domenica 28 agosto 2016

Montandrea - 28 agosto 2016

Come si intuisce dal titolo, una trama dedicata ad Andrea Camilleri e Salvo Montalbano. Come intuiscono i miei amici enigmatici, abbiamo due storie di Salvo e due di Vigata. Visto poi che siamo in pieno pareggio, abbiamo due sopra media e due sotto media. Insomma, è un po’ che il pluripresente siculo oscilla tra prove degne e prove sotto-media. Tra l’altro, le prime sono quelle più lontane nel tempo. Speriamo che sia una tendenza invertibile.
Andrea Camilleri “La concessione del telefono” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato a 5 euro)
[A: 06/02/2014– I: 14/03/2015 – T: 16/03/2015] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 1998]
Siamo nella stagione feconda di Camilleri, quella che vedeva le prime uscite di Montalbano da un lato e le altre storie di Vigata dall’altro, con quel “Birraio di Preston” che per me raggiunge una delle vette del primo Camilleri. Un autore che in questo periodo valutai per una serie di fattori che esprimeva in alto grado: l’uso della lingua (L), l’intreccio delle storie (I), il “social engagment” che risultava dalle trame (S) e l’ironia di fondo (I). Il suo LISI cominciò ad essere molto alto. Qui seppur abbiamo un discreto L ed S, siamo solo sulla sufficienza nell’intreccio e decisamente carente per l’ironia (anche se viene costantemente tentata). Il tentativo nuovo che fa in questo libro è l’utilizzo di forme “indirette” per raccontarci la storia. Un uso sapiente e ben alternato di capitoli intitolati “cose scritte”, dove si intrecciano lettere, proclami ufficiali di questori e tenenti dei carabinieri, nonché pagine di giornali, e di capitoli intitolati “cose dette”, dove Camilleri riporta dialoghi tra i vari componenti della vicenda. La difficoltà nel ricostruire la trama è che, da un lato, benché i personaggi cardini siano pochi, la vicenda coinvolge una serie di coprotagonisti di cui non è facile tenere a mente i nomi. Dall’altro, per le cose scritte, bisogna sempre rifarsi alle date in cui si scambino le missive, anche se vengono riprodotte in ordine temporale, ma risultano di diverso impatto se passano due giorni o due mesi tra l’una e l’altra. Ciò detto, la vicenda è tutto un gioco degli equivoci, come piace a Camilleri sulle orme del suo amato Pirandello. Filippo “Pippo” Genuardi, commerciante poco fortunato ma molto “dotato” (capisci a me) benché preso dalla moglie Taniné, si invaghisce, ricambiato, della seconda e giovane moglie del suocero (Lillina). Per poter aumentare le occasioni di incontro, lui che è sempre pronto alle novità tecnologiche (siamo nel 1891) cerca di installare una linea telefonica tra la sua fabbrica di legnami e la casa del suocero. Cerca quindi di trovare, nei meandri della burocrazia, la strada per avere una “concessione telefonica”. Qui comincia a scontrarsi con un questore napoletano fuori di testa (parla con i numeri della “smorfia”) che, equivocando il tutto comincia a tenere sotto mira Pippo, coinvolgendo i carabinieri (che non ci fanno una gran figura, come è ovvio) e spargendo voci sul presunto “socialismo” del richiedente. Una costruzione di ipotesi che il prefetto di polizia ha buon gioco a smontare, pezzo dopo pezzo. peccato che la storia si intrecci con uno sgarbo fatto da un presunto amico di Pippo, tal Sasà, al boss mafioso locale, don Lollò. Pippo, cercando appigli per risolvere la questione “telefona”, cerca di ingraziarsi il boss, fornendo a più riprese l’indirizzo del latitante Sasà. Purtroppo, per Pippo, Sasà lo sta prendendo in giro, fornendo indirizzi falsi, cosa che dopo un po’ fa girare i cabasisi al “nervuso” don Lollò. Che pensa bene di inguaiare Pippo, sia mettendo bastoni tra le ruote alla famosa concessione (ad esempio, blandendo i vicini per impedire l’impianto dei pali di comunicazione), sia facendolo apparire “rosso”, così come vuole il questore. È tutto in gioco di specchi, per cui una cosa si può sempre interpretare in diverse maniere, e l’ottusità del potere (S) ha sempre buon gioco per mettersi in ridicolo ma far sì che Pippo sia sempre più inguaiato. Finché don Lollò, scoperto l’ultimo nascondiglio di Sasà, da l’ultimatum a Pippo: che gli spari lui alle gambe, così andrà tutto in pari. Cosa che Pippo fa, ed a questo punto sembra che tutto vada per il meglio: i vicini cedono, la concessione è avviata, i nemici istituzionali messi in condizione di non nuocere. Tuttavia, il telefono servendo a scopi non decisamente onesti, il nostro ha un bel colpo d’ingegno per far saltare il banco su tutti i tavoli. Sasà, azzoppato e disonorato da don Lollò, si vendica denunciando Pippo al suocero, che, dopo aver verificato la veridicità dell’illazione, decide il passo estremo. Uccide a revolverate Pippo e poi si spara. Essendo i carabinieri i primi ad aver notizia del delitto, decidono di risalire in sella, facendo scoppiare una bomba sul luogo del delitto, convincendo tutti che il povero Pippo era un facinoroso. In questo modo, tutti i peggiori elementi dello stato in formazione vengono premiati, e gli onesti mandati in esilio in Sardegna. Tutta la storia è anche condita da altri elementi sociali, cominciando all’epoca del governo Di Rudinì e terminando con il primo governo Giolitti, e con le prime idee concrete di lotta alla mafia, poi presto abbandonate (un unico appunto storico, tra le lettere ne compare una, in data aprile 1892 a firma di Giuseppe Sensales come direttore generale di Pubblica Sicurezza, carica che però il Sensales ricoprì a partire dall’ottobre del 1893). Ma di ironia, come potete constatare da queste mie righe, ce n’è ben poca. Anche se, rispetto a prove più tarde e più involute di Camilleri, resta in ogni caso un bel leggere.
“Passata la sissantina, un duluri ogni mattina.” [anche no!] (156)
Andrea Camilleri “Inseguendo un’ombra” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 16/03/2014– I: 06/07/2015 – T: 07/07/2015] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 243; anno 2014]
Eccoci qua ad un nuovo libro del grande siciliano, di cui chioso lo scritto nell’anno del suo novantesimo compleanno. Purtroppo non siamo nella ormai ventennale saga del commissario di cui spero leggere presto altre prove (date le ultime poco convincenti). E neanche nel grande circo dal nostro imbandito intorno alla verissima eppur inventata Vigata. È un libro strano, in parte oserei dire complesso, dove Camilleri fa una duplice azione narrativa: racconta una storia (e come spesso dice lui è e sarà sempre un contastorie piuttosto che uno scrittore) e ad intervalli entra ed esce dalla narrazione per spiegarne passi, chiosarne punti oscuri, esplicitare scelte narrative. Questo sforzo di far diventare il libro un oggetto a molte dimensioni è forse quello che più mi è piaciuto e più mi ha coinvolto, proprio per prenderne spunto in future dimensioni narrative. Meno, e da qui la non eccelsa classifica che raggiunge lo scritto, la parte narrata in sé, che il personaggio, interessante, intrigante e sfuggente, rimane sostanzialmente ancorato all’ultimo aggettivo. E la sua storia non mi ha fatto partecipare alle sue vicende. Per razionalizzare il commento, l’idea a Camilleri nasce già nei lontani anni ’80, quando, leggendo una nota di Sciascia ad un catalogo dedicato ad un pittore siculo, il grande di Racalmuto cita la strana figura di un ebreo, convertito, sapiente, che attraversa la Sicilia ed il Papato nella metà del 1400, per poi svanire misteriosamente. Come tutte le idee fertili, questa sedimenta nella mente del nostro, che cerca riscontri, trova poche documentazioni affidabili, anzi all’inizio solo due note biografiche assai scarne. Ma il tempo è un galantuomo che porta buoni consigli con l’andare del tempo, ed alla fine, con quell’estro narrativo che comunque gli riconosco, e con la scrittura bella che sempre possiede, Camilleri congiunge elementi sparsi, a volte poco documentati, e, a forza di inseguire un’ombra, riesce a farne un ritratto, come dice lui stesso, non storico ma senz’altro verosimile. Abbiamo quindi in realtà la storia di tre personaggi che alla fine si riveleranno come un unico soggetto che di volta in volta si muta per risorgere dalle proprie cenerei come l’araba fenice. La storia inizia a Caltabellotta, città ad una sessantina di chilometri da Agrigento, crocevia di gente, famosa perché nel 1302 vi furono firmati i patti tra angioini ed aragonesi che posero termine ai Vespri Siciliani. E cara (personalmente) in quanto il suo nome derivò dalla costruzione di un castello da parte araba, il Castello delle Querce, in arabo Qal'at Al-Ballut. Qui nasce, intorno al 1445, un ebreo Samuel Ben Nissim Abul Farag, figlio del rabbi Nissim. Il padre, dotto ed esperto di medicine, era un elemento di spicco, da tutti ricercato per le sue capacità mediche. Ed il figlio Samuel veniva avviato alla sapienza ed alla conoscenza della religione (cosa che gli servirà per tutta la vita). Ha un solo evidente difetto, il nostro Samuel: gli piace godersi la vita, gli piace accumulare piccole risorse a scapito di innocenti ruberie. Inoltre, e questa sarà sempre una sua costante, è dichiaratamente e voluttuosamente omosessuale. Intorno ai suoi venti anni, si scatena onde di repressione verso gli ebrei e gli stranieri in genere (ricordiamo che a fine secolo ci sarà la grande cacciata degli arabi dalla Spagna, in quel 1492 che noi si ricorda per altri motivi). Samuel in pericolo per una serie di fatti che vi lascio leggere, si rifugia in convento. E qui, principalmente per aver salva la vita, si converte. Scegliendo come padrino, ed assumendone il nome figliale, Guglielmo Raimondo Moncada. Con questo nome nasce la sua seconda vita. Di dotto studioso delle scritture (visto che sa leggerne in diverse lingue), ma anche di persecutore dei propri antenati ebrei. Studia a Napoli, cresce nelle gerarchie, forse prende anche i voti (elemento a volte controverso). Di certo si trasferisce a Roma, entra nella cerchia papale, tanto che tenne (ed è documentato) la predica del giorno della Passione in Vaticano nel 1481, con un sermone che rivisitava l’allora molto diffuso e ponderoso libro del domenicano spagnolo Raimundo Martì “Pugio Fidei”, una specie di Summa contro i Giudei. Anche qui, preso tra intrighi e crapule varie, cade in disgrazia e deve fuggire verso la fredda Germania. Ma ne ritroviamo traccia, pochi anni dopo, quando si presenta con lo pseudonimo di Flavio Mitridate, diventando il maestro e mentore di Pico della Mirandola. Quest’ultima parte della sua vita, è tracciata un po’ nebulosamente da Camilleri, perché forse troppo nota o forse molto legata a controversie che ora e qui sono di difficile seguitura. Fatto sta che, nonostante le capacità umanistiche, il suo porsi ora “contra ecclesia” non gli rende la vita facile. E non tirandosi mai indietro alla crapula che guida ogni suo gesto, è facile capire la sua ulteriore disgrazia. Legata forsanche ad un fatto di sangue. Sicché nel 1489 viene arrestato ed imprigionato. Qui terminano le tracce del nostro tripartito personaggio, anche se Camilleri adombra una sua possibile fuga ed esistenza in vita almeno fino al 1492, dove viene citato in uno scritto testamentario della madre. Ma anche noi ci siamo un po’ stancati si Samuel – Guglielmo – Flavio. Camilleri ha fatto di tutto per farcelo piacere, e noi gli si riconosce la buona volontà e la bella resa. Meglio gli intarsi personali, quando il grande Andrea viene avanti sul proscenio e ci parla direttamente. Il resto è un buon libro. Non abbiamo raggiunto l’ombra che si inseguiva, ma abbiamo passato alcuni giorni contenti. Per finire e collegarmi al precedente, qui abbiamo una buona prima I ed un discreto S, ma siamo carenti alquanto in L ed S (nel mio tetragramma LISI di analisi camilleriana).
Andrea Camilleri “La piramide di fango” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 05/06/2014– I: 01/12/2015 – T: 02/12/2015] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 261; anno 2014]
Finalmente torniamo ad un Montalbano puro e duro. Forse non intenso come i primi, ma di sicuro in risalita dopo le ultime prove, quelle un po’ forzate nell’uscita e nell’impianto, che cercavano di colmare buchi narrativi nel percorso “storico” del nostro commissario di Vigata. Dico anche subito e preliminarmente che il LISI qui sta ad un buon livello, avendo un buon risalto tutte le componenti usuali delle storie del nostro. Forse solo la parte ironica, lasciata quasi esclusivamente alle disavventure del povero Catarella lascia a desiderare. E la parte sociale, pur presente, è in un certo senso troppo “sottolineata” per essere un elemento di novità. Con una facile metafora, in un’Italia ed una Sicilia tormentata dalla pioggia, altrettanto facile è paragonare l’andamento della vita sociale italiana a quel fango montante che tutto ricopre e tutto lorda. Ma facciamo un piccolo passo indietro, guardando intanto ai comprimari del buon Salvo. Mi sono perso (forse nella memoria) la fine della storia di Mimì con la bella Beba. Ora, il numero due rimane sempre lì, un po’ sospeso tra entrare in azione e rimanerne fuori, senza poi combinare gran che. Mentre sempre di più, come alter ego, avanza Fazio, con i suoi tremendi “pizzini” su cui scrive di tutto (ma un iPad, no?). sempre pronto agli ordini di Salvo, spesso anticipandolo, comunque dandogli quel supporto informativo che al nostro serve per poter ragionare. Detto di Catarella, sempre uguale a sé stesso, abbiamo invece un ritorno di fiamma della lontana Livia. Stavano quasi ad un punto di non ritorno, fintanto che la morte di François ha precipitato la genovese nella nera tristezza, lasciando Salvo senza il suo costante punto di riferimento (che macari ce ne catafottiamo quanno nun c’è, ma serve). Ora invece, con la comparsa della cagnetta Selene, sembra che Livia possa uscire dal nero che la avvolge, e Salvo non mancherà, finita l’inchiesta, di precipitarsi di nuovo a Genova. Inchiesta che nasce dal ritrovamento del cadavere del ragioniere Nicotra, riverso in mutande nel fango di un cantiere in periferia di Vigata. Nicotra sposato da una bella tedesca, Inga, in odore di essere attratta dai bei maschietti siculi (sarà poi vero?), e bellamente scomparsa dalla villa di residenza. Villa in cui il nostro trova tracce di un terzo personaggio, di cui misteriosamente non si sa nulla. Tra una pioggia e l’altra, tra una camminata nel fango ed una passata in trattoria da Enzo, tra una viduta di Televigata ed una di Retelibera, Salvo si fa persuaso che ci sia sotto più di quanto sembra. Con l’aiuto dei pizzini di Fazio, riesce a ricostruire alcune storie degli appalti in provincia, stranamente vinti fino a poco prima da società legate alle due famiglie mafiose locali, i Cuffaro e i Sinagra (che spesso abbiamo visto in altre storie vigatesi). Solo che in quest’ultima, dove si aggirava il Nicotra, c’è lo zampino di un altro capo banda, Rosales. La scoperta di un misterioso antro sotto il garage della villa, con tanto di cassaforte e residui di soldi, illuminano la scena (sia per noi che per Salvo). Come si illumina Augello, che sentendo descrivere il misterioso ospite, ne riconosce le fattezze proprio in Rosales. Ecco allora, il grande giro di mafia e di appalti. Le tre famiglie si stavano spartendo i soldi della regione, nello stesso tempo riciclando denaro sporco pagando in contanti gli operai delle ditte. Peccato che i Cuffaro vogliano avere più peso, cercano di mettere fuori causa Rosales, riuscendo solo ad uccidere Nicotra e, probabilmente, anche Inga. E sono sempre loro che cercano di mettere fuori pista Salvo, inventando una storia di corna per giustificare le morti. Il nostro non può cadere in una trappola così meschinamente costruita. Ed aiutato da tutti coloro che vorrebbero veder scomparire il fango dall’Italia, dalla Sicilia e da Vigata, mette in fila la giusta soluzione del problema. Che vi lascio tranquillamente leggere, godibilmente scritta come non capitava da diversi romanzi di Montalbano. Va bene anche quel tocco di moralismo (o di moralità?) sugli appalti italici, va bene la lingua, ormai rodata e che continuiamo a leggere cercandone il suono piuttosto che il significato. Speriamo che anche nei prossimi romanzi si riesca a tenere alta la LISI del nostro autore. E che continui a scrivere, per molto e molto tempo ancora.
Andrea Camilleri “Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 06/02/2014– I: 14/03/2015 – T: 16/03/2015] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 314; anno 2014]
Sapete, e lo ribadisco tutte le volte, che non sono un amante dei racconti, trovando nel romanzo un respiro maggiore che consente alla trama di svilupparsi meglio e di avvolgere il lettore nelle sue spire. La dimensione racconto lascia un po’ il senso di un amore frettoloso, spesso senza che si sia riuscito a capire chi ama cosa. Fuor di metafora, poi, mi sembra che anche Camilleri abbia le sue difficoltà in questo metodo. Anche perché, con una precisione degna di un Perec, fa di ogni storia un racconto di 35-36 pagine divise in quattro capitoli di 8-9 ciascuno. Come se fossero brogliacci per possibili avventure del nostro commissario, che, per mancanza di tempo o di voglia, il nostro autore ha messo in un cassetto. E forse, sotto spinte di marketing, o magari, Dio non voglia, sotto urgenze sanitarie, si trova costretto a rendere editabili un po’ così come sono raccolte nei suoi quaderni. Altra ipotesi è che siano stati (o sono?) brogliacci di sceneggiature per episodi televisivi per la serie televisiva “Il giovane Montalbano”. Ipotesi non peregrina, che la seconda serie (a quanto risulta da Wikipedia, visto che non la televisione per confermarlo) è basata su sei degli otto racconti. E spero che in televisione abbiano una resa migliore di quella che mostrano sulla carta, magari mostrando una loro coerenza interna, intra-racconto, che qui manca. Infatti l’indagine risulta sempre affrettata, la conclusione a volte più capita che descritta (ma ci scordiamo sempre i sacri precetti di S.S. Van Dine…), i caratteri abbozzati più che approfonditi. L’amore con Livia è ancora allo zenit, e non si vedono nuvole all’orizzonte. Catarella fa qualche buffoneria, ma rimane nell’ombra. Fazio non ha sviluppato ancora la tecnica dei pizzini. Solo Augello si capisce che è già lo sciupafemmine che diventerà nella maturità montalbaniana. Adelina è sempre pronta ai suoi manicaretti, ed ha già sviluppato il suo disamore per Livia. La cosa buffa, è l’oste cui si rivolge il nostro Salvo, che qui si chiama Calogero, mentre poi diventerà il più corposo Enzo. I racconti sarebbero poi quasi senza tempo, se non ci fossero piccoli accenni laterali che ne collocano nel tempo le vicende. Uno risibile, l’uso delle lire invece che dell’euro. Uno più concreto, è l’accenno alla morte di Sindona, che attraversa il quarto racconto (“Il biglietto rubato”) collocandolo appunto nel 1986. Facendo rapidi calcoli, se Salvo all’epoca è un trentino, ora dovrebbe essere un sessantino, piuttosto che un cinquantino come sostiene il nostro esimio scrittore. Ma torniamo alla materia scritta. Piena, trasversalmente si diceva, dei topos di Camilleri: i ladri, che spesso non sono cattivi ma solo sfortunati (cfr. “Il ladro onesto”), la lotta alla prostituzione ed allo sfruttamento delle donne (cfr. “Come voleva la prassi”, “Un’albicocca”, “Doppia indagine” o “Il biglietto rubato”), nonché la sempre presente lotta alla mafia (sia quando entra direttamente nell’anima del racconto, come ne “La transazione”, sia quando viene usata come scusa per altro, come in “Morte in mare aperto” o “La stanza numero 2”). Se fossi in voi, inoltre, eviterei di leggere i risvolti di copertina di Salvatore Silvano Nigro, che trovo ogni volta panegiricamente elogiativi, spesso a vuoto. Non vorrei tornare nel corpo degli scritti, lasciandovi la (seppur non eccelsa) felicità di percorrere la sempre piacevole scrittura dello scrittore agrigentino. Tornando con il parallelo televisivo, prescindendo dalle proprie simpatie personali tra Riondino e Zingaretti o tra Katharina Böhm e Sarah Felberbaum, leggendone il progresso, direi che mi sembra ci sia una grande divaricazione tra lo scritto ed il parlato. Livia, sulla carta, è vicina a Salvo, va su e giù tra Vigata e Boccadasse, ma non si sogna di portare Salvo all’altare. Come pare succeda in Tv. E dove si passa dal turbamento della morte i Sindona perché, così come per “il banchiere di Dio”, anche nella Sicilia montalbaniana, nulla si riuscirà a cambiare realmente. Camilleri sa, e noi con lui, che le collusioni tra politica ed il resto (che ognuno interpreti come vuole) sono forti e non tranciabili. In televisione, invece, si vorrebbe dare un messaggio più forte, ma che risulta annacquato dalla ripetitività. Salvo decide di non sposare Livia, e di rimanere a Vigata a lottare “sul territorio”, in seguito all’attentato di Capaci ed alla morte del giudice Falcone. Con due sottoprodotti: Salvo diventa di 6 anni più giovane (sulla carta ha 30 anni nell’86, ed in onda ne ha 30 nel ’92) e Livia potrebbe essere lei a spostarsi dalla Liguria verso la Sicilia. Non capisco e non si capisce perché. Insomma, rimane sempre piacevole la mia lettura di tutti gli scritti di Camilleri (non credo sia un caso che ho ben 57 libri del nostro siciliano). E proprio per questo, mi permetto di criticarne ogni pur minima caduta o deviazione dalla retta via “salvifica”. Comunque, e per finire, intanto inviamogli auguri, che tra un mese il nostro ne farà 91 di anni (e sempre uno meno di mia madre).
Per rimediare al lungo silenzio di trame curative, ecco a voi anche il super-allegato “per appassionarsi alla lettura” (e ditemi se vi ho fatto appassionare).
Per il resto mestizia e prospettive. Un abbraccio a chi ha avuto dolorosi risvolti dalla terra che trema. Una prospettiva di un nuovo viaggio nella mia amata India, e nelle vette del suo Nord (tanto che per altre settimane lascerò il silenzio a tenervi compagnia).

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

AGOSTO 2016
Poiché le mie care libropeute sono avare di commenti, ritengo doveroso accomunare questi due brevi trafiletti in un appassionato grido di “Buona lettura a tutti”.

LETTURA, APPASSIONARSI ALLA

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER FAR APPASSIONARE IL VOSTRO PARTNER (MASCHIO) ALLA NARRATIVA

Per chissà quale motivo, gli uomini non leggono tanta narrativa come le donne. Se vi è toccato un uomo che non legge un romanzo dai tempi della scuola, dategli uno di questi. (Ditegli che si tratta di saggistica sotto mentite spoglie).
William Boyd                     “Ogni cuore umano”
Giacomo Casanova             “Storia della mia vita”
Alexandre Dumas               “I tre moschettieri”
Joseph K. von Eichendorff    “Vita di un perdigiorno”
Arthur Golden                    “Memorie di una geisha”
Joseph Heller                     “Comma 22”
Soren Kierkegaard              “Diario di un seduttore”
Anais Nin                          “Il delta di Venere”
Arthure Schnitzler              “Il ritorno di Casanova”
Jules Verne                       “Michele Strogoff”

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER FAR APPASSIONARE IL VOSTRO PARTNER (FEMMINA) ALLA NARRATIVA

Per ragioni altrettanto misteriose, alcune donne non leggono romanzi. Se il vostro partner non ha il gene della narrativa, seducetelo con una storia raccontata davvero bene. Avvincenti, coinvolgenti, divertenti, questi li hanno scritti alcuni tra i migliori narratori dei nostri tempi.
Ingeborg Bachmann  “Malina”
Antonia S. Byatt       “Possessione”
Jennifer Egan           “Il tempo è un bastardo”
E. M. Foster             “Camera con vista”
David Grossman       “A un cerbiatto somiglia il mio amore”
Khaled Hosseini        “Mille splendidi soli”
John Irving              “Hotel New Hampshire”
Guy de Maupassant   “Bel-Ami”
Elizabeth Strout        “Olive Kitteridge”
Walter Tevis             “La regina degli scacchi”

Bugiardino

Dei venti libri citati per appassionarsi alla lettura (a me, chiedere di appassionarsi? Un ossimoro), ben 18 sono presenti nella mia libreria. E di questi 12 ne ho già letto. Alcuni forse non li leggerò mai (probabilmente Maupassant è già passato sotto i ponti delle mie voglie, e Verne ha altro che mi attira). Vi parlerò però soltanto di 8 di questi dodici, che molti dei primi libri dedicati ai “maschi” li ho letti anni, anni, e poi anni fa. Subito dopo la morte di mia prozia, divorai uno dei suoi regali: i dieci volumi di una delle prime edizioni delle memorie di Casanova. Ricordo anche il regalo del mio primo suocero e del racconto di von Eichendorff. Nonché la lettura, tra i libri di mio padre, e subito dopo aver visto il film, del romanzo di Heller. Non tocco nemmeno il discorso dei moschettieri. Ne lessi tutta la saga a 12 anni, da “I tre moschettieri” a “Il visconte di Bragelonne”. Per poi rileggerne il primo di tanto in tanto. Veniamo allora ai “magnifici otto”, che riporto in ordine temporale di lettura.
Antonia S. Byatt “Possessione” Mondadori euro 9,80
[trama pubblicata il 26 giugno 2007]
Mega polpettone asfissiante, con alcune idee brillanti, coinvolgenti. È la storia di due giovani studiosi di letteratura dell'Inghilterra contemporanea che, ripercorrendo i passi di un uomo e una donna vissuti un secolo prima, ricostruiscono una vicenda d'amore che ben presto diventa la loro. Il principale protagonista della vicenda è Roland Michell, un giovane studioso londinese mite e riservato, il quale trova accidentalmente in un libro appartenuto a un poeta vittoriano due minute di una lettera indirizzata a una donna. Roland si improvvisa detective e scopre così l'identità della destinataria di quella missiva. Coinvolge nelle ricerche la collega Maud Bailey e, insieme, ripercorrendo i passi della donna e dell'uomo vissuti un secolo prima, visitando i luoghi dei loro incontri e studiando le opere, ricostruiscono la perduta storia d'amore. Questa la sintesi buona. Quella cattiva per il mio gusto è l’infarcimento di “poesia vittoriana” certamente ben ricostruita dall’autrice, ma, come dice ad un certo punto un bibliotecario londinese, “Che palle queste poesie”. Giudizio altalenante (ma non tutti i polpettoni sono immangiabili), dove trovo positiva la riuscita di alcune frasi:
“Spesso è così nella vita: diventiamo coerenti e metodici troppo tardi, su basi insufficienti e forse nella direzione sbagliata”
“Quando guardo davvero in me stesso, alla mia vita, per quel che è, ciò che voglio davvero è non avere nulla. Un letto vuoto e pulito”
“Ma lui aveva capito immediatamente che lei era per lui, che lei aveva qualcosa in comune con lui, lei com’era veramente o sapeva essere o avrebbe potuto essere”
“Quando ti vedo, mi sembra che solo tu sia viva e tutto il resto scompare”.
Soren Kierkegaard “Diario del seduttore” BUR euro 4,99
[trama pubblicata il 16 febbraio 2008]
Qui la scrittura si fa difficile, non per il testo, quanto per il contesto. E qui l’opera viene pubblicata sotto uno dei tanti pseudonimi. Il Diario è estrapolato dal più ampio e articolato “Enten/Eller” e non sono sicuro della correttezza di questa estrapolazione. Certo, un po’ di straniamento mi hanno fatto quelle lettere del seduttore firmate Giovanni. Il percorso sembra semplice, il seduttore seduce e vince, la fanciulla è presa nella rete e soffre. Ma… "Il diario del seduttore", pubblicato da Kierkegaard nel 1843, mette infatti in scena l'astuto ed elegante gioco estetico del seduttore che conquista la sua preda incantandola con le armi dello spirito. Si tratta di una figura demoniaca, che arriva a possedere la donna, rapita dalla musica ammaliante della sua arte, per poi abbandonarla in una logorante disperazione. Tre sono i possibili modi fondamentali di vivere e di concepire la vita, secondo Kierkegaard: quello estetico, simboleggiato da don Giovanni, che il filosofo presenta come protagonista del Diario di un seduttore, quello etico, simboleggiato dal «marito fedele», e quello religioso, simboleggiato da Abramo, il personaggio biblico. Questi tre «modelli» sono in irriducibile alternativa tra di loro; si escludono vicendevolmente; sicché il terzo non costituisce un superamento dei due precedenti. Il passaggio, possibile ma non necessario, dall'uno all'altro implica, per Kierkegaard, sempre una radicale rottura, un salto, un capovolgimento di mentalità. Nello stadio estetico l'uomo conforma la sua esistenza secondo il principio di godersi la vita; il che comporta un vivere permanentemente nel presente, nell'attimo. Ma, secondo Kierkegaard, vivendo momento per momento l'uomo non trova mai in sé una sua propria identità, sicché s'insinua il sentimento dell'inadeguatezza del suo modo di vivere; ossia, s'insinua la noia che apre la porta alla disperazione; meglio, alla consapevolezza della sua disperazione (infatti il suo legarsi all'attimo, il suo incessante passaggio da piacere a piacere, non è che inconsapevole disperazione); e questa consapevolezza costituisce la condizione primaria per l'insorgenza del bisogno di «cambiar vita», di una vita diversa, anzi di segno opposto, e dell'effettivo salto nello stadio etico.
Khaled Hosseini “Mille splendidi soli” Piemme s.p. (regalo di Mina)
[trama pubblicata il 14 dicembre 2008]
Meglio del primo, di cui parlai (e male) più di un anno fa. Anche se rimane la sensazione: questo è l’Afghanistan visto da dove? Da un’America lontana? O… Storia di donne raccontata da un uomo (e questo spesso lascia limiti irrisolti), parla di Miriam e di Laila. La prima, figlia bastarda di un ricco uomo di Herat, sarà la prima sposa di un afghano di Kabul che per avere figli poi sposerà Laila, nata insieme alla rivoluzione dei talebani del 1978. E quello che poteva diventare un conflitto diventa un rapporto vero, che le renderà sorelle e che alla fine cambierà il corso delle loro vite e di quelle dei loro discendenti. Esce con forza l’amore per la famiglia che porta a fare gesti inauditi. Ma esce anche tutto l’orrore di anni e anni di repressione ed oscurantismo. Ripeto, si legge, commuove (tanti i tasti di facile sommovimento interiore), ma non entra nel problema. Descrizione esterna, esteriore, di chi, ben o male a 15 anni se ne va in California. Dove certo si laurea, diventa medico ed altre americane amenità. Ma che solo da poco più di dieci anni decide di ripensare alla sua terra d’origine. Ne sono rimasto perplesso.
Arthur Golden “Memorie di una Geisha” TEA euro 10 (in realtà, scontato euro 8)
[trama pubblicata il 17 gennaio 2010]
Artificioso, come un bel fil americano degli anni ’30. Cioè, non c’entra molto né con il Giappone né con le Geishe. Partendo da questi dati, un libro discretamente ben scritto, con una trama, appunto, da film anni ’30: bimba strappata alla famiglia, avviata a fare la geisha, entra in conflitto con la Geisha ben voluta dalla casa di Geishe dove vive, viene aiutata da un’altra Geisha, vince la battaglia, diventa una geisha ricercata e moderatamente ben voluta, forse trova l’amore, e finisce la sua vita a gestire una casa del tè a New York. La storia è ovviamente ben scritta, sicuramente si è anche basata su informazioni (di prima o seconda mano) sul mondo delle Geishe che un po’ ne adombrano il modo di vivere, soprattutto nel periodo precedente l’ultima guerra, là dove il Giappone era ancora avvolto nei suoi misteri imperiali. Ma si buttano là alcune ombre che lasciano il dubbio: realtà o effettacci? La Geisha è un’artista raffinata o una prostituta di alto profilo? La verginità veniva veramente venduta al miglior offerente? E via di questo passo. Certo, la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Golden con una Geisha che lo ha accusato di aver falsato le sue memorie, non ha certo favorito a rendere il libro una sorta di “vita vissuta” piuttosto che un parto della fantasia. Io propendo per la seconda versione, e mi domando come sarebbe un libro di Geishe scritto da giapponesi (uomini o donne). Ed è una domanda difficile perché quello è un mondo con una tipologia di testa che non riesco ad incontrare (ne incontro solo la pancia, nel senso che torno sempre con piacere a gustare sushi e sashimi). Mi ricordo le decine (al massimo) di film giapponesi “puri” che ho visto e che (Kurosawa a parte) non è che mi abbiamo poi coinvolto gran che.
“A volte credo che le cose che ricordo siano più reali di quelle che vedo” (562)
“Si era staccato da me … con la stessa naturalezza con cui le foglie cadono dagli alberi. … Anche ora che lui non c’è più, l’ho ancora con me, nella ricchezza dei miei ricordi” (563)
David Grossman “A un cerbiatto somiglia il mio amore” Mondadori s.p. (regalo di Alessandra)
[trama pubblicata il 7 febbraio 2010]
Quanto tempo ho impiegato a leggere questa megagalattica palla! Veramente poi ha anche dei bei momenti, ma è faticoso: faticosa la scrittura, faticosa la trama, faticoso il sovra testo. La trama in sé è anche linearmente raccontabile: si inizia in Israele, durante la guerra dei Sei Giorni (cfr. Mahfuz). Avram, Orah e Ilan, sedicenni, sono ricoverati (per qualche ignota malattia) nel reparto di isolamento di un ospedale di Gerusalemme. I tre ragazzi si uniscono in un'amicizia che si trasformerà, molto tempo dopo, nell'amore e nel matrimonio tra Orah e Ilan. Dopo trentasei anni, Orah è una donna separata, madre di due figli, Adam e Ofer. Quest'ultimo, militare di leva, accetta di partecipare a un'incursione in Cisgiordania. Preda di un oscuro presentimento, Orah decide di abbandonare tutto e partire, per non essere presente quando gli ufficiali dell'esercito verranno a darle la notizia della morte del figlio. Ad accompagnare la donna c'è Avram, ricomparso nella sua vita dopo più di un ventennio. Il loro viaggio diventa occasione di riflessione e di rimpianto, ma anche di gioia e tenera rievocazione. Fino a che arriverà il momento di tornare a fare i conti con il presente che, tutt'intorno, preme inesorabile. Questa la trama visibile, perché poi le quasi mille pagine si ingarbugliano di mille rivoli e contorcimenti, a volte funzionali a volte inutilmente astrusi, per cui leggevo e rileggevo le pagine per capire che volesse dire. Questa la fatica della scrittura, che già ricordavo in “Vedi alla voce amore” letto tanti e tanti anni fa, ma tanti che quasi mi ero fortunatamente scordato di come mi facesse fatica. Quindi non sorprende se un dono del Natale 08 sia stato terminato solo un anno dopo… Una scrittura, ad esempio, che non prevede parlato, e quando si parla si riporta come flusso di pensiero, senza segni di scrittura, lasciando a mezzo se è vero dialogo o ricordo dello stesso. Ed alla fine, non ultima, la fatica del sovra testo, visto che il libro esce poco tempo dopo la morte in una scaramuccia usuale in quel di Israele di uno dei figli di Grossman. Ovvio, nessuno negherà mai il dolore di un genitore alla perdita di un figlio. Ed ogni genitore cercherà di elaborarla nei modi a lui usuali, nel silenzio, nel pianto, nell’esternazione, nella scrittura. Comprensibile. Ma qui si aspetta ad ogni rigo, ad ogni pagina che questo orrore salti fuori. E non avviene. Mai. Alla fine tutto sembra essere un lungo pianto ebraico di fronte al Muro di Gerusalemme, con quegli ondeggiamenti rituali che intontiscono che li fa e chi li guarda, fungendo un po’ da mantra un po’ da training autogeno. Ma tutto ciò rimane nella mente sicuramente mia e forse di Grossman. Quello che resta sulla pagina è un inutile tormento di centinaia e centinaia di pagine, dove non riesco ad amare gli attori del dramma, ed aspetto ad ogni piè sospinto che qualcuno me ne spieghi le movenze. Ma non arriva. Io chiudo il libro. Ripenso ai miei viaggi in Israele e rimango con la stessa attonita sensazione: non si riuscirà mai ad uscirne in modo decente. 
“Sei proprio un coglione, giochi con i sentimenti degli altri, ecco quello che fai” (65)
“Sognatore, malato d’amore, di sesso. Si prendeva una cotta per qualunque ragazza gli passasse nelle vicinanze, non importava chi fosse, bastava che fosse femmina e lui come minimo avrebbe fatto di lei Brigitte Bardot.” (68)
“Davvero, chi immaginava che facesse così bene scrivere?” (372)
“Ricordati soltanto che a volte una cattiva notizia non è che una buona notizia che è stata fraintesa, e ricordati anche che quella che era una cattiva notizia, può tramutarsi in buona col tempo, forse la migliore” (401)
“Non capisco come si può scegliere il nome a un figlio, prendere una decisione tanto cruciale…” (408)
“Non c’è limite alla fantasia dei guai” (539)
“Forse è questo che rimpiango: non aver provato amore per una donna. Non averne incontrata una che fosse un’ancora per me, alla quale poter dare tutto me stesso” (570)
“Non mi hai mai detto… che mi ami. Una ragazza ha bisogno di sentirselo dire... Ma tu sei avaro, al massimo dici ‘amo il tuo corpo’, ‘ mi piace stare con te’, ‘mi piace il tuo sedere’” (584-5)
“Lei gli chiedeva tanto poco, e nemmeno quello riusciva a darle” (586)
Edward M. Forster “Camera con vista” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 12 febbraio 2012]
Che bel meccanismo! Un piccolo orologio a cucù che inizia a suonare ma stona. E l’orologiaio avvita pian pianino tutte le viti giuste, ed alla fine il cuculo riprende a suonare. Molto, ma molto intonato! (Inciso: orologio a cucù perché dall’inglese cuckoo che significa cuculo). Forster non è ancora trentenne, ed è al suo terzo romanzo. Qui, però, spinto da tutta una serie di moti interiori, riesce a costruire quel meccanismo perfetto che dicevo prima. Come un’azione teatrale in due scene: la prima a Firenze e la seconda nella campagna inglese. Con personaggi che assurgono ad archetipi del loro stato: signorine inglesi in giro per il mondo (e signorine di vario genere, giovani e anziane), bei giovani con parenti al seguito a prendersi il sole dell’Italia (e le sue bellezze), canonici di varia natura, maturi giovanotti medioevali, mamme preoccupate più delle dalie che dei pensieri filiali, ed altre amenità. Il personaggio centrale è femminile, Miss Lucy, che attraverso varie tappe ed agnizioni riesce finalmente a capire quale sia la sua propria volontà. Che le donne, nel 1908, erano ancora prese e stritolate dai meccanismi delle convenzioni. Così come lo era preso e stritolato il nostro Edward, che cerca di rompere una forte lancia in questo romanzo per dire che non si deve nascondere il proprio essere. Questo verrà, dovrà venire fuori. Certo non è facile per il nostro scrittore gay, ma non lo è neanche per la nostra Lucy. A Firenze avviene il fatale incontro con il buon George. Ma lei è ancora piena delle convenzioni mondane della pseudo - aristocrazia inglese. E lui non fa nulla per negare il suo anticonformismo. Pensate che è convinto che le donne possano e debbano pensare con la loro testa! Che assurdità. Ma in Piazza della Signoria, Lucy è turbata da una scena violenta. E George la soccorre. E nella gita a Fiesole, trovatisi soli, George la bacia. Lucy non capisce nulla e fugge. Prima a Roma. Poi a casa, dove si svolge il secondo atto della storia. Poi nelle braccia del fatuo Cecil, che accetta di sposare. Qui Forster dà il meglio di sé. Riesce a dipingerci Cecil Vyse come archetipo di tutti gli spocchiosi aristocratici londinesi. Che pensano i campagnoli siano gente da educare. Che deve insegnare a Lucy a pensare con la sua testa (sua di Cecil ovviamente). Che odia sudare, e si rifiuta di fare il quarto nel doppio di tennis. Dicevo degli archetipi. Ed allora riprendiamoli. Come i due sacerdoti: il bonario Beebe, sempre in mezzo agli avvenimenti cruciali, che pensa il celibato sia meglio del matrimonio, e l’arcigno Eager, che cerca di mettere in cattiva luce George ed il padre in quanto … troppo liberali. Ci sono le signorine Alan, sorelle zitelle attempate, che però, timorose e lagnose, alla fine visiteranno l’Italia, poi la Grecia, e forse faranno il giro del mondo. Qui Forster ci dà dei tocchi di verismo su come affrontino i viaggi gli inglesi dell’epoca che sono di un’ironia deliziosa. E c’è la madre di Lucy, preoccupata dell’apparenza e sorda alla sostanza. Una donna per cui, se si viene invitati ad un tè bisogna ricambiare l’invito entro dieci giorni, altrimenti è scortese. E se piove a Londra, meglio infilarsi in un negozio di vestiti che in un museo. Su tutta questa gente di contorno, poi, brilla la stella della cugina Charlotte. Antipatica, sempre fuori misura. Ma l’unica che ha capito fin dall’inizio che poteva nascere del tenero tra George e Lucy. E sembra fare di tutto per soffocarlo. Ma poi ci accorgiamo che è vero il contrario, e saranno le sue assurde manovre che, forse involontariamente, porteranno alla vera conclusione. Quella che tutti ci aspettiamo. Quella per cui facciamo il tifo, cercando di spingere, noi lettori, la bella Lucy a ragionare ed a guardarsi dentro. Lo farà fino in fondo? Riuscirà a mollare il medioevale Cecil per il moderno George? Anche chi non ha letto il libro, penso lo sappia già se ha visto il bellissimo film di James Ivory con Helena Bonham Carter nella parte di Lucy e Julian Sands in quella di George. Lo ricordo ancora, il film, ed è stata una bella sensazione leggere vent’anni dopo il libro e trovarne una sostanziale sovrapposizione. Sia Ivory che Forster ci vogliono portare a guardare dentro di noi, ed a smettere di costruire barriere. Solo quando le abbatteremo riusciremo a percepire la vita che ci circonda ed a vivere la nostra vita. Ben scritto Edward! Purtroppo non ben stampato, come dimostrano le due seguenti perle, “Lucy e sua madre fecero rompere in silenzio” e “Chiese George immobilizzandola coi gemiti”. Dove invece dovevamo leggere compere e gomiti. Ah, dove sono finiti i correttori di bozze!
“Voi siete giovani, miei cari, e i giovani, nonostante tutta la loro intelligenza, nonostante tutti i libri che leggono, non possono avere idea di cosa voglia dire invecchiare.” (149)
“È facile raccontare la vita, difficile viverla.” (151)
Jennifer Egan “Il tempo è un bastardo” Minimum Fax euro 18
[trama pubblicata il 23 agosto 2015]
Mi incuriosì per le citazioni libropeutiche, e per aver vinto il Premio Pulitzer nel 2011. Tanto che decisi di comperarlo senza aspettare edizioni economiche o sconti. Un piccolo inciso sul Pulitzer, che è eminentemente un premio giornalistico, ma che, come sottoprodotto, ha anche dei premi che variano dalla letteratura all’arte ed alla musica; e nella narrativa viene assegnato ad un'opera di un autore statunitense, che tratti in preferenza della vita americana. Chiuso l’inciso veniamo ora al libro, che una volta chiuso, vorrei tornare ad aprire, vorrei tornare ad immergermi nella vita di Benny, di Sasha, di Dolly, e di tutti i personaggi (anche di Lincoln, perché no) di cui la fertile mente di Jennifer Egan ha popolato questo spazio. Un libro magistrale, forse non semplicissimo (pieno di nomi, di rimandi, ed anche di musica, con citazioni neanche tanto scontate). Ma sicuramente un libro che non mi si scollava di dosso. Che inizia tra l’altro con una difficile traduzione del titolo. In italiano ci si rifà al tempo chiamandolo bastardo, come in spagnolo, dove lo si chiama canaglia. Mentre in francese si cerca di svelare un po’ di più chiedendosi nel titolo che cosa abbiamo fatto dei nostri sogni. In inglese, dicevo, è più complicato. Si parla di una visita di una “Goon Squad”, termine che ha origine nella metà degli anni '90, dove indica gruppi di teppistelli che venivano assoldati per intimidire, e presto passato ad indicare, nel lato violento, una banda criminale, e nel lato “leggero” un’accolita di teppisti. La Egan lo usa per indicare il nocciolo duro da cui si dipartono le storie, una specie di band rock degli anni ’70 in quel di San Francisco, con il suo bassista-manager Bennie (e quanto c’è in lui del grande Bill Laswell?), il suo chitarrista-fenomeno Scotty, il batterista Bosco e le groupie (Jocelyn, Rhea e Alice). Il bello, ed il difficile, della storia è che non seguiamo la band in un percorso temporale sincrono, ma ci vengono sfornati 13 capitoli, che possono quasi leggersi come tredici racconti (ognuno ha un suo sviluppo interno ed una sua coesione), ma che sono legati perché nei racconti entrano ed escono i personaggi della band, ma anche quelli a loro legati, in una specie di Girotondo alla Schnitzler, che, andando su e giù nel tempo, dai mitici anni ’70 a qualche anno del prossimo futuro (ma forse del nostro presente) cerca di sviluppare il tema che ad un certo punto dice uno dei personaggi: come siamo passati da A a B? Cioè “com’è successo che da rockstar io sia diventato un ciccione che nessuno s’incula?”. Da qui capite il riferimento del titolo francese. Uno degli assi portanti, che parte dalla band di cui sopra, sarà Bennie, pieno di idee verso la nuova musica che, partendo dal rock puro degli anni ’70 passa per le propaggini estreme, tra canzoni d’impegno e suoni duri (forse heavy metal, forse altro). E per le sue capacità di talent e di manager. L’incontro che farà maturare Bennie è con il divo rock Lou, emblema di tutto il meglio ed il peggio delle star. Sempre pieno di soldi e droga, con famiglie che costruisce e sfascia. E con le storie, cui cambierà la vita, con Jocelyn e, forse, con Rhea. E mentre si imbastiscono i primi tradimenti all’odore di fumo pesante (con Bennie che non si dichiara ad Alice, così che lei si mette con Scotty), per riscattare la sua incapacità di suonare e di amare, Bennie fonda una casa discografica, che avrà un enorme successo nel lanciare nuovi talenti. Qui si inserisce il secondo volano della storia, Sasha, che dopo una gioventù sbandata, trova il suo posto come segretaria di Bennie, raddrizzando le storie che a lui cominciano ad andare storte. Anche se di Sasha sappiamo di più, per una lunga seduta di analisi, in cui scopriamo la sua pulsione cleptomane, ed il breve amore per il giovane e belloccio Alex. Bennie, fatta fortuna, con la moglie Stephanie si sposta nelle zone “in” di New York, dove Stephanie verrà a poco a poco risucchiata e corrotta dallo star system, e dai nuovi ricchi repubblicani. Mentre tentava ancora di avere una sua strada come giornalista al servizio di Dolly, portandosi appresso il fratello giornalista e fuori di testa, che viene condannato a 5 anni per tentato stupro al Central Park di un’attricetta che sta intervistando. La vita di Bennie va a rotoli quando si rifiuta di cedere al mercato (mitica la scena in cui al consiglio d’amministrazione che vuole portare la casa discografica verso facili successi porta a colazione della merda, dicendo “Volete vendere merda? Allora mangiate merda!”), e viene licenziato. Stephanie lo lascia, rifacendosi una vita con gli alimenti, perché nel frattempo lascia anche Dolly, la cui agenzia di promoter va a rotoli per un party sbagliato. Sasha sparisce e la troviamo anni dopo, sposata con Drew, un chirurgo dai buoni sentimenti, vivere ai margini di un deserto con la brillante figlia Alison, maniaca di Power Point (e molto bello è il capitolo fatto tutto a slide) ed il secondo figlio quasi autistico Lincoln, che cerca nei dischi le pause di silenzio (e ne fa una disamina acuta e coinvolgente analizzando David Bowie ed i Led Zeppelin, i Police e Jimi Hendrix). Dolly cerca di risalire la china facendo la promoter per un generale sudamericano in odore di massacri civili, coinvolgendo in un servizio fotografico l’attricetta dello stupro al Central Park. Ma anche questo andrà a rotoli, e lei si ritirerà in campagna a fare torte artigianali. Bennie tocca il fondo, poi trova nuovo sprint in un nuovo matrimonio, e nell’idea (vincente) di lanciare un concerto live del vecchio Scotty, rimasto sempre nell’ombra, ma sempre fedele a sé stesso. Anche se ormai imbolsito (come da citazione di cui sopra). E per il lancio usa come elemento di spinta Lulu, la figlia di Dolly che riesce a convincere Scotty a salire sul palco, e Alex (l’amore di Sasha sempre di cui sopra), anche lui sposato e con figlio piccolo. Ad un certo punto c’è anche una riunione di (quasi) tutti a casa di Lou, per assisterne gli ultimi istanti di vita. Con gli echi di chi ricordava la stessa casa, trenta anni prima, piena di tutti altri fermenti ed altri suoni. Io ho ricostruito la storia lineare perché mi piaceva fare così, ma come detto, la scrittrice riesce a farne una storia che va su e giù nel tempo, durante la quale siamo noi a dover ricostruire i pezzi saltati o accennati. Perché invece lei, nella sua circolarità, inizia con la mini-storia di Sasha e Alex, e finisce con Benny e Alex che vanno alla vecchia casa di Sasha, senza sapere della di lei nuova vita. Succede anche molto altro che tralascio per brevità e curiosità. Ribadendo il piacere della lettura, gli stimoli cultural-musicali che propone. E ritornando alla domanda su come abbiamo fatto, anche noi, a passare da quell’A che eravamo al nostro B attuale. Domandandoci anche com’è che, dentro, spesso, non ci sentiamo diversi, anche se tutto intorno a noi ci dice il contrario. Una bella lettura assolutamente da consigliare (e non preoccupatevi di ricostruire le storie come fa il vostro amico maniaco ma godetevele e rimanete sempre su quella domanda). Buona lettura.
John Irving “Hotel New Hampshire” Bompiani euro 10
[trama del14 marzo 2016]
Secondo le dottoresse dei libri, questo romanzo potrebbe aiutare ad avvicinare il vostro partner (femmina) alla lettura. Ora, fatto salvo che è un buon libro, pieno di invenzioni, lo ritengo tuttavia un libro difficile, per entrare a pieno nello spirito di una lettrice neofita. Irving è sempre stato, nelle prove che ho letto (e soprattutto ne “Il mondo secondo Garp”), uno scrittore pieno di immagini, ma di immagini non sempre facilmente decifrabili. In Garp, ricordo le parossistiche scene proto-femministe, la sessualità come lussuria, la morte del secondo figlio di Garp. Ma qui parliamo dell’Hotel e non di Garp, un libro scritto tre anni dopo il precedente. Anche qui, forse in maniera più palese, c’è il percorso di crescita. Nella fattispecie la crescita, corale e personale, della famiglia Berry, dall’incontro tra Win e la futura moglie, sino ai quarant’anni dei figli maggiori. Cioè dal ’39 al ’80, circa (così come Garp si estendeva dal ’42 al ’75). L’impronta a tutta la famiglia viene data dal padre, Win, un estremo sognatore, che si butta a capofitto nelle imprese più folli e disperate, uscendone spesso malconcio, ma sempre pronto a ripartire. Per pagarsi l’Università si mette a fare il cameriere in un albergo a Dairy nel New Hampshire, dove incontra la futura moglie, anche lei lavorante nell’albergo e Freud, un saltimbanco austriaco che gira l’America con un sidecar ed un’orsa. Decide allora di comprare l’orsa, di sposare la donna, e di iniziare a girare anche lui l’America per fare soldi. Non ne farà molti, ma ogni volta che torna a casa mette incinta la moglie, che partorisce in tre anni Frank, Franny e John (lo scrittore che narra la storia). A questo punto, approfittando della vendita di una ex-scuola femminile, decide di indebitarsi, la compra e la trasforma in albergo, l’hotel New Hampshire. Mentre fervono i preparativi per l’albergo, muore l’orsa, sostituita dal cane Sorrow. Poi a distanza di qualche anno nascono due nuovi figli: Lilly, che sarà affetta da nanismo, ed Egg, mago dei travestimenti ed un po’ duro d’orecchio. L’adolescenza dei tre fratelli Berry prosegue tra alterne vicende: Frank si scopre omosessuale, e ne vivrà coscientemente la strada, anche se non sempre felicemente, Franny è la più matura di tutti, ed anche la più avvenente, John, per distogliersi dal suo morboso amore verso Franny si dedicherà con successo al sollevamento pesi. La prima svolta avviene verso la metà degli anni ’50, quando il capitano della squadra di football e due suoi amici violentano Franny, che impiegherà molti anni a riprendersi (quello della violenza sulle donne è un altro dei temi cardine di Irving). Muore Sorrow di vecchiaia, e Frank, per consolare la sorella, lo impaglia. Ma lo nasconde nell’armadio del nonno, che, aprendolo inavvertitamente, e vedendo il cane che suppone morto, viene preso da un infarto e muore lui stesso. Pochi anni dopo, Win riceve una lettera da Freud, tornato a Vienna, che lo invita nella sua città per mettere in piedi un altro albergo. Ovviamente il sognatore non si tira indietro, vende tutto e tutti, e comincia la nuova avventura. Come spesso nei libri di Irving, qui il destino ci mette una zampa: Win ed i quattro fratelli maggiori partono ed arrivano a Vienna, la Mamma ed Egg partono che un secondo aereo che si inabissa nell’Oceano. Questo è appunto un altro tema forte dello scrittore: la perdita, la sua elaborazione e la successiva ricostruzione. Il periodo viennese viene vissuto dalla famiglia Berry come altro momento di crescita, anche se inserito in un contesto demenziale. L’albergo ospita al secondo piano quattro simpatiche prostitute ed all’ultimo un gruppo di fatiscenti “radicali”, che oggi chiameremo terroristi e che impiegheranno i sette anni viennesi dei Berry per costruire una bomba ed effettuare un attentato all’Opera di Vienna. In questi anni austriaci, si radicalizzano i sentimenti dei nostri: l’omosessualità discreta di Frank, la difficoltà di tornare alla normalità di Franny (che troverà solo tra le braccia dell’accogliente Suzie, che si aggira per l’albergo vestita da … orso), le impossibilità sessuali di John, che, seppur aveva passato la soglia della verginità in America, non riesce a darne sfogo, continuando ad essere ossessionato dalla sorella, la crescita (morale non fisica) di Lilly, che, elaborando i suoi lutti, scrive un libro, che nel futuro, campione di incassi e trasformato anche in film (come succede a tutti i migliori romanzi di Irving) darà la tranquillità economica alla famiglia. Dopo i sette anni di crescita, tra alti e bassi, i radicali costringono i Berry ad una scelta. Diventeranno eroi salvando l’Opera, ma Freud morirà nello scoppio e Win diverrà cieco. Però avranno i soldi per tornare in America dove si operano le ultime vicissitudini dei nostri paladini. Lilly, pur cercando di scrivere, non riesce a crescere, e si butta dalla finestra dell’albergo. Prima però i fratelli Berry riescono a vendicarsi dello stupratore di Franny, e la stessa decide di salvare sé stessa ed il fratello attraverso una cura di sesso che dura un tempo lunghissimo, lasciandoli ad un futuro che finalmente libera entrambi dalla perversa attrazione. Il mesto, ma tutto sommato allegro, finale, vede i Berry comperare un nuovo albergo, anche se faranno solo finta, tanto Win è cieco. Ma se lo possono permettere con i soldi di Lilly. Suzie trasferitasi in America anche lei si dichiara ed è accettata da John, che vivrà con lei il resto della sua vita. Franny sposa un ex-atleta di colore di cui era da sempre innamorata (dai tempi del liceo direi). E via narrando. Ci vorrebbero altrettante pagine per narrare tutti i risvolti immaginati da Irving per la trama, i trabocchetti, i rimandi, i giochi di parole. Ed altrettanto ci sarebbe da dire sui temi quasi autobiografici del testo: John diventa un campione di sollevamento pesi e Irving (anche lui John) era una campione di lotta libera all’Università; sia Irving che i Berry (ma anche i Garp) per un certo periodo della loro vita si trasferiscono a Vienna. Ma tutte queste ed altre astuzie letterarie e di storie le lascio a voi amati lettori, perché, nonostante appunto l’intricata gestione delle storie, è un bel libro da scorrere, anche lentamente se vogliamo. Io vi riporto solo un piccolo brano che John dedica al fratello quando questi compie quaranta anni. Una poesia del poeta americano Donald Justice, a me poco noto, ma mi si dice autore di belle righe da meditare. Come queste: Men at forty / Learn to close softly / The doors to rooms they will not be / Coming back to.  [Gli uomini a quarant’anni / imparano a chiudere piano / le porte di stanze nelle quali / non torneranno più]. Credo che al fine non sia il migliore tra i libri di Irving (che tutti indicano ne “Le regole della Casa del Sidro”, che non ho letto), ma un libro che va in ogni caso letto, e ben ponderato.
“Leggere ad alta voce per qualcuno è uno dei piaceri di questo mondo.” (415)

Conclusioni


Devo dire che, personalmente, mi basta molto meno per appassionarmi alla lettura. E trovo anche da analizzare il fatto che, almeno secondo le due signore, io legga molti più libri “da femmine” che “da maschi”. Lasciamo perdere, che mi sembrano generalizzazioni sciocche. Voglio solo dire che, dai ad un ragazzo di dodici anni Dumas o Verne e sarà conquistato. O dai ad una ragazza di pari età una Jane Austin. Per tutto il resto, per far appassionare anche i lettori adulti, personalmente propongo il bel libro della Egan. Uno libro che vale la pena di capire.

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