Come dire che noi viaggiatori
entriamo in fibrillazione quando si parla di viaggi, quando si fanno i viaggi e
quando si torna dai viaggi. Qui abbiamo un bel campionario di un libro comprato
a Tallinn per festeggiare un interessante viaggio baltico (ed è stato un libro
un po’ deludente) ed un libro comprato a Mumbai per un coinvolgente viaggio
indiano (stesso risultato). Invece gli altri due, oh che bellezza! Brokken ci
porta a spasso per i Paesi Baltici così come Magris per il Danubio. Due libri
belli e imperdibili.
Sofi Oksanen “When the Doves disappeared” Atlantic Books euro 9,79
[A: 19/08/2015– I:
21/08/2015 – T: 29/08/2015] - && e ¾
[tit. or.: Kun
Kyyhkyset katosivat; ling. or.: finlandese; pagine: 296; anno 2012]
Sulla
fine dell’estivo viaggio baltico, alla ricerca di un possibile libro che
prolungasse il viaggio sulla carta, in una bella libreria di Tallinn, mi
imbatto nel nome di questa scrittrice di cui avevo letto qualche riga sulla
Lonely Planet. Vedendo inoltre che è un romanzo ambientato, principalmente
anche se non esclusivamente, negli anni ’40, decido che possa proporsi come
libro di/da/sul viaggio. Intanto, approfondisco la conoscenza con l’autrice,
che scopro essere finlandese (ed infatti in finnico scrive) ma di origini
estoni. Così che anche questo è un elemento che ben suggella un viaggio
terminato nella sempre a me cara capitale del Nord. Ed è anche un’autrice che
ha scritto altro sui periodi staliniani in Estonia (da dove fuggirono un dì i
suoi genitori), con due libri di cui riporto i titoli, non sapendo se siano
editi in Italia, “La Purga”, il suo più premiato, e “Le vacche di Stalin”. Vi
dico invece che questo, con il titolo corretto di “Quando i colombi
scomparvero” è uscito qualche anno fa da Feltrinelli. Venendo al libro, tuttavia,
mi aspettavo qualcosa di meglio, anche se ha sicuramente fatto nascere, come
vedremo, curiosità ed approfondimenti. È un libro che si sviluppa in due
narrazioni parallele ed alternate, tra l’Estonia del periodo ’40-’44 e
l’Estonia del ’62-’66. Diviso in sei parti, tre durante la Seconda Guerra
Mondiale e tre durante il periodo “sovietico” duro dell’Estonia. Gli elementi
portanti della narrazione sono tre, anche se potrebbero essere quattro. Ci sono
i due cugini, Roland ed Edgar, e la moglie di quest’ultimo, Juudit. Negli anni
quaranta, i due cugini fuggono in Finlandia per addestrarsi alle armi, e poi
tornare in Patria per combattere l’invasione dell’Armata Rossa. Un’invasione
iniziata e sancita dal patto Ribbentrop – Molotov. Quando nel ’41, Stalin rompe
il Patto, i due rompono la fittizia alleanza, iniziando una più che ventennale
guerra. Roland, colpito anche dalla misteriosa scomparsa di Rosalie, si lega
sempre più ai Fratelli della Foresta, e continua la sua lotta sia contro i
tedeschi che contro i sovietici. Edgar, mutato il suo nome in Eggart Furst,
diventa invece un collaborazionista dei tedeschi che hanno occupato il suolo
patrio. Non si ricongiunge con Juudit, i due si erano lasciati con molto astio,
in seguito alle non usuali abitudini sessuali di Edgar. E Juudit, libera nella
terra occupata, si lega di amore vero ad un gerarca tedesco occupante. Ciò non
toglie che continui ad incontrarsi e ad aiutare Roland la primula rossa. Il
quale, dopo tentativi di piccoli sabotaggi, si dedica sempre più a fare lo
scafista per portare il più possibile ebrei al di là dello stretto, verso la
Finlandia ed i Paesi Scandinavi. Purtroppo, l’attività di Eggart lo porta a
contatto con tutti i gerarchi, e riconosce, non visto, Juudit. Seguendola,
scopre anche Roland e le sue attività. Lo fa arrestare negli ultimi giorni di
guerra. Poi anche lui cerca di mimetizzarsi tra i morti di un campo di
concentramento. Tutti escono vivi dalla guerra, e ne ritroviamo traccia, una
ventina d’anni dopo. Furst è diventato il compagno Parts, dopo aver passato
alcuni anni di “ricondizionamento” in Siberia. Tornato, si è ripreso Juudit,
che sta sempre più scivolando verso una china alcoolica e di latente
schizofrenia. E con le sue doti camaleontiche, Parts convince l’apparato sovietico
ad incaricarlo di scrivere un libro di denuncia dei collaborazionisti
hitleriani, sfruttando surrettiziamente le sue conoscenze dirette del periodo.
In questa ricerca, si imbatte in altre tracce di Roland, che sembra sempre
presente e vivo nella lotta contro tutti gli invasori. Oksanen in questa parte
riesce a disegnare e descrivere con efficacia la fatuità dei russi occupanti,
la loro boria, e tutti gli elementi negativi che hanno presso i paesi dell’area
balcanica per decenni. Magistrali le descrizioni dei pedinamenti al caffè
Moskva o le cene a base di caviale e champagne, ma solo per le alte sfere.
Tuttavia Parts non solo si imbatte in tracce di Roland, ma anche in altri
elementi della “sovversione anti-sovietica”. Si infiltra in ambienti studenteschi.
E smaschera una rete che dalla giovane Evelin lo porta ai genitori di lei,
viventi nella campagna intorno a Tartu. Dove il padre non è altro che il
vecchio Roland. Parts vince su tutta la linea, rimanendo solo dopo aver anche
fatto internare Juudit. Solo ma non vincitore (anche se nel triste finale,
nelle sue memoria, veniamo finalmente a sapere anche quale sia stata la fine di
Rosalie). Al solito, ho ricostruito seguendo il filo degli anni questa storia
che va su e giù per il tempo. Ma come detto, mi ha preso sia per alcune
descrizioni di Tallinn, in special modo ricordandomi quando si passava alla
sede del KGB. Ma soprattutto per le
vicende storiche, degli Estoni e degli altri popoli baltici. Popoli che ebbero
una prima e breve vita felice tra il ‘20 ed il ’40 con la prima indipendenza. E
poi una lunga sofferenza, appunto, con le occupazioni naziste e comuniste, con
lo sterminio degli ebrei (era una zona ben densa, anche se soprattutto in
Lituania), con le purghe staliniane. Il libro pone anche un forte interrogativo
sulle vicende del ’41. I russi avevano invaso e occupato, militarmente e con
tutta la forza della burocrazia zarista, fino dalla fine del 1700 un territorio
che, al contrario, era stato fiorente di mercati e liberalità. A poca distanza
c’è Koningsberg, ora Kaliningrad, patria di Kant. Riga era uno dei maggiori
porti dell’area. C’era una fioritura di idee notevoli. E quando le Armate
Sovietiche cominciano la nuova invasione, i patrioti estoni pensano che legarsi
ai tedeschi possa portare loro benefici. Non sanno, certo, di cadere tra brace
e padella, ma furono in molti a scegliere quello che pensavano “il minor male”.
E non solo in Estonia. Ed è stato interessante (ma forse meglio delegato ad
altre discussioni) ripercorrere le storie dei Paesi Baltici. Comprese appunto
quelle dei Fratelli della Foresta, una banda di mutuo soccorso, poi di lotta
clandestina, nata nel 1905, durante la prima repressione zarista a fronte della
fallita rivoluzione del 1905. Ma di questo ed altri elementi di interesse si
tornerà a parlare, magari seguendo le file del secondo libro baltico preso per
ricordarmi il viaggio. Per questo prima, buoni spunti ma una scrittura che non
mi ha convinto fino in fondo. Tuttavia buono ed interessante per sapere di popoli
e cose che sarebbero altrimenti rimasti a me oscuri.
Jan Brokken “Anime Baltiche” Iperborea euro 19,50 (in realtà, scontato
a 16,58 euro)
[A: 01/09/2015 – I: 01/09/2015 – T: 02/09/2015] - &&&&&
[tit. or.: Baltische Zielen; ling. or.: nederlandese; pagine: 479;
anno 2010]
Divorato!
Bellissimo e coinvolgente, soprattutto per averlo scorto in libreria al ritorno
del bel giro baltico, aver capito che sarebbe stato inutile aspettare, anche se
non un libro economico come piace a me, ma è anche pieno di fotografia, che ne
fanno salire il prezzo. E nonostante tutto, ritengo di aver fatto bene. Insieme
a Brokken ho ripercorso strade, palazzi e momenti dell’agosto nei Paesi
Baltici. Sottolineando quella bellissima frase di inizio narrazione che riporto
in fondo, e che sottoscrivo in pieno. Serviva questo secondo viaggio, dopo che,
dal libro della Oksanen avevo rivissuto i momenti difficili dell’Estonia nella
Seconda Guerra Mondiale e sotto la dominazione sovietica. Momenti che ci
ripresenta anche Brokken, che insiste molto anche sul tema delle migrazioni
interne (forzate o volute) che ci riportano al nostro presente attuale. Tra i
due libri c’è quel tratto in comune sullo sterminio degli ebrei, sulle speranze
di indipendenza che legarono molti nazionalisti ai pur non amati tedeschi. E
tutti quegli altri afflati di libertà, come la bellissima rivoluzione cantata,
che il 23 agosto del 1989, nel cinquantenario della prima invasione sovietica,
unì milioni di persone tra Vilnius e Tallinn, lungo la via Baltica, a cantare per
la libertà. E che costò la vita a molti libertari (non certo rivoluzionari) ben
descritti nel doloroso capitolo dedicato alla morte di Loretta Asanaviciute di
Vilnius, schiacciata da un carro armato russo. Il secondo elemento di piacere
per me, come detto, è stato ripercorrere alcuni momenti di questa estate.
Scendere per Plymius Gatvè a Vilnius lungo i vecchi quartieri ebraici, fino a
sboccare nella grande Gedeminus Prospektus, con i suoi negozi alla moda.
Perdersi prima per il centro di Riga, per poi, attraversata la grande
Esplanade, arrivare al quartiere Art Nouveau, alle case di Elizabetes e Alberta
iela, ai palazzi disegnati e costruiti da Mikhaïl Eisenstein, il maestro dello
Jugendstil nonché padre del grande regista Sergej. Girare per il quartiere
medioevale di Tallinn, passando per Pikk wea davanti all’ex-sede del KGB,
entrando a sentire un bellissimo coro nella Niguliste Kirik per poi salire
sulla collina di Toompea per ammirare la cattedrale russo-ortodossa dedicata ad
Alexander Nevskij. La capacità di Brokken è poi quella di partire da un nome,
da una persona, e di aggirarsi per i luoghi che ne hanno visto il nascere ed il
crescere. Non sempre fino ai compimenti maturi, che molti sono prima o poi
fuggiti dai quei luoghi. Facendo un percorso circolare di cultura, dai libri
alla musica all’arte (e come non amarlo, quindi). Partendo dalla bellissima
libreria di Janis Roze di Riga, una delle 10 più bella al mondo. Per poi
dedicarsi ai molti fuorusciti ma che conservano a lungo dentro di sé la propria
anima baltica. Seguiamo quindi l’infanzia di Roman Kacew a Vilnius, fino alle
sue fughe, al convertirsi francese e cambiare il proprio nome in Romain Gary (e
lo seguiamo sino allo strano matrimonio con la bellissima Jean Seberg, alla non
ancora chiarita morte di lei, ed al suo suicidio a 66 anni). Per passare ai
grandi artisti, prima con il lituano Chaim Jacob Lipschitz, fuggito anche lui a
Parigi a 18 anni, cambiando il suo nome in Jacques Lipchitz e diventando uno
dei maggiori scultori cubisti. Per poi arrivare al lettone Markus Rotkowičs che
riparò a Portland nel 1913, divenendo uno dei più grandi artisti del secolo
scorso con il nome di Mark Rothko (anche lui suicida a 66 anni come Gary). Ma è
senz’altro la musica una delle componenti incastonate indissolubilmente
nell’anima baltica. Non a caso si parlò di Rivoluzione Cantata. Non a caso,
nella regione ci sono i più grandi e rinomati cori ora esistenti. E da lì è
uscito il lettone Gidon Kremer, uno dei più grandi violinisti moderni. Ma
soprattutto, quello a me molto caro, fin dai tempi la cui fama non era così
estesa, fin da quando si era in pochi, in Occidente, a seguire fedelmente
quella benemerita etichetta di musica globale che è la ECM di Berlino. Parlo
dell’estone Arvo Pärt, che tra pochi giorni compirà l’ottantesimo compleanno, e
nella cui musica si sente indissolubilmente l’eco delle sterminate distese
boschive, degli isolamenti, ma anche delle passioni e dei tentennamenti
dell’anima. In mezzo a tutto questo ben di Dio, ho seguito anche due momenti
che portano l’autore in due zone che non ho (ancora) visitato. Prima
nell’enclave di Kaliningrad, un tempo meglio noto con il nome tedesco di Königsberg,
patria come tutti sanno del grande filosofo Kant, ma qui seguita dall’autore
nel percorso di formazione che la vide studentessa in quella Università della
celeberrima filosofa, storica e scrittrice tedesca Hannah Arendt. Poi nella
Curlandia, laddove imperversavano i cosiddetti “baroni baltici”, grandi
proprietari terrieri che ne fecero il bello ed il cattivo tempo. E da quelle
terre che nasce l’unione tra il barone baltico Conrad von Vietinghoff e sua
moglie Jeanne, che divenne la madre putativa dell’orfana Marguerite Cleenewerck
de Crayencour (a voi meglio noto con il nome di Marguerite Yourcenar, che come
molti sanno è il quasi anagramma del cognome vero). Per finire, circolarmente,
sempre tra Curlandia e Livonia, con il poco noto scrittore Eduard von Keyserling
maestro di quella scrittura che fu nominata come "le novelle del
castello", perché gran parte di esse sono ambientate nelle tenute della
nobiltà baltica da cui proveniva. E già da queste opere traspare, all’inizio
del secolo scorso, quel senso di esaurimento di quell’esperienza che da lì a
poco doveva far nascere nella regione la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione
Russa. Arrivo alla fine di questo meraviglioso viaggio letterario con un senso
di gratitudine per Brokken che me li ha fatto rivivere, e per la caparbietà con
la quale abbiamo scelto queste terre per una estate intensa e piacevole. E con
l’invito a tutti i miei amici lettori e viaggiatori di leggere e viaggiare
anche voi per questi luoghi.
“Perché viaggiare, insieme a leggere e
ascoltare, è sempre la via più breve per arrivare a sé stessi.” (24)
“Non posso dire no a qualcuno a cui ho detto
sì una volta.” (260)
“Quando si viaggia i pregiudizi è meglio
lasciarli a casa.” (323)
“I pittori ci mostrano quello che c’è sempre
stato ma che noi non abbiamo mai visto in quel modo.” (389)
Kiran Desai
“Hullabaloo in the Guava Orchard” Faber & Faber euro 6
[A: 21/11/2015– I: 21/11/2015 – T: 29/11/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale;
ling. or.: inglese; pagine: 209; anno 1998]
Come
al solito durante le mie peregrinazioni avventurose, cercando nella bellissima
Oxford library di Mumbai ho pescato questo libro di Kiran Desai, figlia della
nota e prolifica Anita. Libro cui fu conferito il Betty Trask Prize, un premio
riservato agli autori del Commonwealth che non hanno compiuto i 35 anni. Pur
avendo lati interessanti, inglese fluente e struttura accattivante, mi
aspettavo qualcosa di meglio. Forse di meno “magico”, come a volte capita negli
scrittori indiani. Scrittori che a lungo sono rimasti ignoti, che l’India era
rappresentata solo dalle poesie di Tagore (e forse solo perché ne parlava
magnificamente William Butler Yeats) o dagli scritti di Kipling (che, benché
inglese, era nato a Bombay). Solo dopo la comparsa di Salman Rushdie il cielo
indiano comincia a riversare le sue stelle verso occidente, e conosceremo
Vikhram Chandra (“Giochi sacri”), Amitav Ghosh (“Il cromosoma Calcutta”), R.K.
Narayan (considerato il Cechov indiano), Arundhati Roy (“Il dio delle piccole
cose”), Vikram Seth (“Il ragazzo giusto”), Vikas Swarup (“Le dodici domande” da
cui fu tratto il bellissimo film “The Millionaire”) e Anita Desai (“Il
villaggio sul mare”). Torniamo però a Kiran ed a questa storia vera e
strampalata. “Confusione nel frutteto di Guaiava” (questo sarebbe il titolo
italiano, dove invece è uscito come “La mia nuova vita sugli alberi”) è la
storia di un giovane di nome Sampath Chawla, che vive nella città di Shahkot in
India. Nasce in una notte mentre un feroce monsone si abbatte sulla regione
facendo terminare il periodo di siccità. Gli abitanti di Shahkot sono convinti
che Sampath sia destinato ad essere un uomo importante. Non solo porta la
pioggia tanto necessaria, ma fa sì che la Croce Rossa, sorvolando Shahkot, perda
delle casse con del cibo: una manna per Shahkot. Kulfi, la madre eccentrica e il
padre esigente non sono però così sicuri che il loro bambino possa diventare un
grande uomo. Per Kulfi è uno strano alieno con una grande voglia marrone sul
suo volto. Per il padre un ragazzo svogliato. Questa parte dell’infanzia è
sicuramente molto ben tratteggiata e mi aveva intrigato. Mi sono, invece, perso
più avanti, quando, venti anni dopo, Sampath non ha ancora mantenuto le
promesse di grandezza. In realtà, è tutt'altro. Il padre cerca inutilmente di
consigliarlo su come possa ottenere un lavoro migliore o almeno un aumento di
stipendio presso l'ufficio postale dove lavora. Sampath non presta attenzione
ai consigli di suo padre. Presso l'ufficio postale, Sampath passa ore da solo, dissigillando
al vapore le lettere scritte alla comunità, ed imparando molto sulla vita di
ognuno e sui loro segreti. Non siamo sorpresi quando Sampath è licenziato dopo uno
spogliarello e relative prese in giro delle persone riunite per il matrimonio
della figlia del suo superiore. Kulfi è dispiaciuta per Sampath, con il quale
si sente una grande connessione, e gli dà una guaiava fresca. Dopo averla mangiata,
Sampath si sente trasformato. Per la prima volta disobbedisce al padre che lo
incita a cercare un nuovo lavoro. E fugge verso un attraente frutteto che vede
in lontananza. Si arrampica su di un bellissimo albero e decide di rimanervi. La
famiglia cerca di intervenire e di far scendere Sampath, ma lui diventa per la
sua comunità un grande eremita, saggio e onnisciente. I cittadini sono convinti
delle sue capacità soprannaturali quando allude a questioni private nella loro
vita, informazioni che ha preso, a loro insaputa, dalle lettere indebitamente
lette. La fama di Sampath manda la piccola città di Shahkot nello scompiglio. La
sua esuberante sorella s’innamora di un a lei non adatto gelataio; delle
scimmie alcolizzate terrorizzano i pellegrini che si riuniscono intorno
all’albero di Sampath; suo padre cerca di trasformare il frutteto in una fonte
di reddito; non manca una zelante spia che cerca di rendere plausibili i
misteri di Sampath. Dopo quell’inizio soft, le situazioni si complicano e gli
eventi si succedono sempre più fuori controllo. Tutti si concentrano sul far
sparire le scimmie, mentre tutto il resto va a rotoli. Alla fine sarà Sampath,
con un finale magico e sorprendente, a salvare sé stesso, le scimmie (ma poco
altro). La storia di Sampath è la storia di un giovane uomo sognatore, che
vorrebbe immedesimarsi con la natura, fantasticando di essere lontano dalla
modernità, dalle sue distrazioni e dai suoi fastidi. Un uomo condizionato fin
dalla nascita, che Sampath viene dal sanscrito con significato di “buona
sorte”. Come abbiamo visto non ne avrà molta (almeno come la intendiamo noi,
forse lui è felice sull’albero, così come lo era il Barone Rampante di
Calvino). Le parti migliori sono nei tentativi di Kiran di catturare la cultura
del subcontinente indiano, intrecciate tra le sue peculiarità e le complessità
universali dell'esperienza umana.
Claudio Magris “Danubio” Garzanti euro 12,90 (in realtà, scontato a
9,68 euro)
[A: 17/06/2014– I: 05/12/2015 – T: 22/12/2015] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 474;
anno 1986]
Non
è un libro “sempre” eccezionale, ma data la penuria di buone letture del
panorama attuale, questo libro di Claudio Magris si erge in tutta la sua
bellezza, meritando un en plein di encomi, e, come vedrete, di citazioni.
Rovesciando poi l’uso delle buone maniere che mi insegnò la cara Maria Luisa,
dico subito i due elementi che mi hanno impedito di raggiungere la vetta di 6
libricini (meta pressoché irraggiungibile). Il primo, indipendente dalla
volontà dell’autore, è l’età del libro. Scritto or sono trenta anni, ne risente
in alcuni punti, quelli, in particolare, dove si parla di nazioni “oltre
cortina”, dove si elaborano discorsi su Tito (su cui torno) e su Ceausescu.
Certo, ogni libro è figlio del suo tempo, e questo era il mondo del 1986,
tuttavia mi avrebbe fatto piacere una serie di note a margine, che potessero
chiamarsi “Danubio, trent’anni dopo”. Il secondo, dove invece l’autore sarebbe
potuto entrare, è la mancanza di un indice analitico di nomi e di luoghi. Tanti
sono i personaggi che scorrono insieme alle pagine ed insieme al Danubio. Tanti
che a volte se ne dimenticano i nomi. O se ne vorrebbe ricordare qualcosa, ma
che si va perdendo dopo aver girato qualche decina di pagine. L’operazione
“Danubio” comunque prende subito, sin dalle prime righe. Magris fa un lungo
viaggio, dalle sorgenti alle foci del grande fiume mitteleuropeo, scrive
taccuini sul viaggio, e poi li rielabora, in un’opera che non è un saggio, né
un romanzo, ma un lungo viaggio con lui, con impressioni, idee. Ed alla fine,
una ricostruzione di un mondo, di uno spazio. L’ho trovato un modo che mi ha
affascinato di collegare storia, geografia, filosofia e brandelli di vita. Ogni
pagina ci rimanda elementi di pensiero, storie, momenti. Dalla discussione su
dove fossero le sorgenti o la sorgente del grande fiume. Per poi passare al
lungo cosso tedesco, dove prima incontriamo anche altre città. Prima cioè di
quelle eponime che tutti sanno. Vediamo Ulma, Passau, e la mitica Ratisbona
(oh, amici fools). Ci caliamo nei valli che dai teutonici passi, sfiorando
Mauthausen, ci conducono felici ai caffè viennesi. Mi ricordo l'hotel Sacher,
ma anche la cripta dei Cappuccini. La piazza davanti a Santo Stefano, il ring,
e, certo, anche il grande fiume certo non blu. Sfioriamo la repubblica ceca, per
giungere in un soffio in Slovacchia ed alla sua Bratislava. Ci aspetta l’altra
grande città danubiana, la da me poco amata Budapest. Con la sua grande isola,
la sua parlata incomprensibile. Io qui mi fermo poco, anche se Magris a lungo
ci ricama. Preferisco proseguire, sfiorando, il Banato, per giungere in
Transilvania, entrare nella a me ignota Bulgaria, cercando alla fine il grande
delta romeno. Quanta gente abbiamo incontrato in questi quasi 3000 km. Anche
non legata ai posti che attraversiamo, ma di cui Magris ci rimanda pensieri ed
azioni. Celine ci inizia al viaggio, incontriamo teutonici in Pannonia. Ma
soprattutto ci appassioniamo a Maria Vetsera ed i fatti di Mayerling. E come
dimenticare Romy Schneider e la sua principessa Sissi? La grande figura di
Lukacs e le sue considerazioni su letteratura e politica, che ci fanno
consegnare il testimone a Elias Canetti, rumeno apolide. Politica e filosofia
s’intrecciano ben presto tra i campi di concentramento ed i ricordi del passato
austro-ungarico. E non è un caso che ne parli il triestino Magris. Prima di
lasciarlo, e di lasciarvi alle lunghe citazioni, ci sono spunti che qui e là mi
hanno preso e che riporto per discuterne ancora. Ed anche per polemizzare con
Magris. A pagina 100, la frase “si viaggia non per arrivare ma per viaggiare”,
avrebbe meritato la citazione della fonte, il grande Robert Louis Stevenson. La
favola della bambina intitolato “Rosa”, ve la riporto in finale, dedicandola
alla mia amica Rosa. Non posso dimenticare le dieci righe appassionate dedicate
ad Herta Muller a pagina 361, ventitré anni prima che lei ricevesse il Premio
Nobel. La succinta descrizione di pagina 382 su Novi Sad, l’Atene serba. E come
passare in silenzio che sempre nel 1986, prima dei disastri degli anni ’90,
Magris scriveva “la solidità [del mosaico jugoslavo] è necessaria
all’equilibrio europeo e la sua eventuale disgregazione sarebbe rovinosa per
quest’ultimo, come quella della duplice monarchia [asburgica] lo è stata per il
mondo di ieri.” Finisco con solo un memento, quello dei graffiti che Lord Byron
fece al tempio di Poseidone a Capo Sunion. Lo avevo scordato, come tante cose
che invece Magris ricorda, appunta e ci rimanda. Come ha detto qualcuno, è alla
fine un grande libro in equilibrio tra cuore e ragione. Ed in particolare, un
libro che non si deve lasciar passare pagina dopo pagina, ma dove ogni riga ci
rimanda ad un tutto diverso essere, ad un approfondimento che, noi curiosi ed
appassionati lettori, abbiamo preso al volo. Non lo lasciamo finire così.
“[si parla di un convegno intitolato
“L’architettura del viaggio: storia ed utopia degli alberghi” e dello schema di
intervento previsto] Lo schema è la bozza di uno statuto della vita, se è vero
che l’esistenza è un viaggio, come si suol dire, e che passiamo sulla terra
come ospiti.” (11)
“Scrivere significa colmare gli spazi
bianchi dell’esistenza.” (36)
“Non [è] la successione di quegli attimi
senza storia [che] crea la storia. La vita, diceva Kierkegaard, può essere
compresa solo guardando indietro, anche se dev’essere vissuta guardando
avanti.” (43)
“Lo spirito soffia dove vuole e nessuno può
essere permanentemente sicura del proprio genio o della propria pochezza.” (74)
“Il viaggio è … sempre un cammino verso
quelle lontananze che splendono rosse e viola nel cielo della sera … nei paesi
sui quali sorge il sole che da noi tramonta.” (97)
“Favola di Monica Favaretto: La Rosa era
felice. Andava d’accordo con gli altri fiori. Un giorno la Rosa si sentì appassita
e stava per morire. Vide un fiore di carta e gli disse: ‘Che bella rosa sei!’ –
‘Ma io sono un fiore di carta’. – ‘Ma lo sai che sto per morire?’ La Rosa ormai
era morta e non parlò più.” (116)
“La vera letteratura non è quella che
lusinga il lettore, confermandolo nei suoi pregiudizi e nelle sue sicurezze,
bensì quella che lo incalza e lo pone in difficoltà, che lo costringe a rifare
i conti col suo mondo e con le sue certezze.” (183)
“La forza, l’intelligenza, la stupidaggine,
la bellezza, la viltà, la debolezza sono situazioni … che, prima o dopo,
capitano a tutti.” (270)
“Se c’è una cosa che non posso sopportare,
diceva Victor Hugo quando assisteva a qualcosa di particolarmente stupido o
cattivo, è pensare che tutto questo domani sarà storia.” (418)
I viaggi tacciono, il vostro
tramatore si riposa. Come ci si riposerà a Pasqua, aspettando incontri d’aprile.
Ricordo che per Pasqua le trame si spostano al lunedì.
Nessun commento:
Posta un commento