Terminiamo allora questa meravigliosa estate
con un ultimo viaggio in nero, rilassante, coinvolgente, con qualche pensiero
sparso, e tanta carica da portare con noi. Partiamo da un America ammantata di
ebraismo, per scivolare sino alla nostra amata e sempre frequentata India.
Torniamo in Europa, puntando al Nord norvegese, e concludiamo in Argentina,
dove ci aspetta (ma quando) l’immensa Patagonia (anche se per ora ci
accontentiamo di Buenos Aires). È anche un discorso quasi tutto al femminile,
con la Kellerman su tutte.
Faye Kellerman “Il bagno rituale” Repubblica MondoNoir 8 euro 7,90
[A: 01/09/2014– I: 03/02/2016
– T: 05/02/2016] - &&&&
[tit. or.: The Ritual Bath; ling. or.: inglese; pagine: 316; anno 1986]
Strano
il percorso letterario in Italia di questa scrittrice considerata in America
una dei punti di forze del “giallo ebraico”. Faye Kellerman, mia coetanea, è
un’ebrea ortodossa, che si laurea in Matematica a poco più di venti anni, e poi
in “Chirurgia Dentaria” poco anni dopo (follie americane). Sposa lo psicologo
Jonathan, che poco dopo comincerà a scrivere una serie di gialli con
protagonista lo psicologo infantile Alex Delaware. Quasi contemporaneamente,
anche Faye comincia a scrivere polizieschi, che hanno una forte connotazione
ebraica ortodossa, benché ovviamente ambientati in America, ed in particolare
nella loro città, Los Angeles. Questo è il primo di 22 libri scritti in questo
filone, e, come vedete sopra, è stato pubblicato la prima volta nel 1986.
Ebbene, in Italia arriverà solo nel 2010, per merito della non certo famosa
“Cooper editore”. Solo nel 2014, Repubblica pensa di inserire questo libro
nella collana dei suoi “neri in giro per il mondo”. Opera meritoria, che mi ha
permesso di conoscere un’autrice che ha una scrittura interessante, ed un’altrettanta
interessante ambientazione. Che cominciamo a conoscere da questo primo libro
delle sue avventure “gialle”. Certo, un libro che ha qualche momento di pausa,
dovuto al fatto che si stanno introducendo situazioni e personaggi. Tuttavia,
sia per le prime sia per i secondi, Faye ci descrive e ci fa partecipi di
questi mondi inseriti nel nostro quotidiano, e che molti tendono a non vedere.
La sua ortodossia, inoltre, spinge l’autrice ad una rigorosità che è senz’altro
foriera di domande ed approfondimento, per una persona curiosa come me. Ecco
allora che ci immergiamo nell’atmosfera di una yeshivah americana. Anzi, per
essere più precisi una kellal (luogo di studio della Torah aperto anche alle
persone sposate). Come tutti i luoghi ortodossi, ha quindi bisogno di una
mikvah, luogo di abluzioni rituali, in particolare usato dalle donne per
purificarsi alla fine del ciclo mestruale e poter tornare a giacere con i
legittimi sposi. Rina è la custode del bagno, oltre ad insegnare materie
scientifiche nella scuola. Ed è lì quasi per carità, essendo vedova da poco più
di un anno del brillante Yitzhak, morto a 27 anni per un tumore al cervello.
L’azione si dipana a partire dall’aggressione ad una donna appena uscita dalla
mikvah. Dell’indagine se ne occupa Peter Decker, onesto poliziotto
californiano, divorziato da non molto, padre di una Cinthia sedicenne. Tra
Peter e Rina scatta immediatamente una scintilla. Che autori meno attenti
avrebbero trattato banalmente, magari facendo dirigere i passi dei nostri due,
verso qualche luogo deputato ad effusioni intime. Faye, invece, ci fa partecipi
di tutto il percorso che una donna ebrea ortodossa deve fare e fa nel
rapportarsi all’altro sesso. Non solo, anche nel rapportarsi ad un goy (un non
ebreo). Problemi di lingua, problemi di costumi alimentari, e tanti, tanti
altri. Senza nessun giudizio esterno, proviamo a seguire con rispetto il
percorso di Peter e Rina, che capiamo, prima o poi, essere destinati a
convergere. I loro incontri, gli incontri tra i figli di lei e di lui, gli
sguardi delle donne ebree verso questa poveRina (ah, ah, ah), la scoperta di
lui di essere ebreo, benché non praticante (Peter è stato adottato, ma il padre
e soprattutto la madre biologica erano ebrei; così come ebrea era la prima
moglie di Peter, tanto che anche la figlia è ebrea; per chi non lo sapesse, l'appartenenza
al gruppo viene ereditata matrilinearmente). Antropologicamente, questa parte è
interessante, anche perché viene collocata nell’America odierna. Quindi ne
vediamo anche i contrasti (sono passati trenta anni, ma le considerazioni sono
tuttora valide). Possiamo solo obiettare, senza critiche, che ci sarebbe da
fare un percorso analogo verso altre diverse minorità americane, in primis
l’arabofono, ma anche la singalese, o la vietnamita (ricordo che la più
popolosa città di etnia vietnamita si trova in … Texas). Per non parlare,
ovviamente, dei neri, dove si aprirebbe un mondo di discussione. Tornando al
libro, dopo il primo assalto alla mikvah, vediamo la kellal oggetto di atti vandalici,
Rina assalita da una gang di bravacci ad un supermercato, finendo con i due
episodi clou: viene assoldata una vigilantes negra per “sicurare” il posto e
sempre più loschi si mostrano due colleghi di Rina. Purtroppo la vigilantes
viene uccisa, e, come ci aspettava, Peter decifra gli attacchi alla mikvah come
un tentativo contro la bella Rina. Come inoltre, si poteva desumere dal
contesto, Peter trova chi ha ucciso la donna di colore, e chi sta attentando all’onore
della (forse) sua (in futuro) donna. La trama gialla è essenziale, facile anche
se non banale. Il contesto è più interessante, ben descritto, ed ovviamente
partecipato dal fatto che, come detto, la stessa Faye è ortodossa. Un solo
appunto riguarda l’incongruenza tra pagina 135 e 136. Nella prima, i genitori
di Rina, che stanno facendo i baby-sitter ai nipoti mentre Rina e Peter sono ad
un concerto, si lamentano che Rina stessa sia arrivata alle 22:45, poi nella
seguente la stessa nonna recrimina sul fatto che i nipoti siano andati a letto
alle 23:30. Ma se sono le 22:45 come fa a recriminare sul sonno dei nipotini?
Qualche editor dovrebbe leggere meglio i libri. Comunque, sono in attesa di
capire come si evolverà la storia di Rina e Peter, per ora, alla fine di questo
libro, solo intensamente amici.
Vikas Swarup “I sei sospetti” Repubblica MondoNoir 2 euro 7,90
[A: 14/07/2014– I: 10/02/2016
– T: 13/02/2016] - &&& +
[tit. or.: Six Suspects; ling. or.: inglese; pagine: 519; anno 2008]
Terza
lettura della collana sul Giro del Mondo in Nero, e devo dire, pur con qualche
riserva, si mantiene ad un buon livello di resa. Anche questo che non è un
“giallo” puro, ma un mega-pastiche in salsa curry, scritto da quel Swarup,
indiano assurto alla notorietà come autore del libro “Le dodici domande”, poi
tradotto nel pluripremiato film da Oscar “The Millionaire”. Il primo appunto da
fare a Swarup è di essere un pochino prolisso, tanto che ad un certo punto
avevo quasi temuto di essermi incagliato. Fortunatamente l’ultima parte del
libro scorre molto e fa recuperare consensi. Secondo appunto, è la struttura
analoga (non uguale né simile) con il suo primo e più fortunato romanzo. Lì
c’erano dodici storie, legate alle dodici domande del quiz, qui abbiamo sei
storie legate ai sei personaggi. E sono talmente approfondite, che ognuna ha
quasi la dignità di un mini-romanzo a sé. D’altra parte, al contrario, è
intrigante la modalità di racconto, dove abbiamo un omicidio ad inizio libro, e
tutto il resto per entrare nella testa dei sei sospettati del crimine. Con una
tecnica che, scusate il parallelo “blasfemo”, rimanda al Kurosawa di
“Rashomon”. Infatti, si parla dell’uccisione di Vicky Rai, un giovane ricco e
corrotto, rampollo di una famiglia molto in vista dell’Uttar Pradesh, già
autore di diversi crimini e sempre assolto. Così come viene assolto dall’aver
ucciso una signorina, Ruby, benché in molti lo avevano visto commettere il
fatto. Durante la festa che Vicky organizza per l’assoluzione, viene colpito a
morte. Il giornalista Arun decide di rivelare la verità scrivendo sul suo
giornale. Da qui parte la descrizione della vita e delle motivazioni dei sei
sospettati del crimine: il burocrate (Mohan Kumar), l’attrice (Shabnam Saxena),
l’americano (Larry Page), l’aborigeno (Eketi), il ladro (Munna Mobile), e il
politico (Jagannath Rai). Kumar, corrotto segretario statale con tanto di
amante, è ora in pensione, e vede il suo potere diminuire di giorno in giorno.
Durante una seduta spiritica viene “posseduto” da uno spirito, e da quel
momento si comporta in modo bipolare: buono da fantasma, cattivo da Kumar.
Quindi lascia l’amante, smette di bere, poi capovolge il tutto, licenzia i suoi
servi. Da buono, manda in malora la ristrutturazione con licenziamenti delle
aziende di Vicky, che lo licenzia. Va alla festa di Vicky pensando, con la
parte buona, che un tale spregevole individuato vada eliminato. Shabnam è
un’attrice con tanti film alle spalle, ma sulla cresta di un’onda da cui può
scivolare. Cosa che infatti fa, ingannata dal suo segretario. Nell’intento si
salvare la sorella Sapna dall’accusa di aver ucciso un uomo, si rivolge a
Vicky, sapendo bene cosa questo comporta per la sua onorabilità. Si reca quindi
alla festa con una pistola nella borsetta. È anche al centro di un raggiro,
quando qualcuno usa una sua foto per circuire il sempliciotto texano,
promettendo un grande matrimonio indiano. Larry Page (conscio anche dei
possibili disguidi dovuti all’omonimia con il fondatore di Google), si reca in
India, capisce ben presto il trucco, viene più volte truffato, si aggira incoscientemente
per il Kashmir, dove ha modo di sventare attentati locali. Alla fine viene
salvato dai Servizi Segreti americani, ma chiede di essere presente alla festa
di Vicky, perché è l’unico posto dove può finalmente incontrare Shabnam. Eketi
viene dalle Andamane, è brutto, basso e pieno di rimedi da stregone per tutte
le situazioni. Parte dalle isole verso il continente per ritrovare un sacro
lingam rubato nell’isola. Attraversa tanti posti che mi hanno fatto risuonare
campane vicine nel tempo: Calcutta, Varanasi con i ghat e gli eunuchi,
l’entroterra del Gange verso la capitale, infine Delhi stessa. S’innamora della
sorellastra di Munna, vittima del disastro di Bhopal, brutta e cieca, ma con un
grande animo. Anche lui è presente alla festa, che l’ultimo possessore del
lingam è proprio Vicky. Munna, ladro di cellulari (da cui il soprannome Mobile)
vive anche lui strampalate vicende, entrando in possesso di una valigia con
milioni di rupie, facendo la bella vita, per poi essere scoperto, e pestato
quasi a morte. Nel periodo aureo, s’innamora, ricambiato, di Ritu sorella di
Vicky, ma all’opposto come carattere e sensibilità. Il pestaggio, poi, avviene
proprio per ordine di Vicky, motivo per cui Munna decide di ucciderlo e di
fuggire con Ritu. In ultimo c’è Jagannath, il corrotto padre di Vicky. Di cui
ha sempre coperto le malefatte, anche perché a capo di una vasta rete di
corruzione, con la quale governa in modo mafioso, l’Uttar Pradesh. Quando il
Primo Ministro lo vuole mettere in disparte, che l’opinione pubblica si sta
sollevando verso tutta questa marea di malaffare, decide di incaricare un
sicario di uccidere il figlio, in modo da riacquistare una verginità politica.
Tutti e sei hanno la possibilità di uccidere Vicky, così come ce l’ha Ritu,
anche se non ha la pistola, ed anche altri personaggi che scopriamo nel
convulso finale. Dove Swarup propone tutta una serie di soluzioni, smontandole
una dopo l’altra, ed arrivando ad un finale che, questo sì, mi ha letteralmente
sorpreso. Motivo appunto di far salire il gradimento del testo. Un altro punto
di interesse è nel guardare l’India sia con gli occhi di Larry che con quelli
di Eketi. Dato che, da punti opposti, sono entrambi due alieni. Swarup ci
presenta comunque un quadro della civiltà indiane pieno di corruzione e
malaffare (cosa che non stentiamo a credere), ma anche con elementi di
speranza, che vengono sempre da dove meno si possa aspettare: il ladruncolo,
che ruba per fame, e che ha una bella redenzione nel finale, e l’aborigeno, che
porta con sé i segreti dell’India millenaria, non ultimo quello di continuare a
parlare con le persone buone, anche dopo la morte. Al solito, quando si
affrontano questi super-volumi indiani, non si riesce mai ad essere troppo
sintetici. Ma in ogni caso, spero di avervi un po’ incuriosito, in modo da
spingervi a leggere questo libro.
Anne Holt “La ricetta dell’assassino” Repubblica MondoNoir 3 euro 7,90
[A: 21/07/2014– I: 14/02/2016
– T: 18/02/2016] - && +
[tit. or.: Uten ekko; ling. or.: norvegese; pagine: 398; anno 2000]
Torniamo
alfine ad una delle due serie della norvegese Anne, la più antica, quella con
protagonista Hanne Wilhelmsen. In genere una buona serie (almeno fino ad ora),
e che dopo qualche anno troverà una convergenza con l’altra, più moderna, di Vik
& Stubø. Ma ne parleremo quando sarà il momento. Qui, comincio con due
lamentele ed una scusa. Prima l’ultima: per una serie di motivi che non stiamo
qui ad analizzare, leggo questa sesta avventura di Hanne, avendo saltato le
precedenti numero 4 e 5. Grande errore, che in quei libri avvengono cose
importanti, che condizionano, anche pesantemente, questo libro, e che ne
rendono la lettura monca. Mancano delle parti, dei sentimenti, delle
descrizioni, e Anne non riesce a colmare questo “buco” come in genere fanno
altri scrittori di produzioni seriali. Ed ora i lamenti: perché far scomparire
(o mantenere solo scritto piccolo piccolo) il nome della co-autrice del libro?
Questo, e “Nella tana dei lupi”, sono stati scritti a quattro mani con Berit
Reiss-Andersen, che però, appunto, misteriosamente non appare esplicitamente
(ed anche su Internet sembra “desaparecida”). E soprattutto, perché modificare
il titolo “Senza eco” in “La ricetta dell’assassino”? Che male vi ha fatto
l’eco? Ovviamente non Umberto. Certo, la tentazione è ghiotta, se il morto di
morte violenta è un cuoco. Ma parlare di ricetta è non solo fuorviante
(infatti, non c’è nessuna ricetta in tutto il libro), ed anche un po’ capzioso,
dove si cerca di dare suggerimenti laddove non c’è di certo bisogno. La storia
gialla è poi risibilmente complicata, ma solo per fini altri, che poi vedremo.
Nello specifico abbiamo un grande cuoco (anzi, uno “chef”), veramente odioso,
trovato morto vicino alla stazione di polizia. Ucciso da un coltello da cucina
giapponese. Sarebbe tuttavia morto in ogni caso, essendo imbottito di una dose letale
di paracetamolo. Sapendo che tutti (molti) lo volevano morto, ci si domanda
allora chi possa essere stato. Il truffaldino socio Claudio? La giovane moglie
Vilde, sposata da poco e non convivente? Il di lei precedente fidanzato Sindre?
Sindre che era anche stato truffato abbondantemente dallo stesso cuoco. Un
discendente avuto in gioventù e mai riconosciuto? E chi è costui o costei? La
stessa sposa intonsa, magari sposata per darle legalmente un’eredità? Lo
spaurito Daniel, che compare ad un certo punto come i cavoli a merenda? Oppure
l’assassino è la zia di Daniel, Idun, che casualmente stava collaborando con il
cuoco per la pubblicazione di un libro di ricette e memorie? La madre di
Daniel, in cerca di chissà quali vendette? La misteriosa figura che invia a
destra e a manca biglietti minatori in nome della purezza norvegese? La polizia
fa un casino che la metà basta, meno Hanne, che alla fine mette tutti in riga
ed assicura che la giustizia sia fatta. Tuttavia, la reale trama del libro è il
contorno, quello che i vari personaggi vivono al di là delle indagini. Così
seguiamo Hanne, che nel precedente libro (vedete ciò che ho scritto sopra) ha
perso la sua compagna Cecilia, e non riesce a riprendersi. Va sei mesi in
Italia, in un posto che alla fine sarà collegato al cuoco, ma in maniera
talmente oscura che ci si domanda se siano saltate delle pagine. Torna, ma non
riesce a rimettersi in riga. Aveva mollato tutto del dolore. Nessuno sembra
averlo capito. Solo verso la fine delle lunghe 400 pagine pare ritornare
pimpante e determinata come nei primi libri. Seguiamo Billy T., il suo
alter-ego all’inizio, diventato ispettore capo senza Hanne, che però non ne ha
la stoffa, preso da mille problemi quotidiani e dalla sua natura fondamentalmente
di irregolare. Ha già avuto una serie di mogli, e tre figli maschi. Ora ha
sposato Tara (e non perdonerà mai ad Hanne di non avergli fatto da testimone)
ed è nata la piccola Jenny. Incontrerà anche un amore giovanile, Suzanne, e
tutto insieme sarà una miscela personale esplosiva, con evidenti danni per
tutta l’inchiesta e per la polizia stessa. C’è la neo entrata Silije,
poliziotta per vocazione, ricca per nascita, incinta per scelta. Ci sono altri
personaggi istituzionali che si muovono nei rispettivi brodi. Poi, ovvio, ci
sono le persone del giallo. Il cuoco, di cui apprezziamo sempre più l’odiosità.
Claudio, che si rivela ben presto un truffaldino di bassa lega. Daniel, con
evidenti problemi di soldi, che non si capirà mai bene perché li abbia, ne
soffra, e non li risolva. Marry (si scrive così con due erre) la zoppa,
prostituta e drogata che darà la chiave di volta ad Hanne per risolvere il
mistero. Detto così sembra un buon plot. Quello che mi ha disturbato è la
mancanza di legame tra le varie parti. Si salta da un episodio all’altro, da
una storia all’altra, senza un vero perché, senza capirne (soprattutto
all’inizio) i motivi. Quasi che ci fossero le quattro mani scriventi in modo
indipendente, senza che i due cervelli comunichino tra loro. Insomma, un libro
faticoso da digerire, e me ne dispiace che altrove ed in altre scritture la
simpatica norvegese sembrava più a suo agio. Inutile che nasconda poi la
soddisfazione di leggere la frase sotto riportata, dopo le nostre lunghe visite
ad Helsinki.
“Tu pensi sempre che sia colpa tua. Ti basta
assumerti tutte le colpe del mondo per scagionarti da qualsiasi cosa. Chiedi
scusa, e così pensi che sia tutto a posto.” (175)
“Il divano, così artigianale da sapere di
esser fatto in casa, era foderato con una stoffa a fiori della Merimekko.”
(355)
Claudia Piñeiro “Betibú” Repubblica MondoNoir 11 euro 7,90
[A: 15/09/2014– I: 24/03/2016 – T: 27/03/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: Betibú; ling. or.: spagnolo; pagine: 313;
anno 2010]
Devo
dire che la prima cosa che mi è saltata agli occhi, una volta aperto questo
libro, è la sua compattezza. Se lo sfogliate casualmente, tutte le pagine sono
di uguale formato, non ci sono a capo, non ci sono dialoghi esplicitati di
persona. Non so se sia un modo stilistico dell’autrice argentina, in fondo è il
primo libro che ne leggo, ma, soggettivamente, mi ha messo un po’ in
difficoltà. Non c’è quasi tempo di riprendere fiato, tutto si condensa nelle
azioni (anche se poche) e nei pensieri (questi sì, molti). Per cui ho faticato
molto a leggerne, ed ho trovato il ritmo giusto solo lontano da Roma, in una
Pasqua sorianese di calma e serenità. Nonostante questa difficoltà, comunque,
non esito a definirlo un buon libro, anche se non eccelso. Un discreto giallo,
ma, soprattutto, un bello spaccato della società e del mondo argentino. Non è
un caso che Claudia sia anche giornalista, e quindi attenta alla realtà che la
circonda. Siamo nel corso del primo mandato di Cristina Kirchner (anche se non
viene nominata esplicitamente), e l’Argentina vive un nuovo momento di
tormenti. C’è una sempre maggiore distanza tra potentati e borghesia comune,
grossi debiti verso l’estero, dovuti anche ad una lenta uscita del default del
2002. In una calda Buenos Aires, vediamo all’opera tre personaggi che
convergono per analizzare e forse risolvere il mistero della morte di Pedro
Chazarreta: la scrittrice Nurit Iscar (un po’ alter ego dell’autrice), Jaime Brena,
cronista di nera spostato alle varie per decisione del gran capo del suo
giornale, ed il ragazzo che ha preso il suo posto e sta imparando il mestiere.
Gli intrecci sono poi complicati dal fatto che il capo di Brena è l’ex-amante
di Nurit da lei lasciato per giusti motivi, che Karina, l’amica di Brena, ha
firmato l’articolo che tre anni prima ha stroncato un libro di Nurit, e che il
ragazzo ha una simpatia proprio per Karina. Nonché, infine, che il soprannome
di Nurit, da lei pensato venire dall’amante, fu invece inventato da Jaime.
Soprannome che dà il titolo al libro, Betibù, una spagnolizzazione del
personaggio dei fumetti cui Nurit assomiglia molto, Betty Boop. Inciso: il
fumetto di Betty Boop è stato un epigono negli anni Trenta di un certo tipo di
fumetto scanzonato (che ora diremmo “alla Manara”) colpito ben presto dagli
strali della censura. Se ne vogliamo parlare, ho righe e righe di notizie e
commenti. Tornando al libro, i nostri tre, per diverse vie, ed acquisendo
strada facendo un buon modo di interagire e di risolvere situazioni, collegano
la morte di Pedro con quella avvenuta tre anni prima di Gloria, sua moglie.
Morte avvenuta in maniera formalmente identica. Collegano inoltre Pedro ad una
foto scomparsa, dove il commissario Venturini, strano tipo di poliziotto (anche
se mi si dice che tutti i poliziotti in Argentina non è che siano proprio
normali) li porta sulle piste di alcuni componenti della foto. Altri, i nostri
tre, li trovano autonomamente. Sono 6, e cinque di loro risultano morti in
circostanze consone alla loro vita (ad esempio, chi andava forte in auto muore
in un incidente stradale, chi scia, muore sulle nevi argentine). I 6 inoltre
provengono tutti da un collegio di Buenos Aires noto per il nonnismo dei suoi
alunni e dei professori (una specie di San Leone Magno degli anni Settanta). La
trama gialla a questo punto è ben chiara, con un unico, ma fondamentale punto
di difficoltà: non ci sono prove. E quando i potenziali assassini minacciano le
vite private dei nostri, Nurit scrive un bellissimo articolo (impubblicabile) e
chiude la vicenda. Lasciandoci il messaggio: laddove il giornalista non può più
scrivere per mancanza di prove, interviene lo scrittore, che, in tutti i casi,
può inventare una soluzione, anche senza prove. Ovvio che la soluzione
descritta da Betibù è quella giusta, ma ci interessa poco, come interessa poco
alla scrittrice, di risolvere tutti i punti. La soluzione del giallo si collega
alle parti migliori del romanzo, quelle che descrivono le miserie
dell’Argentina, i soprusi di una classe guidata dal denaro su tutte le altre.
Non è un caso che molte morti avvengano in un cosiddetto country club, una
specie di Olgiata argentino, posta lontano dal centro, e sorvegliata da guardie
private con grosse difficoltà per chi decide di entrarvi, anche se invitato.
Questa parte, ed il clima del giornale, con le sue dipendenze dal potere, danno
sostegno al racconto, e lo collocano in una posizione interessante. Non la
parte gialla, come ho detto. Ma la parte di vita (per inciso, anche con i
rapporti di Nurit con le amiche, con i figli, con l’ex-amante) è esemplare. Ed esemplificata
da un episodio, marginale, ma illuminante. Nurit deve entrare nel Country Club,
ha l’invito, ma non si trova la persona che l’ha invitata. Aspetta quindi fuori
in un taxi. E la guardia al complesso la invita a scostarsi. Nurit sostiene, ed
a ragione, che non ci sono divieti polizieschi a stare dove sta, in attesa. La
guardia sostiene che è un diritto del Country (dei soldi dei proprietari del
Country, diremmo) ad invitarla ad allontanarsi. L’arroganza contro il diritto.
Questa era l’Argentina cinque anni fa. Ed ora? E noi? Belle domande, amici.
Cerchiamo di rispondere come facciamo da anni ed anni, senza tirarci indietro,
ma con il rispetto che abbiamo sempre mantenuto.
“È abituata a leggere in qualsiasi
circostanza: camminando, viaggiando sull’autobus o nel metrò, in fila in banca,
persino al cinema finché non si spengono le luci e il film inizia.” (120)
“La solitudine è uno stato d’animo interiore
che si può provare persino stando tra la gente.” (276)
Come sanno bene i miei lettori di
molte trame, la seconda trama del mese porta con sé il suo allegato
libropeutico per guarire da tutte le malattie. Non sarà certo un caso che
questo mese si parli di letargia e voglia di non fare nulla. Purtroppo invece
dovremmo rimandare ancora i libri che ci aiutano ad essere felici, dato che
sono mesi che non si riesce ad arrivare alla terza settimana di scrittura.
Come tutti
sanno difficile è finire i viaggi e le scoperte all’improvviso. Anzi credo e
spero che non finiranno mai. Scoprire aiuta a far funzionare i nostri poveri
neuroni abbandonati. E se Giambattista Marino diceva quattrocento anni fa che
era del poeta, noi ribadiamo cambiando che è della vita stessa “il fin la
meraviglia”, perché chi non sa stupirsi, anche delle piccole cose è meglio che
vada a fare altro. Io, vecchiarel canuto e stanco, continuo a stupirmi.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2016
Dopo un’estate di tutto
movimento, è facile che si cada in una depressione letargica, dove nulla si
muove, e tutto scorre senza significato. Affrontiamo allora questo mese i
sintomi e gli antidoti per questa malattia.
LETARGIA
Paul
Bowles “Il tè nel
deserto”
Miguel
de Cervantes “Don Chisciotte
della Mancia”
Forse ce
l’avete fatta a scendere dal letto (v. Letto, incapacità di abbandonare il), ma
vi muovete con la stessa elasticità di una femmina di ippopotamo incinta.
Quando siamo sopraffatti dalla letargia fisica e mentale, e privi di
motivazioni trasciniamo le nostre membra appesantite, è sempre difficile
spostarsi. Perché per combattere la letargia c’è bisogno di un po’ di vitalità
– ma la dove può arrivare la prima iniezione di energia, quella necessaria per
invertire la forza d’inerzia?
La nostra
cura, in due momenti, inizia con l’immersione proprio nell’ambiente
acquitrinoso dove la letargia prospera. L’inimitabile “Il tè nel deserto” di
Paul Bowles - acuto, serio, intenso e pieno di senso del destino - è un posto
del genere. Port, sua moglie Kit e il loro amico Tunner, «incredibilmente
bello» - americani che hanno rinunciato alla loro patria senza riuscire a
trovare qualcosa di meglio - girano per il deserto del Nord Africa. Come gruppo
irrequieto e stranamente privo di identità, passano le giornate per lo più a
evitarsi a vicenda, a scansare gli abitanti locali, a eludere qualsiasi vero
impegno con la vita. Tra loro e gli arabi che incontrano - sagome scure che si
nascondono e di cui non ci si può fidare - c’è un senso di minaccia non meglio
specificato. Mani invisibili lanciano pietre o tentano di rubare portafogli. Il
terzetto continua a muoversi senza una particolare destinazione in mente, con
un vento ostile alle spalle e un cielo «limpido e acceso» sopra la testa.
Kit è la più
irregolare dei tre. Ci sono giorni in cui è così piena di un senso profetico di
sventura che annulla qualsiasi cosa abbia in progetto. Tunner, col suo
bell'aspetto, la annoia e quando al mattino la saluta lei lo considera «di
un’allegria offensiva». Nel frattempo, per il marito Port l’unica certezza è
una profonda e «infinita tristezza» - quasi rassicurante per la sua familiarità.
Quando un giorno Kit dice a Port: «Non siamo mai riusciti, né io né te, a
vivere davvero», è come se girasse il coltello nella piaga. Le loro vite sono
come capsule di Petri in cui si coltivano i batteri della letargia: sono piene
di languore, incertezza, difficoltà a comunicare e alienazione. Datevi una
bella occhiata e domandatevi se anche nella vostra vita c’è qualcuna di queste
capsule di Petri.
La seconda
parte della nostra cura dovrà essere assunta appena voltata l’ultima pagina del
romanzo di Bowles, perché farà l’effetto di un mezzo di contrasto, una specie
di scossa elettrica. L’amabile, eccitabile “Don Chisciotte” di Cervantes - che
si identifica con i cavalieri erranti dei romanzi cortesi e di cui legge le
gesta restando sveglio tutta la notte - è tutto ciò che i personaggi de “Il tè
nel deserto” non sono. Si alza presto, indossa la splendida armatura del nonno
ed esce in cerca di avventura – una damigella in pericolo da salvare e amare,
un mascalzone da attraversare con un colpo di lancia. Potrebbe attecchire la
letargia su un simile terreno? Nient’affatto! Mentre gli scontenti americani di
Bowles scompongono il mistero e la bellezza del deserto in frammenti sparsi e
fasulli perché non possa far loro del male - negandogli la magnificenza e l’epica
risonanza che potrebbe dargli un posto nella storia - Don Chisciotte trasforma
semplici locande lungo la strada in castelli con pinnacoli d’argento, e mulini
a vento in un esercito di giganti. E tutto questo con un atteggiamento
irrefrenabile, gioioso, spigliato, immune alle cautele del fido scudiero.
Assumetene,
puri, il romanticismo e il gusto per la vita, che grondano dalla penna di
Cervantes in un crescendo senza fiato e come uno sprezzante grido di battaglia.
Per chi soffre di pigrizia e di lungaggine, saranno il tonico più elettrizzante
che la letteratura possa offrire senza violare la legge.
Bugiardino
Tutti,
chi più chi meno, sanno di Don Chisciotte, di Sancho Panza e delle loro
avventure. Tutti sanno ma quanti lo hanno letto? Io, sempre pronto a rispondere
a tutte le domande, confesso di non averlo fatto. E con la stessa onestà invece
mi rivolgo a Bowles e soprattutto a Bertolucci, per cercare di tornare ai miei
deserti ed ai miei tè.
Paul Bowles “Il tè nel deserto” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato
a 8,10 euro)
[trama pubblicata l’8 maggio 2016]
Non
c’era certo bisogno di alcuna spinta motivazionale per inserire un tale libro
cult nella lista delle mie letture. Solo una piccola idea in più, a valle
dell’interessante pamphlet regalatomi or sono due anni da Otto e Ale. E devo
dire che, interessante e degno di lettura, non mi ha convinto sino in fondo.
Per tre motivazioni forti che ho ricavato dalla lettura: la totale mancanza di
accenni all’islam come elemento fondante di una gran parte della vita
nordafricana, la poca conoscenza della cultura tuareg, laddove si adombra una
loro possibile vita poligamica mentre gli “uomini blu” sono intrinsecamente
monogami, l’inconsistenza quasi naif dell’approccio alla vita locale da parte
degli americani presenti nel libro. Anche se probabilmente quest’ultima
osservazione deriva dall’esasperazione che Bowles mette nel descrivere
caratteri d’oltreoceano, forse drogata dalle frequentazioni che nel suo eremo
di Tangeri aveva in quegli anni. Perché dal ’47 Bowles si trasferisce
dall’America in Marocco, dove vivrà gli ultimi 50 anni della sua vita, e dove
ospiterà tra gli altri Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vidal, Allen
Ginseng, William S. Burroughs e Jack Kerouac. L’altro elemento di “disturbo” è
che, avendo visto il film di Bertolucci, mi aspettavo, certo erroneamente, una
maggior coscienza delle proprie personali motivazioni da parte dei coniugi
Moresby, sia Port (che sullo schermo ha la faccia problematica di John
Malkovich) sia Kit (che sempre nel film ha una maggior consapevolezza di cosa
voglia nelle sembianze di Debra Winger). Il libro di Bowles, invece, è un lungo
omaggio alla scomparsa di sé, alla ricerca delle proprie motivazioni di vita,
dove, scontrandosi con la realtà, questa vince alla grande. I personaggi
principali, come detto, sono Port e Kit. Una coppia decentemente in crisi e
ragionevolmente con dei soldi alle spalle, tanto che può permettersi non di
fare i turisti, ma bensì viaggiatori, che non hanno una reale meta, anche se
lontani da quella mitica proposizione di Robert Louis Stevenson (cui spero di
arrivare prima o poi): “Io non viaggio per arrivare, io viaggio per andare.” Ed
i due si trovano invischiati in tutta una serie di momenti che un viaggiatore
reale avrebbe affrontato in altro modo. Port è condotto da un sedicente arabo,
nottetempo, in una specie di bordello itinerante di belle signorine, con cui,
senza porsi scrupolo, giace, per poi tirarsi indietro, sentirne sensi di colpa,
ascoltare le loro parole senza capirne il significato. E guardando il proprio
ombelico, Port non trova meglio che ammalarsi di febbre tifoidea, di non
accorgersene, e di trovarsi isolato con Kit e senza reali possibilità di cure.
Kit stessa, come lei dice alla ricerca del proprio io, in una notte in treno giace,
più o meno consapevolmente, con Turner (più o meno, perché sembra che Kit vada
a letto con tanti senza capire perché). Rosa dai sensi di colpa non saprà più
gestire nulla, e non troverà di meglio che lasciarsi trasportare dagli eventi.
Fugge da Port morente, per paura non si sa di cosa. Si perde in un primo
deserto, salvata da un improbabile Tuareg che la aggrega alle sue mogli, per
poi lasciarla in loro balia. Kit che continua a fuggire di arabo in arabo,
tanto che alla fine, partendo dal Marocco, si ritroverà in Sudan (!). Di
contorno abbiamo l’inutile Turner travolto prima da Kit, poi dai propri sensi
di colpa, poi da tutto il contorno (sembra proprio uno di quegli americani in
visita a Bowles a Tangeri). Un inutile burattino. Come inutili, se non come
macchiette, la strana coppia formata da Eric Lyle e dalla sua sedicente madre.
Che vivacchiano rubacchiando agli altri turisti, che continuano a girare
lamentandosi di tutto. Esempio di come era facile ed anche inutile fare i
turisti subito dopo la Seconda Guerra mondiale. E di come il mondo arabo si sia
trovato invaso da gente che ha rovinato completamente la propria e l’altrui
esistenza. Un piccolo cammeo è dedicato anche alle guarnigioni francesi del
deserto algerino, con quel tanto di presupponenza che i francesi hanno sempre
avuto, e quel molto di impreparazione che tutti qui stanno mostrando. Certo,
gli avvenimenti si concatenano in modo talmente strano che ci si rende conto di
essere trascinati verso azioni e comportamenti quasi obbligati (e sempre
sbagliati). Con quel finale, che nel libro è l’unica cosa che preferisco al
film, dove la scomparsa di Kit assume una connotazione di coscienza e non di
paura. Rimangono, ahimè, soltanto i paesaggi, ed il Sahara, e tutti quegli
scorci senza personaggi che sono la parte migliore (soggettivamente) del libro.
Che spiace anche sia conosciuto con il fuorviante titolo della prima parte, e
non con l’originale: “Un cielo protettore”. E chi è stato nei deserti, capisce,
guardando il cielo, il senso di tutto ciò. Sia nelle giornate passate a
ripararsi nelle oasi dal grande calore, sia nelle notti a guardar le stelle,
finalmente senza altre luci che ne oscurino lo splendore. Non è un caso che
abbia impiegato molto a leggere questo romanzo, quindi. Da cui aspettavo un mio
ritorno mentale là dove, per problemi di guerre or non è possibile andare. Si,
ho ripensato ai miei deserti, ed ho rivissuto la morbidezza libica e l’asprezza
algerina. Ma per merito della mia immaginazione. Non di questo libro. Forse
andava letto come metafora del perdersi in una inutile ricerca di sé, laddove
il proprio io non stava. E forse questo sarebbe stato un altro libro. Rendo
comunque omaggio alla figura di Paul Bowles ed alla sua vita, anche se non alla
sua opera prima.
“Spesso, proprio durante un viaggio i suoi
pensieri divenivano particolarmente lucidi, e prendeva decisioni cui non poteva
arrivare quand’era fermo in un luogo.” (86)
“- Prima dei vent’anni … pensavo che la vita
fosse qualcosa che andasse via via acquistando slancio. Anno per anno sarebbe
diventata più ricca e più profonda. Uno imparava sempre più, diventava via via
più saggio…. – E ora sai che non è così,
vero? È piuttosto come fumare una sigaretta. Le prime boccate hanno un sapore
meraviglioso, e non pensi che possa mai esaurirsi. Poi cominci a darlo per
scontato. D’improvviso ti rendi conto che si è consumata quasi tutta, e proprio
allora ti accorgi che in fondo sa di amaro.” (138)
“Il deserto è un posto così grande, eppure
niente va veramente perduto, mai.” (265)
Conclusioni
Credo che tutti debbano
soffermarsi su quella prima frase di pagina 86. Non so come, ma 6 anni prima di
me, il grande Paul mi aveva fatto una fotografia non più ripetibile. Ed è
questa la mia cura anti-letargica: stare fermi inaridisce cuore e mente. Per
questo, al fine, il libro del deserto l’ho interpretato a rovescio: l’autore
descrive l’apatia degli americani a Tangeri, io ci vedo la forza che i deserti
ed i viaggi mi danno ancora alla mia quasi veneranda età.