Sarebbe stato facile, al ritorno
dal lontano Ladakh (in una zona simil-tibetana, contesa tra indiani e cinesi)
fare una battuta colorata. Invece riprendiamo i nostri scambi periodici con
alcune letture estivo-distensive. Ma permettetemi di dare il benvenuto a questi
micro-racconti ai miei compagni di viaggio indo-ladaki, che spero gradiranno
anche queste saltuarie note. Quattro italiani ora, con il fulminante Pandiani
che stacca tutti di molte lunghezze, con la delusione dell’ultimo Vichi e con
il rimpianto di prove migliori per il romano Ricciardi. Da Luceri poco mi
aspettavo e poco ho ricevuto.
Enrico Luceri “Le colpe dei figli” Mondadori euro 4,90
[A: 04/03/2015– I: 21/10/2015 – T: 22/10/2015] - &+&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 172;
anno 2015]
Sono
alla terza prova di lettura del poco noto e poco notabile Enrico Luceri. Il suo
primo libro vinse l’inedito del giallo, e ci può stare. Il secondo scorreva via
senza colpo ferire, con il mio commento iniziale sulla prevedibilità della
storia. Qui, siamo alla terza scrittura e stiamo precipitando. Non nella
scrittura in effetti, che la tastiera del computer la sa usare, e con
tranquillità. È la storia a far acqua da tutte le parti. E non è un caso che il
mio giudizio sia complicato (vedete su 1 libricino più 1). Che il romanzo non
merita più di 1 libricino, ma la presenza del commissario Buonocore e poi del
suo aiuto, l’ispettore Angela Garzya, ne fa aumentare la presa. Il commissario
è simpatico, con quel suo andare in bicicletta per Napoli (avventura che solo i
migliori azzardano), prende per i suoi ragionamenti, che arrivano alla meta
prima che lo stesso computer vi si affacci, pur se gestito dalla bravissima
ispettrice. Ed è una coppia che funziona, anche se alla fine ci si accorge che
il commissario ha finito il suo ciclo (cancro ai polmoni per il troppo fumo),
ma Garzya potrebbe diventare l’eroina di una qualche futura serie. Mentre non
funziona la storia in sé. Intanto quel titolo bislacco, che tutti collegano
all’originale, un passo biblico del libro di Geremia (“I padri mangiarono l’uva
acerba ed i figli ebbero i denti allegati” Geremia 31). E che collegato al
primo inutile capitolo, fa smontare tutta la tensione del possibile giallo,
dandocene ben presto la chiave. Se fossi l’editor di un tale libro, avrei
spostato il primo capitolo a quando Buonocore e Garzya hanno la prima
illuminazione riguardante il collegamento tra i morti che si susseguono in quel
di Napoli, tutti con lo stesso meccanismo: luogo isolato, botta in testa,
bruciati vivi mentre sono tramortiti. Tutto inizia in un’isolata baracca, dove
viene trovata morta una donna, specchiato medico della locale ASL. L’ipotesi
che sia il primo atto di un killer immotivato non convince il nostro
commissario. Buonocore è un poliziotto serie, con le sue inveterate abitudini:
schizzare un ritratto a matita degli interlocutori durante gli interrogatori,
fumare una sigaretta dopo l’altra, riflettere mentre pedala sulla sua vecchia
bicicletta nel tentativo di afferrare il filo della soluzione dell’indagine.
Certo il tutto si complica con la seconda morte: di nuovo una donna, di nuovo
lo stesso modus operandi. Non si cava un ragno dal buco, ed il commissario
viene affiancato da Angela Garzya, una trentenne investigatrice dell’UACV
(Unità di Analisi del Crimine Violento) proveniente da Roma, anche se nativa di
Casoria, tutta software e database. Mentre i delitti proseguono, e la verità
sfugge come il filo di un aquilone strappato dal vento, Buonocore e Garzya
hanno l’idea vincente di ricostruire il passato delle vittime. Per trovare il
famoso punto in comune, l’elemento che possa unificare e dare un senso alla
vicenda. Con difficoltà, e qualche colpo di fortuna, ovviamente non possono che
riuscirci. Pensate sempre al prologo infausto. Riuscendo a salvare una bambina
che il pazzo assassino tenta di bruciare nella scena finale (metto il maschile
solo per dovere grammaticale, che l’assassino potrebbe essere indifferentemente
maschio o femmina). La felice soluzione porta ad un avvicinamento cerebrale tra
Buonocore e Garzya, i cui metodi sembrano inizialmente contrastanti. Buonocore
ci lascia alla fine, dimettendosi per andare a curarsi un tumore ai polmoni. Ma
Garzya rimane, e chissà… Come detto, la scrittura scorre, ma la trama non
prende, troppo prevedibile e prevista, quando è scatenata da turbe personali
che trovano motivi, forse, solo nella testa del killer. Prende invece l’umanità
di Buonocore (e le sue mitiche pedalate per la bella città di Napoli) e
l’onestà di fondo di Garzya che, per l’appunto, ci aspettiamo sbuchi fuori da
altre storie. Peccato non sia sorretto il tutto da una ricerca verso una trama
più robusta.
Giovanni Ricciardi “La canzone del sangue” Fazi Editore euro 14,50 (in
realtà, scontato a 10,15 euro)
[A: 13/07/2015– I: 24/02/2016 – T: 26/02/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 191;
anno 2015]
Seguo
da sempre le uscite dei romanzi di Giovanni Ricciardi, con le conseguenti
evoluzioni delle avventure del commissario Ottavio Ponzetti. Devo dire,
purtroppo, che quest’ultima fatica è stata inferiore alle mie attese. Pur
comprendendo le motivazioni di scrittura e d’ambientazione, ho infatti trovato
poco adeguata alla figura del commissario lo svolgersi siciliano della trama.
Capisco che anche i poliziotti hanno diritto alle ferie, e che, per la natura
dell’idea a base della storia, una bella spiaggia siciliana ha una sua ragion
d’essere. Tuttavia, Ponzetti per me è legato a Roma, ed alle sue passeggiate,
dove, ragionando e camminando, il commissario arriva a decifrare il piccolo o
grande mistero che ha di fronte. E sono fortemente critico per quella copertina
dove si scomoda il simpatico Malvaldi per citare di Roma e di Ponzetti, quando
per l’appunto, l’unico momento di “romanità” è assistere all’involuzione della
parlata del fido Iannotta. Un po’ poco, per parlare di una Roma non per
turisti. Peccato, anche, per lo svolgimento, anzi il mancato svolgimento della
trama, che assistiamo ad una lunga pensata del nostro commissario intervallata
da qualche evento esterno, ma essenzialmente interna. Una riflessione lunga sui
temi della violenza, della morte, e dei rapporti umani, che mi ha ricordato le
passeggiate ateniesi del commissario Charitos di Petros Markaris. Un punto,
senz’altro, a favore dell’autore. Che prende spunto da una vicenda poco nota, o
comunque spesso travisata, per farne perno di una storia che ha una sua logica
ed un suo svolgimento credibile. Tutto (o molto) ruota intorno ad una supposta
canzone popolare siciliana, quella “Vitti ‘na crozza” che invece è stata
composta, nella forma che conosciamo, da Franco Li Causi nel 1951 per la
colonna sonora del film di Pietro Germi “Il cammino della speranza” (film non
riuscito, ma che andrebbe rivisto alla luce dei migranti attuali, visto che
tratta delle emigrazioni siciliane verso la Francia per sfuggire alla schiavitù
delle miniere). La finzione di Ricciardi (che segue travisandola leggermente la
vicenda reale della canzone, su http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=4392
è possibile leggerne ed approfondirne) coinvolge il commissario Ponzetti, in
vacanza in Sicilia, nella faida della famiglia Arnone. Famiglia che possiede i
diritti della canzone, ma che forse fu composta dal minatore Giuseppe, e da
questo cantata, come sfida, al matrimonio del capostipite Casimiro. C’è
Concetta, figlia di Giuseppe, ragazza madre a quindici anni, che, morto
Giuseppe, viene presa a servizio da Casimiro. E nella casa cresce la piccola
Annamaria, diventando una bellissima donna, che non ci si sorprende vada sposa
all’inconcludente Matteo, figlio di Casimiro. Matteo è impotente, Annamaria è
bella e vuole fuggire, forse attratta dal giovane musicologo Leonardo.
Annamaria che canta e suona il violoncello. Annamaria, che in un breve incontro
con il nostro, lo sconvolge con la sua triste storia e con un bacio. Poi,
Casimiro viene trovato morto, ucciso da uno strano strumento, a punta e
arrotondato. Contemporaneamente scompare Annamaria, scompare Leonardo, Concetta
si rifugge dallo zio, unico maschio della loro stirpe ancora in vita, e famoso
liutaio. Tutte le quasi duecento pagine sono poi occupate dalle elucubrazioni
di Ottavio, intorno ai fatti, intorno alle possibili spiegazioni, ad un
rapporto ammiccante con i commissari di carta: un indizio per arrivare a
qualche spiegazione sensata gli viene da una lettera che gli invia il commissario
Montalbano (piccole metafore su chi sia reale e chi lo sia meno, e qui,
ritornano quelle punte di ironia che s’erano perse). Finiamo sulla falsariga di
due possibili interpretazioni dei fatti, entrambe plausibili, e sulle quali né
Ponzetti né Ricciardi prendono posizioni, lasciando il cerino in mano a noi
lettori. Ognuno andrà per quella che rispecchia meglio il proprio animo. Io
penso che le ultime pagine siano un po’ forzate per questo. Se Ricciardi voleva
spiegare tutto, avrebbe preso altre strade prima. Meglio lasciare tutto un po’
nell’ombra. E tuttavia il libro, per il mio gusto, non è riuscito. Non escono
fuori i personaggi delle altre puntate della saga con la stessa forza scenica.
Non esce Jorge il genero, non esce la moglie (qui molto in ombra), accennate le
figlie, con quel nuovo amore della piccola verso il somalo-padovano, esce un
po’ di sbieco, e forse malino, Iannotta, che non mi convince con
quell’inasprirsi del dialetto di Roma. Ma soprattutto, manca, completamente,
Roma, componente imprescindibile fin qui delle storie. Ci possono essere
momenti di stanchezza, ed urgenze di dire altro. Che forse, altro e più diretto
è quello che succede al cane Socrate ed al suo padrone Galloni, un cammeo, ma
illuminante. Alla prossima opera, omonimo.
Enrico Pandiani “Troppo piombo” Instar Libri euro 9
[A: 10/11/2014– I: 01/04/2016 – T: 03/04/2016] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 374;
anno 2010]
Avevo
lasciato il primo episodio de “Les Italiens” con un mio dubbio, o forse
dimenticanza, sull’identità del narratore. Ecco che, in questo secondo romanzo
della serie viene subito fuori anche questo nome: Jean-Pierre Mordenti. Fatto
questo debito raccordo tra i due libri, dico ancora a ruota che Pandiani
continua ad essermi simpatico. Per la scrittura in generale, con questo tono
tra lo scanzonato e l’impegnato, e, soprattutto, per quel continuo rimando
interno alle avventure di un mio mito d’adolescenza: il mitico commissario Sanantonio
del francese Frédéric Dard (anzi, per essere precisi, San-Antonio, vero
Luana?). Certo un rimando mentale, dovuto più che altro alla base delle trame,
piuttosto che alla caratteristica lingua franco-inventata di Dard. Pandiani non
usa giochi di parole, invenzioni ed altro, ma si mette nel bel mezzo di un nero
d’azione, con tanto di sparatorie, condito da scene di letto, che facevano la
gioia di noi adolescenti negli anni Settanta. Riuscendo alla fine ad imbastire
un romanzo che, partendo dal mitico commissario francese, si imparenta con le
trame grandguignolesche di Jean-Pierre Manchette, restituendoci un romanzo
gradevole, con alcuni colpi di scena, ed una trama abbastanza avvincente. Solo
avvincente, in questa seconda uscita, che qui ci sono meno echi di tematiche
sociali, anche se qualcosa viene fuori, in controluce, rispetto ad uno stupro
perpetrato ed alla relativa vendetta. Ma ora corro troppo, che del romanzo è
forte l’impatto “macaronì” degli italiani immigrati in Francia e negli anni
integrati nel tessuto nazionale. La brigata del commissario Mordenti, infatti,
come ricorderete dal primo episodio, è composta tutta da oriundi: il vice,
Alain Serandoni, ed i tre ispettori, Michel Coccioni, Didier Cofferati e Leila
Santoni (anche se Leila è di origini corse più che italiane). Mordenti ed i
suoi sono questa volta chiamati a risolvere il mistero delle morti di alcune
giornaliste del quotidiano Paris24h, a partire dalla prima, Therèse Garcia,
massacrata di botte e poi uccisa, lasciando intorno al cadavere un gran numero
di scarpe. Pandiani gioca già nel titolo tra il piombo delle pistole e quello
usato per stampare i giornali. Che tutto ruota intorno al giornale. Una seconda
uccisione dalle stesse caratteristiche, ma con abiti invece che scarpe. Una
foto che ritrae quattro redattrici del giornale. Mordenti, bazzicando il
giornale, si fa anche irretire dalla giornalista di colore Nadége Blanc (unico
tocco “dardiano”, una negra di cognome bianco…). Si indaga, si entra nei misteri
dei rapporti mai facili in un ambiente competitivo. Dove sembra appunto che le
quattro di cui sopra siano abbastanza stronze ed abbastanza incavolato con il
successo di Nadége. Tanto da mandarla ad una sfilata alternativa che si tiene
il 1 ottobre nella banlieue di Parigi. Ma le danno un indirizzo sbagliato,
complottando con tal Gaspard di farle prendere uno spavento. Con lei è
l’autista del giornale, Daphne. Ma Gaspard si fa prendere dagli scrupoli e
porta Nadége in salvo. Non così sarà per Daphne, violentata a ripetizione e
salvatasi miracolosamente. Sarà il suo amante a proteggerla, nasconderla, ed
organizzare il massacro dei colpevoli. Prima Gaspard, ucciso e torturato per
avere i nomi delle giornaliste. Poi le giornaliste stesse. Anche Nadége sta per
cadere nella trappola, salvata miracolosamente proprio dal commissario, con cui
stava per andare a letto. Mordenti fatica un po’ a trovare il bandolo della
matassa, ma, mettendo insieme pezzi sparsi, agnizioni ed illuminazioni varie,
ritrova Daphne, scopre l’identità dell’amante, fino alla scena conclusiva, dove
questi sequestra Nadége, propone uno scambio (con un bel meccanismo complicato
che non vi sto a narrare). Sarà sempre Mordenti a trovare l’idea per mandare
tutto all’aria, anche se alla fine (pur in maniera inferiore del romanzo
precedenti) contiamo cinque (o forse sei) morti ammazzati, un ferito in quasi
coma e due ispettori con trami e ferite varie. Niente ovviamente ai più di
venti della prima uscita. Sul lato divertimenti e citazioni posso comunque
collocare la macchina di Mordenti (una Karman-Ghia, una specie di evoluzione
telaistica e cabriolet del Maggiolone Volkswagen), la super band che Mordenti e
Serandoni ipotizzano di costruire per passare il tempo (per gli amanti del
rock: John Bonham dei Led Zeppelin alla batteria, Jack Bruce dei Cream al
basso, Alvin Lee dei Ten Years After alla chitarra solista, Randy Rhoads della
Ozzy Osbourne Band alla chitarra ritmica, Ray Manzareck dei Doors alle tastiere
e Robert Plant sempre dei Led Zeppelin alla voce; mitica idea, peccato che, a
parte, Plant, siano tutti morti!). due soli appunti di precisione: la rivolta
delle banlieue parigine ebbe inizio il 27 ottobre e non il 27 settembre, e la
coppia comica, citata correttamente a pagina 17 con il suo nome (Abbott e
Costello) in Italia è meglio nota come Gianni e Pinotto. Peccati veniali, per
un divertente libro di hard-boiled italiano. Ah, dimenticavo, un altro appunto,
ma di metodo: Mordenti miete donne a profusione (Océane nel primo libro, Nadége
in questo), peccato che poi svaniscano come neve al sole, lasciandoci qualche
rimpianto in testa. Noi siamo esseri puntigliosi, che vogliamo sempre sapere
cosa succede a tizio o caia, anche dopo l’ultima pagina del libro.
Marco Vichi “La forza del destino” TEA euro 9 (in realtà, scontato a
8,45 euro)
[A: 01/03/2015 – I: 09/04/2016 – T: 12/04/2016] – &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 384;
anno 2011]
Avevo
lasciato Vichi, il commissario Bordelli e l’alluvione di Firenze del ’66 quasi
tre anni fa (era il maggio del ’13), ed ora ecco che si riesce a passare al
successivo episodio. E se il precedente, come scrissi, mi aveva lasciato
insoddisfatto (pur nell’apprezzamento di alcune qualità sia dell’autore che del
personaggio), qui sono moderatamente deluso. Come si può vedere anche dal
giudizio che ne do in alto. L’ho trovata una copia, pur modificata ovviamente,
del grande requiem per il romanzo giallo de “La promessa” di Dürrenmatt. Un
debito che tra le righe confessa lo stesso Vichi nelle interviste finali,
aggiunte in appendice, ma che non danno particolari nuovi, o nuove letture del
romanzo che si è appena finito di leggere. Ricordo che nel libro del grande
svizzero, un poliziotto, non riuscendo a trovare le prove di un assassinio di
una ragazzina, si mette in pensione, ed elabora per anni un piano che dovrebbe
portarlo ad incastrare il colpevole. Non vi dico certo come va a finire il
libro di Dürrenmatt, ma le motivazioni del commissario Bordelli sono analoghe.
Nel precedente “Morte a Firenze”, avevamo assistito alla morte del piccolo
Giacomo, ed alla confessione di uno degli assassini, che rivela a Bordelli i
nomi degli altri colpevoli. Poi si suicida, ed il commissario non ha nulla in
mano. Anzi meno di nulla, che, nel tentativo di incastrarli, l’unica cosa che
riesce ad ottenere, purtroppo, è che questi si vendicano sulla sua giovane
fidanzata. Qui attacca il nuovo romanzo. Bordelli, per non far del male alle
altre persone cui vuole bene, chiede il pensionamento anticipato e va a vivere
in campagna. Eleonora, colpita dura, sparisce dalla sua vita. E lui resta lì, a
rimuginare sulla sua vita, ad accompagnarsi con i suoi amici rimasti, pensando
a come vendicare Giacomo. Si accompagna con il suo ex-assistente, il sardo
Piras. Fa delle manovre poco lecite con il simpatico ma truffaldino Botta. Che
in cambio gli dà le sue ricette “segrete”. Con le quali Bordelli comincia a
cimentarsi, e con successo, in cucina, avendo anche cura di dedicarsi agli
ingredienti genuini che cerca di tirar fuori dal suo orto. Avrà anche un
incontro con una sua vecchia fiamma, con la quale cercherà, senza riuscirci, di
superare il trauma verso Eleonora. C’è anche un intermezzo da investigatore
privato (quasi alla Bacci Pagano, e poi capirete perché). Una contessa gli
affida il compito di capire se il figlio, quattordici anni prima si sia
suicidato o sia stato ucciso. Figlio che stava diventando un avvocato rampante,
ma gli studi presso cui lavorava poco dopo la sua morte, trasferiscono soldi
all’estero e spariscono. Problema della morte è il solito: la stanza chiusa!
Come mascherare un omicidio in suicidio? Chiudendosi dentro la stanza e
sgusciando fuori senza farsi accorgere dopo, e sottolineo dopo, che il morto è
stato trovato. Così hanno fatto per il giovane. Ma non si trovano prove, oltre
l’intuizione di Bordelli. Che per pietà della madre, decide di insabbiare tutto
(ed in questo mi ricorda dei tratti di Bacci, che antepone talvolta umanità a
giustizia). Ma tutti questi panegirici, questo girare intorno ed in tondo, servono
a Vichi per preparare il terreno alla vendetta di Bordelli. Che, uno dopo
l’altro, sfruttando anche alcune casualità, riesce a vendicare il povero
Giacomo. Andando per boschi trova il macellaio in difficoltà, e riesce ad
ucciderlo simulando un suicidio. Sfruttando l’idea della morte del giovane su
cui indagava, si introduce nella casa dell’avvocato. Ed anche lì inscena un
suicidio, aspetta che venga la polizia nascondendosi in soffitta, e poi torna
facilmente verso la sua casa di campagna. Trova infine il modo, ma qui non vi
dico né come né con quali modalità né chi sia, di eliminare l’ultimo e più
pericoloso pedofilo. Il tutto farcito da digressioni ed elementi spuri. Ricordi
della vita militare di Bordelli durante la guerra. Episodi di lotta ai tedeschi,
e di lotta di liberazione. Dove Vichi ci ricorda, ma noi lo sappiamo bene, che
non ci furono solo partigiani a liberare l’Italia. Forse bastava aver letto
anche Fenoglio per ricordarselo. E racconti vari intorno al fuoco, piccoli
mini-racconti che servono solo ad allungare il brodo delle pagine e della vita.
Non c’è una finalità interessante, che Bordelli si erga a “giustiziere della
notte” mi sembra un elemento risibile della storia stessa. Tanto che dopo aver
fatto piazza pulita, ed essersi messo la coscienza a posto, decide
inopinatamente di ritirare le dimissioni e tornare in servizio. Non mi ha
convinto. Né, rispetto ad altri romanzi della serie, ha una ricostruzione
coinvolgente dell’ambiente d’epoca (il 1967, ricordo). Insomma, un tentativo di
scrivere un giallo non giallo, che non riesce né in quanto giallo né in quanto
non giallo.
“Come ogni volta dopo aver letto un bel
romanzo, gli sembrava di aver conosciuto realmente i personaggi della storia.”
(92)
Anche
se non è domenica, è comunque la prima trama del mese, ed essendo appena
tornato, prima di partire di nuovo, anche se non ci sono viaggi in vista, ecco
le letture di giugno. Il primo dei tanti mesi che seguiranno con letture
contenute, date le continue, proficue e piacevoli partenze. Sei libri di poca
presa, forse con il solo Augé che terrei in considerazione per quel suo
insistere sull’età soggettiva (sempre in disaccordo con quella anagrafica), e
che conclude che moriremo sempre giovani a prescindere da quando (o più tardi
possibile) accadrà questo evento.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Irene Adler
|
Il trio della dama nera
|
Repubblica Noir Junior
|
6,90
|
3
|
2
|
Marc Augé
|
Il tempo senza età
|
Raffaello Cortina Editore
|
11
|
3
|
3
|
Marco Presta
|
Un calcio in bocca fa miracoli
|
Einaudi
|
12
|
3
|
4
|
Arnaldur Indridason
|
Le abitudini delle volpi
|
TEA
|
10
|
2
|
5
|
John Grisham
|
La prima indagine di Theodore Boone
|
Repubblica Noir Junior
|
6,90
|
3
|
6
|
Aldo Budriesi
|
Identità violate
|
Mondadori
|
4,90
|
2
|
Allora,
benvenuti ai “magici” viaggiatori che troveranno anche loro, periodicamente,
queste mie righe volanti. Se poi ne saranno stufi e/o sazi, non resta che
inviarmi un rigo. A tutti invece rimando il piacere di un viaggio sorprendente,
tutto sopra i 3500 metri degli altopiani pre-himalayani. Un viaggio che sicuramente
rimarrà. Ora il vostro “vecchio” scrivano si prende una pausa di viaggi, per prendersi
cura della mamma malandata. Ma di certo a tutti va un saluto con il pensiero
alla musica stupenda che poteva nascere dalla band di Pandiani.
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