domenica 24 gennaio 2016

Una manciata di libri - 24 gennaio 16

Parafrasando il primo titolo di queste trame, inizio dando il benvenuto ai nuovi amici che si aggiungono a questa mail, con l’augurio di proficue letture (e se hanno bisogno di spiegazioni, chiedete). Al ritorno da un bellissimo ed intenso viaggio cubano, eccoci alle prese con un classico inglese (molto datato) e di media resa, un emergente australiano (laddove prima o poi si tornerà per vedere finalmente Ayers Rock), un nuovo scrittore italiano (anche qui non riuscitissimo) ed un “classico” di Adelphi e della realtà sarda, che mi ha entusiasmato.
Evelyn Waugh “Una manciata di polvere” Bompiani euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[A: 02/04/2014– I: 22/07/2015 – T: 25/07/2015] - && e ½  
[tit. or.: A Handful of Dust; ling. or.: inglese; pagine: 253; anno 1934]
Mi aveva sempre incuriosito (e ne avevo accennato parlando di quel libro che mi aveva preso di lui, “Quando viaggiare era un piacere”) il nome dello scrittore Waugh. Che ho scoperto, primo chiamarsi per esteso Evelyn Arthur St.John. E poi, anche se non molto usato, essere un nome ambivalente, maschile (poco) e femminile. Tanto ambivalente che la prima moglie del signor Waugh si chiamava Evelyn Gardner, e che, per distinguerli, gli amici li chiamavano He-Evelyn e She-Evelyn. E non è solo un gossip questo inizio, che in questo che è considerato il capolavoro dell’agre scrittore britannico, pare che molta parte del personaggio di Brenda Last deriva proprio dalla prima signora Waugh, sposata nel 1928 e divorziata nel 1930. Possiamo così passare a parlare di questo libro, considerato un capolavoro d’ironia e di satira. Senza dubbio Waugh ha una scrittura graffiante, per l’epoca della scrittura (come si vede sopra, siamo nel 1934), ma sono graffi che sentono il passare del tempo, almeno in gran parte. La storia ruota intorno alla famiglia Last, erede della tenuta degli Hetton nella campagna inglese. Abbiamo Tony, il marito; Brenda, la moglie; e John Andrew, il figlio. E tutta la prima parte direi che è ancora discretamente godibile. Entriamo, infatti, nelle stanze della residenza gotica di Tony, trentenne che dopo alcuni anni di godibile vita mondana in quel di Londra, con matrimonio con la bella Brenda e nascita del figlioletto, si ritira in campagna, elemento più consono alla sua natura. E fin dalle prime battute, e poi per tutto il libro, andremo a sbattere con la sua incapacità totale di adeguarsi e capire il mondo. Pensa che tutti siano felici di vivere in campagna, senza accorgersi che Brenda ormai se n’è stufata. Pensa che Brenda voglia un pied-à-terre a Londra per studiare economia, mentre lei lo usa per le sue avventure mondane. Pensa che John Beaver sia uno scocciatore poco sopportato dalla moglie, mentre Brenda usa il suo localino londinese per le sue scappatelle proprio con il suddetto John (che poi risulterà comunque soltanto un arrampicatore sociale, e non sarà né di aiuto né di conforto quando Brenda avrà difficoltà). Pensa che la principessa (finto) araba sia un’amica di Brenda, quando è proprio Brenda che la assolda per cercare di dare un’alternativa a Tony, visto che ormai lei è presa da John. La prima parte finisce tragicamente quando John Andrew muore cadendo da cavallo. E qui vorrei rilevare che questo è il terzo libro in pochi mesi in cui c’è un ragazzo che muore ed intorno alla cui morte si dipanano le parti forti della vicenda (oltre a questo, vi ricordo “Quello che ho amato” di Siri Hustvedt e “Sportwriter” di Richard Ford). Qui si dimostra tutta l’intensa cattiveria di Waugh. Quando a Brenda si comunica la morte di John, pensa alla morte dell’amante, e quando scopre che è “solo” il figlio, tira un sospiro di sollievo. Tony poi non riesce neanche ad organizzare un funerale decente. In seguito alla morte, Brenda lascia definitivamente Tony. Ed anche qui, il nostro imbecille ne combina di tutti i colori. Pensa che Brenda voglia un divorzio amichevole, e cade dalle nuvole quando scopre l’ammontare degli alimenti richiesti. Pensa di poter inscenare un divorzio per colpa, ma fa una pessima figura assoldando una signorina per far finta che sia la sua amante e questa si presenta con … la figlia. Deluso ed irretito da un ciarlatano finto viaggiatore, Tony decide di partire per il Brasile. In nave fa la sua ultima figura da niente, non capendo i sentimenti che per lui sta provando una signorina di Trinidad, e la lascia bellamente andar via. Ritrovandosi poi nella selva, dove il ciarlatano muore, lui prende la malaria, e viene curato da un eremita analfabeta. Anche qui Tony non capisce nulla, pensando al signor Todd come ad un benefattore, quando questi lo sequestra, lo usa per fargli leggere il suo amato Dickens, e informa Londra che il signor Last è morto. Brenda intanto, senza aver ottenuto alimenti, viene lasciata dal misero John, e si consola con il deputato Jock (altra figura barbina, che per tutto il tempo, per fortuna poco, in cui compare, non pensa altro che a fare un’interpellanza parlamentare sui suini; ovviamente altra macchietta di Waugh). Ed il maniero degli Hetton rimane nelle mani dei cugini di Tony. Insomma, Tony per tutto il libro non ne fa una giusta. Brenda è simpatica nella prima parte, poi, dal tentato divorzio (anche perché in questo Waugh tiranneggia l’altrettanto da poco divorzianda prima moglie) perde sempre più colpi. La parte finale poi, è molto appicciata. Tanto che non mi sono meravigliato quando ho scoperto essere una novella pubblicata in precedenza da Waugh, e poi adattata a romanzo. Con un andamento che mi sembra ripreso molto da quel posteriore (ed anch’esso a me poco piaciuto) libro di Saul Bellow “Il re della pioggia”. Insomma, una serie di frecciate, molto legate agli anni Trenta della Swinging London, ma ora abbastanza spuntate. Sì, bel libro, bella scrittura, anche bell’adattamento cinematografico (ne uscì pochi anni fa un film dal titolo “Il matrimonio di Brenda” con un bel cammeo di Alec Guinness). Ma molto poco di più di così. Meglio Waugh quando parla dei suoi viaggi.
Tim Winton “Cloudstreet” Fazi editore euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 02/04/2014– I: 02/09/2015 – T: 07/09/2015] - &&&& 
[tit. or.: Cloudstreet; ling. or.: inglese; pagine: 463; anno 1991]
Se non conoscete la letteratura australiana, questo è un buon libro per colmare qualche lacuna. Certo, non parla di aborigeni e bush come faceva Chatwin (che però era inglese). Non parla neanche di grandi distese. Né tanto meno del più celebrato sud (niente Sydney, Melbourne, Adelaide). Tutto concentrato nell’Australia Orientale, e principalmente a Perth. Ed alzi la mano chi c’è stato (io, no, ad esempio). Si parla di Perth come una cittadina provinciale. Si parla dei corsi d’acqua e magari del mare che bagna quella parte al Nord-Ovest dell’Australia. Ma, soprattutto, Tim Winton ci parla della storia di due famiglie, che intrecciano le loro vite intorno ad una casa, una grande casa nella periferia della grande città, una grande casa in Cloud Street number 1. Che finirà ben presto per diventare Cloudstreet, seguendo le idee sulle ombre malefiche che si porta appresso il padrone di casa. Piccolo inciso, seguendo la topografia di Perth, si potrebbe, per assonanza e per descrizione ambientale, avvicinarla alla reale Coldstream Street. Ma torniamo alle due famiglie ed alle loro storie. Famiglie emblematiche, sin dal nome. Da un lato la famiglia Pickles (“sottaceti”) che basa tutta la propria vita sull’antinomia fortuna - sfortuna. In ogni avvenimento c’è un Altro che interviene guidando le sorti delle loro avventure. Non vale tanto la pena industriarsi e lambiccarsi il cervello. Ad un certo punto, la grande ombra del Destino arriverà portando vicende favorevoli o sfavorevoli. L’ombra, appunto, che si cristallizzerà ad un certo punto nella strada (cioè “cloud” – nuvola, sia in senso fisico che in senso metaforico). Dall’altro la famiglia Lamb (“agnello”) che invece ha tutta una prima parte molto dedicata alla religione, al rapporto (più o meno) diretto con Dio. Che continuerà, anche se in forme diverse, ma che si realizzerà in una totale laboriosità. Sottintendendo il seguente messaggio: con la fatica e la dedizione si può, si deve arrivare alla conquista della propria serenità. I Pickles sono 5: il padre Sam, la madre Dolly, ed i figli Rose, Ted e Chub. I Lamb invece sono 8: il padre Lester, la madre Oriel, ed i figli Quick, Fish, Lon, Hattie, Elaine e Red. Sam è uno scommettitore incallito, specialmente sui cavalli. Quando perde deve trovare lavori, anche di bassa lega, per restituire i soldi. In uno di questi, perde quattro dita della mano destra (c’era l’ombra che si avvicinava). Dolly è “la bella” del villaggio, si butta su qualsiasi uomo che incontra, quasi a sfogare un modo represso di vivere la famiglia. E si butta anche su tutte le bottiglie che vede, facendo di tutta la sua vita, anche, un percorso da alcolista che certo non le permetterà mai di avere un buon rapporto con i figli. Nella sfortuna dell’incidente di Sam, intanto, un cugino di Sam muore all’improvviso, lasciando loro in eredità la casa di Cloudstreet (con il vincolo che non la possono vendere, altrimenti Sam la giocava ai cavalli). Una casa grande, dove, nel momento di ulteriori rovesci, pensano di dividerla in due ed affittarla. Compaiono così i Lamb. Lester, quieto e gioviale, inventore di storie, suonatore di “flauto a naso” (guardate che è uno strumento realmente esistente, diffuso principalmente in Polinesia e tra i Maori). Oriel è la colonna della sua vita e di quella di tutti coloro che le sono intorno. I Lamb sono stati da poco colpiti da una tragedia: Fish, il figlio mezzano, cade in acqua, dove rimane a lungo, quasi morto impigliato nelle reti da pesca, con un periodo di mancanza di ossigenazione. Si salva ma rimane “ritardato” per il resto della vita. Lui che era il più vitale, e tutta la famiglia Lamb (ma soprattutto Quick) ne rimarrà colpita duramente. Ma nella nuova casa prima mettono ordine alle loro vite, poi (nel bush erano agricoltori) s’inventano un negozio che vende di tutto. E sarà la loro fortuna, ed il sostegno di tutti gli andirivieni della vita di Cloudstreet. Oltre a Fish, gli altri due personaggi chiave del romanzo sono Rose Pickles e Quick Lamb. Lei ha dovuto fare da balia alla madre per tutta l’infanzia, non riesce ad avere rapporti sereni con gli altri. Vorrebbe studiare, ma non ci sono soldi. Troverà un lavoro fuori dalla casa, da centralinista. Riuscendo anche a vincere un lungo periodo di anoressia che la stava portando alla tomba. Quick invece non vuole studiare, ha un unico talento (quello di sparare con il fucile) ed un grande rimpianto (che voleva essere lui a soffocare al posto di Fish). Così che appena può, scappa di casa, e lo seguiamo nelle grandi distese australiane diventare cacciatore di canguri. Inciso: noi siamo abituati a considerare docili e simpatici questi animali locali. Niente di più falso, il canguro selvatico distrugge campi e raccolti. Ed è anche pericoloso per l’uomo. Tanto che Quick dovrà tornare a casa colpito quasi a morte proprio da un canguro. Rose nel frattempo stava cercando di uscire dal guscio claustrofobico della vita di Cloudstreet. Ma al ritorno di Quick capisce che lo ha sempre amato, sin da quando entrambi erano piccoli. Altro inciso: la vicenda si spande dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Sessanta, in pratica durante tutto il lungo governo dei sette mandati consecutivi di Sir Robert Menzies. E tra alti e bassi coroneranno il loro sogno. Ovviamente, c’è anche tutto il contorno. I molti momenti bassi di Sam e le sue rare ma cospicue vincite. La discesa alcolica di Dolly. I comportamenti di Oriel. Ma come una ballata, tutto ritorna alla fine. Si era iniziato con un picnic dei Pickles poco più che decenni. Si finisce con un altro picnic, con le famiglie riunite. E come detto intorno, oltre al governo australiano, c’è la guerra di Corea, la morte di Kennedy, sul fronte internazionale. E la presenza, qua e là, di alcuni aborigeni, tanto per rimarcare che l’Australia è anche loro. Un buon lavoro. La scrittura è poi un grande punto di forza del romanzo di Winton, in particolare nei toni epici e descrittivi della prima metà del libro. La seconda parte, piegando la scrittura alla storia, perde un po’ di efficacia. Anche se l’autore riesce a dosare ed amalgamare descrizioni, colloqui in terza persona, dialoghi in presa diretta. Un lavoro scritto a 31 anni, dove si sente, e con piacere, l’impeto giovanile della pulsione allo scrivere. Un’opera che può avvicinare a quel mondo “down under” come dicono i locali, tanto lontano nello spazio, ma vicino nello spirito. Seppure, innegabilmente, diverso. Come quando, in modo spaesante, si dice: “era la fine di gennaio, nel pieno dell’estate”. Quest’uguaglianza di sentire nella diversità dell’essere è stata per me uno dei legami affettivi che mi ha ridato la voglia di pensare a tornare laggiù.
“– Le persone … sono quello che sono. – E allora dovrebbero cambiare! Dovrebbero fare qualcosa per se stesse, e non aspettare che siano gli altri a cambiare le cose al posto loro! – Non si può cambiare la propria sorte. – No, ma una deve costruirsela, la propria sorte. Perché ci siamo solo noi e nient’altro.” (187)
Filippo Bologna “Come ho perso la guerra” Fandango euro 10
[A: 01/07/2014– I: 06/09/2015 – T: 10/09/2015] - && e 1/3    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 272; anno 2009]
Un bel suggerimento di quel misconosciuto episodio di critica letteraria legato alla fanzine “Satisfiction”. Ovviamente non posso che essere in disaccordo con i mini-lanci pubblicitari della quarta sia di Edoardo Nesi che di Asor Rosa (che l’unica cosa buona che ha fatto è il suo palindromo). Non è un libro memorabile, non ci si rotola né dalle risate né si sta seduti a pensare a come poteva andare il mondo. Pur tuttavia ha una notevole dose di freschezza linguistica. Ed alcuni capitoli si leggono con grande piacere. Meglio, allora, il commento di Annarita Briganti, quando ancora scriveva solo per Mucchio Selvaggio, sulla efficacia di questo romanzo molto “local” e poco “global” (anche se). Personalmente, era un libro che stava viaggiando sulla sufficienza piena ed anche qualcosa in più. Almeno per 2/3. Poi, il crollo! Tutta la parte finale, la guerra in sé (quella che, come sapete dal titolo, si è pure persa), la guerra con Lea, l’amore con Lea, la fine con Lea, il riflusso terminale. Insomma, è precipitato come la borsa cinese in un venerdì nero. Alla fine il giudizio è una media pesata delle due parti del libro. Che, per l’appunto, in tutta la parte “on” è gradevole. Certo, con qualche tocco lezioso di troppo (uno su tutti, doveva proprio chiamarsi Federico Cremona il protagonista di un romanzo scritto da Filippo Bologna?). Si parla di borghi toscani. Si parla della storia della famiglia Cremona, dal nonno-bisnonno Terenzio (quello che frustava i contadini). Dei nonni gemelli, Vanni e Fede, e della morte giovane di quest’ultimo per una bischerata (scivola tornando a casa mentre porta la bicicletta con una mano, un pacco con l’altra, batte la testa e non si riprende più). Di come era fuori schema Fede il pro-zio, tanto che nelle adunate del fascio lo si doveva chiudere a chiave per non fargli fare bischerate. Di come fosse rientrato nei ranghi Vanni, per tirare su la famiglia, e far studiare da medico il figlio Terenzio (anche se questi aveva velleità letterarie). Delle partite a Monopoli, gestite dalla nonna, dove ai nomi canonici delle strade del gioco venivano assegnati i nomi delle proprietà della famiglia, finché … Insomma, tutto un florilegio, che esce fuori alla rinfusa, ma che fa piacere leggere, di quello che era il back della famiglia. Poi c’è il luogo, questo mezzo Appennino toscano, con la miracolosa sorgente d’acqua calda, e il pluriennale dominio del Partito (non c’è bisogna di dire quale, il Partito con la P maiuscola è solo uno). Ed è anche interessante ed emotivamente coinvolgente, il modo di Bologna di farci vivere la deriva dell’uno e dell’altro. Legati lì, localmente, in un destino “bersaglio di guai”, ma con un discorso che si può (si deve) ampliare a tutte le risorse locali. Ad un certo punto, si è stati presi dalla fregola del progresso, della modernità, del rinnovamento. Purtroppo, senza avere solide basi per capire su cosa fondare “il balzo in avanti”. Così, amministratori locali, funzionari, ed altri normalmente onesti uomini sono presi e triturati dalle parole di chi, fuoruscito dalla televisione, abbindola tutti con miraggi dorati. Così come fa Ottone Gattai, rozzo ma intelligente arrivista, che capisce, prima e meglio di altri, le potenzialità dell’acqua come risorse. E del fatto che, esaurendosi il petrolio nel giro di pochi decenni, ma aumentando le persone sul pianeta, ben presto, non ci saranno più “guerre dell’oro nero”, ma “guerre dell’oro bianco” (l’acqua). E chi si guarda intorno da anni lo sa bene. Come ad esempio uno degli elementi fondanti delle guerre mediorientali sia stato (e sia tuttora) il controllo dell’acqua del fiume Giordano (e non solo per motivi religiosi). Insomma, Gattai imbriglia le terme, cerca e trova partner russi (una stoccata anti-putiniana è sempre ben accetta), abbatte acacie secolari, distrugge panchine centenarie, ed orna la piazza di città di una scultura moderna ed oscena (nel senso di brutta, ovvio). Fin a qui, si gestisce bene il libro. Da qui, dalla rivolta del giovane Fede, che si sente imbevuto delle battaglie non combattute del nonno omonimo, si cade giù. Non tanto per quella guerra partigiana che Fede e compagni instaurano dandosi alla macchia, pur dopo aver tentato le vie legali per fermare Gattai e la sua Aquatrade. Ovviamente, vie perdute, con tanto di ripicche verso le famiglie, tanto che i legali dell’Ottone depredano tutte le proprietà dei Cremona. Certo, le invenzioni di imboscate appenniniche di resistenziale memoria lasciano freddini. È anche tutta la storia d’amore tra Fede e Lea che lì comincia e che mi lascia molto storto. Storia scontata, sia nelle descrizioni sia nello svolgimento. Storia che non può che finire male. Non tanto perché “Fede è un coglione”, come dice saggiamente Lea. Ma perché come può finire bene una storia d’amore durante la guerriglia (Guevara docet)? Anche il modo della fine che non convince. La tristezza border line di Federico che anch’essa ci coinvolge poco. Fa solo piacere la figura di Irina (capirete perché) e il riassunto finale di dove andranno a finire non “i palloncini” della famosa canzone “quando scappano di mano ai bambini”, ma “i partigiani”, quando capiscono di aver perso la guerra. Un capitolo epilogo fa fare uno scatto di reni alle ultime pagine, ricordando analoghe chiuse di un libro di Paolo Di Paolo. E come per quello, anche qui, questa parte mi porta la riflessione come se molti dei brevi capitoli siano piccoli racconti auto-contenuti. Che in questa lettura sono anche di una loro dignitosa bellezza. Poi, Bologna prende il tutto, amalgama i personaggi e le loro storie personali, cucendo un romanzo che alla fine, come detto, si legge. E si apprezza proprio per quelle spezzettature di storie antiche e moderne, slegate e pur congiunte. Forse, come Fede capisce bene ad un certo punto, andrebbe tutto meglio con la desistenza. Io, riprendendo scritti di un suo conterraneo, l’ottimo Gesualdi, direi che ci vuole sobrietà. Spero comunque di vedere altri scritti del nostro in giro per gli scaffali.
“Se la realtà non coincide con la sua idea, preferisce cambiare la realtà piuttosto che l’idea.” (117)
Salvatore Satta “Il giorno del giudizio” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 05/06/2014– I: 13/09/2015 – T: 16/09/2015] - &&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 1998]
È davvero un libro valido per tenere compagnia ai novantenni, come dice qualche signorina maligna? Credo proprio di no. Certo, è un libro di difficile lettura, perché nulla concede al pubblico, nulla concede all’applauso facile. Forse perché rimasto tanti (troppi?) anni nel cassetto del grande giurista sardo Salvatore Satta, da cui ne uscì solo postumo. Ed essendo un libro privato, per questo non concede, ma è dolente, diretto, debordante di ricordi, e molto altro ancora. Probabilmente, almeno nelle mie personali corde di lettore, manca qualcosa che ne chiuda le tante parentesi aperte, invece di scorrere via, e poi ad un certo punto, purtroppo finire. Non è comunque facile tracciarne una trama, un percorso, che il libro alla fine è forse un trionfo di ricordi, ed una laude ad una città che non è sia molto ricorrente nei ricordi collettivi. Certo, tutti (molti?) sanno che Nuoro è la città natale di Grazia Deledda. E Deledda ebbe il Nobel per la Letteratura nel 1926. Ma quella che ci porta alla luce Satta con il suo scavare nei ricordi e nelle pietre, una ad una, della città, è la Nuoro città, la Nuoro campagna, la Nuoro lontana dall’Italia eppur così vicina. Seguendo, bene o male, la storia di Don Sebastiano Sanna Carboni e della sua famiglia. Don Sebastiano il notaio, che, in quanto notaio, ha beni al sole, e, onestissimo ed integerrimo, continua ad accumularne se e solo quando può e come può. Senza mai barare (tanto che per un debito di gioco, non intacca i soldi di casa, ma lavora di notte come amanuense). Don Sebastiano che, trentenne, decide di metter su famiglia sposando Donna Vincenza, la figlia di un piemontese immigrato ai tempi dell’unificazione, ventenne ed inesperta. Donna Vincenza che gli darà nove figli, sette maschi vivi al tempo del racconto, e due femmine prematuramente morte. Donna Vincenza che governa la casa, ma poco più, come dice la feroce sentenza di Don Sebastiano che riporto in calce. Ed i sette figli che vanno dal maggiore Giovanni, per anni incupito da un amore andato a male, e poi messosi sulla scia paterna una volta questi invecchiato. Poi altri figli mezzani, che non vedono l’ora, e presto lo faranno, di andarsene per altri lidi. Infine i tre minori: Lodovico, il cagionevole, che, scapolo e misogino, farà il triste avvocato per tutta la vita, Sebastiano, quello che dovrebbe perpetrare il nome, ma non avrà mai né arte né parte, oscurato dal di poco maggiore Peppino, che morirà di polmonite nella Prima Guerra Mondiale. E mentre seguiamo le vicende per anni ed anni della famiglia Sanna, ne seguiamo l’inserimento nel mondo sardo in generale e nuorese in particolare. Belle, anche se apparentemente disorganiche, tutte le pagine che Satta tira fuori. Dalla nascita della città, quando il vescovo Roich nel secolo XII sposta la diocesi dalla malsana Galtellì sulla costa, verso l’interno più salubre. Laddove la città si sviluppa sui tre assi in contrapposizione: i poveri della Seuna, i malviventi (e bella è la descrizione di come ci si diventa) barbaricini della genia dei Corrales abbarbicati al rione San Pietro, ed i benestanti del Corso. Laddove ci sono la grande casa di Don Sebastiano, la farmacia di Don Pasqualino, il caffè Tettamanzi centro e ritrovo di tutto quello che avviene in città. Seguiamo l’alternanza dei preti e dei canonici, dei vescovi, con il munifico Monsignor Dettori in testa, i primi fermenti socialisti che Don Ricciotti tenta di cavalcare, subito imbrigliato dalle gerarchie ecclesiastiche che spingono a deputato Paolo Masala il gran parlatore. La lotta per la terra, la macina del grano, il pane carrasau, i formaggi e le olive. Un mondo che svolta il bordo del secolo scorso, e si affaccia sul nuovo. Don Sebastiano che legge la morte lontana di un arciduca ucciso chissà dove, e che porterà alla morte il suo Peppino. Morte che, alla fine, raggiunge tutti. Il canonico, l’ubriacone Boelle, il fantasioso Paolo Catte, Fileddu, la zia Agostina. E Satta ce li riporta in vita per quel breve tratto che passeggiamo insieme, quando con lui ci si aggira per il cimitero. Che sta dalle parti di San Pietro, così che i poveri hanno l’agio di passare almeno una volta per il Corso, anche se dentro la bara. E attraverso i morti, si arriverà a quel giorno del Giudizio che tutti accomuna in un grande mescolamento. Giorno che Satta anticipa parlando e descrivendo il bene ed il male di molti. Ma lui non da giudizi. Lui espone, narra, a volte spiega, il più delle volte si macera anche lui nella sofferenza. È un po’ questa mancanza di un filo forte, di un meglio seguire le vicende dei Sanna che mi ha lasciato qualche momento di esitazione. In un libro che, per il resto, ho trovato veramente bello e convincete.
“Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto.” (24)
“Riusciva a non far nulla senza essere ozioso e questo gli aveva procurato … fama di saggio.” (87)
Ribadisco e sottolineo che Cuba è stata un bel viaggio, una bella scoperta, accompagnata da un solido ed efficace gruppo (sempre solidale anche nelle piccole disavventure). Ora si mette in cantiere un periodo di riorganizzazione casalinga ed un’attesa per future (ma speriamo prossime) partenze.

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