Continuo ad anticipare i tempi,
ed a fornirvi un po’ di tutto, visto che per questa estate poco altro vi farà
compagnia. Ho iniziato leggendo un saggio che mi riportava ai (bei) tempi di
via dei Sabelli, constatando (e non mi meraviglio certo) che il tempo passa.
Forse qualcosa migliora, io no di certo, ma almeno so chi sono. E poi tra una sarabanda
dedicata al muoversi per il mondo ed al mangiare alternativo (tutte premiate
con ottimi risultati), un bel salto all’indietro, laddove il mio amato Asterix
non mancherà mai. Come diceva il grande Marcello: Sono Pazzi Questi Romani!!!
Krishnananda e Amana “Fiducia e sfiducia” Feltrinelli s.p. (biblioteca
di Tolemaide)
[A: 06/06/2015– I: 17/01/2016
– T: 22/01/2016] - && +
[tit. or.: Trust and Mistrust; ling. or.: inglese; pagine: 193; anno 2004]
Ecco
ancora un altro libro che è saltato fuori dalla riorganizzazione delle librerie
delle varie case dove ho vissuto negli ultimi venti anni. Un libro che mi ha
fato fare un salto indietro di quindici anni, ripercorrendo con lui alcuni
momenti dei miei percorsi interiori, cercando anche di capire se io stesso sono
cambiato rispetto al libro, a quello che facevo, al modo di essere e di pensare
che mi aveva fatto passare momenti pochi simpatici della vita. Devo dire che,
chiuso il libro, ho avuto due reazioni. Verso il libro, che non mi è piaciuto
moltissimo. Dice cose anche interessanti, ma in modi didascalici che non
condivido (o non condivido più). Verso di me, che al contrario mi sono
piaciuto, per come sono ora, con tutti i limiti, gli errori, ed i sempre
possibili miglioramenti. Comunque poiché paliamo di libri e non di biografie,
torniamo al testo e lasciamo il contesto. Che il libro mi aveva attirato per
quel sottotitolo furbetto (“Impariamo dalle delusioni della vita”) e dal nome
indiano degli autori. I quali, tuttavia, non sono indiani ma lui è americano,
lei è danese, ed il loro nome indiano deriva dal lungo percorso che hanno
fatto, soprattutto Krish, come seguaci, adepti e propugnatori degli ashram di
Osho. Non voglio entrare (non mi interessa, non ne so abbastanza) sulle polemiche
intorno a Osho, certo che Krish e Amana, alla fine, se ne sono staccati, ed ora
gestiscono un centro terapeutico del nome accattivante di “Learning Love” (à
imparare l’amore). Per la loro missione, ad un certo punto, hanno cominciato a
pubblicare libri che seguono i diversi fili della loro terapia. Come “Uscire
dalla paura” o “A tu per tu con la paura”. O come questo che esamina il
rapporto tra fiducia e sfiducia, al fine di volgere a nostro vantaggio (prima
interiore, poi di vita) i momenti che attraversiamo durante la nostra
esistenza. Il tentativo dei nostri è quello di sfoltire la mente del lettore da
quella patina di resistenza che mettiamo di fronte a noi ogni volta che siamo
in difficoltà, cercando di farci discernere le “vere” difficoltà, dai momenti
illusori, dove ci facciamo un castello di idee, in genere basate sul niente.
Arrivare quindi, secondo la loro definizione, a liberarsi della “fiducia
fantasticata”, cioè quella sensazione di fiducia che ci auto-imponiamo al fine
di non cadere in depressioni varie. Uscire, quindi, da quello stato infantile,
da quel bambino bisognoso, e lasciare accadere la vita. Imparare le lezioni che
ogni istante ci pone davanti. Imparare ad essere responsabili verso noi stessi,
il nostro corpo, le nostre sensazioni. In fin dei conti, seguire ogni istante,
lasciandolo accadere, capendo che non sono le “sliding doors” della vita che ci
permettono di essere sereni, ma l’accettazione e la comprensione di quanto
accade. Ed alla fine, la fiducia diventa uno stato interiorizzato. Non dicono,
nessuno ci crede, né che sia facile né che sia vincente. Ma, un po’ alla
“Catalano” (per chi è anziano come me, ci si capisce), è meglio avere fiducia
che non averla. Ovviamente, il loro percorso porta, non può che portare, dalla
fiducia all’amore. Proponendo anche un esagramma di atteggiamenti per “imparare
l’amore” (e poi, se volete approfondire, ci sono sempre i seminari). Spero di
non aver interpretato troppo quanto viene percorso nel libro, volendo solo
darne un assaggio, al fine di farvi capire l’approccio. Per poi discutere,
proprio dell’approccio. Non dico di sapere tutto dei percorsi personali (non so
se conosco il mio, figuratevi quello vostro), tuttavia una cosa ho appreso in
tutto questo tempo (di studi e di viaggi). Niente può essere trapiantato “sic
et simpliciter”, da una cultura all’altro. È impossibile che, da occidentali,
si riesca ad entrare completamente nella mentalità di una meditazione
orientale. Come, scusate il paragone molto basico, è impossibile gustare un cibo
orientale con la stessa fragranza ed ampiezza di risultati che si ha
mangiandolo su luogo. Con questo, non dico che non possa far bene. Che il
secondo insegnamento che ho appreso recita: “se ti fa bene, fallo”. Se meditare
come Osho ti fa bene, fallo. Se muoverti bioenergeticamente come Lowen ti fa
bene, fallo. Se sederti su di un lettino come Freud ti fa bene, fallo. Questo
è, alla fine, il grosso limite della maggior parte degli interventi sulla
psiche. Pensare, erroneamente, che la propria modalità sia la migliore, e vada
bene per tutti. La modalità migliore è quella che fa star meglio chi sta male.
“Lasciare il caos dove altri dovranno fare
ordine, non prendersi cura di importanti aspetti pratici della vita … sono
modalità disfunzionali in cui si esprime l’inconscio bisogno di ricevere
attenzione.” (49)
“Lo ami abbastanza da voler essere con
lui/lei, anche se non cambierà mai?” (107)
“Dobbiamo prenderci il rischio di onorare i
nostri bisogni. Ciò non significa che vivere o essere in intimità con un’altra
persona non includa delle mediazioni. Ma quando questo avviene su cose
essenziali, allora non si tratta più di una mediazione ma di un compromesso.”
(146)
Gabriele Romagnoli “Solo bagaglio a mano” Feltrinelli s.p. (regalo di
Alessandra)
[A: 22/01/2016 – I: 23/01/2016 – T: 25/01/2016] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87;
anno 2015]
Altro
libro fortunatissimo, e con una serie di curiosità e carambole, per mezzo delle
quali è riuscito ad entrare nella mia libreria, prima, e nelle mie grazie, poi.
Ne ho sentito parlare dalla mia nipotina preferita (nonché unica, e, volendo,
neanche tanto “ina”, visto che quest’anno va per i ventinove). In genere non
parliamo di libri, quindi mi aveva incuriosito le sue citazioni di questo
libro, delle esperienze che sembravano nascervi. Ne parlai a mia volta con
Alessandra, che, nascostamente, ha poi trovato il modo di regalarmelo per una
piacevole ricorrenza post-cubana. Tant’è che l’ho subito aperto, e letto
abbastanza alacremente. Tra l’altro ricordandomi, mentre lo aprivo, che
Romagnoli è proprio il giornalista che ho seguito per tutto il 2015 con le sue
uscite domenicali su Repubblica, dove ogni settimana parlava di una città e di
un paese diversi. Alla fine il libro, brevissimo e veloce, parla anche di
altro, e ci torniamo tra poco. Quello su cui metto immediatamente l’accento è
l’inizio, ove il nostro Gabriele accenna al suo obiettivo – promessa del suo
cinquantesimo compleanno: visitare nel corso della vita 100 paesi, arrivando,
mentre scrive questo libro verso la fine del 2015, alla quota di 73. Io non ho
fatto la stessa promessa, non ho vissuto a lungo all’estero come lui, eppure ho
viaggiato tanto, spero di viaggiare ancora a lungo, ed ho visitato sino ad ora
83 paesi. Non so, non m’interessa vedere se arriverò a 100. M’interessa vedere,
sempre e comunque, cose nuove, perché solo così si rigenerano le cellule morte,
ed i pochi neuroni mantengono un minimo di attività vitale. Attività stimolata
dai molti spunti di questo libro, che non è sull’arte del viaggiare, ma
sull’arte di vivere. Anche se ammetto, che per me sono spesso nozioni
coincidenti. Aprendosi e chiudendosi con l’esperienza di Romagnoli in Corea di
organizzare il proprio funerale facendosi rinchiudere in una bara, per un tempo
definito, ma che non è a lui noto. Lì lo fanno per esorcizzare l’ondata di
suicidi che vi avvengono. Lui ne approfitta per meditare sugli aspetti della
vita. In una serie di piccoli pensieri, l’autore ci accompagna verso la sua
meta. A partire da quella sensazione avuta a Kigali, in Ruanda, dove vedeva la
gente, nonostante sia ormai in periodo di pacificazione, muoversi all’aperto
molto velocemente. Dove gli spiegano che era un’abitudine venuta propria dalla
guerra, dove andando svelti era più difficile essere colpiti. Proseguendo con
il panegirico di una trovata in cui è maestra Alessandra, quella del borsone
vuoto e ripiegato, che si riempie di cose quando servono. Un continuo quindi
andare e venire, sempre sulla falsariga di cosa portarsi appresso per viaggiare
leggeri nella vita. Per perdere la zavorra, al fine di ritrovare le essenze di sé
stessi. Fino a quel capolavoro di ricordi e memorie che Romagnoli (ed io con
lui) troviamo nel bellissimo Ireneo di Borges. Quello che ricordava tutto, e
proprio per questo non potrà che morire sovraccarico di ricordi, così come
moriranno le memorie esterne dei nostri supporti mobili, computer o cellulari
che siano. Bisogna selezionare, bisogna avere la capacità di mollare (penso al
recente film di Genovesi “Perfetti sconosciuti” ed alla battuta di Marco
Giallini sull’importanza di non fare sempre muro contro muro, ma di aver la
capacità, di una difficoltà infinita, di fermarsi). Ed alla fine Gabriele esce
dalla sua bara fittizia, raccoglie queste memorie sparse, batte, insiste fino
alla morte sulla necessità di avere tutto quello che serve a portata di mano.
Ricordandosi, e ricordandomi, di quel non eccelso film con George Clooney, “In
the air”, e la sua vita raccolta in uno zainetto. Va per i sessanta, Romagnoli,
ma con lo spirito giovanile di sempre, finisce con un’esortazione che
condivido, sulla necessità di nuovi spiriti, di generazioni capaci “di scegliere
sempre la libertà, di consumare soltanto il necessario, … di saper perdere cose
e battaglie senza perdersi, … con una inflessibile attrazione verso il
presente”. Sì, con il qui ed ora. Come abbiamo imparato. Come spesso ci
dimentichiamo, sovente appesantiti da troppa zavorra. Partiamo, allora, nel
presente, e verso il futuro, solo con il bagaglio a mano.
“Il bagaglio ideale è leggero … Non conta
com’è quando è chiuso, conta com’è quando lo apri. Vale per la casa che
sceglierai. Per la persona con cui passerai gli anni a venire. Conta che sia
agevole andarci in giro.” (31)
“Sai, all’inizio tieni tutto. Poi … capisci
che l’unico archivio che conti è la tua memoria: hai tutto lì, per sempre.”
(48)
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e il Papiro di Cesare” Panini
euro 12,90
[A: 28/01/2016– I: 29/01/2016
– T: 29/01/2016] - &&& e ½
[tit. or.: Le
Papyrus de César; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2015]
Non
si può dimenticare il proprio passato (quello per cui siamo ciò che siamo) e
quindi, fatalmente, si ritorna a voler bene ai fumetti, che tanto spazio hanno
avuto in anni lontani (ma solo nel tempo). Asterix è per me uno dei fari
illuminanti, e mai scorderò la “goturia” che mi prendeva nel leggere le
strampalate avventure dei resistenti all’impero di Cesare (e chi non sa perché
ho scritto il virgolettato, si vada a rileggere il capolavoro “Asterix e i
Goti”). Come ho detto nel commentare il primo volume della nuova serie, dalla
morte di Goscinny, pur apprezzando gli sforzi di Uderzo di mantenere in vita le
storie ai Asterix, Obelix e compagnia, notavo un affievolimento della verve che
aveva guidato la parte “forte” della serie. Ora che Uderzo ha compreso di non
riuscire più ad esprimersi compiutamente, ed ha passato la mano ai due nuovi
co-autori, i nostri stanno tornando, non dico ai fasti di un tempo, ma
sicuramente ad una più godibile lettura. Certo, la matita di Conrad, pur
muovendosi nel solco originale, ogni tanto sbava verso elementi spuri e poco
consoni (come il mostro di Lochness della precedente storia, o la carica
dell’unicorno in questa). Ma la sceneggiatura di Ferri si sta rivelando, e qui
meglio che nel primo volume, di un più gradito spessore. La storia prende le
mosse dalla decisione di Cesare riguardante la pubblicazione del suo “De Bello
gallico”, ed al suggerimento del suo editore di tagliare la parte relativa alle
sconfitte con il piccolo villaggio armoricano. Un intrepido giornalista trafuga
il capitolo mancante, e, sprezzante dei pericoli, lo rimette nelle mani di
Abraracourcix. Vicissitudini si susseguono nella ricerca da parte dei romani di
riprendersi il capitolo sottratto e nelle intenzioni dei galli di perpetuarlo a
futura memoria. Sarà il capo dei druidi ad impararlo “par coeur” come dicono in
Francia. Cesare riavrà le sue pagine, e le distruggerà, ma il passa-parola dei
druidi continuerà, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove l’ultimo druido ne
narrerà le vicende a due intrepidi autori: Albert e René. E se la storia è
semplice, le invenzioni narrative ne danno un pepe che da qualche tempo
mancava. Pepe che non sempre è facile riportare nelle traduzioni (pur
volenterose di Vania Vitali e Andrea Toscani). L’editore di Cesare (che
nell’originale si chiama Bonus Promoplus e che qui viene tradotto con Bonus
Bestsellerus) ha le fattezze di Jacques Séguéla (un pubblicitario ben noto in
Francia per essere stato consigliere di Mitterrand a suo tempo, e per aver poi
preso più tardi la via di Sarkozy). Più facile è decifrare l’intrepido
giornalista (Doublepolémix in francese e Vispolemix in italiano), che, nel
tratto e nei modi, si rivela un doppione di Julian Assange, il famoso reporter
di WikiLeaks. Un altro nuovo personaggio è introdotto nella storia, il capo dei
druidi, il più anziano e memoria storica della specie. E con bella invenzione
gli viene affibbiato il nome di Archéoptérix, facilmente riconducibile all’Archaeopteryx,
il cosiddetto “uccello primario”, e come questo anello di congiunzione tra il
remoto passato ed il mondo attuale (non certo odierno, ma cosa sono duemila
anni se non un colpo di ciglio nello scorrere del tempo universale?). E se
vogliamo cercare il più nascosto degli omaggi, c’è il falconiere al seguito dei
romani, che invia messaggi con i piccioni ed addestra il falco cattivo che ha
la faccia di Alfred Hitchcock (un omaggio all’immortale autore del film “Gli
uccelli”?). Mentre quindi gli ultimi
volumi della gestione “tutta Uderzo” passavano senza lasciar traccia, qui si
riprende a lanciare frecciate satiriche sul mondo attuale. Lo strapotere degli
editori che stravolgono talvolta i libri per renderli più vendibili. La non
censurabilità dei giornalisti e di converso, la credulità verso tutto quanto
viene scritto. Ci sono due passi esemplari nel testo. Il primo, quando tutti
gli abitanti del villaggio gallico pendono dalle righe dell’ultimo oroscopo
pubblicato sul giornale locale, con il saggio druido Panoramix che commenta:
“Le persone tendono a credere a tutto quello che trovano scritto.” L’altra quando
sempre Panoramix, per suffragare la volontà di imparare a memoria il testo
sottratto, recita il vecchio adagio gallico: “Gli scritti volano, le parole
restano!”, con tutto il coro di risate che noi vecchi latinisti subito
orecchiamo. Altre spigolature sono presenti, e ve le lascio scoprire da soli,
che la lettura di un libro di Asterix è anche una palestra per affinare le doti
di connessione che i nostri (ormai) pochi neuroni ancora conservano. Io spero
solo, prima o poi, di avere la voglia di ripercorrere la genesi onomastica dei
libri di Goscinny (come credo sia riportata nell’introvabile “Dictionnaire
Goscinny”), e la parallela genesi dei nomi italiani. Perché se Abraracourcix o
Assurancetourix rimangono, perché modificare Agecanonix con Matusalemix? Insomma,
sarebbe una bella sfida. Intanto, aspettiamo un terzo libro, forse per il
prossimo anno, chissà.
Fausto Brizzi “10” Einaudi euro 12,50 (in realtà scontato a 8 euro)
[A: 15/02/2016 – I: 16/02/2016 – T: 17/02/2016] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126;
anno 2016]
Ogni
regola ha le sue eccezioni, altrimenti saremmo in un regime dittatoriale che a
me non è consono. Per cui, passato in libreria per vedere le novità, mi
colpisce il titolo del libro (ripensando sia ai miei conoscenti vegetariani o
quasi, sia al libro sul cibo di Pollan appena letto), lo compro e lo leggo
subito. Anche perché la seconda curiosità deriva dall’autore, che conosco buon
regista (“Notte prima degli esami” tanto per citare a memoria) e sceneggiatore
“di routine” (ha collaborato ad una serie infinita di “Natale a …” e simili cine-panettoni).
E che non è nemmeno lontanamente parente di Enrico (scrittore bolognese che ho
adorato per “Jack Frusciante”). La resa finale mantiene le premesse di quanto
cinematograficamente fa Fausto. Testo scorrevole, alcune battute fulminanti,
situazioni surreali ben gestite, nonché presenza simpatica e tuttavia
allarmante di Claudia Zanella, moglie di Fausto. La vegana, appunto, dato che
il sottotitolo è proprio “Una storia vera, purtroppo”. Assistiamo quindi alla discesa “in abisso”
(senza nessuna connotazione di giudizio, come dirò poi) del nostro Fausto
onnivoro impenitente, che non sa resistere alla pizza bianca calda con la
mortadella, agli spaghetti alla carbonara o cacio e pepe, alla mozzarella di bufala,
trovarsi innamorato della giovane Claudia, e scoprire, al primo appuntamento in
un ristorante specializzato in insaccati, che la suddetta è vegana. Da qui
l’altalenarsi delle situazioni, dove Fausto è preso tra l’amore per Claudia e
l’amore per il cibo spazzatura. Altra scena degna, la cena a casa di Claudia,
con la descrizione del primo pasto vegano, cromaticamente ineccepibile ma dal
sapore, a primo acchito, tra “stucchevole” e “disgustoso”. Poi, come in tutte
le cose, il gusto, guidato dal cervello, si affina. A parte le ricadute verso i
cibi proibiti, e le conseguenti punizioni: depurazioni con acqua e limone,
giorno di digiuno programmato, ed altre disavventure. Indescrivibile il
tentativo di esportare in Tailandia dieci chili di riso basmati. E poi la
convivenza, a tre ovviamente, che Claudia porta con sé anche Lana la cana. Ed è
un crescendo di ironia il giro per la nuova casa di Claudia, che smonta, pezzo
dopo pezzo, vestito dopo vestito, tutta la precedente vita di Fausto. Il
matrimonio vegano sulla spiaggia di Sabaudia (con il testimone dello sposo che
importa di contrabbando le mozzarelle di bufala). Per finire con l’annuncio di
Claudia, a Fausto, a noi, ed anche a tutto il mondo (se ne legge anche in
rete), di essere incinta, e di essersi messa a cercare un pediatra vegano. Non
auguriamo, ovviamente, alla coppia Brizzi-Zanella le disavventure descritte da
Saverio Costanzo nel film “Hungry Hearts” con Alba Rohrwacher, che lo stesso
Brizzi conosce bene per aver prodotto il film. Detto quindi del testo, che,
ripeto, è accattivante, veloce, a tratti divertente, e che comunque trasmette un’allegria
di fondo (che non fa mai male di questi tempi). E che quindi è un testo che
promuovo ampiamente. Veniamo al contesto, che invece mi suscita qualche perplessità.
La prima è derivata dal fanatismo, elemento che ho sempre rifuggito in tutte le
sue espressioni, civili e religiose. Quindi cerchiamo di (con-)vivere, vegani e
non, vegetariani e non, fumatori e non, e via elencando. Mi rendo conto anche
che una dieta con meno proteine animali possa essere migliore, per la salute e
per l’ambiente. Ritengo tuttavia corretto un uso, anche parziale, di tutti i
tipi di alimenti, anche se bisognerebbe dare più spazio alle verdure. Mi vedrei
bene nel “flexitariano” di Pollan, vegetariano flessibile, senza abbandonare il
resto, ma facendone un uso consapevole. Dato che non potrei rinunciare alle
tazzone di caffellatte che accompagnano la mia colazione, insieme allo yogurt,
alla marmellata d’arance (ma solo se fatta da Alessandra) ed al miele (che non
si capisce perché sia vietato dai vegani). Non credo, sono uno tendenzialmente
innocentista, che il libro sia stato commissionato da una setta di vegani che
hanno circuito Fausto, o che Brizzi si sia piegato a volontà denaresche. Preferisco
prendere il buono che c’è dove c’è. E ridere a tutta faccia (come ho fatto in
autobus mentre ne leggevo) quando con Fausto ripenso ai vegani, ed al fatto
che, prima che alla dieta, pensavo all’invasione aliena degli abitanti del
pianeta Vega, ed alla difesa della Terra che faceva Actarus ed il mitico
Goldrake. Intramontabile!
“Il mio piatto sembrava la tavolozza di un
pittore che aveva esagerato nello spremere i tubetti di tempera.” (33)
“Non mi ammalo quasi mai … non so gestire
bene nemmeno un insignificante 37,2 … [e divento] un fastidioso piagnisteo
ambulante.” (51)
Poiché
siamo nella corsa ravvicinata delle diverse scrittura, e per ora tralasciamo i “libri
per vivere felici” che riprenderemo a settembre, vi allego la solita cura,
dedicata al lavoro.
Continua
a fare caldo, continuiamo a soffrire un poco preparando la vicina partenza
(dove poi non si andrà di certo in climi più freschi…).
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
LUGLIO 2016
Sempre nell’ottica dei contrari,
cosa dire di una puntata dedicata alla perdita del lavoro quando si è nella mia
posizione? Vediamo cosa ne esce…
LAVORO, PERDERE IL
Andrea Bajani “Cordiali saluti”
Herman
Melville ”Bartleby lo scrivano”
Kingsley Amis “Lucky Jim2
Licenziamenti
e morti sul lavoro sono purtroppo le storie del nostro tempo, un tempo davvero
determinate, per usare il lessico dei nuovi contratti, a perseguire incertezza
e iniquità sociale. La paura di essere licenziati, o di non trovarlo mai, un
lavoro, è una sindrome sempre più diffusa, una malattia contagiosa e
intergenerazionale. “Cordiali saluti” di Andrea Bajani ne ripercorre diverse
fasi. È la storia di uno che per mestiere deve licenziare i suoi colleghi per
conto dell’azienda. Scrive allora delle lettere calorose e paradossali, perché
ha un debole per la cortesia, invitando coloro che esonera a riprendere in mano
la loro vita, i loro sogni, il futuro che gli si spalanca davanti come una
grande occasione. Presto, nei corridoi della ditta, lo accompagneranno il gelo,
il terrore e la diffidenza degli altri dipendenti, gli elogi dei suoi capi e il
soprannome di Killer. Ma una curiosa circostanza scompagina l’ordine feroce
delle cose: una paternità improvvisata e d’emergenza per conto dello sfortunato
collega che lo ha preceduto, il direttore delle vendite, licenziato prima dalla
società, e poi dalla vita. Saranno questi due bambini a riportarlo nel consorzio
umano e a fargli scrivere un’ultima lettera, per riscattare il dolore provato e
procurato.
Perdere il
lavoro può essere un colpo terribile, per le vostre tasche e per il vostro ego.
Il modo migliore per affrontare questa eventualità è provare a considerarla per
davvero come un’occasione - la possibilità di prendersi una pausa dagli impegni
quotidiani, ripensare alle vostre opzioni, e forse addentrarsi in un mondo
nuovo. Invece di concludere che eravate inadatti a quel lavoro, convincetevi
che quel lavoro era inadatto a voi. Se non siete ancora convinti, pensate a
tutte le volte in cui, nel vostro lavoro, vi è capitato di non aver voglia di
fare le cose che vi venivano chieste. Proprio come Bartleby.
Il Bartleby di
Herman Melville è uno scrivano, e quando si presenta per la prima volta allo
studio legale del narratore, «pallidamente lindo» e «penosamente decoroso», il
suo datore di lavoro pensa che il suo carattere tranquillo avrà un effetto
positivo sugli altri dipendenti. In un primo tempo, Bartleby si comporta come
un lavoratore modello, trascrivendo industriosamente lettere in quadruplice
copia. Poi però comincia a ribellarsi. Quando il suo datore di lavoro gli
chiede di confrontare una copia con l’originale, Bartleby gli risponde:
«Preferirei di no». Ben presto diventa chiaro che lui non intende occuparsi di
nulla che vada al di là delle mansioni più elementari del proprio lavoro. Se
gli viene chiesto di fare qualcosa di più, risponde sempre allo stesso modo,
inflessibile: «Preferirei di no». È un terribile vicolo cieco, perché il suo
datore di lavoro non se la sente di licenziare una persona così mite e che
sembra non avere una vita al di là della scrivania. Bartleby, da parte sua,
farà solo quello che vorrà.
Lasciatevi
ispirare dal gesto di resistenza di Bartleby. Fino a che punto il vostro lavoro
vi costringe a scendere a compromessi con ciò che volevate davvero fare? La
ribellione di Bartleby lo porta fino a rifiutare di alzarsi dalla scrivania.
Voi, invece, avete la possibilità di andare avanti ed esplorare nuovi
territori.
Forse potrete
addirittura festeggiare la perdita del vostro lavoro. Quando Jim Dixon ottiene
la cattedra di Storia medievale in un’anonima università nelle Midlands in
“Lucky Jim”, non ha alcuna intenzione di rovinare le cose. Accetta di buon
grado l’invito del suo capo, Neddy Welch, per partecipare a un «week-end
culturale» in campagna, pensando che sia meglio tenerselo buono. Una volta a
destinazione, tuttavia, non fa altro che cacciarsi nei guai. Seguono scene
farsesche, con lenzuola incendiate, madrigali cantati da ubriachi e varie
complicazioni sessuali. Jim, tuttavia, dà il peggio di sé proprie quando fa una
lezione sugli stereotipi pastorali nell’Inghilterra medievale, i cui ultimi
passaggi sono inframmezzati proprio dalle sue smorfie di derisione.
Fatevi una
bella risata, insomma, e poi mettetevi a cercare il lavoro che meglio si adatta
a voi. Perché la pubblica umiliazione di Jim ha un epilogo inattese. Vedere
qualcuno farsi beffe del proprio lavoro - e uscire vincitore - sarà un
toccasana per il vostro morale.
Bugiardino
Ho
letto due dei tre libri proposti, e ne ho letto ormai da molti anni, quando
queste trame erano ancora molto telegrafiche. E Melville l’ho letto
nell’edizione di Repubblica con il testo a fronte.
Andrea Bajani ”Cordiali saluti” Einaudi euro 9,50
[pubblicato il 14 gennaio 2007]
Non è caustico, di più. Storia di un responsabile del
personale che deve “allontanare” dipendenti inutilizzabili nella logica
industriale. Dove andremmo a finire schiacciati dai “disumani” meccanismi
aziendali? Cento pagine di pugni nello stomaco.
Herman Melville “Bartleby, lo scrivano” Repubblica Short Stories euro
4,50
[pubblicato il 12 aprile 2009]
Sconcertato! Ma la sindrome di
Bartleby (ricordando l’esilarante libro di Vila-Matas) mi sembrava una cosa
diversa. È vero che qui siamo nel puro Melville, quello dove l’atmosfera conta
più dei fatti, che sono pochi: un avvocato, i suoi copisti, l’arrivo di
Bartleby che non si integra nello studio e ad un certo punto si tira fuori, con
quello che diventerà il suo celebre motto “I would prefer not to”. Il resto è
ricamo. L’ambientazione a New York, in una Wall Street dove lo studio
dell’avvocato si affaccia su un cortile chiusa da una parete. Mi sfugge,
nonostante il tentativo dell’introduzione di chiarirlo, il perché della
vicenda. Certo, qualcuno, ad un certo punto, messo di fronte a qualcosa che non
si sente in grado di fare, può assumere l’atteggiamento dello scrivano, il suo
“preferirei di no”. E quella cortesia disarmante può distruggere mondi interi.
Una specie di Gandhi cento anni prima. Ma con una grande, sostanziale
diversità: per cosa lotta Bartleby? Qual è lo scopo del suo diniego? Rifiutare
un mondo che sta iniziando ad uccidere tutti i valori, ma per cosa? Qui si è
arenata la mia empatia con la scrittura. Non sono riuscito a capire lo sforzo
verso cui tende la sua resistenza passiva. E non capendolo, mi sono trascinato
nella scrittura, staccandomene un po’ e trovandola proprio americana. Anzi di
uno di quei caffè americani, che si dice contengono molta più caffeina del
nostro espresso, ma che, al mio gusto, rimangono una brodazza mal
ingurgitabile. Ottima la lingua, niente da dire sulla traduzione, forse troppo
didascaliche le note (sembrava ripercorrere una mini guida di New York), forse
ci voleva almeno un amaro finale (e non un finale amaro).
Conclusioni
Si, i meccanismi sono perfetti.
Le descrizioni appropriate. Soprattutto nello splendido per cattiveria lavoro
di Bajani. Ma io avrei anche aggiunto Joshua Ferris con “E poi siamo arrivati
alla fine”.