domenica 14 gennaio 2018

Rimpianti, rimorsi - 14 gennaio 2018

Prendo a prestito una parte del titolo del miglior libro che vi presento questa settimana, con quella frase che riporto e che faccio mia. Una settimana per metà dedicata a Pino Cacucci, ed è una metà interessante, che consiglio di leggere, soprattutto la storia degli anarchici francesi di inizio Novecento. Il tutto è completato da un dignitoso Carofiglio, anche se lontano dai fasti delle storie dell’avvocato Guerrieri, ed un datato Maurensig, di cui, oltre la famosa variante scacchistica, ho letto ma senza che si torni a quel piacere di lettura.
Pino Cacucci “Puerto Escondido” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 03/03/2015 – I: 03/04/2017 – T: 07/04/2017] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 398; anno 1990]
Finalmente riesco a leggere il primo vero libro scritto dall’ottimo Cacucci (in realtà il secondo, essendo uscito poco tempo prima “Outland Rock”, che però non riesco a trovare). Libro pubblicato nel 1990 da “Interno Giallo”, quella breve parentesi editoriale di Marco Tropea e Laura Grimaldi che tanti bei libri ed autori lanciò nei 4 anni di vita. Un libro che era nel mio immaginario, pur non avendolo ancora letto, sia per la fama di libro-epopea di italiani sbandati verso il Messico, sia per il film (che purtroppo non ho visto) di Salvatores con Diego Abbatantuono. Certo colmare una tale lacuna a quasi trent’anni di distanza lascia qualche strascico di sentito, di già detto, di travisato. Tuttavia, pur con alcuni limiti, è un libro che si legge bene. Che, inoltre, come dice lo stesso Cacucci, riuscì allora, e riesce tuttora, ha dare un colore a queste strane faune che si aggirano per il (secondo, terzo, o forse altro) mondo. Preliminarmente mi scuso con l’autore che per tutta una prima parte, avendo letto che il protagonista lavora in un ippodromo ho dedotto che vivesse a Milano (unico luogo in cui pensavo esistesse). Devo dire che invece quando ho scoperto che si trattava dell’Arcoveggio di Bologna, mi sono stati tutti più simpatici. Fatta questa premessa, devo però anche dire che, nelle linee generali, c’è una certa ripetitività nelle macro-situazioni: confusione, pericolo, salvataggio e fuga. La prima avviene a Bologna, la seconda all’isola d’Elba, la terza a Barcellona, la quarta ed ultima in Messico. Tutto infatti comincia con il povero Mario che vuole rinnovare il passaporto scaduto (ma come si fa a far scadere il passaporto? Ne vogliamo parlare, ora che sono al numero 7, e tutti, meno il primo, rinnovati per esaurimento di pagine?), e nel commissariato assiste all’uccisione di un poliziotto da parte del corrotto commissario Everardo Schiassi. Fugge dall’Ufficio, ma Schiassi lo ritrova, e, pensando che lo possa denunciare, tenta di ucciderlo. Ma Mario si salva, e da questo punto inizia uno strano balletto tra i due. Con Mario che qui (e per quasi tutto il libro, cosa che un po’ innervosisce) si lascia trasportare dagli eventi, come una barca in balia delle onde. Schiassi gli offre dei soldi per tacere, e Mario pensa bene di andare all’Elba per non farsi trovare. Lì, mentre si riposa al sole, nota una barca con tre strani personaggi (una donna e due uomini) che si aggirano quasi vicino all’isola con fare losco. Incuriosito, ovviamente finisce a letto con Aivly, ma mentre sembra che tutto vada in un senso positivo, ecco che arriva il commissario. Mario nel frattempo ha rovinato i piani dei tre, ma Schiassi cerca sempre di fregarlo. Per fortuna che Aivly ed i suoi se ne accorgano, lo liberano dal commissario e gli danno un passaggio in barca sino a Barcellona. I tre se ne vanno, e Mario cerca di trovare un modo per sbarcare il lunario. Trova ospitalità da un amico che per il momento è via, ed ha lasciato la casa a Pill, una ragazza che vive facendo il lettering ai fumetti (e se non sapete cos’è problemi vostri, oppure chiedete a Luana). Anche a Barcellona, il nostro si aggira senza un vero perché, tra feste con tanta “maria”, alcool che gira a profusione, ed anche qualche giro nel letto di Pill. Se non ci fosse Schiassi ed i suoi interventi, sembrerebbe il racconto della vita di un post-settantasette, un po’ ai margini, con qualche coscienza sociale, e molta voglia di restare fuori dall’ordine costituito. Nonostante possa stare a Barcellona senza troppe preoccupazioni (avendo anche intrapreso un lavoretto di traduttore in italiano), pensa (ma è proprio pollo) di chiedere un documento all’ambasciata, visto che non ha passaporto, e la carta d’identità si è bagnata. Ovvio che, due giorni dopo, alla sua porta si presenta … Schiassi. Agnizione, colloqui, mezze parole. Schiassi è ben cotto in questa sua fissa (ma se lo lasciava stare…), porta altri soldi. Che Mario ruba e fugge in Messico. C’è tutta una parte sulla falsificazione di travel check che ho seguito molto blandamente. Alla fine Mario si ritroverebbe con un bel gruzzolo per vivere decentemente. Ovvio che, essendo l’imbranato che è, non pensa di “pararsi il culo”, e viene immediatamente derubato da un italiano guascone ed anche lui sul filo della legge, il buon Elio. Dopo varie vicissitudini Mario recupera i soldi e si instaura uno strano rapporto di amicizia con Elio. Finalmente i due si ritrovano a Puerto Escondido. Qui la parte più interessante, con la descrizione della locale fauna di emigrati italiani tutti ai limiti della legge, tra party di coca, piccoli furti, attriti (chiamiamoli così) con la locale polizia. È la parte migliore, quella che fa fare un piccolo scatto al libro, quella in cui, finalmente, Mario sembra anche uscire dal suo torpore. Riesce anche a ritrovare Aivly ed i suoi. Non solo, tra un’avventura e l’altra, si ritrova anche di nuovo a Città del Messico, in un ristorante italiano gestito da … Everardo. Questi ha ormai cambiato vita. La polizia italiana l’ha lasciata avendo ormai terra bruciata, e si è ritrovato anche lui in Messico, innamorato perso di una signorina locale simpatica, e coinvolto nella vita (felice?) di emigrato senza possibilità di ritorno. Dicevo che Mario sembra uscire dal torpore, prima coinvolto in una rapina finita male con Elio, poi in un assalto al carcere dove, con Aivly, libera Elio. Si organizza un ultimo colpo, per raggiungere un gruzzolo che consenta un futuro più tranquillo. Ma tutto precipita per dei tipi loschi che perseguitano Aivly. Sembra che tutto finisca male, se non intervenisse, questa volta nelle parti del buono, proprio il nostro Everardo. Schiassi libera tutti e torna alla sua pasta. Aivly ed i suoi amici scompaiono. Mario ed Elio tornano a Puerto per continuare la loro vita fatta di poca sostanza e di molto arrangiarsi. Nel complesso, mi è piaciuto leggerlo, anche se, come detto, qualche parte lunga e/o ripetitiva. Avendo letto altro, preferisco Cacucci quando racconta fatti o personaggi storici. Ne trovo maggiori coinvolgimenti e miglior empatia.  
“Al ritmo della salsa … che racconta di un tizio chiamato Pedro Navaja che si dedica ad assaltare gente col coltello, finché una prostituta non tira fuori la sua .38 e lo fa secco.” [un classico sudamericano “Pedro Navaja” di Ruben Blades, che mi riporta ai tempi di Rebibbia] (221)
Pino Cacucci “In ogni caso nessun rimorso” Feltrinelli euro 9,50
[A: 07/05/2015 – I: 08/08/2017 – T: 14/08/2017] - &&& e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 308; anno 1994]
Continua a piacermi ed a convincermi, Pino Cacucci quando prende un fatto, sia esso di sangue, di cultura o di altro, e ne costruisce e ricostruisce contorni veri o plausibili. Già lo dissi con “Oltretorrente”, e lo ribadisco qui dove mi ha permesso di scoprire fatti ed avvenimenti che si orecchiavano, ma cui non avevo mai dedicato il giusto approfondimento. Come appunto il caso della “famigerata banda Bonnot”, e dei suoi membri. Lascio appositamente le virgolette, perché quello che Cacucci ci narra fa apparire in una più giusta prospettiva, fatti di sangue che, in altro modo, apparivano esternamente appunto solo come fatti delittuosi. E dietro invece, c’era di più, molto di più. Ora non è che io voglia giustificare le malefatte compiute da Bonnot & soci, ci sono dei limiti di giustizia che, per me, sono sempre invalicabili. Ma inserendo gli avvenimenti nel loro contesto storico, inserendo i personaggi nel loro contesto sociale, ne viene fuori un quadro più comprensibile, anche se mai giustificabile. Cacucci, con le debite proporzioni ed i distinguo del caso, riporta Bonnot alla dimensione “compagni che sbagliano” degli anni ’70 del secolo scorso. Dove io avevo sempre messo l’accento più sul secondo termine del discorso. Ma questa vicenda, che si sviluppa a cavallo tra ‘800 e ‘900, con il suo culmine intorno agli anni ’10, e la sua fine tra il 28 aprile 1912 ed il 13 febbraio 1913, è di tutto altro stampo, ovviamente. Con la sua solita capacità affabulatrice, Cacucci ricostruisce da un lato la storia personale di Bonnot, dall’altra, anche se in tono minore, quella degli anarchici individualisti francesi di quegli anni. Dando anche conto del clima che si viveva in quegli anni. Sperequazioni sociali, lavoratori sottopagati e vessati. Niente di nuovo sotto il sole, direte voi. Ma aumentato da tutti quegli strumenti che al tempo mancavano: protezioni sociali, comunicazioni, ed altro ancora. Esemplare, appunto, è la storia di Jules Bonnot. Figlio di povera gente, lavora ad una fonderia, si spacca la schiena, ma come cerca di alzare la testa, magari per un sopruso del guardiano di turno, il minimo che gli succede è di essere licenziato. E di essere bollato come testa calda, in modo che neanche le altre industrie locali volevano assumerlo. Questa terra bruciata fa sì che un povero diavolo, senza nessuna colpa, si trovi indigente e senza mezzi di sostentamento. Bonnot passa tutta la trafila di queste presunte colpe, solo appunto per aver “alzato la testa”. Andrà ramingo di luogo in luogo, si sposta dalla Francia al Belgio, ritorna in Francia, prova con la Svizzera. In tutto questo, dotato di vivace intelligenza, comunque legge, e si appassiona a quegli scritti che gli fanno vedere possibili alternative. In particolare, i libretti anarchici. Ha un momento di pace solo facendo il militare, dove apprende a guidare automezzi di tutti i tipi, avendo una particolare sensibilità per la meccanica. Insegnamento che, nel bene e nel male, gli servirà nel suo breve futuro. Finito il militare, nel 1901 si sposa, sembra aver messo la testa a posto. Ma la morte della figlia lo ricaccia nella disperazione. Ricomincia a leggere e far propaganda per gli anarchici, viene cacciato dalla Svizzera dove si era rifugiato. Ma in Francia continua a non trovare lavoro, la moglie lo lascia, e per sopravvivere impara con successo a scassinare casseforti. Il bottino di queste rapine però viene in gran parte devoluto alla causa. Ha una pausa “di riflessione” nel 1910, quando, per sfuggire a qualche arresto, si rifugia a Londra. Lì per qualche tempo, da bravo autista, lavora al servizio si Arthur Conan Doyle, con cui parla dell’anarchico Marius Jacob, che secondo molti sarebbe l’ispiratore dell’Arsenio Lupin di Maurice Leblanc. Ma il richiamo della Francia è forte, e presto torna a Parigi, dove entra in contatto con il gruppo anarchico che si raccoglie attorno alla rivista “L’Anarchie”. Con i giovani anarchici individualisti, si dedica allora ad una serie di colpi spettacolari, utilizzando per primo l’automobile come mezzo fondamentale per le rapine. Per attaccare, per controllare, per fuggire. Ma la breve e folle stagione avrà ben presto la sua fine, e gli anarchici, isolati e senza sbocchi, vengono ben presto arrestati. Bonnot perisce in uno scontro a fuoco. Altri verranno impiccati il 13 febbraio 1913. Ma per Cacucci non è soltanto Bonnot cui rivolgere l’attenzione, ma il clima che produce Bonnot. Ed il mondo che vive. E le persone che gli sono attorno. Gli anarchici, come si diceva, giovani, ribelli senza domani. Il poliziotto Juin che per anni gli dà la caccia, capendo l’origine della ribellione, comprendendo i motivi, ma disapprovando il modo in cui Bonnot ed i suoi li traducono in pratica. Anche Juin non ha spazio in questo mondo, e finirà ucciso proprio da Bonnot. Fino ad una interessante figura che attraversa quegli anni: il belga di origine russa Victor Kibalcic. Anche lui emarginato, anche lui maturato nel clima anarchico, tanto da diventare punto di riferimento della rivista di cui sopra. Ma Victor ha una sua deontologia, che lo porta a rifuggire sia la ribellione individuale, sia l’uso scriteriato delle armi. Sarà uno dei pochi del gruppo parigino ad uscirne positivamente. Cambia il cognome in Serge, va in Russia poco dopo la rivoluzione, diventa un membro importante del Partito Comunista. Ma la sua natura, anche passando dall’anarchia al marxismo, rimane diritta ed incorruttibile. Benché faccia carriera, rimane ostile a Stalin, legandosi invece a Trotskij. Insieme al quale ripara in Messico, dove morirà, a soli 57 anni, d’infarto. Mi scusa della digressione su Victor Serge che fa parte solo marginalmente del libro di Cacucci, ma è invece presente nel mio giovanile pantheon letterario, da quando a 17 anni lessi il suo “Memorie di un rivoluzionario”. Per tornare al libro, invece, finisco con il dire che, pur con alcune involuzioni, ed elementi magari troppo romantici (come il rapporto amoroso tra Jules e Judith) è un libro che ci dà conto della “vita agra” di tutti i tempi, e da cui si esce discretamente arrabbiati, per le possibilità che ci possono essere, e che non vengono sfruttate. Comunque, ed ancora, una bella prova letteraria.
“Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso…” (300)
Gianrico Carofiglio “Il silenzio dell’onda” Rizzoli euro 15 (in realtà scontato a 7,50 euro con Vintage)
[A: 13/07/2015 – I: 27/11/2017 – T: 29/11/2017] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 300; anno 2011]
Una discreta lettura, anche se non c’è l’avvocato Guerrieri, anche se non è un giallo, anche se, essendo un romanzo, non raggiunge l’intensità de “Il passato è una terra straniera”. Poteva anche ambire qualcosa in più se non si fosse lasciato irretire dall’effetto dell’onda. Aveva questa immagine del surfista sull’onda, che torna più volte e che chiude il romanzo, ma lo fa forse in modo un po’ affrettato, troncando situazioni che potevano avere sviluppi migliori. Tra l’altro sembra un romanzo dedicato ad essere facilmente trasportato in teatro, pochi personaggi, azioni facilmente raccontabili, molto dialogo, diretto o indiretto. Infatti è un romanzo che, strutturalmente, mi fa fare un salto di quasi venti anni all’indietro: infatti l’impianto generale è dedicato ad un rapporto tra due pazienti ed uno psicologo. C’è la paziente Emma, con dodicenne figlio Giacomo, che va in questa struttura d’aiuto non riuscendo a risolvere un dramma vissuto, di cui lei (ma non noi) si addossa la colpa. Il rapporto con il padre di Giacomo è in crisi per una serie varia e complessa di motivi, decidono di forzare la mano lasciandosi (più sulla sua spinta che su quella del marito). Pochi giorni dopo, il marito ha un incidente in moto e muore. Lasciando in Emma da un lato dubbi irrisolti, dall’altro la gestione di un figlio intelligente, ma che cresce senza padre (e sul rapporto padre-figlio torneremo più avanti). C’è il paziente Roberto, carabiniere, o ex, con già qualche montagna di problemi alle spalle prima di iniziare a lavorare. Figlio di un’italiana e di un americano, vive i primi 16 anni in California (da cui il surf, il titolo e la mia critica iniziale), con il padre poliziotto (o simile). Finché, il padre viene trovato con le mani nel sacco, ad appropriarsi di piccole somme, qua e là. Arrestato, si uccide in carcere per la vergogna. Roberto e madre tornano in Italia, e, dopo la maturità, non avendo tanta voglia di fare, Roberto entra nei carabinieri, quindi, dopo brevi accenni di cui Carofiglio ci fornisce a volte dettagli a volte qualcosa in più (ma da buon ex magistrato deve avere molte storie analoghe nel cassetto), entra nei reparti operativi. Fa cioè l’infiltrato. E lo fa bene e con successo. Non vi narro le varie vicende di cui è protagonista, ma ci interessa solo l’ultima (a cui è ovvio arriva che già un po’ stressato e fuori di testa è). Lotta contro un cartello della droga colombiano (lui come californiano di San Diego parla bene anche lo spagnolo), due anni di lavoro per infiltrarsi nell’organizzazione, parte finale a Bogotá, presso uno dei capi del clan (inciso, Carofiglio ci narra della capitale colombiana in termini che mi hanno già fatto venire voglia di andarla a vedere). Lì, ovvio, una parte del dramma precipita: il boss ha una figlia under 30, di cui Roberto si innamora (lui è di poco over 40). Storia che non potrà avere sbocchi, ma che Roberto porta avanti fino all’ultimo giorno, quando deve tornare in Italia, quando deve avviare gli arresti clamorosi che seguiranno, quando Estela gli dice di aspettare un figlio da lui. Mandare a monte l’operazione o la sua vita? Sceglie la seconda opzione, poi viene per poco fermato prima che possa ripetere il gesto paterno. Da cui, cura psicologica. Emma e Roberto, in modo casuale, e fortuito, si incontreranno, cominceranno a conoscersi, ma prima che possa nascere l’ipotesi di una storia, Roberto deve intervenire ad aiutare Giacomo, che in maniera molto poco reale (questa parte è un po’ in minore), scopre un giro porno erotico in cui è coinvolta (forse) una sua (forse) futura fiamma. Aiuto riuscito, Giacomo sollevato (anche perché sia Roberto che Emma trattano da adulti le sue confidenze oniriche), e tutto che si avvia verso la fine. In cui non sappiamo come evolverà il rapporto materno tra Emma e Giacomo, non sappiamo come evolverà il rapporto (amoroso?) tra Emma e Roberto, non sappiamo se Roberto tornerà a fare il carabiniere. Insomma nulla sappiamo, se non un piccolo sassolino che esce durante un colloquio extra seduta con lo psicologo: anche lui ha un figlio, trentenne, e non sa come rapportarsi. Ecco, mentre il libro solleva interessanti spunti sul rapporto tra il sé ed il lavoro, tra il sé ed il mondo, tra i due sé che non avrebbero dovuto frequentarsi (ricordiamo, noi pazzi, le parole della nostra mentore Luisa…), come sotto prodotto c’è questo assunto. Roberto non ha conosciuto il figlio (e forse non è neanche nato, e di certo non lo sappiamo), Emma ha un figlio dodicenne, lo psicologo un figlio trentenne. In ogni età, ci sono problemi tra genitori e figli (se mi consentite una battuta, figli piccoli, problemi piccoli, figli grandi, problemi grandi). Problemi che mi fanno riflettere, ora, in quanto figlio, ed in quanto pieno, strapieno di problemi verso mia madre. Comunque, un libro di buon tono, che poteva colpire più a fondo qua e là, e che spero qualcuno porti sulle scene.
Paolo Maurensig “L’ombra e la meridiana” Mondadori s.p. (Prestito di Fako)
[A: 22/05/2017 – I: 29/11/2017 – T: 30/11/2017] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109; anno 1998]
Stavo per scendere verso un misero librino che non si nega a nessuno, quando, finito il libro, mi sono accorto che in fondo qualche corda toccava. Certo non mi ha coinvolto, interessato, emozionato, ma se uno sa scrivere, allora scrive. E se uno quando scrive sa scrivere ed ha qualcosa da comunicare, un poco arriva. D’altro canto, ci si aspetta qualcosa di più intrigante dopo aver letto sia “La variante di Luneburg” che “Canone inverso”, ma è ovvio che uno scrittore normale possa avere alti e bassi nella sua produzione. Altrimenti sarebbero tutti in fila per Nobel e premi vari. O per essere immortalati in qualche elenco di autori imperdibili nel panorama mondiale. Maurensig è un onesto scrittore, goriziano, approdato anche in tarda età alla notorietà scrivente, avendo compiuto i cinquanta anni all’esordio. E questo è il suo terzo libro (ne ha pubblicati fin qui una quindicina dal 1993, anno del suo primo libro). Benché alla fine si ricostruisca tutto il percorso che fa l’io-narrante, che prendiamo in mezzo al guado, la storia ha, per me, un solo punto “avvincente”, e su cui tornerò più avanti. Per il resto scorre, ed io la guardo e sono perplesso. Perché scorre come acqua fredda in guado, ma di cui si cerca solo il punto di attraversarlo e lasciarselo alle spalle. Non mi avvinghia nessuna parte del corpo la storia di questo fotografo che incontriamo in una locanda sperduta, intento a fotografare ripetutamente ed ossessivamente un vecchio morente. Come detto alla fine, quasi un ricapitolare di brandelli che si spargono per il testo, capiamo meglio la storia dello scrivente. Perde ben presto il padre, ha una buona giovinezza con la madre, fino a che, nella loro vita si introduce questo strano personaggio, questo zio Eugenio. Che l’autore non capisce, non decifra, si accorge che viene spesso la domenica, si accorge che i parenti lo invitano a chiamarlo “zio” anche se zio non è. Noi, smaliziati ed anziani, ci siamo accorti presto che non è altro che la nuova, ultima fiamma della madre. Ma la storia si vive tutta in ambienti antichi, in campagne, in piccole città (“bastardo posto” come direbbe Guccini). Per cui la madre non si apre, lo “zio” attraverso muto ed incongruo alcuni tempi della giovinezza del nostro. Fino a quando, purtroppo, non ho capito bene neanche di cosa, la madre muore. Certo c’è dolore nel nostro narratore. Ma meno di quanto ce ne aspettassimo. Come se questo rapporto muto avesse incrinato la beltà del rapporto genitore – figlio. Figlio che continua (o inizia) la sua vita. Che fa l’unica cosa che abbia voluto fare fin da giovane: il fotografo. Ma quasi in modo inerziale, lo fa perché qualcosa si deve pur fare per vivere. Apre anche uno studio. Ad un certo punto, incontra anche una gentile signorina. Con la quale scivola, senza accorgersi, senza volerlo, in un rapporto che sfocia in un matrimonio. E via così, non vivendo nessuno la propria vita. Ma una vita non vissuta, visto che se ne scrive, dovrà avere un punto di svolta. Che il narratore raggiunge quando vede il famoso “zio” Eugenio, ridotto su di una sedia a rotelle, scivolare, ineluttabilmente, verso la morte. Non ho capito perché il narratore allora, comprendendo la sua vita come fallimentare, decide di troncare tutti i rami. Lascia la moglie (e né io né lei riusciamo a capire i reali motivi), lascia e vende lo studio. Si trasferisce nella locanda dove vegeta lo zio. Fotografando, caparbiamente, instancabilmente, senza nessun costrutto, tutti i gradi di approssimazione alla morte. Maurensig ce ne descrive la discesa verso l’abisso, senza risparmiarci le crude scene di distacco del sé verso una vita quasi completamente vegetale. Sino, ed è ovvio, alla morte di Eugenio. Al funerale. Dopo di che, il narratore brucia tutte le foto, passa alcuni giorni malato a letto, e poi… Vi aspettate forse qualcosa? No, poi il libro finisce. Senza darci idee, senza fornirci prospettive, senza che si possa partecipare a qualcosa. Non l’ho capito. Tuttavia, quei momenti mortiferi, sulla sedia a rotelle, sulla minestra che cola di lato dalla bocca di un malato avviato alla morte, uniti alle poche parole di incomprensione verso la madre, e verso la morte della madre, hanno avuto risonanza in alcuni miei campanelli interni. Forse, in altri tipi di scrittura mi avrebbero coinvolto di più. Maurensig qui non lo fa e non credo ne leggerò ancora.
Terza trama, ed allora eccovi anche un allegato, che dovrebbe essere di felicità, ma che recupera alcune passate letture per rimanere ancorati a terapie amorevoli, in particolare nei rapporti madre – figlia.
Il tempo del mate si avvicina, ed io ci sto lavorando alacremente, e vi farò sapere, e vi terrò aggiornati. Per ora, e per il resto, tutto sui binari delle cure (di mamma) e del riposo (mio), purtroppo sporcato dalle faccende casalinghe a causa della malattia di Elisabetta. Ci sono però anche letture interessanti, ma di cui vi parlerò più avanti.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

GENNAIO 2018
Ne avevo parlato ad ottobre del 2016, ma ora non posso che tornare sull'argomento dopo aver letto altri due libri di Elena Ferrante.

TERAPIE D’AMORE (III) ripresa
I GIORNI DELL'ABBANDONO di ELENA FERRANTE (2002)

Pillole di trama       
Olga è una donna appagata: è sposata, ha due figli, un lavoro e anche un cane. Ma quando suo marito, di punto in bianco e senza alcun preavviso, la lascia dopo averle confessato che sta vivendo un «improvviso vuoto di senso», il suo mondo va in frantumi. Lei stessa va in frantumi, anche perché scopre che il «vuoto» del marito è più pieno di quanto lui abbia confessato, dato che è stato già abbondantemente riempito da una ragazza. Per Olga inizia un doloroso percorso che dall’autodistruzione la porterà alla ricostruzione di un io più forte.
Supposta-saggezza
Gli uomini, soprattutto dopo una certa età, diventano imprevedibili e sorprendenti. Ma non nel senso che improvvisamente si presentano con mazzi di fiori, propongono weekend romantici o prendono spontaneamente l’iniziativa di lavare i piatti, almeno per una sera. Generalmente la sorpresa imprevedibile si rivela l’inaspettato annuncio di essere in crisi e di avere bisogno di una “pausa di riflessione”. Ora, quando si dice di aver bisogno di una pausa di riflessione, tutti, uomini e donne, in realtà hanno già riflettuto e preso una decisione. Solo che nel caso degli uomini, il novantanove per cento delle volte vuol dire che hanno un’amante con cui sono riusciti a colmare con piena soddisfazione «quell’improvviso vuoto di senso» proclamato dal marito di Olga. Il primo istinto sarebbe quello di rispondere che il vuoto ce lo hanno nel cervello e che la pausa di riflessione non gli servirebbe a niente perché non hanno l’equipaggiamento per riflettere. La lettura de “I giorni dell’abbandono” consente di seguire un percorso diverso, meno istintivo e più costruttivo. Si tratta di una sorta di discesa negli inferi della psiche della protagonista che, tra i fantasmi di un passato sepolto e i lampi di una quotidianità che sembra improvvisamente estranea, mette in moto un processo di autoconsapevolezza lento, doloroso ma indispensabile. Così, dopo una fase iniziale in cui si lascia andare all’autocommiserazione (comprensibile) della propria condizione, esacerbata e rancorosa verso il mondo intero, incurante di se stessa e intenzionata a sbattere in faccia a tutti il suo dolore per farsi compatire (come il ruolo della moglie abbandonata richiede), Olga comincia a srotolare quel gomitolo di rabbia che le si è annodato intorno al cuore e, ritrovando il bandolo della matassa, riesce a dare un nuovo e più compiuto significato alla sua vita, scoprendo che quella vissuta e considerata piena era solo “riempita” da una serenità di facciata che nascondeva silenziose voragini. Dopo ogni fine ci può essere sempre un nuovo inizio, dice la Ferrante, soprattutto se la fine è un abbandono che a rigor di logica, dovrebbe implicare un “ritrovarsi”. Basta provare a camminare con «il passo tranquillo di chi crede di sapere dove andare e perché».
Posologia
Particolarmente consigliato alle donne mature (ma in forma preventiva anche alle giovani lettrici), “I giorni dell’abbandono” è un integratore a base di collagene indicato per ricostruire i tessuti connettivi frantumati dalla fine di un matrimonio. Il collagene è la colla del corpo, ciò che ne tiene insieme i tessuti e che, contribuendo alla rigenerazione di cartilagini e legamenti, garantisce resistenza ed elasticità. Dal momento che la naturale produzione di questa proteina diminuisce con l’avanzare degli anni, eventi traumatici come una rottura sentimentale in età matura possono rendere necessaria un’integrazione per ricostruire tessuti e ridare vigore alle articolazioni (perché rialzarsi dopo una caduta o un crollo è faticoso sempre, ma superata una certa età notoriamente le ginocchia cominciano a scricchiolare). Il difficile cammino di Olga aiuta a rincollare con pazienza i pezzi di quel vaso rotto che è la propria vita, magari scoprendo che superati i giorni dell’abbandono, si è trasformata da un vasetto di Ikea carino, pratico ma uguale a milioni di altri, in un prezioso, unico e raffinato Gallé (tra i meriti del collagene c’è anche quello di ringiovanire la pelle ovvero nascondere le crepe del vaso e le rughe del viso).
“I giorni dell’abbandono” è anche un’ottima fonte di vitamina D, benefica per il cervello e il cuore ma fondamentale soprattutto per mantenere le ossa in salute. Rafforzando il principio attivo che, dopo un primo momento di lecito abbandono alla disperazione, bisogna superare frustrazione, delusione e rancore il romanzo provoca un irrobustimento delle ossa utile a sopportare meglio il peso della consapevolezza che liberarsi dal dolore è impossibile, perché continua a restare silenzioso in un angolo del nostro cuore in compagnia dell’amore perduto, perché la coppia è un miscuglio complicato e schiumoso e “sebbene la relazione si sfrangi e poi cessi, essa continua ad agire per vie segrete, non muore, non vuole morire».
La sincerità a tratti crudele, lo stile possente e la forza espressiva di Elena Ferrante possono rendere la cura piuttosto forte ed emotivamente intensa. Nella maggioranza dei casi, però, è stato riscontrato il recupero di un inaspettato vigore utile per affrontare la vita che è «un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare».
Effetti collaterali
Il lettore deve essere pronto a lasciarsi coinvolgere dalle inquietudini, dalle ansie e dalle paure di Olga, per elaborare tutto insieme a lei. Il processo può essere faticoso all’inizio ma una volta intrapreso sarà difficile interromperlo.
La presenza di lacrime e rabbia provocate dal tradimento e dall’abbandono potrebbe essere male assorbita dall’organismo. In questo caso si consiglia di rimediare con un trattamento più leggero: “Affari di cuore” di Nora Ephron. Se, come dice Tolstoj nel celebre incipit di Anna Karenina «Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», è altrettanto vero che ogni scrittore racconta l’infelicità a modo suo. Elena Ferrante lo fa con toni drammatici e viscerali, Nora Ephron sceglie quelli comici e divertiti. Sta al lettore stabilire l’approccio terapeutico più consono al suo stato d’animo.
Consigli
Se la cura a base di Elena Ferrante si rivela efficace, suggerisco di continuare con gli altri due romanzi che compongono l’ideale trilogia Cronache del mal d’amore: “L'amore molesto” e “La figlia oscura”, particolarmente indicati nel trattamento dei rapporti complessi tra madri e figlie. Nella sezione dedicata alle cure intensive, trovate la corposa quadrilogia de “L’amica geniale”.
Terapia cinematografica sostitutiva
Non è facile portare sullo schermo la potenza verbale di Elena Ferrante e il groviglio di sentimenti che animano i personaggi dei suoi romanzi. Il film di Roberto Faenza è aiutato dall’interpretazione sofferta di Margherita Buy e dalla bravura Luca Zingaretti, che è riuscito a evitare la trappola del “marito cattivo” che avrebbe svilito la complessità del rapporto di coppia.

Commenti

Come detto, dopo l’abbandono, ecco che affronto i rapporti madre – figlia dell’amore molesto e della figlia oscura, aspettando prima o poi di finire l’amica geniale.
Elena Ferrante “L’amore molesto” E/O euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[pubblicato il 10 dicembre 2017]
Mi piace discretamente Elena Ferrante, e, con calma e senza fretta, ne leggo e ne leggerò. Mi piace soprattutto perché possiamo dedicarci alla scrittura, ai contenuti, ai messaggi, senza nessun “sovra testo” ingombrante. Ufficialmente, nulla sappiamo di lei. Personalmente, vorrei continuare a non saperne nulla. Così posso parlarne bene o male a seconda delle emozioni che mi trasmettono le sue parole. Per esempio in questo suo primo testo, ci sono cose che mi hanno colpito, preso, ma ce ne sono anche altre che mi hanno respinto, in cui non sono riuscito ad entrare. Alla fine, seppur letto, non mi ha fatto fare quei balzi sulla sedia che tutti i commenti sono strasicuri che faccia. Così come sono strasicuri della bellezza del film che ne trasse Mario Martone. Non parlo del film, ma del libro sì. Un libro che, sicuramente, inizia in modo che sia difficile staccarsene prima di un po’. Ricordate le prime righe? “Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno”. Da queste righe parte tutto il rovello e l’indagine di Delia sulla figura della madre. Una figura complessa, così come complessa è quella del padre. Entrambe talmente “forti” che Delia appena può e riesce, fugge da Napoli, dal suo contesto, andando a vivere sola, a Roma, con quel poco che guadagna del suo lavoro. Ricevendo saltuariamente, non sempre gradite, le visite della madre. Come questa, per il suo compleanno, che però non arriva, essendosi Amalia, fermata a metà strada. Dalia accumula indizi, collega ricordi, ci a entrare ed uscire dalla sua giovinezza, dalla strana vita familiare. Ma chi era stata Amalia? Una femme fatale o una persona succube? Dalia, tra reale ed irreale, ritrova le fila della sua memoria, ritrova un’Amalia per certi verti sconosciuta, oggetto dell’ossessione d’un marito violento e sospettoso, che le imponeva di chinarsi ai suoi ordini, di non ridere in presenza d’altri uomini, di non vestirsi con cura, di non truccarsi, di dimenticare d’essere una donna, una moglie, una madre. Una donna soffocata, che ha vissuto in punta di piedi col terrore di insospettire un marito opprimente e violento. Una donna che ad un certo punto, ma per vero o per scherzo non si sa, diventa l’oggetto di un amore molesto, delle attenzioni del signor Caserta, amico di famiglia distinto e carezzevole che continuerà a tallonarla negli anni fino alla vecchiaia, quando il capriccio si sarà trasformato in una insana mitomania, in ossessione. Dalia ricorda quando andava al cinema con la madre: ilare e scherzosa con tutti quando erano da sole, avvinghiata teneramente al marito-despota quando c’era. Quale delle due era Amelia? Forse, e lo scopriremo nella nostra testa solo ad un certo punto, era tutte e due. E lo era nelle immagini che Dalia proietta nella sua mente, proprio come in un film. Tanto che ci si domanda quanto Caserta abbia fatto a suo tempo la corte ad Amelia, e quanto ne sia venuto fuori per la gelosia innata che i bambini hanno verso i loro genitori. Terribili ed illuminanti alcuni passaggi: il funerale, con la perdita mestruale che sostituisce il pianto, il ritorno alla casa di Amelia. Dove vede i suoi vestiti: quelli vecchi, rammendati dalla Singer immancabile, e quelli nuovi, sexy (ma ricevuti da chi? Comperati o regalati? Indagine nell’indagine che porta Delia anche a sordidi incontri con il venditore di reggiseni). Si segue quasi un percorso di identificazione, come se Delia mettendosi il vestito di Amelia, si cali anche nel personaggio si Amelia. Pensi con la testa di Amelia, e con i suoi occhi percorre la sua città amata-odiata. Le tornano in mente le parole dell’infanzia. Le tornano negli occhi le cose viste dalla madre, con gli occhi della madre. Delia che voleva diventare diversa, che non voleva assomigliare a quella madre di cui aveva sempre avuto paura dell’abbandono, si troverà alla fine a guardare una foto della madre, scoprendo molte più uguaglianze che diversità. Ritengo, a questo punto, che dobbiate, anche se non siete d’accordo, leggere il libro. Io posso solo finire palesando le mie sempre presenti difficoltà quando il romanzo, i romanzi che leggo, veleggiano sul fare onirico, quando non si percepisce più il confine tra il vissuto ed il sognato. Come sono in difficoltà a riconoscere Napoli nei pochi tratti che ne dà la Ferrante. Una Napoli oscena ed urlata che, fortunatamente dico, non conosco. A questo aggiungiamo altri elementi poco convincenti (forse proprio perché siamo nella fase REM), del tipo la mancanza di una qualsivoglia indagine se Amalia si sia uccisa o sia stata uccisa, e sul perché e sul per come dei fatti. In ultimo, lo stesso personaggio di Delia non mi avvicina, non mi accoglie, lo trovo antipatico e sgraziato. Forse è voluto, ma come sapete io ragiono di pancia, oltre che di testa. E qui la pancia non mi porta oltre una quasi sufficienza libresca. Come sapete, e vedete più avanti, ho letto e lessi altro, ed il mio giudizio generale riprende quello delle prime righe: non mi entusiasma, ma ne leggo.
Elena Ferrante “La figlia oscura” E/O euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[pubblicato il 10 dicembre 2017]
Sicuramente meglio del precedente e tanto acclamato libro, non riesce tuttavia a convincermi fino in fondo. Non mi interessa anche qui, come ho già detto sopra e altrove, entrare nel dibattito su chi sia “Elena Ferrante”. È una persona che sa usare la penna e le parole, sa comunicare sensazioni, sa descrivere stati d’animo e moti del pensiero. E tanto basta per poterne leggere e parlare. Inoltre, rende per me molto bene momenti ed attitudini dell’universo femminile, che, a me uomo, ritornano e consentono di imbastire riflessioni. Questo intanto è il terzo libro edito, l’ultimo prima dell’inizio della grande saga de “L’amica geniale”. Un libro in cui si intravedono alcune tematiche che poi saranno presente nella grande saga napoletana. A partire dai nomi. La protagonista, l’io-narrante, si chiama Leda. La bimba, al centro della vicenda senza essere centrale, si chiama Elena detta Lenù. Già questo ci fa capire come poi l’amica sia un punto di collasso di diverse e sovrapposte tematiche di chi ha preso in mano la penna per scriverne. Come alcuni altri grandi temi che sottendono tutta la vicenda: il rapporto-conflitto tra una Napoli bassa, paesana, a volte pesante e volgare, e chi da questa Napoli tenta di tirarsene fuori, con onestà e caparbietà. Il rapporto tra donne, che fanno scelte diverse, che (forse) si confrontano (o forse no). La ricerca della propria via nel mondo. Il rapporto con i figli (ma soprattutto con le figlie). Un rapporto che a me, ora, sta a cuore, vivendo un difficile momento di confronto con la malattia di mia madre. Ma questo è tema di altri discorsi. Qui abbiamo Leda che in un profluvio di 150 pagine ci fa immergere nel suo mondo e nelle sue contraddizioni. Tra salti temporali (ma solo nel pensiero della narratrice, per fortuna) e momenti di comprensione (anche se a volte annegati in momenti di buio assoluto), vediamo Leda ed il suo rapporto con la madre. Non risolto, forse affrontato male. Una madre popolare, che usa tutti i ricatti del cuore per tenere al loro posto i figli. E soprattutto Leda. Che non ne accetta i ricatti, che va a studiare a Firenze, si laurea, si sposa. Presa dal vortice della vita, fa una prima figlia, voluta, coccolata nella pancia per nove mesi. Bianca. Poi, intellettualmente coinvolta dal marito nella vita quotidiana, nelle prospettive a breve, decide di farne una seconda. Non voluta, non amata (almeno da subito), che farà scoppiare tutte le contraddizioni che Bianca, sola, aveva nascosta. Ecco allora Marta. Ecco Leda che per seguire le figlie, e dar spazio alla carriera del marito, si nega il diritto di avere una propria via, si dilania nelle contraddizioni del quotidiano. Per cinque, lunghissimi, anni. Poi scoppia, trova qualcuno che crede nelle sue potenzialità, e fugge, lasciando Bianca, Marta e il marito Gianni. Va a lavorare in una prestigiosa università inglese, vive un’intensa storia d’amore, riesce ad occupare un suo ruolo nel mondo accademico. Ma dopo tre anni si accorge che comunque qualcosa manca. Manca il sorriso delle figlie sopra il tavolo, e tante piccole, quotidiane follie. Torna. Ma allora sarà il marito a partire, a trasferirsi per lavoro in Canada. Ora, a 48 anni, si ritrova ancora una volta sola, che Bianca e Marta decidono di proseguire i loro studi (scientifici come il padre e non letterari come Leda) in Canada. Tuttavia, pur se non risolto, il rapporto madre-figlie migliora. Ognuno ha un suo ruolo, e anche se Leda può soffrire di momenti d’ansia, accetta che ciascuno di loro abbia la propria strada. Certo si vogliono bene, si cercano, i legami (un tempo forse spezzati) sono fragilmente ricostruiti. E se Leda non telefona, sarà Marta a farlo. In tutto questo coacervo di sensazioni, che già hanno un lor peso per costruire la storia, si inzeppa la vicenda parallela dell’incontro al mare con la giovane Nina e la figlia di tre anni Lenù. Popolani, sanguigni (soprattutto il marito e la cognata), ma, in particolare Nina, con qualche sensazioni di star sprecando la propria vita. Ne esce un confronto a distanza, mai risolto direttamente, perché mai Leda riesce ad essere diretta. Non lo era con le figlie, difficile esserlo con estranei. Nina ammira l’indipendenza e la volontà di Leda (almeno da lontano). Ma è sommersa dal non saper gestire l’impossibile Lenù. E soprattutto la perdita della bambola della piccola. Che inavvertitamente proprio Leda le sottrae. Non riuscendo, per pagine e pagine, a trovare il modo di restituirla. O di sbarazzarsene. La bambola diventa quasi un simbolo, un totem che permette a Leda di ricostruire tutto quello che vi ho narrato in modo continuo e non con i salti del libro. Ma quando Nina chiede aiuto a Leda per sue faccende private (che vi leggerete perché non posso certo riscrivere il libro), Leda trova il modo peggiore per chiudere questo strano rapporto. E restituendo la bambola distrugge con un solo gesto tutti i castelli di Nina, tutte le sue speranze (mal risposte, ovvio, in una persona che, intelligente e bella, è tuttavia fragile ed irrisolta). Spaccato di vita, finisce come finiscono i racconti lunghi di Alice Munro. Senza una vera fine, lasciando l’agio di continuare le storie nella nostra testa. Ma lasciandoci anche la sensazione che chi scrive ha scritto tutto quello che sentiva di poter scrivere. E seppur riprendendo tutti i temi che ho sopra accennato, seppur facendo in modo che ci si possa ragionare sopra, non posso non sentire una mancanza. Una mancanza di forza, di ragionamento. Ovvio che tutti siamo imperfetti, e Leda non può sottrarsi alle sue imperfezioni. Ma io soffro quando vedo vie d’uscita positive che l’eroe del libro si rifiuta ostinatamente di percorrere. Mio limite certo, ma anche io, per quanto quasi, non sono veramente perfetto.
“Le cose più difficili da raccontare sono quelle che noi stessi non riusciamo a capire.” (8)

Finalino

Prima o poi torneremo su Elena Ferrante e sulla sua saga “geniale”. Qui ribadisco quanto altrove ho già detto: è congeniale a certi stati d’animo, li sa portare a compimento, ma non riesco a vederne costrutto in un momento terapeutico d’amore.

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