domenica 25 settembre 2016

Viaggiatori in Noir - 25 settembre 2016

Terminiamo allora questa meravigliosa estate con un ultimo viaggio in nero, rilassante, coinvolgente, con qualche pensiero sparso, e tanta carica da portare con noi. Partiamo da un America ammantata di ebraismo, per scivolare sino alla nostra amata e sempre frequentata India. Torniamo in Europa, puntando al Nord norvegese, e concludiamo in Argentina, dove ci aspetta (ma quando) l’immensa Patagonia (anche se per ora ci accontentiamo di Buenos Aires). È anche un discorso quasi tutto al femminile, con la Kellerman su tutte.
Faye Kellerman “Il bagno rituale” Repubblica MondoNoir 8 euro 7,90
[A: 01/09/2014– I: 03/02/2016 – T: 05/02/2016] - &&&&  
[tit. or.: The Ritual Bath; ling. or.: inglese; pagine: 316; anno 1986]
Strano il percorso letterario in Italia di questa scrittrice considerata in America una dei punti di forze del “giallo ebraico”. Faye Kellerman, mia coetanea, è un’ebrea ortodossa, che si laurea in Matematica a poco più di venti anni, e poi in “Chirurgia Dentaria” poco anni dopo (follie americane). Sposa lo psicologo Jonathan, che poco dopo comincerà a scrivere una serie di gialli con protagonista lo psicologo infantile Alex Delaware. Quasi contemporaneamente, anche Faye comincia a scrivere polizieschi, che hanno una forte connotazione ebraica ortodossa, benché ovviamente ambientati in America, ed in particolare nella loro città, Los Angeles. Questo è il primo di 22 libri scritti in questo filone, e, come vedete sopra, è stato pubblicato la prima volta nel 1986. Ebbene, in Italia arriverà solo nel 2010, per merito della non certo famosa “Cooper editore”. Solo nel 2014, Repubblica pensa di inserire questo libro nella collana dei suoi “neri in giro per il mondo”. Opera meritoria, che mi ha permesso di conoscere un’autrice che ha una scrittura interessante, ed un’altrettanta interessante ambientazione. Che cominciamo a conoscere da questo primo libro delle sue avventure “gialle”. Certo, un libro che ha qualche momento di pausa, dovuto al fatto che si stanno introducendo situazioni e personaggi. Tuttavia, sia per le prime sia per i secondi, Faye ci descrive e ci fa partecipi di questi mondi inseriti nel nostro quotidiano, e che molti tendono a non vedere. La sua ortodossia, inoltre, spinge l’autrice ad una rigorosità che è senz’altro foriera di domande ed approfondimento, per una persona curiosa come me. Ecco allora che ci immergiamo nell’atmosfera di una yeshivah americana. Anzi, per essere più precisi una kellal (luogo di studio della Torah aperto anche alle persone sposate). Come tutti i luoghi ortodossi, ha quindi bisogno di una mikvah, luogo di abluzioni rituali, in particolare usato dalle donne per purificarsi alla fine del ciclo mestruale e poter tornare a giacere con i legittimi sposi. Rina è la custode del bagno, oltre ad insegnare materie scientifiche nella scuola. Ed è lì quasi per carità, essendo vedova da poco più di un anno del brillante Yitzhak, morto a 27 anni per un tumore al cervello. L’azione si dipana a partire dall’aggressione ad una donna appena uscita dalla mikvah. Dell’indagine se ne occupa Peter Decker, onesto poliziotto californiano, divorziato da non molto, padre di una Cinthia sedicenne. Tra Peter e Rina scatta immediatamente una scintilla. Che autori meno attenti avrebbero trattato banalmente, magari facendo dirigere i passi dei nostri due, verso qualche luogo deputato ad effusioni intime. Faye, invece, ci fa partecipi di tutto il percorso che una donna ebrea ortodossa deve fare e fa nel rapportarsi all’altro sesso. Non solo, anche nel rapportarsi ad un goy (un non ebreo). Problemi di lingua, problemi di costumi alimentari, e tanti, tanti altri. Senza nessun giudizio esterno, proviamo a seguire con rispetto il percorso di Peter e Rina, che capiamo, prima o poi, essere destinati a convergere. I loro incontri, gli incontri tra i figli di lei e di lui, gli sguardi delle donne ebree verso questa poveRina (ah, ah, ah), la scoperta di lui di essere ebreo, benché non praticante (Peter è stato adottato, ma il padre e soprattutto la madre biologica erano ebrei; così come ebrea era la prima moglie di Peter, tanto che anche la figlia è ebrea; per chi non lo sapesse, l'appartenenza al gruppo viene ereditata matrilinearmente). Antropologicamente, questa parte è interessante, anche perché viene collocata nell’America odierna. Quindi ne vediamo anche i contrasti (sono passati trenta anni, ma le considerazioni sono tuttora valide). Possiamo solo obiettare, senza critiche, che ci sarebbe da fare un percorso analogo verso altre diverse minorità americane, in primis l’arabofono, ma anche la singalese, o la vietnamita (ricordo che la più popolosa città di etnia vietnamita si trova in … Texas). Per non parlare, ovviamente, dei neri, dove si aprirebbe un mondo di discussione. Tornando al libro, dopo il primo assalto alla mikvah, vediamo la kellal oggetto di atti vandalici, Rina assalita da una gang di bravacci ad un supermercato, finendo con i due episodi clou: viene assoldata una vigilantes negra per “sicurare” il posto e sempre più loschi si mostrano due colleghi di Rina. Purtroppo la vigilantes viene uccisa, e, come ci aspettava, Peter decifra gli attacchi alla mikvah come un tentativo contro la bella Rina. Come inoltre, si poteva desumere dal contesto, Peter trova chi ha ucciso la donna di colore, e chi sta attentando all’onore della (forse) sua (in futuro) donna. La trama gialla è essenziale, facile anche se non banale. Il contesto è più interessante, ben descritto, ed ovviamente partecipato dal fatto che, come detto, la stessa Faye è ortodossa. Un solo appunto riguarda l’incongruenza tra pagina 135 e 136. Nella prima, i genitori di Rina, che stanno facendo i baby-sitter ai nipoti mentre Rina e Peter sono ad un concerto, si lamentano che Rina stessa sia arrivata alle 22:45, poi nella seguente la stessa nonna recrimina sul fatto che i nipoti siano andati a letto alle 23:30. Ma se sono le 22:45 come fa a recriminare sul sonno dei nipotini? Qualche editor dovrebbe leggere meglio i libri. Comunque, sono in attesa di capire come si evolverà la storia di Rina e Peter, per ora, alla fine di questo libro, solo intensamente amici.
Vikas Swarup “I sei sospetti” Repubblica MondoNoir 2 euro 7,90
[A: 14/07/2014– I: 10/02/2016 – T: 13/02/2016] - &&& +   
[tit. or.: Six Suspects; ling. or.: inglese; pagine: 519; anno 2008]
Terza lettura della collana sul Giro del Mondo in Nero, e devo dire, pur con qualche riserva, si mantiene ad un buon livello di resa. Anche questo che non è un “giallo” puro, ma un mega-pastiche in salsa curry, scritto da quel Swarup, indiano assurto alla notorietà come autore del libro “Le dodici domande”, poi tradotto nel pluripremiato film da Oscar “The Millionaire”. Il primo appunto da fare a Swarup è di essere un pochino prolisso, tanto che ad un certo punto avevo quasi temuto di essermi incagliato. Fortunatamente l’ultima parte del libro scorre molto e fa recuperare consensi. Secondo appunto, è la struttura analoga (non uguale né simile) con il suo primo e più fortunato romanzo. Lì c’erano dodici storie, legate alle dodici domande del quiz, qui abbiamo sei storie legate ai sei personaggi. E sono talmente approfondite, che ognuna ha quasi la dignità di un mini-romanzo a sé. D’altra parte, al contrario, è intrigante la modalità di racconto, dove abbiamo un omicidio ad inizio libro, e tutto il resto per entrare nella testa dei sei sospettati del crimine. Con una tecnica che, scusate il parallelo “blasfemo”, rimanda al Kurosawa di “Rashomon”. Infatti, si parla dell’uccisione di Vicky Rai, un giovane ricco e corrotto, rampollo di una famiglia molto in vista dell’Uttar Pradesh, già autore di diversi crimini e sempre assolto. Così come viene assolto dall’aver ucciso una signorina, Ruby, benché in molti lo avevano visto commettere il fatto. Durante la festa che Vicky organizza per l’assoluzione, viene colpito a morte. Il giornalista Arun decide di rivelare la verità scrivendo sul suo giornale. Da qui parte la descrizione della vita e delle motivazioni dei sei sospettati del crimine: il burocrate (Mohan Kumar), l’attrice (Shabnam Saxena), l’americano (Larry Page), l’aborigeno (Eketi), il ladro (Munna Mobile), e il politico (Jagannath Rai). Kumar, corrotto segretario statale con tanto di amante, è ora in pensione, e vede il suo potere diminuire di giorno in giorno. Durante una seduta spiritica viene “posseduto” da uno spirito, e da quel momento si comporta in modo bipolare: buono da fantasma, cattivo da Kumar. Quindi lascia l’amante, smette di bere, poi capovolge il tutto, licenzia i suoi servi. Da buono, manda in malora la ristrutturazione con licenziamenti delle aziende di Vicky, che lo licenzia. Va alla festa di Vicky pensando, con la parte buona, che un tale spregevole individuato vada eliminato. Shabnam è un’attrice con tanti film alle spalle, ma sulla cresta di un’onda da cui può scivolare. Cosa che infatti fa, ingannata dal suo segretario. Nell’intento si salvare la sorella Sapna dall’accusa di aver ucciso un uomo, si rivolge a Vicky, sapendo bene cosa questo comporta per la sua onorabilità. Si reca quindi alla festa con una pistola nella borsetta. È anche al centro di un raggiro, quando qualcuno usa una sua foto per circuire il sempliciotto texano, promettendo un grande matrimonio indiano. Larry Page (conscio anche dei possibili disguidi dovuti all’omonimia con il fondatore di Google), si reca in India, capisce ben presto il trucco, viene più volte truffato, si aggira incoscientemente per il Kashmir, dove ha modo di sventare attentati locali. Alla fine viene salvato dai Servizi Segreti americani, ma chiede di essere presente alla festa di Vicky, perché è l’unico posto dove può finalmente incontrare Shabnam. Eketi viene dalle Andamane, è brutto, basso e pieno di rimedi da stregone per tutte le situazioni. Parte dalle isole verso il continente per ritrovare un sacro lingam rubato nell’isola. Attraversa tanti posti che mi hanno fatto risuonare campane vicine nel tempo: Calcutta, Varanasi con i ghat e gli eunuchi, l’entroterra del Gange verso la capitale, infine Delhi stessa. S’innamora della sorellastra di Munna, vittima del disastro di Bhopal, brutta e cieca, ma con un grande animo. Anche lui è presente alla festa, che l’ultimo possessore del lingam è proprio Vicky. Munna, ladro di cellulari (da cui il soprannome Mobile) vive anche lui strampalate vicende, entrando in possesso di una valigia con milioni di rupie, facendo la bella vita, per poi essere scoperto, e pestato quasi a morte. Nel periodo aureo, s’innamora, ricambiato, di Ritu sorella di Vicky, ma all’opposto come carattere e sensibilità. Il pestaggio, poi, avviene proprio per ordine di Vicky, motivo per cui Munna decide di ucciderlo e di fuggire con Ritu. In ultimo c’è Jagannath, il corrotto padre di Vicky. Di cui ha sempre coperto le malefatte, anche perché a capo di una vasta rete di corruzione, con la quale governa in modo mafioso, l’Uttar Pradesh. Quando il Primo Ministro lo vuole mettere in disparte, che l’opinione pubblica si sta sollevando verso tutta questa marea di malaffare, decide di incaricare un sicario di uccidere il figlio, in modo da riacquistare una verginità politica. Tutti e sei hanno la possibilità di uccidere Vicky, così come ce l’ha Ritu, anche se non ha la pistola, ed anche altri personaggi che scopriamo nel convulso finale. Dove Swarup propone tutta una serie di soluzioni, smontandole una dopo l’altra, ed arrivando ad un finale che, questo sì, mi ha letteralmente sorpreso. Motivo appunto di far salire il gradimento del testo. Un altro punto di interesse è nel guardare l’India sia con gli occhi di Larry che con quelli di Eketi. Dato che, da punti opposti, sono entrambi due alieni. Swarup ci presenta comunque un quadro della civiltà indiane pieno di corruzione e malaffare (cosa che non stentiamo a credere), ma anche con elementi di speranza, che vengono sempre da dove meno si possa aspettare: il ladruncolo, che ruba per fame, e che ha una bella redenzione nel finale, e l’aborigeno, che porta con sé i segreti dell’India millenaria, non ultimo quello di continuare a parlare con le persone buone, anche dopo la morte. Al solito, quando si affrontano questi super-volumi indiani, non si riesce mai ad essere troppo sintetici. Ma in ogni caso, spero di avervi un po’ incuriosito, in modo da spingervi a leggere questo libro.
Anne Holt “La ricetta dell’assassino” Repubblica MondoNoir 3 euro 7,90
[A: 21/07/2014– I: 14/02/2016 – T: 18/02/2016] - && +
[tit. or.: Uten ekko; ling. or.: norvegese; pagine: 398; anno 2000]
Torniamo alfine ad una delle due serie della norvegese Anne, la più antica, quella con protagonista Hanne Wilhelmsen. In genere una buona serie (almeno fino ad ora), e che dopo qualche anno troverà una convergenza con l’altra, più moderna, di Vik & Stubø. Ma ne parleremo quando sarà il momento. Qui, comincio con due lamentele ed una scusa. Prima l’ultima: per una serie di motivi che non stiamo qui ad analizzare, leggo questa sesta avventura di Hanne, avendo saltato le precedenti numero 4 e 5. Grande errore, che in quei libri avvengono cose importanti, che condizionano, anche pesantemente, questo libro, e che ne rendono la lettura monca. Mancano delle parti, dei sentimenti, delle descrizioni, e Anne non riesce a colmare questo “buco” come in genere fanno altri scrittori di produzioni seriali. Ed ora i lamenti: perché far scomparire (o mantenere solo scritto piccolo piccolo) il nome della co-autrice del libro? Questo, e “Nella tana dei lupi”, sono stati scritti a quattro mani con Berit Reiss-Andersen, che però, appunto, misteriosamente non appare esplicitamente (ed anche su Internet sembra “desaparecida”). E soprattutto, perché modificare il titolo “Senza eco” in “La ricetta dell’assassino”? Che male vi ha fatto l’eco? Ovviamente non Umberto. Certo, la tentazione è ghiotta, se il morto di morte violenta è un cuoco. Ma parlare di ricetta è non solo fuorviante (infatti, non c’è nessuna ricetta in tutto il libro), ed anche un po’ capzioso, dove si cerca di dare suggerimenti laddove non c’è di certo bisogno. La storia gialla è poi risibilmente complicata, ma solo per fini altri, che poi vedremo. Nello specifico abbiamo un grande cuoco (anzi, uno “chef”), veramente odioso, trovato morto vicino alla stazione di polizia. Ucciso da un coltello da cucina giapponese. Sarebbe tuttavia morto in ogni caso, essendo imbottito di una dose letale di paracetamolo. Sapendo che tutti (molti) lo volevano morto, ci si domanda allora chi possa essere stato. Il truffaldino socio Claudio? La giovane moglie Vilde, sposata da poco e non convivente? Il di lei precedente fidanzato Sindre? Sindre che era anche stato truffato abbondantemente dallo stesso cuoco. Un discendente avuto in gioventù e mai riconosciuto? E chi è costui o costei? La stessa sposa intonsa, magari sposata per darle legalmente un’eredità? Lo spaurito Daniel, che compare ad un certo punto come i cavoli a merenda? Oppure l’assassino è la zia di Daniel, Idun, che casualmente stava collaborando con il cuoco per la pubblicazione di un libro di ricette e memorie? La madre di Daniel, in cerca di chissà quali vendette? La misteriosa figura che invia a destra e a manca biglietti minatori in nome della purezza norvegese? La polizia fa un casino che la metà basta, meno Hanne, che alla fine mette tutti in riga ed assicura che la giustizia sia fatta. Tuttavia, la reale trama del libro è il contorno, quello che i vari personaggi vivono al di là delle indagini. Così seguiamo Hanne, che nel precedente libro (vedete ciò che ho scritto sopra) ha perso la sua compagna Cecilia, e non riesce a riprendersi. Va sei mesi in Italia, in un posto che alla fine sarà collegato al cuoco, ma in maniera talmente oscura che ci si domanda se siano saltate delle pagine. Torna, ma non riesce a rimettersi in riga. Aveva mollato tutto del dolore. Nessuno sembra averlo capito. Solo verso la fine delle lunghe 400 pagine pare ritornare pimpante e determinata come nei primi libri. Seguiamo Billy T., il suo alter-ego all’inizio, diventato ispettore capo senza Hanne, che però non ne ha la stoffa, preso da mille problemi quotidiani e dalla sua natura fondamentalmente di irregolare. Ha già avuto una serie di mogli, e tre figli maschi. Ora ha sposato Tara (e non perdonerà mai ad Hanne di non avergli fatto da testimone) ed è nata la piccola Jenny. Incontrerà anche un amore giovanile, Suzanne, e tutto insieme sarà una miscela personale esplosiva, con evidenti danni per tutta l’inchiesta e per la polizia stessa. C’è la neo entrata Silije, poliziotta per vocazione, ricca per nascita, incinta per scelta. Ci sono altri personaggi istituzionali che si muovono nei rispettivi brodi. Poi, ovvio, ci sono le persone del giallo. Il cuoco, di cui apprezziamo sempre più l’odiosità. Claudio, che si rivela ben presto un truffaldino di bassa lega. Daniel, con evidenti problemi di soldi, che non si capirà mai bene perché li abbia, ne soffra, e non li risolva. Marry (si scrive così con due erre) la zoppa, prostituta e drogata che darà la chiave di volta ad Hanne per risolvere il mistero. Detto così sembra un buon plot. Quello che mi ha disturbato è la mancanza di legame tra le varie parti. Si salta da un episodio all’altro, da una storia all’altra, senza un vero perché, senza capirne (soprattutto all’inizio) i motivi. Quasi che ci fossero le quattro mani scriventi in modo indipendente, senza che i due cervelli comunichino tra loro. Insomma, un libro faticoso da digerire, e me ne dispiace che altrove ed in altre scritture la simpatica norvegese sembrava più a suo agio. Inutile che nasconda poi la soddisfazione di leggere la frase sotto riportata, dopo le nostre lunghe visite ad Helsinki.
“Tu pensi sempre che sia colpa tua. Ti basta assumerti tutte le colpe del mondo per scagionarti da qualsiasi cosa. Chiedi scusa, e così pensi che sia tutto a posto.” (175)
“Il divano, così artigianale da sapere di esser fatto in casa, era foderato con una stoffa a fiori della Merimekko.” (355)
Claudia Piñeiro “Betibú” Repubblica MondoNoir 11 euro 7,90
[A: 15/09/2014– I: 24/03/2016 – T: 27/03/2016] - &&& e ½     
[tit. or.: Betibú; ling. or.: spagnolo; pagine: 313; anno 2010]
Devo dire che la prima cosa che mi è saltata agli occhi, una volta aperto questo libro, è la sua compattezza. Se lo sfogliate casualmente, tutte le pagine sono di uguale formato, non ci sono a capo, non ci sono dialoghi esplicitati di persona. Non so se sia un modo stilistico dell’autrice argentina, in fondo è il primo libro che ne leggo, ma, soggettivamente, mi ha messo un po’ in difficoltà. Non c’è quasi tempo di riprendere fiato, tutto si condensa nelle azioni (anche se poche) e nei pensieri (questi sì, molti). Per cui ho faticato molto a leggerne, ed ho trovato il ritmo giusto solo lontano da Roma, in una Pasqua sorianese di calma e serenità. Nonostante questa difficoltà, comunque, non esito a definirlo un buon libro, anche se non eccelso. Un discreto giallo, ma, soprattutto, un bello spaccato della società e del mondo argentino. Non è un caso che Claudia sia anche giornalista, e quindi attenta alla realtà che la circonda. Siamo nel corso del primo mandato di Cristina Kirchner (anche se non viene nominata esplicitamente), e l’Argentina vive un nuovo momento di tormenti. C’è una sempre maggiore distanza tra potentati e borghesia comune, grossi debiti verso l’estero, dovuti anche ad una lenta uscita del default del 2002. In una calda Buenos Aires, vediamo all’opera tre personaggi che convergono per analizzare e forse risolvere il mistero della morte di Pedro Chazarreta: la scrittrice Nurit Iscar (un po’ alter ego dell’autrice), Jaime Brena, cronista di nera spostato alle varie per decisione del gran capo del suo giornale, ed il ragazzo che ha preso il suo posto e sta imparando il mestiere. Gli intrecci sono poi complicati dal fatto che il capo di Brena è l’ex-amante di Nurit da lei lasciato per giusti motivi, che Karina, l’amica di Brena, ha firmato l’articolo che tre anni prima ha stroncato un libro di Nurit, e che il ragazzo ha una simpatia proprio per Karina. Nonché, infine, che il soprannome di Nurit, da lei pensato venire dall’amante, fu invece inventato da Jaime. Soprannome che dà il titolo al libro, Betibù, una spagnolizzazione del personaggio dei fumetti cui Nurit assomiglia molto, Betty Boop. Inciso: il fumetto di Betty Boop è stato un epigono negli anni Trenta di un certo tipo di fumetto scanzonato (che ora diremmo “alla Manara”) colpito ben presto dagli strali della censura. Se ne vogliamo parlare, ho righe e righe di notizie e commenti. Tornando al libro, i nostri tre, per diverse vie, ed acquisendo strada facendo un buon modo di interagire e di risolvere situazioni, collegano la morte di Pedro con quella avvenuta tre anni prima di Gloria, sua moglie. Morte avvenuta in maniera formalmente identica. Collegano inoltre Pedro ad una foto scomparsa, dove il commissario Venturini, strano tipo di poliziotto (anche se mi si dice che tutti i poliziotti in Argentina non è che siano proprio normali) li porta sulle piste di alcuni componenti della foto. Altri, i nostri tre, li trovano autonomamente. Sono 6, e cinque di loro risultano morti in circostanze consone alla loro vita (ad esempio, chi andava forte in auto muore in un incidente stradale, chi scia, muore sulle nevi argentine). I 6 inoltre provengono tutti da un collegio di Buenos Aires noto per il nonnismo dei suoi alunni e dei professori (una specie di San Leone Magno degli anni Settanta). La trama gialla a questo punto è ben chiara, con un unico, ma fondamentale punto di difficoltà: non ci sono prove. E quando i potenziali assassini minacciano le vite private dei nostri, Nurit scrive un bellissimo articolo (impubblicabile) e chiude la vicenda. Lasciandoci il messaggio: laddove il giornalista non può più scrivere per mancanza di prove, interviene lo scrittore, che, in tutti i casi, può inventare una soluzione, anche senza prove. Ovvio che la soluzione descritta da Betibù è quella giusta, ma ci interessa poco, come interessa poco alla scrittrice, di risolvere tutti i punti. La soluzione del giallo si collega alle parti migliori del romanzo, quelle che descrivono le miserie dell’Argentina, i soprusi di una classe guidata dal denaro su tutte le altre. Non è un caso che molte morti avvengano in un cosiddetto country club, una specie di Olgiata argentino, posta lontano dal centro, e sorvegliata da guardie private con grosse difficoltà per chi decide di entrarvi, anche se invitato. Questa parte, ed il clima del giornale, con le sue dipendenze dal potere, danno sostegno al racconto, e lo collocano in una posizione interessante. Non la parte gialla, come ho detto. Ma la parte di vita (per inciso, anche con i rapporti di Nurit con le amiche, con i figli, con l’ex-amante) è esemplare. Ed esemplificata da un episodio, marginale, ma illuminante. Nurit deve entrare nel Country Club, ha l’invito, ma non si trova la persona che l’ha invitata. Aspetta quindi fuori in un taxi. E la guardia al complesso la invita a scostarsi. Nurit sostiene, ed a ragione, che non ci sono divieti polizieschi a stare dove sta, in attesa. La guardia sostiene che è un diritto del Country (dei soldi dei proprietari del Country, diremmo) ad invitarla ad allontanarsi. L’arroganza contro il diritto. Questa era l’Argentina cinque anni fa. Ed ora? E noi? Belle domande, amici. Cerchiamo di rispondere come facciamo da anni ed anni, senza tirarci indietro, ma con il rispetto che abbiamo sempre mantenuto.
“È abituata a leggere in qualsiasi circostanza: camminando, viaggiando sull’autobus o nel metrò, in fila in banca, persino al cinema finché non si spengono le luci e il film inizia.” (120)
“La solitudine è uno stato d’animo interiore che si può provare persino stando tra la gente.” (276)
Come sanno bene i miei lettori di molte trame, la seconda trama del mese porta con sé il suo allegato libropeutico per guarire da tutte le malattie. Non sarà certo un caso che questo mese si parli di letargia e voglia di non fare nulla. Purtroppo invece dovremmo rimandare ancora i libri che ci aiutano ad essere felici, dato che sono mesi che non si riesce ad arrivare alla terza settimana di scrittura.
Come tutti sanno difficile è finire i viaggi e le scoperte all’improvviso. Anzi credo e spero che non finiranno mai. Scoprire aiuta a far funzionare i nostri poveri neuroni abbandonati. E se Giambattista Marino diceva quattrocento anni fa che era del poeta, noi ribadiamo cambiando che è della vita stessa “il fin la meraviglia”, perché chi non sa stupirsi, anche delle piccole cose è meglio che vada a fare altro. Io, vecchiarel canuto e stanco, continuo a stupirmi.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE 2016
Dopo un’estate di tutto movimento, è facile che si cada in una depressione letargica, dove nulla si muove, e tutto scorre senza significato. Affrontiamo allora questo mese i sintomi e gli antidoti per questa malattia.

LETARGIA

Paul Bowles                       “Il tè nel deserto”
Miguel de Cervantes           “Don Chisciotte della Mancia”
Forse ce l’avete fatta a scendere dal letto (v. Letto, incapacità di abbandonare il), ma vi muovete con la stessa elasticità di una femmina di ippopotamo incinta. Quando siamo sopraffatti dalla letargia fisica e mentale, e privi di motivazioni trasciniamo le nostre membra appesantite, è sempre difficile spostarsi. Perché per combattere la letargia c’è bisogno di un po’ di vitalità – ma la dove può arrivare la prima iniezione di energia, quella necessaria per invertire la forza d’inerzia?
La nostra cura, in due momenti, inizia con l’immersione proprio nell’ambiente acquitrinoso dove la letargia prospera. L’inimitabile “Il tè nel deserto” di Paul Bowles - acuto, serio, intenso e pieno di senso del destino - è un posto del genere. Port, sua moglie Kit e il loro amico Tunner, «incredibilmente bello» - americani che hanno rinunciato alla loro patria senza riuscire a trovare qualcosa di meglio - girano per il deserto del Nord Africa. Come gruppo irrequieto e stranamente privo di identità, passano le giornate per lo più a evitarsi a vicenda, a scansare gli abitanti locali, a eludere qualsiasi vero impegno con la vita. Tra loro e gli arabi che incontrano - sagome scure che si nascondono e di cui non ci si può fidare - c’è un senso di minaccia non meglio specificato. Mani invisibili lanciano pietre o tentano di rubare portafogli. Il terzetto continua a muoversi senza una particolare destinazione in mente, con un vento ostile alle spalle e un cielo «limpido e acceso» sopra la testa.
Kit è la più irregolare dei tre. Ci sono giorni in cui è così piena di un senso profetico di sventura che annulla qualsiasi cosa abbia in progetto. Tunner, col suo bell'aspetto, la annoia e quando al mattino la saluta lei lo considera «di un’allegria offensiva». Nel frattempo, per il marito Port l’unica certezza è una profonda e «infinita tristezza» - quasi rassicurante per la sua familiarità. Quando un giorno Kit dice a Port: «Non siamo mai riusciti, né io né te, a vivere davvero», è come se girasse il coltello nella piaga. Le loro vite sono come capsule di Petri in cui si coltivano i batteri della letargia: sono piene di languore, incertezza, difficoltà a comunicare e alienazione. Datevi una bella occhiata e domandatevi se anche nella vostra vita c’è qualcuna di queste capsule di Petri.
La seconda parte della nostra cura dovrà essere assunta appena voltata l’ultima pagina del romanzo di Bowles, perché farà l’effetto di un mezzo di contrasto, una specie di scossa elettrica. L’amabile, eccitabile “Don Chisciotte” di Cervantes - che si identifica con i cavalieri erranti dei romanzi cortesi e di cui legge le gesta restando sveglio tutta la notte - è tutto ciò che i personaggi de “Il tè nel deserto” non sono. Si alza presto, indossa la splendida armatura del nonno ed esce in cerca di avventura – una damigella in pericolo da salvare e amare, un mascalzone da attraversare con un colpo di lancia. Potrebbe attecchire la letargia su un simile terreno? Nient’affatto! Mentre gli scontenti americani di Bowles scompongono il mistero e la bellezza del deserto in frammenti sparsi e fasulli perché non possa far loro del male - negandogli la magnificenza e l’epica risonanza che potrebbe dargli un posto nella storia - Don Chisciotte trasforma semplici locande lungo la strada in castelli con pinnacoli d’argento, e mulini a vento in un esercito di giganti. E tutto questo con un atteggiamento irrefrenabile, gioioso, spigliato, immune alle cautele del fido scudiero.
Assumetene, puri, il romanticismo e il gusto per la vita, che grondano dalla penna di Cervantes in un crescendo senza fiato e come uno sprezzante grido di battaglia. Per chi soffre di pigrizia e di lungaggine, saranno il tonico più elettrizzante che la letteratura possa offrire senza violare la legge.

Bugiardino

Tutti, chi più chi meno, sanno di Don Chisciotte, di Sancho Panza e delle loro avventure. Tutti sanno ma quanti lo hanno letto? Io, sempre pronto a rispondere a tutte le domande, confesso di non averlo fatto. E con la stessa onestà invece mi rivolgo a Bowles e soprattutto a Bertolucci, per cercare di tornare ai miei deserti ed ai miei tè.
Paul Bowles “Il tè nel deserto” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[trama pubblicata l’8 maggio 2016]
Non c’era certo bisogno di alcuna spinta motivazionale per inserire un tale libro cult nella lista delle mie letture. Solo una piccola idea in più, a valle dell’interessante pamphlet regalatomi or sono due anni da Otto e Ale. E devo dire che, interessante e degno di lettura, non mi ha convinto sino in fondo. Per tre motivazioni forti che ho ricavato dalla lettura: la totale mancanza di accenni all’islam come elemento fondante di una gran parte della vita nordafricana, la poca conoscenza della cultura tuareg, laddove si adombra una loro possibile vita poligamica mentre gli “uomini blu” sono intrinsecamente monogami, l’inconsistenza quasi naif dell’approccio alla vita locale da parte degli americani presenti nel libro. Anche se probabilmente quest’ultima osservazione deriva dall’esasperazione che Bowles mette nel descrivere caratteri d’oltreoceano, forse drogata dalle frequentazioni che nel suo eremo di Tangeri aveva in quegli anni. Perché dal ’47 Bowles si trasferisce dall’America in Marocco, dove vivrà gli ultimi 50 anni della sua vita, e dove ospiterà tra gli altri Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vidal, Allen Ginseng, William S. Burroughs e Jack Kerouac. L’altro elemento di “disturbo” è che, avendo visto il film di Bertolucci, mi aspettavo, certo erroneamente, una maggior coscienza delle proprie personali motivazioni da parte dei coniugi Moresby, sia Port (che sullo schermo ha la faccia problematica di John Malkovich) sia Kit (che sempre nel film ha una maggior consapevolezza di cosa voglia nelle sembianze di Debra Winger). Il libro di Bowles, invece, è un lungo omaggio alla scomparsa di sé, alla ricerca delle proprie motivazioni di vita, dove, scontrandosi con la realtà, questa vince alla grande. I personaggi principali, come detto, sono Port e Kit. Una coppia decentemente in crisi e ragionevolmente con dei soldi alle spalle, tanto che può permettersi non di fare i turisti, ma bensì viaggiatori, che non hanno una reale meta, anche se lontani da quella mitica proposizione di Robert Louis Stevenson (cui spero di arrivare prima o poi): “Io non viaggio per arrivare, io viaggio per andare.” Ed i due si trovano invischiati in tutta una serie di momenti che un viaggiatore reale avrebbe affrontato in altro modo. Port è condotto da un sedicente arabo, nottetempo, in una specie di bordello itinerante di belle signorine, con cui, senza porsi scrupolo, giace, per poi tirarsi indietro, sentirne sensi di colpa, ascoltare le loro parole senza capirne il significato. E guardando il proprio ombelico, Port non trova meglio che ammalarsi di febbre tifoidea, di non accorgersene, e di trovarsi isolato con Kit e senza reali possibilità di cure. Kit stessa, come lei dice alla ricerca del proprio io, in una notte in treno giace, più o meno consapevolmente, con Turner (più o meno, perché sembra che Kit vada a letto con tanti senza capire perché). Rosa dai sensi di colpa non saprà più gestire nulla, e non troverà di meglio che lasciarsi trasportare dagli eventi. Fugge da Port morente, per paura non si sa di cosa. Si perde in un primo deserto, salvata da un improbabile Tuareg che la aggrega alle sue mogli, per poi lasciarla in loro balia. Kit che continua a fuggire di arabo in arabo, tanto che alla fine, partendo dal Marocco, si ritroverà in Sudan (!). Di contorno abbiamo l’inutile Turner travolto prima da Kit, poi dai propri sensi di colpa, poi da tutto il contorno (sembra proprio uno di quegli americani in visita a Bowles a Tangeri). Un inutile burattino. Come inutili, se non come macchiette, la strana coppia formata da Eric Lyle e dalla sua sedicente madre. Che vivacchiano rubacchiando agli altri turisti, che continuano a girare lamentandosi di tutto. Esempio di come era facile ed anche inutile fare i turisti subito dopo la Seconda Guerra mondiale. E di come il mondo arabo si sia trovato invaso da gente che ha rovinato completamente la propria e l’altrui esistenza. Un piccolo cammeo è dedicato anche alle guarnigioni francesi del deserto algerino, con quel tanto di presupponenza che i francesi hanno sempre avuto, e quel molto di impreparazione che tutti qui stanno mostrando. Certo, gli avvenimenti si concatenano in modo talmente strano che ci si rende conto di essere trascinati verso azioni e comportamenti quasi obbligati (e sempre sbagliati). Con quel finale, che nel libro è l’unica cosa che preferisco al film, dove la scomparsa di Kit assume una connotazione di coscienza e non di paura. Rimangono, ahimè, soltanto i paesaggi, ed il Sahara, e tutti quegli scorci senza personaggi che sono la parte migliore (soggettivamente) del libro. Che spiace anche sia conosciuto con il fuorviante titolo della prima parte, e non con l’originale: “Un cielo protettore”. E chi è stato nei deserti, capisce, guardando il cielo, il senso di tutto ciò. Sia nelle giornate passate a ripararsi nelle oasi dal grande calore, sia nelle notti a guardar le stelle, finalmente senza altre luci che ne oscurino lo splendore. Non è un caso che abbia impiegato molto a leggere questo romanzo, quindi. Da cui aspettavo un mio ritorno mentale là dove, per problemi di guerre or non è possibile andare. Si, ho ripensato ai miei deserti, ed ho rivissuto la morbidezza libica e l’asprezza algerina. Ma per merito della mia immaginazione. Non di questo libro. Forse andava letto come metafora del perdersi in una inutile ricerca di sé, laddove il proprio io non stava. E forse questo sarebbe stato un altro libro. Rendo comunque omaggio alla figura di Paul Bowles ed alla sua vita, anche se non alla sua opera prima.
“Spesso, proprio durante un viaggio i suoi pensieri divenivano particolarmente lucidi, e prendeva decisioni cui non poteva arrivare quand’era fermo in un luogo.” (86)
“- Prima dei vent’anni … pensavo che la vita fosse qualcosa che andasse via via acquistando slancio. Anno per anno sarebbe diventata più ricca e più profonda. Uno imparava sempre più, diventava via via più saggio….  – E ora sai che non è così, vero? È piuttosto come fumare una sigaretta. Le prime boccate hanno un sapore meraviglioso, e non pensi che possa mai esaurirsi. Poi cominci a darlo per scontato. D’improvviso ti rendi conto che si è consumata quasi tutta, e proprio allora ti accorgi che in fondo sa di amaro.” (138)
“Il deserto è un posto così grande, eppure niente va veramente perduto, mai.” (265)

Conclusioni


Credo che tutti debbano soffermarsi su quella prima frase di pagina 86. Non so come, ma 6 anni prima di me, il grande Paul mi aveva fatto una fotografia non più ripetibile. Ed è questa la mia cura anti-letargica: stare fermi inaridisce cuore e mente. Per questo, al fine, il libro del deserto l’ho interpretato a rovescio: l’autore descrive l’apatia degli americani a Tangeri, io ci vedo la forza che i deserti ed i viaggi mi danno ancora alla mia quasi veneranda età.

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