domenica 13 marzo 2016

Sufficientemente italiani - 13 marzo 2016

Ebbene sì, ecco che dopo qualche colpo grosso in ambito poliziesco, torniamo con una bella manciata di autori italiani. Una nostra vecchia conoscenza, il calabrese Abate, e tre nuovi amici, Desiati, Enia e Bianconi. Come spesso accade, quello che meno mi ha convinto è proprio Carmine, anche se ripensare a Ullo e Gaetano è stato interessante (leggetene per capire di cosa parlo). Salendo di gradimento, abbiamo il poco qualificabile David, che però ci porta su oggetti rotondi (siano essi palloni siano essi CD) che sempre ci aggradano, nonostante tutto. Saliamo ancora un pochino con Francesco, e le parole e la musica. Finiamo con le tragedie svizzero-pugliesi dedicati all'eternit (meditatene bene, amici miei).
Carmine Abate “Gli anni veloci” Mondadori euro 9,50
[A: 01/07/2014– I: 20/09/2015 – T: 23/09/2015] - && e ¾     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241; anno 2008]
Ritorno sempre con piacere a leggere gli scritti di Carmine Abate, per quel po’ di “amore calabrese” che mi ha da sempre lasciato la mia amica Rosa. Anche se in genere Abate parla di Crotone e non di Rossano. E per quelle storie degli immigrati arbëreshë che mi avevano fatto accostare alla sua scrittura. Questo era comunque un libro che stava sepolto nelle mie lunghe liste, uscitone un commento nella terza di un ormai datato supplemento Libri di Repubblica. Ed inserito in quella che chiamai “Aspettando Economica”, che il libro costava già 18 euro. Ora, invece, eccolo qui, a metà di quel prezzo. Ed anche se letto dopo 6 anni dall'uscita, e dal meritato Premio Tropea che vinse nel 2009, mantiene un’alta soglia di gradevole lettura. Purtroppo, per il mio gusto di seguire le trame e gli intrecci, il finale non è all'altezza del resto. Un finale prevedibile, scontato, forse anche un po’ buonista, che abbassa assai il giudizio complessivo. Di un libro che segue le vicende dei nostri protagonisti dai 14 agli oltre 30 (o forse già 40) anni. Il baricentro della vicenda è Nicola, ragazzino bellino (con i capelli alla Lucio Battisti), studioso il giusto, ma soprattutto dedito alla corsa. Alla corsa veloce (da cui il titolo), quella sui 100 metri. In un gran momento della velocità italiana, quello dell’apice di Mennea, ma che (per chi non lo sapesse, e poiché non c’è scritto nel libro), anche di Tilli, di Pavoni, di Ullo. Ed il nostro Nicola alla corsa dedica tutto, con la rabbia di una rivincita voluta/sognata (il padre era stato un discreto calciatore, finché, per crescita e bisogni economici, entra nella Montedison di Crotone), diventando un buon velocista, capace di avvicinarsi ai 10”. Ma già dalle prime battute, siccome Abate (come molti, purtroppo) ha il vizio di andare su e giù nel tempo, sappiamo che non sfonderà. Infatti, nel presente è “solo” un insegnante di Educazione Fisica. E niente già mi toglie dalla testa che avrà un incidente che lo fermerà, prima o poi. Troppo scontato. Come scontata, anche se fa piacere che ci sia, è la sua storia con Anna. Ragazza che viene dall'interno, che per seguire il liceo va a pensione dalla famiglia di Nicola. Vuoi vedere che nasce una storia fra loro? Vuoi vedere che si bloccherà, magari perché Nicola pensa più a correre, o, da introverso e imbranato qual è, non sa manifestare bene i suoi sentimenti? Ed anche questo puntualmente avverrà. Che tralascio le fasi intermedie, ma poi Anna va a lettere a Firenze e Nicola all’ISEF a Roma, si incontrano spesso, su o giù. E niente di più strano che Anna rimanga incinta. Nicola si tira indietro, ed Anna (per paura, per aborto, per altro) sparisce e si lasciano definitivamente. Questo quindi il succo. Una storia d’amore di due adolescenti, i loro problemi, la realtà del Sud, il bisogno di riscatto. Ovviamente c’è tanto altro, sia nella parte descrittiva, la figura del fratello Mario, prima studente fuoricorso a Messina, leader del movimento studentesco locale, poi operaio anche lui alla Montedison, ed infine sindacalista, che ritroviamo nel finale con moglie simpatica e due figli. C’è la bella figura dell’anziano Capocolò, trapiantato a Crotone dalla natia Ferrara, con la sua pesca, il suo orticello, e la storia d’amore con Gemma (bellissima). E c’è la parte emozionale-musicale. Che tutto il libro è percorso da un lato dalle canzoni di Lucio battisti che fanno da colonna sonora alla storia di Nicola ed Anna. Con Anna infatuato che scrive a Lucio, con le lettere che tornano indietro e che Nicola nasconde. Ma soprattutto con tutti quei momenti, quei brani quel “lo scopriremo solo vivendo”. Dall’altra, visto che stiamo a Crotone, c’è anche il grande Rino Gaetano, l’amicizia con Nicola e Mario, le canzoni che nessuno capisce, e l’assurda morte per un colpo di sonno sulla Nomentana all’altezza di via Carlo Fea (e ben lo conosciamo il punto). Il motivo conduttore, che poi è abbastanza scontato, è la voglia di Nicola, ormai grande e sui 35 di ritrovare Anna. Per ridarle quelle lettere di Battisti che aveva nascosto. E per capire i motivi del loro allontanamento. E magari riavvicinarsi, che Nicola ancora è preso da lei. Con fatica ne trova la casa in Trentino, con le due figlie, una adolescente ed una sui dieci anni. Riusciranno ad incontrarsi? Riusciranno a chiarirsi? Riusciranno a capirsi? Poiché ho già detto che il finale è molto banalino, così come l’incidente che fermerà la corsa di Nicola, capite anche voi cosa è successo. Io non lo dico, perché, pur nel limbo dell’aurea mediocritas, è un libro che fa piacere leggere. Come fa piacere ripercorrere i testi delle canzoni della mia giovinezza (in fondo Abate ha solo 1 anno meno di me…).
“Il vero amore si vede nelle difficoltà.” (196)
Mario Desiati “Ternitti” Mondadori euro 9,50
[A: 01/08/2014– I: 01/10/2015 – T: 03/10/2015] - &&& e ¾     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 258; anno 2011]
Un’altra degna segnalazione della mitica e non ancora ritrovata rubrica di Satisfiction (“Soddisfatti o rimborsati”). Lontano dal Premio Strega, in attesa di leggere il primo lavoro del nostro amico toro (quello delle spose infelici) eccoci a percorrere una strada che da Tricase in provincia di Lecce, proprio in fondo alla punta del tacco italico, poco più di 15 chilometri a Nord di Santa Maria di Leuca, ci porta a Niederurnen in Svizzera, che sta invece al Nord della confederazione, quasi in Germania (ed infatti si parla tedesco). Ma che cosa porta i nostri emigranti pugliesi ad andare verso il Nord? Ce lo dice il titolo di questo interessante (anche se non completamente riuscito) romanzo di Desiati: lu ternitti. Che, tradotto in italiano, sarebbe l’Eternit. Perché lì c’è la fabbrica di cemento-amianto nata nel 1903 e quando comincia la storia (nel 1975) è ancora in piena produzione. Lì vanno i senza terra pugliesi a cercar fortuna. Lì va la famiglia Orlando, in particolare la protagonista della storia, l’allora quindicenne Domenica detta Mimì. Desiati ci porta per un lungo arco temporale, di più di trentanni, così come di trenta anni è il periodo massimo di incubazione del mesotelioma pleurico, il tumore provocato dall'asbesto, il materiale costituente dell’Eternit. Certo, tutti abbiamo seguito il processo alla fabbrica, con prima la condanna, poi la prescrizione del reato di inquinamento ambientale. Ma qui abbiamo un viaggio che ci porta si in Svizzera, ma che con Mimì, con gli altri personaggi di contorno, ritorniamo POI a Tricase ed alla sua vita (al suo sole, al suo mare). Personaggio luminoso e controverso la nostra Mimì, dura fino in fondo, senza compromessi, che si innamora quindicenne dell’operaio triggianese Pati in quel di Svizzera. E lì abbiamo i primi personaggi che ci porteremo dietro per il viaggio: Biagino, il fratello di Mimì disastrato dall’alcool, che percorrerà senza macchia ma con tanta paura tutta la discesa abbrutente dell’ubriacatura cronica, Vope, l’amico silenzioso di Pati, e padre del bel Federico fidanzato storico per otto anni della bella Arianna, la figlia di Mimì e di Pati. Ma Pati dopo un anno di Eternit, per paure che conosceremo solo in finale di romanzo, fugge dalla fabbrica e da Mimì. E lei torna al paese con figlia a carico. E la crescerà con amore, mentre lei attraversa la vita, con una spensieratezza che non verrà mai capita dai gretti pugliesi, ma che la porterà a seguire la sua vita di molti amori, di molti amanti, sempre lì a cucire cravatte, sino al ricongiungimento finale. Con chi andatelo a scoprire. Ma prima scopriremo, in molti passaggi temporalmente discontinui, le varie storie che si intrecciano alle morti per tumore. Non faremo l’elenco di questi morti, e delle cerimonie di ricordo che i vivi intrecciano, così come intrecciano le “parmasie”, gli omaggi di frutta ed altro che accompagnano i morti per il loro ultimo viaggio. Ma vediamo quindicenni giocare nelle limpide acque pugliesi Arianna, con Federico (che come detto ne diventerà il fidanzato ufficiale, ma che …) e Paolo (che sarà sempre preso da mamma Mimì). Vediamo crescere Arianna, studiare, andare a Roma, laurearsi in medicina, e tornare a fare il dottore in Puglia, ma anche a recuperare le sue radici. Vediamo Mimì, sui trenta poi sui quaranta sempre con nuovi amanti ma sempre solare, sempre prodiga di consigli ad amiche e colleghe della fabbrica di cravatte, sempre altrettanto pronta ad una battaglia a biliardino. E sempre a recuperare l’etilico Biagino. Ed anche pronta ad uno scontro verbale durissimo con Pati tornato anche lui dalla Svizzera, dopo aver vissuto venti anni con Franca, ma alle prime avvisaglie del male, tornare anche lui ai boschi ed agli scogli dell’infanzia. Insomma, un lungo volo tra belle persone e dure realtà. Una denuncia di quella che successe negli anni Settanta in Svizzera, ed un monito verso chi non si ricorda che, una volta, “gli emigranti siamo noi”. In questo mondo, ove non si capisce più come sentirsi verso tutta questa gente che fugge dalla povertà. Belle, sempre, alcune immagini, anche se i fiammiferi nella notte svizzera ricordano troppo Prèvert per non sentirli un po’ stonati. Tutti alla fine pensano ai dolori che lu ternitti porta in ognuno di loro. Io penso anche a tutti i momenti belli che lo stesso ha scavato nel cuore dei nostri personaggi. Ma io si sa, sono sempre il grande ottimista. Buona lettura (soprattutto agli svizzeri!).
“È meglio avere qualche paura in più, ma dare anche un po’ di risposte ai nostri cuori.” (211)
Davide Enia “Rembò” Repubblica Pallone 7 euro 6,90
[A: 05/07/2014– I: 08/10/2015 – T: 11/10/2015] - &&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 268; anno 2006]
Un buon esempio di una prova che è altrimenti inclassificabile. Dovrebbe essere un romanzo, ma in realtà sono i canovacci, allargati e commentati, di una trasmissione radiofonica di qualche anno fa. Davide Enia, con la collaborazione di Fabio Rizzo, crea una storia in 15 puntate su di un “mitico” calciatore: il palermitano Rembò. E su questa finzione crea una struttura di divertissement, ma anche di interesse. Certo si parla di calcio, ma non di quello “reale” bensì di quello che potrebbe essere. Si parla di giovani che giocano al calcio. Ma si parla anche di Palermo, nel senso più esteso del termine (includendo anche il lontano quartiere di Palermo a Buenos Aires). Si parla della storia del narratore, David chiamato Davidù, e della sua famiglia: i genitori sempre assenti alla ricerca di un lavoro a giornata nell'entroterra siciliano, degli zii cui il giovane viene affidato (zia Pupetta e zio Serafino), della morte della sorella. Lo spunto è trovare le tracce di questo mitico calciatore, Rembò, che messe le scarpe ai piedi, dai 14 ai 19 anni regalò sogni e gol al popolo rosanero (che sono i colori del Palermo, per chi non lo sapesse). Poi, improvvisamente, a 19 anni si ritira dallo sport e scompare. Non se ne hanno tracce per alcuni anni, poi ricompare come cuoco in un ostello a Finisterre, alla fine del cammino di Santiago, poi scompare di nuovo, e sappiamo solo dell’esistenza della sua tomba, con due date (1954 – 1991) e un pallone. Ci sono tanti giochi, tante idee, e tanti rimandi in tutto il libro. Ad esempio, Rembò è la trascrizione fonetica di Arthur Rimbaud, celeberrimo poeta francese ritiratosi dall'attività poetica a soli 24 anni, per poi scomparire e riapparire in tutta altra veste in Africa (e tanti anni fa, in quel di Aden andai a cercarne la casa dove visse, la trovai, e sotto, vicino al portone c’era un misero caffè, il “Bar Rembò”). C’è lo scopritore di talenti calcistici, lo zio Serafino, che faceva i puzzle incastrando i pezzi cromaticamente, fumatore accanito e morto di … vecchiaia. C’è la zia Pupetta religiosissima in quanto a 4 anni entrata in coma per una meningite è sopravvissuta, dice lei, per avere sognato Gesù Cristo. Ci sono i personaggi reali del pantheon letterario e musicale dell’autore: Borges con un suo racconto, anche se modificato, tratto da “La città degli immortali”. C’è Shakespeare. C’è il piano di Glenn Gould che ci allieta con una sonata di Carl Philip Emmanuel Bach. Ci sono citazioni di tanti musicisti a me cari, come Beatles, Pink Floyd, Brian Eno, Nick Drake, Van Morrison. Ed altri che ho imparato a conoscere come Devendra Banhart.  E poi c’è il calcio farcito di personaggi mitici tramandati dalla tradizione orale delle gradinate degli stadi, inno da esteti alle tecniche sopraffine, alle arti più pregiate delle scarpe bullonate: il dribbling, il tiro all'incrocio dei pali, il gol spettacolare. Il dribbling come danza, come passo a due tra una preda, il dribblatore, e un cacciatore, il difensore, nel quale conta costringere il terzino alla mossa sbagliata, al movimento fasullo che lascia di sasso di fronte a uno scarto improvviso. E un secondo dopo è già troppo tardi. C’è la leggenda di Argo, uno zingaro che giocava solo per colpire il «sette» della porta avversaria. C'è il calcio giocato a piedi nudi, tanto rozzo quanto puro, il calcio-samba degli artisti brasiliani che esprime gioia di vivere e di giocare, quello giocato da corpi che mantengono la memoria dell’Africa, quello dell’estro selvatico di Garrincha, la mitica ala destra con una gamba più corta dell’altra che irrideva gli avversari con le sue finte da antologia. Infine c’è Palermo, una città in bianco e nero, una città che rimbalza dagli angoli della memoria, illanguidita da un bagliore di nostalgia, popolata da sorelle che non ci sono più, da padri temibili, da trame all'uncinetto, da partite per strada, da piatti di cuscus e da crocefissi col maglioncino per l’inverno. E, come termina Enia, «ogni volta che ci troveremo a calciare un rigore, che ci protegga Rembò». Non conosco, non ho mai ascoltato la trasmissione radiofonica, ma deve essere stata divertente, tanto che mi ricorda le puntate di quelle follie giovanili che io e Luciano facevamo alla “nostra radio”. Commenti, intarsi seri, ed una colonna sonora (che ora si chiama “playlist” che fa più fico) per un libro che non è un libro, e per una colonna sonora che ora ho anche io nei miei supporti magnetici.
Francesco Bianconi “Il regno animale” Mondadori euro 9,50
[A: 01/07/2014– I: 16/10/2015 – T: 19/10/2015] - &&& e ¼
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241; anno 2011]
Ecco ancora una degna segnalazione di Satisfiction (la fanzine che ho spesso citato ultimamente e che, purtroppo, non è più in circolazione), che nel 2011, a firma di Ranieri Polese, inviato culturale del Corriere della Sera, consigliava appunto questo libro di Francesco Bianconi, sottolineandone la frase per lui centrale: “La colpa è di Milano! È colpa di Milano per quasi tutto ciò che accade negli usi, nei costumi e nella cultura italiani degli ultimi trentanni”. A lungo tuttavia, dopo averlo messo in libreria, mi ha frenato l’immagine di copertina, una foto di Ryan McGinley intitolata COYOTE. Poiché ritengo che anche le copertine facciano parte della confezione-libro, la faccia del ragazzo con il lupo sulle spalle sembrava dirmi di stare attento, che qualcosa non va. Alla fine, i libri si leggono, ed anche questo ha iniziato il suo percorso, con una lettura che mi ha subito coinvolto. Spingendomi ad indagare sull'autore, e scoprendo che si tratta del leader dei Baustelle. Non lo avevo collegato, anche perché penso al complesso e non ai singoli personaggi. E se mi chiedete chi siano i Baustelle, non vi rispondo, ma vi suggerisco di ascoltare “Un romantico a Milano”, e poi ne riparliamo. Poiché non sa fare molto, ma almeno riesce a scrivere (i suoi professori gli affibbiano un ‘Ottime capacità narrative e di sintesi’) Alberto decide di partire dalla natia Abbadia e di tentare la fortuna a Milano. Dove inizia questa sorta di ritratto dell’artista da precario (con buona pace di Dylan Thomas). Dove Alberto tenta tutto, ma non trova altro che un lavoro sottopagato in una fucina di service redazionali (quelle agenzie dove giovani pubblicisti scrivono per tutto e per tutti, senza partecipare con la testa alle parole che tirano fuori), dove scrive in quello stile che viene definito dal suo capo “mondano”, e dove i suoi pezzi (che servono solo per sopravvivere) vedono la luce su giornali dall'improbabile titolo come “Il Nostro Vino”, “Il Nostro Cavallo”. Lì a Milano, inseguendo momenti stranianti, vedendo gente e domandandosi perché, il suo torpore iniziale tende a svanire ed impara a galleggiare nell'eterno reality senza snaturarsi. E sarà proprio questo a permettergli di crescere, superare gli attacchi di panico, le défaillance con le donne (che seppur timido, attrae), conoscere Ilaria. Di vivere alternando la visione del bicchiere mezzo pieno a quella cruda di un futuro da anno zero. Eppure Alberto trascina le sue giornate nel niente, con l’impressione di non avere il minimo sbocco. Intorno a lui si muove un universo di perdenti, inconcludenti, uomini e donne in preda all'abbrutimento più profondo, che vengono dal nulla e camminano verso il nulla, o verso un epilogo tragico. Storie attuali e flashback si intrecciano fra di loro, formando lentamente il mosaico della storia di Alberto, finché nella sua vita non si intravede uno spiraglio. Su tutto incombe la cappa pesante del consumismo e della vita “moderna” nella quale tutto si compra e tutto si può vendere, tutto è corruttibile e la corruzione è solo la logica di ogni giorno. Il gioco si fa divertente quando Alberto, in “missione” al Festival del Cinema di Venezia, incontra il “vero” Francesco Bianconi. Un ‘espediente con il quale Francesco riesce a parlare di sé in modo sempre più diretto. Peccato che da questa intervista cominci la parte peggiore del libro, e ci si avvii verso un finale che mi ha lasciato decisamente freddo, facendo calare non poco il giudizio finale. Perché se divertente la descrizione del party veneziano, l’irruzione di individui irrazionali che sparano a destra e sinistra sembra far parte più di un film di Tarantino. Come di un film, ma questa volta più sul lato Wenders, si svolge l’incomprensibile finale. Tuttavia, così come seguendo le liriche dei testi dei Baustelle (e spesso i capitoli fanno omaggio anche alle loro canzoni), ci si accorge che le riflessioni dei vari personaggi, per quanto pessimistiche siano, sono tuttavia il più delle volte condivisibili, e che molti dei loro pensieri, dubbi, stati d’animo, ci sono appartenuti almeno in parte. Sono d’accordo con Bianconi, quando sembra dirci che bisogna guardare in faccia la realtà, anche se scomoda. Dopo la lettura, consiglio una buona terapia a base del ultimo disco live del complesso.
Seconda domenica del mese, e piccolo allegato legato (mi piace essere agglutinante, e se leggete l’acclusa cura capirete) alla crisi d’identità.
C’è qualche ipotesi viaggereccia all'orizzonte, ma niente di cui sia convinto, per cui rimango, ad ora, qui, a leggere per me e scrivere per voi. Nonché farvi un riverito omaggio di pensieri poveri ma belli per una quaresima d’attesa. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2016
Non mi sembra proprio fuori tema, questo mese. Anzi, direi con un tempismo eccezionale, pensiamo a noi stessi ed alla nostra identità. Prima di entrare in crisi.

IDENTITÀ, CRISI DI

Max Frisch                “Stiller”
Diego Marani            “Nuova grammatica finlandese”
Franz Kafka              “La metamorfosi”
Antonio Tabucchi       “Sostiene Pereira”
Chi sei tu, lettore? Un genitore, un professionista, uno studente, un bambino? Sei sempre lo stesso o esistono due versioni di te - quella che mostri solo a certe persone e quella che invece è sotto gli occhi di tutti? Oppure sei convinto che il «vero» te stesso è sempre rimasto nell'ombra?
La letteratura è piena fino all'orlo di personaggi che soffrono di crisi di identità - vuoi per un’amnesia, per un crollo nervoso o per qualche altra inspiegabile ragione Il narratore di “Stiller”, romanzo pubblicato nel dopoguerra dallo svizzero Max Frisch, nega con insistenza di essere lo scultore scomparso Anatol Stiller davanti a chi sostiene di riconoscerlo in lui. In effetti, se diamo retta al suo passaporto, si chiama James (o Jim) White. Amici, conoscenti e perfino sua moglie, tuttavia, lo identificano ripetutamente come Stiller - un enigma che confonde sia il lettore che lo stesso White (o dovremmo dire Stiller). Mentre, a poco a poco, si scopre la verità, non possiamo fare a meno di riflettere sulla fragilità del nostro rapporto con noi stessi. Non vogliamo dirvi troppo, ma chi pensa di stare smarrendo il senso della propria identità dovrebbe fare attenzione e chiedere aiuto solo a persone di cui si fida, incluso sé stesso.
Una cosa è certa, nel viaggio della vita, più che un passaporto, conviene portarsi dietro un’etichetta col proprio nome cucita nella giacca per non perdere mai il contatto con sé stessi. Quando a Trieste, durante la seconda guerra mondiale, un uomo viene trovato quasi ucciso a bastonate, l’etichetta finlandese sui vestiti dice che si tratta di un certo Sampo Karjalainen. Nel riprendere conoscenza, tuttavia, non ricorda chi è - e non parla. Questa è l’intrigante premessa di “Nuova grammatica finlandese” di Diego Marani. L’uomo finisce a bordo di una nave, dove c’è un medico finlandese che cerca di fargli ricordare almeno la lingua, con la sua grammatica diabolicamente complicata e le parole ricche di consonanti. E se quest’uomo non fosse stato davvero finlandese? Cosa diventerà quando parlerà una lingua diversa?
Cos'è che lo rende sé stesso? Alla fine sembra che siano i nuovi rapporti che stringe sulla nave a fargli recuperare la propria identità. Leggete questo romanzo, e il legame che saprete stabilire con le sue pagine potrebbe aiutarvi a scoprire qualcosa che non sapevate di voi stessi.
Ma se siete cosi sfortunati da smarrire del tutto la vostra identità, la cura migliore da avere tra le chele è “La metamorfosi” di Franz Kafka. Gregor Samsa, un commesso viaggiatore, si risveglia un mattino per scoprire che si è trasformato in uno scarafaggio - uno scarafaggio gigante, anzi. È disgustoso, non solo per sé stesso ma per tutta la sua famiglia, e anche se Gregor tenta di farlo, continuare a vivere come faceva prima della trasformazione diventa sempre più difficile. Mangiare è impegnativo, comunicare impossibile, l’igiene di base compromessa: Gregor non può che scivolare lentamente in uno stato vegetative vuoto ma sereno, e morire di fame.
Ritenetevi fortunati: anche se non sapete chi siete almeno siete umani. Guardate con ammirazione le vostre dita, gli alluci, la punta del naso. Godetevi l’uso delle vostre membra. Leggete l’ultimo paragrafo del capolavoro di Kafka a voce alta e rallegratevi del fatto che la vostra voce non è lo spaventoso stridere di un insetto. Celebrate la vostra umanità - chiunque voi siate.
E se vi torna qualche dubbio quando passate di fronte a uno specchio, ricordatevi della teoria che il dottor Cardoso espone al giornalista Pereira, il pingue vedovo responsabile della pagina culturale del «Lisboa» nel più famoso romanzo di Antonio Tabucchi. Siamo nel 1938 e all’ombra della Spagna fascista, Lisbona “puzza di morte”. Nessuno ha il coraggio di pubblicare le vere notizie e Pereira, da parte sua, riempie la propria pagina con traduzioni dalla letteratura francese del XIX secolo. Ogni giorno si tira su parlando con una foto della moglie morta, mangiando una omelette alle erbe aromatiche con diversi bicchieri di limonata al Café Orquidea, e concludendo il pasto con un caffè e un sigaro. Pereira sa benissimo che tutte quelle omelette stanno avendo un effetto deleterio sulla sua linea, ma è incapace di resistere. È solo quando incontra il dottor Cardoso in un centro termale fuori città che comincia a capire il suo bisogno di cibi grassi e bevande zuccherate e la sua necessità di cambiare registro e di trovare finalmente il coraggio di combattere Franco e tornare alla vita.
La teoria del dottor Cardoso è quella dei medicins-philosopbes, i cui principali rappresentanti furono Théodule Ribot e Pierre Janet. Credere di essere «uno», gli spiega Cardoso in un ristorante di Lisbona, «staccato dalla in commensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana». Secondo il dottor Ribot e il dottor Janet e gli altri medici filosofi di fine Ottocento, 1’anima non è unitaria e monocellulare e ogni uomo è un arcipelago di io. Il carattere, la personalità degli individui, quello che siamo, dipende da quale io egemone si impone nella confederazione delle varie anime e ne assume il controllo. È un risultato, non una premessa. Questo equilibrio dura finché, dopo una lunga erosione, l’io egemone che guida la confederazione si indebolisce, perde forza e viene alla superficie un altro io, più forte e più potente, che prende il sopravvento e spodesta il precedente. Se non si vuole entrare in conflitto con sé stessi o rischiare la follia, si può solo assecondare questo cambiamento. Pereira ascolta attento, mentre termina di mangiare la sua macedonia di frutta senza zucchero e senza gelato. Alla fine della cena promette al dottor Cardoso di rifletterci sopra e lo saluta con un sorriso che sembra quello di un’altra persona, dandogli appuntamento per l’indomani alla sua clinica talassoterapica.

Bugiardino

Ho letto Kafka tanti anni fa, e non l’ho mai digerito. Forse per questo non lo rileggo (e se faccio male tiratemi le orecchie). Ho invece letto, e ben ricordo, il libro di Tabucchi, che sapete essere una stella del mio firmamento. Ma ne lessi prima di essere tramatore, quindi ve lo rimando, con solo una tirata d’orecchie alle nostre terapeute (ed anche ai revisori italiani), che Pereira è un oppositore di Salazar e non di Franco. Rimane il bel libro, che ho letto, consigliato, riletto, e se volete potrei anche prestarlo, sull'identità e la Finlandia. Magico.
Diego Marani “Nuova grammatica finlandese” Bompiani s.p. (regalo di compleanno di Sara e Giampaolo)
[pubblicato il 17 maggio 2015]
Non credo ci sia bisogno di alcuna cartomanzia per immaginare che questo è un libro da collocare alla grande nel prontuario dedicato alle crisi d’identità. Ma di questo se ne parlerà più avanti, che intanto questa trama è un ringraziamento alla mia amica Cecilia, che non so se e come c’entri con Marani, ma che a più ripresa è entrata nei miei pensieri, in quanto una buona parte del romanzo ha sullo sfondo il “Kalevala”. E come non ricordarne e sottolinearne l’edizione da lei e da Roberto Arduini curata nel 2007? Inoltre, come dice il titolo (e poi vi torneremo sopra), è anche un inno d’amore verso una lingua poco conosciuta, forse tra le meno diffuse al mondo: il finlandese (pare sia parlata da 6 milioni di persone in tutto, collocandosi intorno al 120 posto delle lingue parlate, tant'è che l’italiano si colloca al 20°). Una lingua che posso dire conosco veramente poco, che mi ricordo solo (da alcune reminiscenze linguistiche) essere di un ceppo detto “uralo-altaico”, che comprende lingue di una difficoltà enorme di comprensione e scritture (tipo estone e ungherese). Che tuttavia, stimolato da Marani, ho cominciato a leggerne in rete, dove ho scoperto una cosa mostruosa: è una lingua che ha quindici casi diversi, dal tranquillo nominativo all'inquietante abessivo (e poi ci stupiamo che in Europa i finlandesi siano quelli che maggiormente sanno parlare in latino!), che ha quattro forme dell’infinito, ed anche un caso chiamato “plusquamperfetto negativo”: una bomba linguistica! Finisco soltanto con la lingua dandovi un altro messaggio preoccupato: è una lingua agglutinante! E siccome sarete curiosi alla fine ve lo spigo. Ma torniamo a Marani ed a questo libro con alti e bassi, con momenti forse poco chiari, che vengono lasciati nell'ombra usando lo schema del passato: l’azione (anche se ce n’è poca) si svolge alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi qualcosa può essere lasciato al mistero del passato. La storia, in realtà, è di una semplicità disarmante. Un medico finlandese, fuggito in Germania dopo l’uccisione del padre per motivi politici, in servizio presso una nave tedesca, trova una persona in coma nelle banchine del porto di Trieste. Un marinaio, con una divisa con su scritto un nome (Sampo Karjalainen) ed un fazzoletto con le iniziali SK. Uscito dal coma Sampo scopre di aver perso la cognizione della parola. Il medico, trovando lontano da casa un lembo della sua patria perduta, comincia a curarlo ed a insegnargli nuovamente la lingua materna. Quando finalmente sta meglio, il dottore lo rispedisce ad Helsinki, in un ospedale dove dovrebbe trovarsi uno psicologo logopedista. Che invece è scomparso (forse morto in guerra), e dove Sampo trova un’infermiera, Ilma, che lo aiuta e lo presenta ad un pastore luterano, padre Koskela. Andiamo così avanti, nel buio della memoria di Sampo che ogni giorno studia con il prete, che riempie i suoi quaderni di scritte e di grammatiche, che gira per la città in preda alla guerra ed alla tenaglia tra Germania e Russia (in fondo San Pietroburgo è proprio lì a due passi). Le parole del pastore, e le piccole agnizioni di Sampo ad ogni nuova parola che entra nel suo vocabolario, ci fanno da culla nel capire la genesi di una lingua, ed il suo radicarsi in una regione altra dalle sue origini (come detto sopra, la radice è addirittura mongola). Ma il pastore fa anche altro: usa il grande poema epico finlandese, il Kalevala, per istruire Sampo, ma anche per addentrarsi nella spiegazione dell’anima di questa nazione. Qui, ovviamente, tornano i ringraziamenti di cui all'inizio, per averne capito un po’ di più. Sampo si rende a poco a poco più indipendente, e con piacere lo seguiamo per l’Esplanadi della capitale, andando verso il porto e la chiesa ortodossa in punta (era l’estate del 2012, ma è come se ci camminassi ieri pomeriggio). Purtroppo il pastore, preso da furori strani, decide che deve tornare sul fronte a combattere, come i suoi eroi dell’epopea, abbandonando il povero Sampo. Ilma proverà a rompere la corazza sperando che forse l’amore possa far breccia (e belle son quelle pagine sull'albero dei ricordi). Ma Sampo è troppo chiuso nella ricerca della propria identità. Che questa lingua fa breccia nel cervello, ma non arriva al cuore. Che cerca di capire origini e possibili legami, ma siamo in tempi di guerra e tutto è instabile. Sampo, pur sapendo che dovrebbe e potrebbe dire una parola ad Ilma, rimane muto e solingo. A bere la Koskenkorva (una vodka finlandese allungata con acqua e zucchero), a pensare al pastore ed al Kalevala. Finché, sul porto di Helsinki, vede sfilare una nave da guerra appena rimessa a nuovo dai cantieri navali: il Sampo Karjalainen. E capisce che quella divisa, quelle iniziali sono un’identità illusoria, sono della nave e lui chissà chi sarà. Decide allora di partire anche lui per il fronte, dove morirà per una patria che non saprà mai se sia o meno la sua. Noi invece lo sappiamo, che il buon dottore, in base a tutta una serie di informazioni che gli arriveranno con ritardo, ricostruirà la vera storia del personaggio, come nasce, come va in coma, e tutto il resto. Storia che v’invito a scoprire leggendone e non aspettando che io ve ne narri. A me rimane, con tutti gli alti (tanti) e bassi (pochi) di cui sopra, una storia sulla ricerca di sé, sul limite che ci si può porre in questa ricerca. Vivendo in una terra ostile, o comunque con una lingua madre diversa, come fa il nostro Marani da anni (da sempre quasi) espatriato a Bruxelles. Dove, guarda caso, si occupa di multilinguismo. Bravo, ed auguri per i suoi lavori, mentre io mi rimetto alla ricerca di un suo libro che vorrei prima o poi trovare (“Come ho imparato le lingue”).
“È più facile nascere che morire. Forse per la morbosa curiosità che ogni uomo ha, anche nel dolore, di vedere come va a finire.” (42)
“Le forme di una lingua si ripercuotono inevitabilmente su chi la parla, ne plasmano il volto, le case, la terra, le abitudini, il cibo.” (59)
“L’abessivo è la declinazione delle cose che mancano: “toivotta”, senza speranza! È bellissimo … perché in generale sono più le cose che ci mancano di quelle che abbiamo.” (90)
“Passiamo la vita sfiorando i nostri simili senza mai veramente conoscerli.” (152)
“Ancora una volta, il mio nome era tutto quello che avevo.” (174)
Ed ecco, come promesso, la genesi della forma agglutinante che ci permette di capire il significato della parola “kirjassanikin”:
kirja: il libro
kirjani: il mio libro
kirjassa: nel libro
kirjassani: nel mio libro
kirjassanikin: anche nel mio libro
Da paura!

Conclusioni

Aspetterò prima o poi di aver la voglia di leggere lo svizzero Frisch (e gli svizzeri ultimamente sono un po’ troppo presenti). Per ora sostengo con forza che Marani è sicuramente da prendere per curarsi la memoria e cercarsi un’identità. Tabucchi è da prendere sempre, con dosi serali omeopatiche. Su Kafka non mi pronuncio.

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