Ebbene sì, ecco che dopo qualche
colpo grosso in ambito poliziesco, torniamo con una bella manciata di autori
italiani. Una nostra vecchia conoscenza, il calabrese Abate, e tre nuovi amici,
Desiati, Enia e Bianconi. Come spesso accade, quello che meno mi ha convinto è
proprio Carmine, anche se ripensare a Ullo e Gaetano è stato interessante
(leggetene per capire di cosa parlo). Salendo di gradimento, abbiamo il poco
qualificabile David, che però ci porta su oggetti rotondi (siano essi palloni
siano essi CD) che sempre ci aggradano, nonostante tutto. Saliamo ancora un
pochino con Francesco, e le parole e la musica. Finiamo con le tragedie svizzero-pugliesi
dedicati all'eternit (meditatene bene, amici miei).
Carmine Abate “Gli anni veloci” Mondadori euro 9,50
[A: 01/07/2014– I: 20/09/2015 – T: 23/09/2015] - &&
e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241;
anno 2008]
Ritorno
sempre con piacere a leggere gli scritti di Carmine Abate, per quel po’ di
“amore calabrese” che mi ha da sempre lasciato la mia amica Rosa. Anche se in
genere Abate parla di Crotone e non di Rossano. E per quelle storie degli
immigrati arbëreshë che mi avevano fatto accostare alla sua scrittura. Questo
era comunque un libro che stava sepolto nelle mie lunghe liste, uscitone un
commento nella terza di un ormai datato supplemento Libri di Repubblica. Ed
inserito in quella che chiamai “Aspettando Economica”, che il libro costava già
18 euro. Ora, invece, eccolo qui, a metà di quel prezzo. Ed anche se letto dopo
6 anni dall'uscita, e dal meritato Premio Tropea che vinse nel 2009, mantiene
un’alta soglia di gradevole lettura. Purtroppo, per il mio gusto di seguire le
trame e gli intrecci, il finale non è all'altezza del resto. Un finale
prevedibile, scontato, forse anche un po’ buonista, che abbassa assai il
giudizio complessivo. Di un libro che segue le vicende dei nostri protagonisti
dai 14 agli oltre 30 (o forse già 40) anni. Il baricentro della vicenda è
Nicola, ragazzino bellino (con i capelli alla Lucio Battisti), studioso il
giusto, ma soprattutto dedito alla corsa. Alla corsa veloce (da cui il titolo),
quella sui 100 metri. In un gran momento della velocità italiana, quello
dell’apice di Mennea, ma che (per chi non lo sapesse, e poiché non c’è scritto
nel libro), anche di Tilli, di Pavoni, di Ullo. Ed il nostro Nicola alla corsa
dedica tutto, con la rabbia di una rivincita voluta/sognata (il padre era stato
un discreto calciatore, finché, per crescita e bisogni economici, entra nella
Montedison di Crotone), diventando un buon velocista, capace di avvicinarsi ai
10”. Ma già dalle prime battute, siccome Abate (come molti, purtroppo) ha il
vizio di andare su e giù nel tempo, sappiamo che non sfonderà. Infatti, nel
presente è “solo” un insegnante di Educazione Fisica. E niente già mi toglie
dalla testa che avrà un incidente che lo fermerà, prima o poi. Troppo scontato.
Come scontata, anche se fa piacere che ci sia, è la sua storia con Anna.
Ragazza che viene dall'interno, che per seguire il liceo va a pensione dalla
famiglia di Nicola. Vuoi vedere che nasce una storia fra loro? Vuoi vedere che
si bloccherà, magari perché Nicola pensa più a correre, o, da introverso e
imbranato qual è, non sa manifestare bene i suoi sentimenti? Ed anche questo
puntualmente avverrà. Che tralascio le fasi intermedie, ma poi Anna va a
lettere a Firenze e Nicola all’ISEF a Roma, si incontrano spesso, su o giù. E
niente di più strano che Anna rimanga incinta. Nicola si tira indietro, ed Anna
(per paura, per aborto, per altro) sparisce e si lasciano definitivamente.
Questo quindi il succo. Una storia d’amore di due adolescenti, i loro problemi,
la realtà del Sud, il bisogno di riscatto. Ovviamente c’è tanto altro, sia
nella parte descrittiva, la figura del fratello Mario, prima studente
fuoricorso a Messina, leader del movimento studentesco locale, poi operaio
anche lui alla Montedison, ed infine sindacalista, che ritroviamo nel finale
con moglie simpatica e due figli. C’è la bella figura dell’anziano Capocolò,
trapiantato a Crotone dalla natia Ferrara, con la sua pesca, il suo orticello,
e la storia d’amore con Gemma (bellissima). E c’è la parte emozionale-musicale.
Che tutto il libro è percorso da un lato dalle canzoni di Lucio battisti che
fanno da colonna sonora alla storia di Nicola ed Anna. Con Anna infatuato che
scrive a Lucio, con le lettere che tornano indietro e che Nicola nasconde. Ma
soprattutto con tutti quei momenti, quei brani quel “lo scopriremo solo
vivendo”. Dall’altra, visto che stiamo a Crotone, c’è anche il grande Rino
Gaetano, l’amicizia con Nicola e Mario, le canzoni che nessuno capisce, e
l’assurda morte per un colpo di sonno sulla Nomentana all’altezza di via Carlo
Fea (e ben lo conosciamo il punto). Il motivo conduttore, che poi è abbastanza
scontato, è la voglia di Nicola, ormai grande e sui 35 di ritrovare Anna. Per
ridarle quelle lettere di Battisti che aveva nascosto. E per capire i motivi
del loro allontanamento. E magari riavvicinarsi, che Nicola ancora è preso da
lei. Con fatica ne trova la casa in Trentino, con le due figlie, una
adolescente ed una sui dieci anni. Riusciranno ad incontrarsi? Riusciranno a
chiarirsi? Riusciranno a capirsi? Poiché ho già detto che il finale è molto
banalino, così come l’incidente che fermerà la corsa di Nicola, capite anche
voi cosa è successo. Io non lo dico, perché, pur nel limbo dell’aurea
mediocritas, è un libro che fa piacere leggere. Come fa piacere ripercorrere i
testi delle canzoni della mia giovinezza (in fondo Abate ha solo 1 anno meno di
me…).
“Il vero amore si vede nelle difficoltà.”
(196)
Mario Desiati “Ternitti” Mondadori euro 9,50
[A: 01/08/2014– I: 01/10/2015 – T: 03/10/2015] - &&&
e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 258;
anno 2011]
Un’altra
degna segnalazione della mitica e non ancora ritrovata rubrica di Satisfiction
(“Soddisfatti o rimborsati”). Lontano dal Premio Strega, in attesa di leggere
il primo lavoro del nostro amico toro (quello delle spose infelici) eccoci a
percorrere una strada che da Tricase in provincia di Lecce, proprio in fondo
alla punta del tacco italico, poco più di 15 chilometri a Nord di Santa Maria
di Leuca, ci porta a Niederurnen in Svizzera, che sta invece al Nord della
confederazione, quasi in Germania (ed infatti si parla tedesco). Ma che cosa
porta i nostri emigranti pugliesi ad andare verso il Nord? Ce lo dice il titolo
di questo interessante (anche se non completamente riuscito) romanzo di
Desiati: lu ternitti. Che, tradotto in italiano, sarebbe l’Eternit. Perché lì
c’è la fabbrica di cemento-amianto nata nel 1903 e quando comincia la storia
(nel 1975) è ancora in piena produzione. Lì vanno i senza terra pugliesi a
cercar fortuna. Lì va la famiglia Orlando, in particolare la protagonista della
storia, l’allora quindicenne Domenica detta Mimì. Desiati ci porta per un lungo
arco temporale, di più di trentanni, così come di trenta anni è il periodo
massimo di incubazione del mesotelioma pleurico, il tumore provocato
dall'asbesto, il materiale costituente dell’Eternit. Certo, tutti abbiamo
seguito il processo alla fabbrica, con prima la condanna, poi la prescrizione
del reato di inquinamento ambientale. Ma qui abbiamo un viaggio che ci porta si
in Svizzera, ma che con Mimì, con gli altri personaggi di contorno, ritorniamo POI
a Tricase ed alla sua vita (al suo sole, al suo mare). Personaggio luminoso e
controverso la nostra Mimì, dura fino in fondo, senza compromessi, che si
innamora quindicenne dell’operaio triggianese Pati in quel di Svizzera. E lì
abbiamo i primi personaggi che ci porteremo dietro per il viaggio: Biagino, il
fratello di Mimì disastrato dall’alcool, che percorrerà senza macchia ma con
tanta paura tutta la discesa abbrutente dell’ubriacatura cronica, Vope, l’amico
silenzioso di Pati, e padre del bel Federico fidanzato storico per otto anni
della bella Arianna, la figlia di Mimì e di Pati. Ma Pati dopo un anno di
Eternit, per paure che conosceremo solo in finale di romanzo, fugge dalla
fabbrica e da Mimì. E lei torna al paese con figlia a carico. E la crescerà con
amore, mentre lei attraversa la vita, con una spensieratezza che non verrà mai
capita dai gretti pugliesi, ma che la porterà a seguire la sua vita di molti
amori, di molti amanti, sempre lì a cucire cravatte, sino al ricongiungimento
finale. Con chi andatelo a scoprire. Ma prima scopriremo, in molti passaggi
temporalmente discontinui, le varie storie che si intrecciano alle morti per
tumore. Non faremo l’elenco di questi morti, e delle cerimonie di ricordo che i
vivi intrecciano, così come intrecciano le “parmasie”, gli omaggi di frutta ed
altro che accompagnano i morti per il loro ultimo viaggio. Ma vediamo
quindicenni giocare nelle limpide acque pugliesi Arianna, con Federico (che
come detto ne diventerà il fidanzato ufficiale, ma che …) e Paolo (che sarà
sempre preso da mamma Mimì). Vediamo crescere Arianna, studiare, andare a Roma,
laurearsi in medicina, e tornare a fare il dottore in Puglia, ma anche a
recuperare le sue radici. Vediamo Mimì, sui trenta poi sui quaranta sempre con
nuovi amanti ma sempre solare, sempre prodiga di consigli ad amiche e colleghe
della fabbrica di cravatte, sempre altrettanto pronta ad una battaglia a
biliardino. E sempre a recuperare l’etilico Biagino. Ed anche pronta ad uno
scontro verbale durissimo con Pati tornato anche lui dalla Svizzera, dopo aver
vissuto venti anni con Franca, ma alle prime avvisaglie del male, tornare anche
lui ai boschi ed agli scogli dell’infanzia. Insomma, un lungo volo tra belle
persone e dure realtà. Una denuncia di quella che successe negli anni Settanta
in Svizzera, ed un monito verso chi non si ricorda che, una volta, “gli
emigranti siamo noi”. In questo mondo, ove non si capisce più come sentirsi
verso tutta questa gente che fugge dalla povertà. Belle, sempre, alcune
immagini, anche se i fiammiferi nella notte svizzera ricordano troppo Prèvert
per non sentirli un po’ stonati. Tutti alla fine pensano ai dolori che lu
ternitti porta in ognuno di loro. Io penso anche a tutti i momenti belli che lo
stesso ha scavato nel cuore dei nostri personaggi. Ma io si sa, sono sempre il
grande ottimista. Buona lettura (soprattutto agli svizzeri!).
“È meglio avere qualche paura in più, ma
dare anche un po’ di risposte ai nostri cuori.” (211)
Davide Enia “Rembò” Repubblica Pallone 7 euro 6,90
[A: 05/07/2014– I: 08/10/2015 – T: 11/10/2015] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 268;
anno 2006]
Un
buon esempio di una prova che è altrimenti inclassificabile. Dovrebbe essere un
romanzo, ma in realtà sono i canovacci, allargati e commentati, di una
trasmissione radiofonica di qualche anno fa. Davide Enia, con la collaborazione
di Fabio Rizzo, crea una storia in 15 puntate su di un “mitico” calciatore: il
palermitano Rembò. E su questa finzione crea una struttura di divertissement,
ma anche di interesse. Certo si parla di calcio, ma non di quello “reale” bensì
di quello che potrebbe essere. Si parla di giovani che giocano al calcio. Ma si
parla anche di Palermo, nel senso più esteso del termine (includendo anche il
lontano quartiere di Palermo a Buenos Aires). Si parla della storia del
narratore, David chiamato Davidù, e della sua famiglia: i genitori sempre
assenti alla ricerca di un lavoro a giornata nell'entroterra siciliano, degli zii
cui il giovane viene affidato (zia Pupetta e zio Serafino), della morte della
sorella. Lo spunto è trovare le tracce di questo mitico calciatore, Rembò, che
messe le scarpe ai piedi, dai 14 ai 19 anni regalò sogni e gol al popolo
rosanero (che sono i colori del Palermo, per chi non lo sapesse). Poi,
improvvisamente, a 19 anni si ritira dallo sport e scompare. Non se ne hanno
tracce per alcuni anni, poi ricompare come cuoco in un ostello a Finisterre,
alla fine del cammino di Santiago, poi scompare di nuovo, e sappiamo solo
dell’esistenza della sua tomba, con due date (1954 – 1991) e un pallone. Ci
sono tanti giochi, tante idee, e tanti rimandi in tutto il libro. Ad esempio,
Rembò è la trascrizione fonetica di Arthur Rimbaud, celeberrimo poeta francese
ritiratosi dall'attività poetica a soli 24 anni, per poi scomparire e
riapparire in tutta altra veste in Africa (e tanti anni fa, in quel di Aden
andai a cercarne la casa dove visse, la trovai, e sotto, vicino al portone
c’era un misero caffè, il “Bar Rembò”). C’è lo scopritore di talenti
calcistici, lo zio Serafino, che faceva i puzzle incastrando i pezzi
cromaticamente, fumatore accanito e morto di … vecchiaia. C’è la zia Pupetta
religiosissima in quanto a 4 anni entrata in coma per una meningite è sopravvissuta,
dice lei, per avere sognato Gesù Cristo. Ci sono i personaggi reali del
pantheon letterario e musicale dell’autore: Borges con un suo racconto, anche
se modificato, tratto da “La città degli immortali”. C’è Shakespeare. C’è il
piano di Glenn Gould che ci allieta con una sonata di Carl Philip Emmanuel
Bach. Ci sono citazioni di tanti musicisti a me cari, come Beatles, Pink Floyd,
Brian Eno, Nick Drake, Van Morrison. Ed altri che ho imparato a conoscere come Devendra Banhart. E poi c’è il calcio farcito di personaggi
mitici tramandati dalla tradizione orale delle gradinate degli stadi, inno da
esteti alle tecniche sopraffine, alle arti più pregiate delle scarpe bullonate:
il dribbling, il tiro all'incrocio dei pali, il gol spettacolare. Il dribbling
come danza, come passo a due tra una preda, il dribblatore, e un cacciatore, il
difensore, nel quale conta costringere il terzino alla mossa sbagliata, al
movimento fasullo che lascia di sasso di fronte a uno scarto improvviso. E un
secondo dopo è già troppo tardi. C’è la leggenda di Argo, uno zingaro che
giocava solo per colpire il «sette» della porta avversaria. C'è il calcio
giocato a piedi nudi, tanto rozzo quanto puro, il calcio-samba degli artisti
brasiliani che esprime gioia di vivere e di giocare, quello giocato da corpi
che mantengono la memoria dell’Africa, quello dell’estro selvatico di
Garrincha, la mitica ala destra con una gamba più corta dell’altra che irrideva
gli avversari con le sue finte da antologia. Infine c’è Palermo, una città in
bianco e nero, una città che rimbalza dagli angoli della memoria, illanguidita
da un bagliore di nostalgia, popolata da sorelle che non ci sono più, da padri
temibili, da trame all'uncinetto, da partite per strada, da piatti di cuscus e
da crocefissi col maglioncino per l’inverno. E, come termina Enia, «ogni volta
che ci troveremo a calciare un rigore, che ci protegga Rembò». Non conosco, non
ho mai ascoltato la trasmissione radiofonica, ma deve essere stata divertente,
tanto che mi ricorda le puntate di quelle follie giovanili che io e Luciano
facevamo alla “nostra radio”. Commenti, intarsi seri, ed una colonna sonora
(che ora si chiama “playlist” che fa più fico) per un libro che non è un libro,
e per una colonna sonora che ora ho anche io nei miei supporti magnetici.
Francesco Bianconi “Il regno animale” Mondadori euro 9,50
[A: 01/07/2014– I: 16/10/2015 – T: 19/10/2015] - &&&
e ¼
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241;
anno 2011]
Ecco
ancora una degna segnalazione di Satisfiction (la fanzine che ho spesso citato
ultimamente e che, purtroppo, non è più in circolazione), che nel 2011, a firma
di Ranieri Polese, inviato culturale del Corriere della Sera, consigliava
appunto questo libro di Francesco Bianconi, sottolineandone la frase per lui
centrale: “La colpa è di Milano! È colpa di Milano per quasi tutto ciò che
accade negli usi, nei costumi e nella cultura italiani degli ultimi trentanni”.
A lungo tuttavia, dopo averlo messo in libreria, mi ha frenato l’immagine di
copertina, una foto di Ryan McGinley intitolata COYOTE. Poiché ritengo che
anche le copertine facciano parte della confezione-libro, la faccia del ragazzo
con il lupo sulle spalle sembrava dirmi di stare attento, che qualcosa non va.
Alla fine, i libri si leggono, ed anche questo ha iniziato il suo percorso, con
una lettura che mi ha subito coinvolto. Spingendomi ad indagare sull'autore, e
scoprendo che si tratta del leader dei Baustelle. Non lo avevo collegato, anche
perché penso al complesso e non ai singoli personaggi. E se mi chiedete chi
siano i Baustelle, non vi rispondo, ma vi suggerisco di ascoltare “Un romantico
a Milano”, e poi ne riparliamo. Poiché non sa fare molto, ma almeno riesce a
scrivere (i suoi professori gli affibbiano un ‘Ottime capacità narrative e di
sintesi’) Alberto decide di partire dalla natia Abbadia e di tentare la fortuna
a Milano. Dove inizia questa sorta di ritratto dell’artista da precario (con
buona pace di Dylan Thomas). Dove Alberto tenta tutto, ma non trova altro che
un lavoro sottopagato in una fucina di service redazionali (quelle agenzie dove
giovani pubblicisti scrivono per tutto e per tutti, senza partecipare con la
testa alle parole che tirano fuori), dove scrive in quello stile che viene
definito dal suo capo “mondano”, e dove i suoi pezzi (che servono solo per
sopravvivere) vedono la luce su giornali dall'improbabile titolo come “Il
Nostro Vino”, “Il Nostro Cavallo”. Lì a Milano, inseguendo momenti stranianti,
vedendo gente e domandandosi perché, il suo torpore iniziale tende a svanire ed
impara a galleggiare nell'eterno reality senza snaturarsi. E sarà proprio
questo a permettergli di crescere, superare gli attacchi di panico, le
défaillance con le donne (che seppur timido, attrae), conoscere Ilaria. Di
vivere alternando la visione del bicchiere mezzo pieno a quella cruda di un
futuro da anno zero. Eppure Alberto trascina le sue giornate nel niente, con
l’impressione di non avere il minimo sbocco. Intorno a lui si muove un universo
di perdenti, inconcludenti, uomini e donne in preda all'abbrutimento più
profondo, che vengono dal nulla e camminano verso il nulla, o verso un epilogo
tragico. Storie attuali e flashback si intrecciano fra di loro, formando
lentamente il mosaico della storia di Alberto, finché nella sua vita non si
intravede uno spiraglio. Su tutto incombe la cappa pesante del consumismo e
della vita “moderna” nella quale tutto si compra e tutto si può vendere, tutto
è corruttibile e la corruzione è solo la logica di ogni giorno. Il gioco si fa
divertente quando Alberto, in “missione” al Festival del Cinema di Venezia,
incontra il “vero” Francesco Bianconi. Un ‘espediente con il quale Francesco
riesce a parlare di sé in modo sempre più diretto. Peccato che da questa intervista
cominci la parte peggiore del libro, e ci si avvii verso un finale che mi ha
lasciato decisamente freddo, facendo calare non poco il giudizio finale. Perché
se divertente la descrizione del party veneziano, l’irruzione di individui
irrazionali che sparano a destra e sinistra sembra far parte più di un film di
Tarantino. Come di un film, ma questa volta più sul lato Wenders, si svolge
l’incomprensibile finale. Tuttavia, così come seguendo le liriche dei testi dei
Baustelle (e spesso i capitoli fanno omaggio anche alle loro canzoni), ci si
accorge che le riflessioni dei vari personaggi, per quanto pessimistiche siano,
sono tuttavia il più delle volte condivisibili, e che molti dei loro pensieri,
dubbi, stati d’animo, ci sono appartenuti almeno in parte. Sono d’accordo con
Bianconi, quando sembra dirci che bisogna guardare in faccia la realtà, anche
se scomoda. Dopo la lettura, consiglio una buona terapia a base del ultimo
disco live del complesso.
Seconda
domenica del mese, e piccolo allegato legato (mi piace essere agglutinante, e
se leggete l’acclusa cura capirete) alla crisi d’identità.
C’è qualche ipotesi viaggereccia
all'orizzonte, ma niente di cui sia convinto, per cui rimango, ad ora, qui, a
leggere per me e scrivere per voi. Nonché farvi un riverito omaggio di pensieri
poveri ma belli per una quaresima d’attesa.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MARZO 2016
Non mi sembra proprio fuori tema,
questo mese. Anzi, direi con un tempismo eccezionale, pensiamo a noi stessi ed
alla nostra identità. Prima di entrare in crisi.
IDENTITÀ, CRISI DI
Max
Frisch “Stiller”
Diego
Marani “Nuova grammatica
finlandese”
Franz
Kafka “La metamorfosi”
Antonio
Tabucchi “Sostiene Pereira”
Chi
sei tu, lettore? Un genitore, un professionista, uno studente, un bambino? Sei
sempre lo stesso o esistono due versioni di te - quella che mostri solo a certe
persone e quella che invece è sotto gli occhi di tutti? Oppure sei convinto che
il «vero» te stesso è sempre rimasto nell'ombra?
La
letteratura è piena fino all'orlo di personaggi che soffrono di crisi di
identità - vuoi per un’amnesia, per un crollo nervoso o per qualche altra
inspiegabile ragione Il narratore di “Stiller”, romanzo pubblicato nel
dopoguerra dallo svizzero Max Frisch, nega con insistenza di essere lo scultore
scomparso Anatol Stiller davanti a chi sostiene di riconoscerlo in lui. In
effetti, se diamo retta al suo passaporto, si chiama James (o Jim) White.
Amici, conoscenti e perfino sua moglie, tuttavia, lo identificano ripetutamente
come Stiller - un enigma che confonde sia il lettore che lo stesso White (o
dovremmo dire Stiller). Mentre, a poco a poco, si scopre la verità, non
possiamo fare a meno di riflettere sulla fragilità del nostro rapporto con noi
stessi. Non vogliamo dirvi troppo, ma chi pensa di stare smarrendo il senso della
propria identità dovrebbe fare attenzione e chiedere aiuto solo a persone di
cui si fida, incluso sé stesso.
Una
cosa è certa, nel viaggio della vita, più che un passaporto, conviene portarsi
dietro un’etichetta col proprio nome cucita nella giacca per non perdere mai il
contatto con sé stessi. Quando a Trieste, durante la seconda guerra mondiale,
un uomo viene trovato quasi ucciso a bastonate, l’etichetta finlandese sui
vestiti dice che si tratta di un certo Sampo Karjalainen. Nel riprendere
conoscenza, tuttavia, non ricorda chi è - e non parla. Questa è l’intrigante
premessa di “Nuova grammatica finlandese” di Diego Marani. L’uomo finisce a
bordo di una nave, dove c’è un medico finlandese che cerca di fargli ricordare
almeno la lingua, con la sua grammatica diabolicamente complicata e le parole
ricche di consonanti. E se quest’uomo non fosse stato davvero finlandese? Cosa
diventerà quando parlerà una lingua diversa?
Cos'è
che lo rende sé stesso? Alla fine sembra che siano i nuovi rapporti che stringe
sulla nave a fargli recuperare la propria identità. Leggete questo romanzo, e
il legame che saprete stabilire con le sue pagine potrebbe aiutarvi a scoprire
qualcosa che non sapevate di voi stessi.
Ma
se siete cosi sfortunati da smarrire del tutto la vostra identità, la cura
migliore da avere tra le chele è “La metamorfosi” di Franz Kafka. Gregor Samsa,
un commesso viaggiatore, si risveglia un mattino per scoprire che si è
trasformato in uno scarafaggio - uno scarafaggio gigante, anzi. È disgustoso,
non solo per sé stesso ma per tutta la sua famiglia, e anche se Gregor tenta di
farlo, continuare a vivere come faceva prima della trasformazione diventa
sempre più difficile. Mangiare è impegnativo, comunicare impossibile, l’igiene
di base compromessa: Gregor non può che scivolare lentamente in uno stato
vegetative vuoto ma sereno, e morire di fame.
Ritenetevi
fortunati: anche se non sapete chi siete almeno siete umani. Guardate con
ammirazione le vostre dita, gli alluci, la punta del naso. Godetevi l’uso delle
vostre membra. Leggete l’ultimo paragrafo del capolavoro di Kafka a voce alta e
rallegratevi del fatto che la vostra voce non è lo spaventoso stridere di un
insetto. Celebrate la vostra umanità - chiunque voi siate.
E
se vi torna qualche dubbio quando passate di fronte a uno specchio, ricordatevi
della teoria che il dottor Cardoso espone al giornalista Pereira, il pingue
vedovo responsabile della pagina culturale del «Lisboa» nel più famoso romanzo
di Antonio Tabucchi. Siamo nel 1938 e all’ombra della Spagna fascista, Lisbona
“puzza di morte”. Nessuno ha il coraggio di pubblicare le vere notizie e
Pereira, da parte sua, riempie la propria pagina con traduzioni dalla
letteratura francese del XIX secolo. Ogni giorno si tira su parlando con una
foto della moglie morta, mangiando una omelette alle erbe aromatiche con
diversi bicchieri di limonata al Café Orquidea, e concludendo il pasto con un
caffè e un sigaro. Pereira sa benissimo che tutte quelle omelette stanno avendo
un effetto deleterio sulla sua linea, ma è incapace di resistere. È solo quando
incontra il dottor Cardoso in un centro termale fuori città che comincia a
capire il suo bisogno di cibi grassi e bevande zuccherate e la sua necessità di
cambiare registro e di trovare finalmente il coraggio di combattere Franco e
tornare alla vita.
La
teoria del dottor Cardoso è quella dei medicins-philosopbes,
i cui principali rappresentanti furono Théodule Ribot e Pierre Janet. Credere
di essere «uno», gli spiega Cardoso in un ristorante di Lisbona, «staccato
dalla in commensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione,
peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana». Secondo il dottor
Ribot e il dottor Janet e gli altri medici filosofi di fine Ottocento, 1’anima
non è unitaria e monocellulare e ogni uomo è un arcipelago di io. Il carattere,
la personalità degli individui, quello che siamo, dipende da quale io egemone
si impone nella confederazione delle varie anime e ne assume il controllo. È un
risultato, non una premessa. Questo equilibrio dura finché, dopo una lunga
erosione, l’io egemone che guida la confederazione si indebolisce, perde forza
e viene alla superficie un altro io, più forte e più potente, che prende il
sopravvento e spodesta il precedente. Se non si vuole entrare in conflitto con sé
stessi o rischiare la follia, si può solo assecondare questo cambiamento.
Pereira ascolta attento, mentre termina di mangiare la sua macedonia di frutta
senza zucchero e senza gelato. Alla fine della cena promette al dottor Cardoso
di rifletterci sopra e lo saluta con un sorriso che sembra quello di un’altra
persona, dandogli appuntamento per l’indomani alla sua clinica talassoterapica.
Bugiardino
Ho letto Kafka tanti anni fa, e
non l’ho mai digerito. Forse per questo non lo rileggo (e se faccio male
tiratemi le orecchie). Ho invece letto, e ben ricordo, il libro di Tabucchi,
che sapete essere una stella del mio firmamento. Ma ne lessi prima di essere
tramatore, quindi ve lo rimando, con solo una tirata d’orecchie alle nostre
terapeute (ed anche ai revisori italiani), che Pereira è un oppositore di
Salazar e non di Franco. Rimane il bel libro, che ho letto, consigliato,
riletto, e se volete potrei anche prestarlo, sull'identità e la Finlandia. Magico.
Diego Marani “Nuova grammatica finlandese”
Bompiani s.p. (regalo di compleanno di Sara e Giampaolo)
[pubblicato
il 17 maggio 2015]
Non
credo ci sia bisogno di alcuna cartomanzia per immaginare che questo è un libro
da collocare alla grande nel prontuario dedicato alle crisi d’identità. Ma di
questo se ne parlerà più avanti, che intanto questa trama è un ringraziamento
alla mia amica Cecilia, che non so se e come c’entri con Marani, ma che a più
ripresa è entrata nei miei pensieri, in quanto una buona parte del romanzo ha
sullo sfondo il “Kalevala”. E come non ricordarne e sottolinearne l’edizione da
lei e da Roberto Arduini curata nel 2007? Inoltre, come dice il titolo (e poi
vi torneremo sopra), è anche un inno d’amore verso una lingua poco conosciuta,
forse tra le meno diffuse al mondo: il finlandese (pare sia parlata da 6
milioni di persone in tutto, collocandosi intorno al 120 posto delle lingue
parlate, tant'è che l’italiano si colloca al 20°). Una lingua che posso dire
conosco veramente poco, che mi ricordo solo (da alcune reminiscenze
linguistiche) essere di un ceppo detto “uralo-altaico”, che comprende lingue di
una difficoltà enorme di comprensione e scritture (tipo estone e ungherese).
Che tuttavia, stimolato da Marani, ho cominciato a leggerne in rete, dove ho
scoperto una cosa mostruosa: è una lingua che ha quindici casi diversi, dal
tranquillo nominativo all'inquietante abessivo (e poi ci stupiamo che in Europa
i finlandesi siano quelli che maggiormente sanno parlare in latino!), che ha
quattro forme dell’infinito, ed anche un caso chiamato “plusquamperfetto
negativo”: una bomba linguistica! Finisco soltanto con la lingua dandovi un
altro messaggio preoccupato: è una lingua agglutinante! E siccome sarete
curiosi alla fine ve lo spigo. Ma torniamo a Marani ed a questo libro con alti
e bassi, con momenti forse poco chiari, che vengono lasciati nell'ombra usando
lo schema del passato: l’azione (anche se ce n’è poca) si svolge alla fine
della Seconda Guerra Mondiale, quindi qualcosa può essere lasciato al mistero
del passato. La storia, in realtà, è di una semplicità disarmante. Un medico
finlandese, fuggito in Germania dopo l’uccisione del padre per motivi politici,
in servizio presso una nave tedesca, trova una persona in coma nelle banchine
del porto di Trieste. Un marinaio, con una divisa con su scritto un nome (Sampo
Karjalainen) ed un fazzoletto con le iniziali SK. Uscito dal coma Sampo scopre
di aver perso la cognizione della parola. Il medico, trovando lontano da casa
un lembo della sua patria perduta, comincia a curarlo ed a insegnargli
nuovamente la lingua materna. Quando finalmente sta meglio, il dottore lo
rispedisce ad Helsinki, in un ospedale dove dovrebbe trovarsi uno psicologo
logopedista. Che invece è scomparso (forse morto in guerra), e dove Sampo trova
un’infermiera, Ilma, che lo aiuta e lo presenta ad un pastore luterano, padre
Koskela. Andiamo così avanti, nel buio della memoria di Sampo che ogni giorno
studia con il prete, che riempie i suoi quaderni di scritte e di grammatiche,
che gira per la città in preda alla guerra ed alla tenaglia tra Germania e
Russia (in fondo San Pietroburgo è proprio lì a due passi). Le parole del
pastore, e le piccole agnizioni di Sampo ad ogni nuova parola che entra nel suo
vocabolario, ci fanno da culla nel capire la genesi di una lingua, ed il suo
radicarsi in una regione altra dalle sue origini (come detto sopra, la radice è
addirittura mongola). Ma il pastore fa anche altro: usa il grande poema epico
finlandese, il Kalevala, per istruire Sampo, ma anche per addentrarsi nella
spiegazione dell’anima di questa nazione. Qui, ovviamente, tornano i
ringraziamenti di cui all'inizio, per averne capito un po’ di più. Sampo si
rende a poco a poco più indipendente, e con piacere lo seguiamo per l’Esplanadi
della capitale, andando verso il porto e la chiesa ortodossa in punta (era
l’estate del 2012, ma è come se ci camminassi ieri pomeriggio). Purtroppo il
pastore, preso da furori strani, decide che deve tornare sul fronte a
combattere, come i suoi eroi dell’epopea, abbandonando il povero Sampo. Ilma
proverà a rompere la corazza sperando che forse l’amore possa far breccia (e
belle son quelle pagine sull'albero dei ricordi). Ma Sampo è troppo chiuso
nella ricerca della propria identità. Che questa lingua fa breccia nel
cervello, ma non arriva al cuore. Che cerca di capire origini e possibili
legami, ma siamo in tempi di guerra e tutto è instabile. Sampo, pur sapendo che
dovrebbe e potrebbe dire una parola ad Ilma, rimane muto e solingo. A bere la
Koskenkorva (una vodka finlandese allungata con acqua e zucchero), a pensare al
pastore ed al Kalevala. Finché, sul porto di Helsinki, vede sfilare una nave da
guerra appena rimessa a nuovo dai cantieri navali: il Sampo Karjalainen. E
capisce che quella divisa, quelle iniziali sono un’identità illusoria, sono
della nave e lui chissà chi sarà. Decide allora di partire anche lui per il
fronte, dove morirà per una patria che non saprà mai se sia o meno la sua. Noi
invece lo sappiamo, che il buon dottore, in base a tutta una serie di
informazioni che gli arriveranno con ritardo, ricostruirà la vera storia del
personaggio, come nasce, come va in coma, e tutto il resto. Storia che v’invito
a scoprire leggendone e non aspettando che io ve ne narri. A me rimane, con
tutti gli alti (tanti) e bassi (pochi) di cui sopra, una storia sulla ricerca
di sé, sul limite che ci si può porre in questa ricerca. Vivendo in una terra
ostile, o comunque con una lingua madre diversa, come fa il nostro Marani da
anni (da sempre quasi) espatriato a Bruxelles. Dove, guarda caso, si occupa di
multilinguismo. Bravo, ed auguri per i suoi lavori, mentre io mi rimetto alla
ricerca di un suo libro che vorrei prima o poi trovare (“Come ho imparato le
lingue”).
“È più facile nascere che morire. Forse per
la morbosa curiosità che ogni uomo ha, anche nel dolore, di vedere come va a
finire.” (42)
“Le forme di una lingua si ripercuotono
inevitabilmente su chi la parla, ne plasmano il volto, le case, la terra, le
abitudini, il cibo.” (59)
“L’abessivo è la declinazione delle cose che
mancano: “toivotta”, senza speranza! È bellissimo … perché in generale sono più
le cose che ci mancano di quelle che abbiamo.” (90)
“Passiamo la vita sfiorando i nostri simili
senza mai veramente conoscerli.” (152)
“Ancora una volta, il mio nome era tutto
quello che avevo.” (174)
Ed
ecco, come promesso, la genesi della forma agglutinante che ci permette di
capire il significato della parola “kirjassanikin”:
kirja:
il libro
kirjani: il mio libro
kirjassa: nel libro
kirjassani: nel mio libro
kirjassanikin: anche nel mio libro
Da
paura!
Conclusioni
Aspetterò prima o poi di aver la
voglia di leggere lo svizzero Frisch (e gli svizzeri ultimamente sono un po’
troppo presenti). Per ora sostengo con forza che Marani è sicuramente da
prendere per curarsi la memoria e cercarsi un’identità. Tabucchi è da prendere
sempre, con dosi serali omeopatiche. Su Kafka non mi pronuncio.
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