essendo eredi e spodestati di un’oscura monarchia europea (i
Furstenberg-Barcalona). Ventenne vive di sogni e di ambizioni ecologiche, per
cui non appena ne ha notizia parte per un convegno ambientalista mondiale che si
deve tenere alle Hawaii. Lì incappa nel Picchio, un fuorilegge dinamitardo con
il vizio di far saltare in aria quello che poco gli aggrada. Come gli ecologi
da strapazzo. Tra uno scoppio e l’altro, tra i due scoppia la scintilla della
passione, e poi dell’amore. Fuggendo dall’isola (Picchio è ricercato dopo un
ennesimo scoppio) tornano a Seattle. Leigh-Cheri cerca di introdurlo nella sua
famiglia, ma l’anarchico Picchio difficilmente riesce a seguire delle regole
(un fuorilegge è sempre fuori della legge). anche se cerca di farlo per amore
della bella. La frustrazione dell’insuccesso lo portano ad abbassare la guardia
ed a farsi arrestare. La parte centrale vede l’amore di Leigh-Cheri concretizzarsi
nell’auto-isolamento per stare vicino idealmente al suo amato. Ma dopo 20 mesi
di passioni solitarie, l’idea della pubblicità ed ostentazione dell’amore
turbano Picchio che sembra mollare l’amata. Che per la frustrazione decide di
cedere alle lusinghe dello sceicco A’ben. E per regalo di nozze chiede la costruzione
di una nuova piramide. Altri 20 mesi passano e si ultima la costruzione.
Intanto, i ribelli hanno rovesciato il governo fantoccio della Barcalona, e
messo sul trono Giulietta, la governante nonché sorellastra di Leigh-Cheri. La
quale chiede in cambio la liberazione di Picchio. Sorvolando alcuni passaggi, i
due si ritrovano il giorno prima delle nozze di lei dentro la piramide con
tanta dinamite, tanto champagne e tanta torta nuziale. Lo sceicco cornificato
(ma chi cornifica chi?) li vuole morti. Loro, anche a duro prezzo, si
salveranno. Vivranno felici e contenti? Questo lo scoprirete se leggete il
testo. Ma questo testo è solo il contesto del vero testo di Robbins, che, tra
una riga e l’altra se la prende: con i falsi ambientalisti, con Ralph Nader e le
sue farneticazioni, con la CIA ed i servizi segreti, con gli arabi
presupponenti, con la sinistra radical chic (rappresentata dall’avvocato Nina e
da un bel duello verbale tra lei e la principessa), con chi crede nel sovrannaturale,
con chi vede segni ovunque. L’idea di base, poi, che fa da motivo conduttore al
libro, ed alle agnizioni che arrivano a poco a poco, è la piramide sul
pacchetto delle sigarette Camel. E sul fatto che i protagonisti sono entrambi
rossi di capello. Tra una lotta immaginata che vede scontrarsi extra-terrestri
di pelo rosso e di pelo biondo, con conseguente nascita delle civiltà Maya,
Olmeche, Tolteche e via discorrendo. Ed un parallelo tra la piramide sul
biglietto di un dollaro e quella sul pacchetto delle Camel. E sulla nascita delle
piramidi stesse, sui loro perché, sul loro essere sempre rivolte ai quattro
punti cardinali. Insomma, capite anche voi, da ogni spunto Robbins parte ed imbastisce
storie. Anche intriganti. Come tutto il panegirico finale, dove la metafora
viene tutta basata sulla parola CHOICE. Scelta, che è l’unica azione degna di
essere attuata. Insomma, una bella galoppata, un torrente di parole, a volte,
purtroppo, un po’ datate. A volte, come detto sopra, senza una mira precisa, un
po’ alla colpirne cento per educarne uno. Ma intrigante, e moderatamente
divertente. Capisco inoltre la fatica del traduttore, dove appunto ogni tanto
si deve mettere qualche parola in originale, che altrimenti si perdono giochi e
nessi. Pur tuttavia, un po’di attenzione in più non avrebbe guastato, quando a
pagina 165 si lascia l’inglese Plato invece di usare l’universalmente noto
Platone. Ripeto, preferisco Vonnegut, ma Robbins ha qualche freccia al suo
arco.
“Il mio amore per te non ha secondi fini. Ti
amo gratis.” (128)
Conclusioni
Per quanto letto, ritengo il
libro di Robbins degno di tutta una diversa menzione. Mentre su “Follia” non mi
pronuncio. Rimane Svevo, e la sua “ultima sigaretta”. Forse lì si può meditare
ed approfondire. Tuttavia, ritengo che le ultime cure possano rivelarsi più
dannose delle malattie che ne richiedono l’uso.
Nessun commento:
Posta un commento