Sarà che ci vuole tempo per
assorbire ed elaborare dolori, ma eccoci ancora qui, freschi del pensiero di
mia madre, grande donna e grande lettrice, a trattare di quattro scritture
femminili. Una decisamente insufficiente, la poco leggibile e melensa Clara
Sanchez. Le altre tre ben oltre la sufficienza. Se d’altronde me lo potevo
aspettare da Isabel Allende, che scarsamente delude, ben contento sono della
giapponese Natsuo Kirino che non conoscevo. Per chiudere con un classico che
avevo paura mi deludesse, invece…
Isabel Allende “L’amante giapponese” Feltrinelli euro 9,90 (in realtà,
scontato a 4,95 euro)
[A: 02/05/2017– I: 07/09/2017
– T: 10/09/2017] - &&&& --
[tit. or.: El
amante japonés; ling. or.: spagnolo; pagine: 281; anno 2015]
Devo
dire che non mi dispiace affatto questo ritorno di Isabel Allende a tematiche
amorose. Anche se, data la sua storia personale, trattasi comunque di storie
che toccano temi diversi, complessi e spesso pieni di (forse) dolorose
conseguenze. O che preludono dolorose conseguenze a fronte di dolorose scelte. Questo
forse il limite del romanzo, quello di aver messo tanta carne sul fuoco, e di
non riuscire sempre a portare tutto al giusto punto di cottura. Perché abbiamo
il tema dell’amore dei vecchi, e dell’amore tra i vecchi (la maggior parte del
libro è ambientata in una ridente casa di riposo per anziani in California). La
storia della famiglia Belasco e la storia della famiglia Fukuda. Il tema
dolente della pedo-pornografia ed il tema dell’immigrazione. La storia di
amanti sotto diverse specie: dentro e fuori matrimoni, etero e omosessuali.
Nonché piccoli rivoli toccati con diversi gradi di approfondimento: sindrome di
down ed inserimenti lavorativi, deportazione dei nippo-americani durante la
Seconda Guerra Mondiale, dolore e serenità di chi si avvia al termine della
propria vita. Certo, tutto è condito dalla scrittura sapiente e senza ostacoli
di una narratrice che sa portare avanti i propri discorsi, che sa tenere il
lettore (decentemente) incollato alle pagine, che porta quindi (quasi) tutto
alla sua conclusione. Non scopro certo ora Allende ed i suoi scritti, anche se
l’amore-politica delle prime uscite non è stato più raggiunto nel mio cuore (e
nel mio stomaco). Tuttavia è un buon libro, giocato molto sul registro multiplo
della storia della romena Irina che inizia a lavorare nella casa di cura, e nel
suo rapporto con Alma Belasco, ebrea polacca che, alla soglia degli ottanta
anni, pur potendo scegliere tante soluzioni (la sua è una famiglia di solide capacità
economiche) vuole passare gli anni che le rimangono spogliandosi di tutto il
superfluo della vita. Per questo si rifugia nella casa, e sceglie,
fortunatamente e fortunosamente, di prendersi come segretaria proprio Irina. Irina,
che ha i suoi problemi come scopriremo alla fine, essendo questa una copertura
che le ha dato l’FBI in quanto “testimone a rischio”, è in ogni caso un’anima
buona, si prende cura degli anziani, ed è intrigata dal “mistero Alma”. Perché
la bella signora ha fatto questo passo? Perché e dove Alma sparisce ogni mese
per qualche giorno? Aiutata dal nipote di Alma, che ovviamente di lei si
innamora, scoperta dopo scoperta, riesce a ricostruire la vita complessa di
nonna Belasco. Ebrea polacca, viene spedita dai genitori in America prima
dell’inizio delle persecuzioni naziste (cui i genitori soccomberanno). In
America, sola e spaurita, riesce a “resistere” aiutata dal cugino Nath,
introverso, sognatore, ma con capacità insospettate (scopriremo che è un
valente fotografo) e dal figlio del giardiniere, il nippo-americano Ichimei.
Del quale lei, dodicenne, perdutamente si innamora. Sarà il suo per sempre
“amante giapponese”, visto che le convenzioni rendono difficile che l’amore si
trasformi in matrimonio ed in vita comune. Da qui seguiamo il doppio binario
Belasco-Fukuda. Ichimei, come tutti i nippo, durante la guerra viene internato.
I due si perdono di vista. Alma va in Europa, sviluppa i suoi talenti artistici
facendo fortuna con sete disegnate. Ichimei, dopo la guerra, riprende la sua
cura per le piante, e la sua sensibilità per tutte le cose viventi. Si
ritroveranno per un breve periodo, sui venti anni, quando Alma rimane incinta
e, per non abortire, decide di sposare Nath. Ichimei, dal cuore spezzato, torna
alle sue radici giapponesi sposando una gentile e sottomessa isolana. Il
bambino però nasce morto, Alma e Nath, pur non amandosi, continuano la loro
vita parallela di sposi, ed Alma partorirà un altro figlio, Larry, il padre di
Seth. Ma la vita dei due è, per l’appunto, parallela e soffusa di amicizia. Con
una grande svolta quando, dopo il funerale del capostipite Belasco, Alma
ritrova Ichimei ed i due diventeranno amanti, di reciproco sostegno fino alla
fine delle rispettive vite. Specialmente quando Nath decide di uscire dal suo
guscio e palesare la sua natura omosessuale. Come detto tante altri bastoncini
alimentano questo grande fuoco. La storia della sorella di Ichimei che vuole
diventare medico, e che, anche lei dopo tortuosi percorsi, coronerà il suo
sogno d’amore. La storia di Irina, sopra accennata, ma di cui non dico altro.
La storia di Lenny, anche lui deciso a finire la sua vita nella casa di cura.
Ovviamente, parlando di anziani, poco ci sorprende che, invece di 4 matrimoni
ed un funerale, ci si avvia più verso 4 funerali ed 1 matrimonio. Anche se
quest’ultimo non si sa se avverrà dopo la fine del libro. Ma anche in presenza
di queste morti, non c’è nessuna sensazione di tristezza. Certo non c’è
allegria, ma una specie di sorriso a fiori di labbra. Soprattutto per le ultime
rivelazioni in fine di libro, che vi lascio gustare e trovare. Ripeto, alcuni
rivoli narrativi non sono sempre portati ad un giusto compimento, lasciando
qualche dissapore. Ma Isabel è tornata ai grandi affreschi dei suoi libri
migliori. Ne sono contento, quasi come ritrovare una vecchia amica che abbia
avuto dei problemi, ma da cui, per volontà e capacità, è riuscita a tirarsi
fuori.
“Vorremmo proteggere le persone che amiamo,
ma ciò che si vuole per sé stessi è autonomia.” (39)
“Tutto è relativo. È vecchia, non anziana. …
E poi l’amore non ha età … durante la vecchiaia fa bene innamorarsi; è indicato
per la salute e contro la depressione.” (42)
“La vecchiaia è la tappa più fragile e
difficile della vita, più dell’infanzia, perché peggiora con il passare dei
giorni e non ha altro futuro se non la morte.” (159)
“Non siamo vecchi per il fatto di aver
compiuto settant’anni. Iniziamo a invecchiare nel momento in cui nasciamo,
cambiamo giorno dopo giorno, … ci evolviamo. L’unica cosa diversa è che adesso
siamo un po’ più vicini alla morte. E cosa c’è di male in questo? L’amore e
l’amicizia non invecchiano.” (161)
Clara Sanchez “Il profumo delle foglie di limone” Garzanti s.p.
(biblioteca di via Tolemaide)
[A: 06/06/2015– I: 23/09/2017 – T: 29/09/2017] - & e ¾
[tit. or.: Lo que esconde tu
nombre; ling. or.: spagnolo; pagine: 360; anno 2010]
Premetto,
come mostra il mio gradimento di sopra, che il libro non mi è piaciuto gran
che, né mi ha tanto meno coinvolto, come critiche e recensioni mostrano in giro
su Internet. Ma prima di entrare nel merito, non posso che spezzare una lancia
contro il petto di traduttori ed esperti di marketing, che hanno storpiato,
travisato, oserei dire, se non fosse una parola grossa, ingannato il lettore.
Il titolo originale recita “Quello che nasconde il tuo nome”, ed ha un senso,
una sua logicità nello sviluppo del libro. Le foglie di limone ed il loro
profumo vogliono quasi far intendere una storia d’amore, alla sudamericana.
Peccato che l’autrice sia spagnola. Mettendo in copertina poi una ragazza che
si avvia verso l’acqua, quasi a volersi annegare. Che è certo un passaggio
inziale del libro, ma di quelli senza rilevanza e senza essere il nodo
principale. Invero, il nodo è la memoria, la banalità del male, come direbbe
Hannah Arendt, o anche la differenza tra l’essere e l’apparire. Ma la debolezza
del testo è palese in ogni suo aspetto: nella forma, nei personaggi, nello
sviluppo. L’autrice decide di usare una sorta di dialogo a distanza, alternando
la voce dei due protagonisti, Sandra e Julian, che narrano la loro parte di
storia. Sarebbe interessante se fossero due visuali contrastanti, due facce
della stessa medaglia. Invece, dopo un inizio in cui Julian sa e Sandra è
ignara di tutto, i due convergono, ed i loro racconti, sovrapponendosi, perdono
forza e aumentano la stanchezza della lettura. I personaggi poi sono altamente
manichei: ci sono i buoni (Sandra, Julian, Salvador, Alberto, e forse altri
comprimari) ed i cattivi (i coniugi Christensen, Alice, Otto, Frida, e
soprattutto Sebastian, ed anche qui altri di secondo piano). Tutti arroccati
nel loro essere, tutti che continuano sulle proprie strade. Con tentennamenti
assurdi ed incomprensibili. Perché Sandra diventa amica di Fred e Karin? Perché
i due la accolgono? I cattivi cercano di nascondere il loro nome dietro
parvenza di normalità. Ma riescono solo ad essere burattini senza che si
trovino burattinai. E Julian, che per portare avanti la sua vendetta, mette in
pericolo sé e gli altri non ha mai un momento di ripensamento, non riflette
nulla su quello che fa, su chi coinvolge. Senza per altro sapere mai come portare
realmente avanti la propria lotta. L’idea di base, al fine, non sarebbe poi
neanche male: Julian, spagnolo antifranchista, passa alcuni anni nel lager di Mauthausen.
Dopo la guerra, lui, Salvador e altri si dedicano alla caccia dei nazisti
sfuggiti alla cattura. Poi gli anni passano, Julian si sposa con Rachel. Solo
Salva continua. Ora, ottantenne messo poi neanche bene, rifugiatosi anche lui
in Argentina, Julian riceve una lettera da Salva che gli dice di aver trovato
due nazisti norvegesi, Karin e Fred, che vivono in Spagna. Julian parte lancia
in resta, scopre che Salva è morto, e si mette lì a guatare i nazisti. Che
vivono normalmente, sembra, e che accolgono Sandra, una giovane spagnola un po’
sbandata, incinta ma senza marito. Tutto il libro si svolge su questo filone:
Sandra che ci racconta la parte “normale” di quella vita, Julian che accumula
prove, indizi e che scopre esserci lì una bella raccolta di nazisti scampati
alla guerra. Tuttavia non si capisce mai (anche dopo la fine del libro) come
Julian intenda fermarli, denunciarli o altro. A parte Sandra sono tutti
ottuagenari che poco hanno ancora da vivere. I nazisti, tra l’altro, si sono
consorziati in quella che in italiano viene chiamata “Confraternita”, e che
nell’originale suonava come “Hermanidad” (Fratellanza). Una specie di società
di mutuo soccorso, contro i “nemici” e con la circolazione di finte droghe che
dovrebbero allungare la vita. Un’assurdità che solo la finzione letteraria
sorregge. Tutto ben sospeso, sino a che Julian spiega a Sandra cosa la giovane
stia vivendo. Sandra ha una bella agnizione e decide di aiutare Julian, ma in
cosa non si sa. Sandra, alla ricerca di ulteriori prove, mette in pericolo sé
stessa ed il nascituro. Julian ha un solo momento interessante, un lungo colloquio
delucidatore con Sebastian. Ci sono altre piccole avventure, ma niente si
risolve con momenti forti. Sandra rischia, però riesce a fuggire aiutata da
Julian e da … (segreto). Torna dai suoi a Madrid, partorisce un bel pupo che
chiamerà Julian. Julian il vecchio rimane lì, vede i nazisti che sbaraccano, e
non riesce a fermarli. Decide di restare allora nell’ospizio spagnolo, dove si
accontenterà di trascorrere l’ultima parte della sua vita con Pilar. Ma ripeto,
un romanzo che in nessuna parte riesce a coinvolgerti, in nessuna parte riesce
ad interessarti o ad approfondire qualcosa. I cattivi, benché colpiti,
continueranno la loro vita. Come Sandra. Come Julian. Ed è inoltre un libro che
non scorre, avete visto che ho impiegato una settimana a portarlo a termine.
Peccato, il tema meritava altra penna.
“Il caffè era l’unica abitudine dannosa alla
quale non avevo rinunciato e a cui non avevo intenzione di rinunciare: mi
rifiutavo di passare al tè verde come i pochi amici che mi erano rimasti.” (20)
“Quando R. si arrabbiava davvero con me,
smetteva di parlare: la rabbia le cuciva le labbra. All’inizio mi disperavo e
cercavo di fare in modo che tornasse nel mio mondo e mi guardasse, che mi
accettasse di nuovo, ma questo non faceva che peggiorare le cose. Con il tempo
capii che era meglio aspettare e non forzare la situazione.” (142)
Natsuo Kirino “Una storia crudele” Beat euro 6,90
[A: 24/08/2016 – I: 29/09/2017 – T: 01/10/2017] - &&&&
[tit. or.: 残虐記 Zangyakuki; ling. or.: giapponese; pagine: 235; anno 2004]
Avevo comperato il libro
di Natsuo Kirino perché avevo letto che era una scrittrice di gialli
giapponesi, ed in tale lista avevo inserito questa storia. Invece, a valle
della lettura, devo dire che è qualcosa di diverso. Non che non contenga
elementi misteriosi, quasi polizieschi. Ma non è quella la spina dorsale del
libro. Un libro, invece, sull’identità, sulla ricerca di sé, e su di uno
spaccato di mondo giapponese, quasi contraltare di quel “Giappone-Mondo” che
innerva la scrittura di Murakami. In certi punti, si respira quasi una lievità parente
di Yoshimoto, anche se il linguaggio, le tematiche, la storia tutta narrata da
Kirino è ben lontana da quelle intimistiche di Banana. Alla fine della lettura,
che è stata gradevole è intrigante, mi è sembrato quasi di respirare un’aria
alla Stephen King in salsa di soia. Anche perché Kirino riesce a tirare fuori
dalla sua scrittura una serie di scatole cinesi, imbastendo, ricucendo,
smontando e rimontando la storia di base. Storia di Keiko, una scrittrice ora
trentacinquenne, che all’età di dieci anni ha subito un trauma fortissimo:
viene rapita da uno strano personaggio di nome Kenji, e da lui sequestrata per
13 mesi. Un’enormità, ed un trauma da cui non solo non è facile uscire, ma
forse è quasi impossibile. Ora Kenji (condannato all’ergastolo ma uscito dopo
25 anni per buona condotta) le scrive una lettera, anche se lei ha cambiato
nome e città. Una lettera che le riapre un baratro mai richiuso del tutto. A
valle della stessa, decide di scrivere la storia, la vera storia (dal suo punto
di vista) del rapimento, delle sue motivazioni, e di tutto quanto si muoveva
intorno. Dopo averla scritta, scompare, lasciando il marito con il manoscritto
e mille domande. Noi ora leggiamo questo scritto, dove Keiko ci narra la sua
visione di tutta la storia. Immergendoci in quei 13 mesi di angoscia, paura,
umiliazione. Ma anche alla fine, acquiescenza, dovendo trovare il modo di
sopravvivere. A parte tutto quello che le succede con Kenji, di giorno duro e
spietato, di sera e di notte, dolce ed affabile, quasi bambino anche lui,
benché venticinquenne, lo spaesamento di Keiko è il fatto di essere da lui
chiamata Micchan. E la paura, scoprendo in un armadio dei quaderni firmati
proprio Micchan. Chi è? Dov’è Micchan? La maggior valvola di sicurezza di Keiko
è la presenza, al piano di sopra, di un certo Yatabe, collega di Kenji, che lei
spera la possa liberare. Ma Kenji le confessa che Yatabe è sordo! Tant’è che,
per casualità e fortuna, alla fine viene liberata, ma entrando
nell’appartamento di Yatabe scopre un foro nel muro dal quale Yatabe poteva
vedere cosa succedeva da Kenji. Allora? Complici? Forse, tanto che mentre Kenji
viene arrestato, Yatabe scompare. E scavando nei giardini intorno alla casa, si
scopre il corpo di una diciassettenne di origini filippine. Mentre si avvia
tutta la parte processuale per Kenji, Keiko cerca di tornare alla vita normale.
Dove non si inserirà mai del tutto. Avendo anche uno strano rapporto di
simpatia – antipatia con il suo avvocato, allora trentenne, e con una mano
finta. Dopo anni di falliti inserimenti, casualmente (ma in maniera consequenziale
ai personaggi) Keiko scopre Yatabe, lo smaschera, ma questi fugge di nuovo,
nonostante gli sforzi dell’avvocato, che confessa anche lui di aver subito un
trauma: la madre, fuori di testa, gli ha staccato la mano con una accetta! A
questo punto Keiko, collegando fatti noti a tutti, fatti noti a lei sola, e
fantasticando (ma non molto), ricostruisce la vicenda di prima del rapimento.
Pubblicandone un libro che avrà un grande successo di pubblico e la lancerà nel
mondo della scrittura. Ripercorre quindi il sodalizio tra Kenji e Yatabe, con
il primo succube del secondo, disposto a tutto per fargli piacere. Yatabe aveva
preso sotto la sua ala Kenji bambino, ne aveva abusato fino alla maggiore età,
quando lo allontana da sé, pur tenendolo sempre sotto il suo giogo morale. Per
compiacere il “mostro” Yatabe, allora Kenji sequestra la filippina di cui
sopra, consentendo a Yatabe di fare il guardone. Ma il triangolo si rompe
quando (e non vi dico come né perché) la filippina muore. Qui finisce il libro
giovanile di Keiko, che però ci spiega come, per proseguire nel perverso gioco,
Kenji ripiega su un sequestro più giovane, quello della nostra Keiko, appunto.
Nel ruolo della memoria, spinge anche oltre il limite la sua “sindrome di
Stoccolma”, Keiko riesce a razionalizzare i suoi sentimenti per Kenji. Nonché
quelli di Kenji verso di lei. Gioco di matrioske, elementi che ogni volta,
visti da prospettive diverse sono ancora diversi. E Keiko, come annuncia il
marito, scompare. Nella parte finale è proprio il marito che, pur non sapendo
dove sia, né cercandola, né trovandola, ci rivela che sia lui stesso, e come le
parole del manoscritto sino vere ma non sempre veritiere. Finisce così, con una
sospensione che ci ributta addosso “tutto l’horror del mondo”. Ma abbiamo
capito qualcosa: un trauma deve essere ben elaborato per essere superato. Keiko
cercherà di capire sé stessa per tutta la sua vita, cercherà di capire le sue
azioni, che sembrandole incomprensibili, fanno in modo che non riesca mai a
capire il vero sé. Sono convinto che percorsi del genere non possano essere
affrontati in solitaria, ma le soluzioni che propone Keiko non sono altresì
praticabili. Non è certo una psichiatra svogliata, una poliziotta poco
socievole, o un avvocato problematico che la possono aiutare. Tuttavia, capisco
nel percorso che Kirino ci fa fare come, appunto, ci siano parti segrete ed infossate
che devono essere domate, capite, gestite, se si vuole arrivare ad avere non
dico una vita felice, ma almeno una vita serena. Anche io, come voi, come
Keiko, ho fatto tanta strada. Ma io ho avuto la fortuna di avere aiuti
impagabili, anche non coscienti, che mi hanno fatto arrivare al mio io attuale.
Ma tutto ciò, di sicuro, esula da questa trama. Se ne riparlerà altrove, magari
in serate fredde intorno a camini accesi e castagne fumanti.
Margaret Mitchell “Via col vento” Mondadori euro 12
[A: 12/06/2015– I: 08/11/2017
– T: 27/11/2017] - &&&&
[tit. or.: Gone with the Wind; ling. or.: inglese; pagine: 1104; anno 1936]
Devo
dire che anche un lettore discretamente veloce come il sottoscritto, non può
che riservare un congruo lasso di tempo ad un libro che supera le 1000 pagine.
Un libro, inoltre, per diversi versi interessante, ben riuscito, e
discretamente coinvolgente. Certo, se uno ha visto una mezza dozzina di volte
il film (come il sottoscritto) non c’è più di tanto il piacere della scoperta
della trama. Ma c’è il piacere della scrittura, che non stanca nonostante la
lunghezza. C’è il piacere di scoprire le piccole differenze che ci sono tra
film e libro. C’è il piacere di veder scorrere le avventure di Katie Scarlett
O'Hara Hamilton Kennedy Butler (o solo Rossella nella versione tradotta) e
Rhett K. Butler e degli altri personaggi, avendo in mente Vivian Leigh, Clark
Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland (tanto per ricordare i personaggi
principali). Perché, come quasi tutti, ho visto il film prima di lanciarmi
nella lettura. Quindi le immagini si sovrappongono, lasciando comunque alla
fine la sensazione che, pur con due mezzi espressivi diversi, libro e film
abbiano raggiunto i loro scopi. Ma qui si parla di scrittura, ed al libro
torniamo. Un libro che celebra l’epopea del Sud, poco prima, durante ed un po’
dopo quella grande ferita americana che fu la Guerra Civile del 1860. Si,
proprio mentre noi si celebrava l’Unità d’Italia, lì si consumava una ferita
che, forse, ha ancora strascichi, passati che siano 150 anni. Il libro in
realtà è un grande affresco, che tocca varie corde romanzesche e storiche,
proprio per dipingere, con gli occhi del Sud, gli avvenimenti e la vita e le
persone di quegli anni. Proprio la parte storica, benché tinta di qualche
rimpianto di troppo, è quella più curata dall’autrice, che spese lungo tempo in
ricerche, e che riporta date e fatti con notevole precisione. Una parte storica
che vede certo alcuni lati della medaglia della Georgia. I neri erano
funzionali al sistema, fornivano manodopera a basso costo, ed altri dettagli.
Non erano solo carne da macello. Ma di converso, non tutte (anche ben poche)
erano le famiglie “alla O’Hara”, che avevano un rapporto non conflittuale (o
non molto conflittuale) con la manovalanza. Era il sistema di vita, tale che,
per far piacere al suo capoccia nero, Gerald O’Hara (il padre di Rossella)
compera dai vicini la schiava che il suo amato Pork aveva messo incinta. Era
una vita di feste, di cavalli, di pizzi e merletti femminili. Che avrebbe
permesso, a chi voleva, anche di poter fare il “gentiluomo di campagna”. Come
avrebbe voluto fare l’esimio Ashley Wilkes, che mai avrebbe voluto fare il
soldato. Che sarebbe stato contento di stare in casa a leggere i suoi amati
greci. E che, una volta diventato capo-famiglia, avrebbe anche liberato i suoi
“schiavi” negri, facendo scegliere loro se e come restare nella casa delle
“Dodici Querce”. Una ricerca storica che presenta anche un solo lato degli
“yankee”. Loro, come tutti i soldati del tempo, come tutti gli approfittatori
di situazioni estreme, sono “brutti, sporchi e cattivi”. E di certo ce n’erano.
Come ovunque. Come anche nei gentiluomini del Sud, che puniscono nottetempo bianchi
e neri malvagi. Ma Mitchell lo dice (cosa che non fa il film) che quello era il
Ku Klux Klan. E non erano solo buoni vendicatori come Frank Kennedy, ma anche
(e tuttora) razzisti e profittatori. Insomma, c’è molto di più di quello che
potrebbe mostrare un romanzo (e prima o poi ci si tornerà sopra). Anche perché
lo stesso Rhett è un emblema del difficile momento di quelle terre. È un
miserabile che sfrutta situazioni favorevoli, che ruba anche (e lo confesserà),
ma che ha anche la sua schiettezza, quella che gli fa dire, fin dall’inizio,
che il Sud ha tutte le ragioni per perdere una guerra con il Nord. Una su
tutte: non ha fabbriche di armi. Seconda su tutte: l’esercito (soprattutto
all’inizio) è fatto da gentiluomini e non da soldati di professione (come sono
le giacche blu che da tempo combattono per tutto il territorio americano).
Secondo risvolto del libro è quello dei risvolti umani, delle relazioni, delle
storie d’amore. Con al centro la nostra Rossella. Che attraversa le mille
pagine del romanzo con tre matrimoni e tre figli (uno per matrimonio). E con
uno sbaglio di fondo: pensa di amare Ashley e pensa che lui la ami. Per questo
sposa Charles (Carlo) Hamilton che muore subito e senza lasciare traccia. Che
per trovare soldi per mantenere la fattoria, la mitica Tara, sposa Frank
(Franco) Kennedy. Non solo trova soldi, ma anche un suo ruolo, anche se non ben
accetto, all’interno della società georgiana post-guerra. Diventa
imprenditrice, si fa spavalda. Tanto da subire quasi uno stupro, che porterà i
suoi vecchi sodali (i Wilkes, i Kennedy, i Tarleton e tutti glia altri) a
cercare di vendicarla uccidendo il bianco cattivo. E quasi cadendo nella
trappola delle giacche blu. Da cui vengono salvati proprio dal “malvagio”
Rhett. Tutti meno il povero Kennedy che ci lascia le penne. Da qui la
tormentata storia d’amore tra Vivian e Clark ha i suoi punti e spunti migliori
(spesso espunti nel film, che ci fa perdere tutte le battute pungenti di
Rhett). Avrà tutto ciò il suo culmine con la morte della figlia dei due.
Diletta Butler (“Bonnie Blue” nell’originale) cade da cavallo come cadde e morì
il vecchio Gerald. Una ferita insanabile tra i due. Che diventa rottura alla
morte di Melania, l’unico elemento equilibratore di tutta la storia. Morte che
fa capire a Rossella che per 950 pagine non aveva capito nulla di Ashley. Morte
che nelle ultime meno di 100 pagine cerca di tirare le fila della parte
romanzesco-rosa del libro. Che ci serve solo a capire quanto tempo ci vuole per
maturare. Ma d’altra parte, se guardiamo le date, il libro comincia che
Rossella ha 16 anni e finisce quando ne ha sui 28. Vi ricordate voi, come
eravate in quel lasso di tempo? Ce ne vuole di tempo pe capire sé stessi (se
mai lo si capirà). Inciso, alla fine del libro, Rhett di anni ne ha 45, cioè 17
più della sua amata. Perché nonostante alla fine si lascino (e lo sappiamo
bene, avendo visto il film), sappiamo anche, sebbene il libro lanci luci ed
ombre sul loro rapporto, che quello tra Rossella e Rhett è, tutto sommato,
amore. Infarcito da incomprensioni, immaturità (di Rossella), presupponenza (di
Rhett). Insomma, un libro che è un vero microcosmo di quasi tutto. Un libro che
fa riflettere sulla poca lucidità di chi non capisce (e non accetta)
l’evolversi del tempo. Un libro che ci fa pensare quanto sia meglio domandare
che aspettare risposte a richieste non fatte. Un libro che mi è piaciuto, che
tutti i miei sostegni di cura per la vanità e per la felicità consigliano, e
con ragione. Un libro che, pur essendo uguale, è diverso dal film. Dove c’è la
lunga storia del viaggio dalla natia Irlanda alle nuove terre di Gerald O’Hara.
Dove c’è la storia di Elena la madre di Rossella, e del suo sfortunato amore
per il cugino Philippe. C’è la storia di Mammy (quella di “Missrossella…”), di
zia Pittypat, di Bella, di Wade ed Ella (i due figli di Rossella che spariscono
nel film), di Suele (la sorella di Rossella), della famiglia Tarleton con i
quattro maschi che muoiono in guerra, del dr. Meade e del suo ospedale da
campo. E di tanti altri personaggi. Soprattutto, nel libro è meglio scolpita
nella pietra la figura di Rhett, nel bene e nel male, che sarebbe troppo
antipatico da far interpretare a Clark Gable (anche se sempre meglio lui che la
prima scelta, che era Erroll Flynn). Quindi, anche se avete visto il film,
leggete il libro. E poi leggete “La guerra civile americana” di Roberto
Meccarini, per mettere un po’ di puntini sulle “i” opportune. (E non ho citato
neanche una volta le due battute leggendarie del libro: “Francamente, me ne
infischio” di Rhett e “Dopotutto, domani è un altro giorno!” di Rossella, o,
come dall’originale, ““My dear, I don’t give a damn” e “After all, tomorrow is
another day”).
Terza scrittura di questo freddo
febbraio, dove per scaldarci è bene tornare ai libri che dovrebbero farci
felici, ed affrontare una nuova terapia d’amore.
Per il resto, sommersi dalla
burocrazia, poco si riesce a fare d’altro. Lo so, è anche questo un modo per
pensare a chi non c’è più andando oltre, elaborando. Tuttavia non ne nego la
fatica e la stanchezza che ne viene.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
FEBBRAIO 2018
Rimaniamo ancora sulle terapie d’amore, soprattutto sul
versante psicologico che ne forniscono i libri di Chiara Gamberale.
TERAPIE D’AMORE (VIII)
PER DIECI MINUTI
di CHIARA GAMBERALE (2013)
Pillole
di trama
Nel giro di poco la vita di Chiara si sgretola. Dopo aver
scoperto che forse sta meglio senza di lei, il marito le annuncia (per
telefono) che ha bisogno di mettersi in aspettativa dal lavoro e dal
matrimonio. Come se non bastasse, oltre a ritrovarsi a vivere da sola in una
casa che non ha mai sentito come casa, la tanto amata rubrica che cura da anni
viene inaspettatamente chiusa. Mentre tutte le sue sicurezze vanno in frantumi
e lei è a un passo dal perdere sé stessa, l’analista le prescrive una cura che
è prima di tutto un gioco: per un mese, per dieci minuti al giorno, deve fare
una cosa che non ha mai fatto prima e che probabilmente non avrebbe mai pensato
di fare. Il romanzo è il diario di questo mese durante il quale la protagonista
ripercorre in maniera frammentaria un po’ tutta la sua vita. Grazie a queste
piccole attività, Chiara riuscirà a ricominciare, liberandosi dal dolore e
dalle paure.
Supposta-saggezza
Non c’è che dire, a Chiara dice proprio male: in poco tempo
si ritrova con una mano davanti e una di dietro, nuda di fronte a una vita che
non riconosce più come sua. Il carattere, poi, non l’aiuta: paurosa e insicura,
problematica e analitica, si è sempre nascosta all’ombra dei familiari e del
marito (sposati da diciotto anni, fidanzati da sempre). Ma ora che lui si è
poco elegantemente tolto di mezzo lasciandola in pieno sole, deve fare qualcosa
perché un po’ di luce arrivi nelle sue zone d’ombra. L’analista le suggerisce un
modo leggero e spensierato per affrontare le difficoltà, sgombrare la mente da
elucubrazioni infognanti e recuperare la lucidità necessaria per vedere le cose
da un diverso punto di vista. Grazie a queste attività assolutamente ordinarie
ma lontane dalla sua quotidianità e dal suo carattere, Chiara entra in contatto
con gli altri, si apre a realtà estranee alla sua sofferenza e capisce qualcosa
di nuovo sulla vita e su sé stessa. È come se quei pochi istanti di stravaganza
trasmettessero al giorno seguente una qualche possibilità, come se le
permettessero di aggiungere ogni volta una pietra creando un percorso sicuro
per attraversare il fiume delle sue paure senza affondare. Chiara scopre di
potercela fare anche da sola, senza suo marito, senza quel salvagente che forse
la stava facendo annegare. Deve accettare la più difficile delle sfide,
crescere, e lo fa imparando a giocare, distraendosi dalle proprie sofferenze e
trascurando le proprie ossessioni (compresa quella per l’ex). Crescere comporta
anche la necessaria rinuncia a sentirsi il centro del mondo, condizione che si
aggrava amplificandosi oltre misura quando si soffre. Aprendosi a nuove
esperienze, Chiara impara a condividere il tempo e le emozioni, pensando a sé
stessa con meno avidità. Arriva il momento in cui il dolore si attenua, la
frattura che l’abbandono ha provocato nell’anima comincia a ricomporsi e inizia
la guarigione. Ovviamente la ferita tornerà a farsi sentire e a dare fastidio,
magari quando il tempo cambia e minaccia pioggia, ma bisogna conviverci,
continuando ad andare avanti anche con passo stentato, anche zoppicando. Dopo
una prima fase di legittima e sana disperazione (o rabbia folle, dipende dal
carattere), ci si potrebbe accorgere che, lasciandoci, il nostro ex ci ha fatto
il più bel regalo in assoluto (molto meglio anche dell’anello di famiglia che
ha pure rivoluto indietro «perché, sai, era di nonna»), offrendoci l’occasione
di dare nuovo significato alla nostra vita, permettendoci di sondare quelle
«facoltà latenti» attraverso le quali è possibile «giungere alla conoscenza del
mondo».
Posologia
Si consiglia il romanzo per il trattamento sintomatico degli
stati febbrili e dolorosi correlati alla rottura di una relazione sentimentale,
specialmente se di lunga durata, e a tutti quegli eventi che implicano una
perdita di sicurezze, ovvero quando tutto frana, la vita va in frantumi e si
manifesta «al suo posto una massa informe, sfilacciata, ferita, che come unico
perno su cui girare aveva lo smarrimento».
Se ne consiglia la somministrazione in caso di apatia,
stanchezza e stati depressivi prolungati connessi all’urgenza di dare una
scossa alla routine emotiva, mettendosi in discussione per rinnovarsi e
scoprirsi diversi. Anche dieci pagine al giorno sono sufficienti a favorire il
rilassamento emotivo e a reintegrare la quota fisiologica di coraggio favorendo
l’incremento del desiderio di lanciarsi verso l’ignoto senza la paura del vuoto
emotivo. Assunto secondo le modalità indicate è anche un efficace beta
(s)bloccante per lo scioglimento di blocchi emotivi, invalidanti nel rapporto
con sé stessi e con gli altri, non necessariamente causati da una separazione
ma da qualsiasi crisi esistenziale.
Oltre a favorire il graduale riassorbimento di un ego
eccessivamente espanso a causa della sofferenza, può essere utile per prevenire
o contrastare i rischi dell’abitudine che se in piccole dosi garantisce
sicurezza, sovradosata impedisce di vivere pienamente liberi soffocando
silenziosamente ogni desiderio con 1 inganno che ciò di cui si ha bisogno sia
solo quello che non spaventa mentre «il meglio della vita sta in quelle
esperienze interessanti che ancora ci aspettano».
Effetti
collaterali
Tra gli effetti collaterali, il più frequente è anche il più
innocuo, anzi il più salutare: il desiderio di mettere in pratica la cura dei
dieci minuti. Se una carenza di fantasia vi spinge a prendere in prestito le
attività di Chiara, tra le controindicazioni potrebbe esserci quella di
mangiare piramidi di pancake alla Nutella (non c’è migliore medicina della cioccolata
per le delusioni di ogni tipo) o ritrovarsi con le unghie ricoperte di smalto
fucsia (con i brillantini) o girare vestiti da Babbo Natale il giorno della
vigilia o rischiare di prendere un palo camminando all’indietro (ma in questo
caso potrebbe anche capitare di travolgere qualcuno di interessante, poi da
cosa nasce cosa e chissà che non possa essere l’inizio di un nuovo capitolo
amoroso con cui superare l’eventuale abbandono).
Consigli
Se venite contagiati dal gioco dei dieci minuti, sentitevi
liberi di fare cose stupide, anzi sarebbe preferibile fare proprio attività
decisamente frivole che mettono addosso quell’allegria fondamentale per
stemperare l’insostenibile pesantezza dell’essere. Parlando di leggerezza,
pesantezza e relazioni amorose complicate, consiglio di dedicare dieci minuti
al giorno (o molto di più) alla lettura de “L’insostenibile leggerezza
dell’essere” di Milan Kundera. Non è una cosa stupida da fare, ma sarebbe
stupido non farlo.
Chiara Gamberale è recentemente tornata a parlare di
dolorosi abbandoni in “Avrò cura di te”, commovente e ironico romanzo scritto a
quattro mani con Massimo Gramellini, indicato per curare momenti di sconforto e
la conseguente perdita di ogni certezza. Perché la cura abbia effetto, però, è
necessario credere negli angeli custodi. Per combattere con autoironia e
intelligenza, unite a una buona dose di malinconica amarezza, eventuali danni
provocati dall’abbandono di una persona amata consiglio anche “Fai bei sogni”.
Attingendo alla sua esperienza personale, Massimo Gramellini racconta come la
perdita e l’abbandono della donna più importante della vita di ognuno di noi,
la mamma, possa segnare l’esistenza. Vissuto come tradimento, il distacco
rischia di generare rancore e pessimismo, paura e insicurezza, un pericoloso
intruglio di reflussi acidi in grado di avvelenare lentamente la capacità non
solo di essere felici, ma anche semplicemente vivi. Gramellini dedica il
romanzo a tutti coloro che nella vita hanno perso qualcosa e che, rifiutandosi
di accettare la realtà, rifiutano sé stessi. «Preferiamo ignorarla la verità.
Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che
abbiamo paura di essere: completamente vivi». Appassionante e ironico
antidolorifico che apre gli occhi e cura i bruciori di cuore.
Commenti
Ho letto molto della nostra scrittrice, di cui ricordo
sempre la bellezza mia interna alla lettura de “La zona cieca”, e alla
riproposizione letteraria della “finestra di Johari” (e chi ha fatto psicologia
con me sa di cosa parlo). Ora questa terapia mi ripropone altri due libri suoi,
che, onestamente, non sono all’altezza dei primi, anche con l’apporto (nel
secondo) della scrittura di un Massimo Gramellini che ancora non decifro
completamente (bene in TV, male in libro).
Chiara Gamberale “Per
dieci minuti” Feltrinelli euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)
[pubblicato il 10 dicembre 2017]
Quasi un
metalibro, che mi ha accompagnato nella calda settimana omanita. Speravo in un
romanzo più caldo, consono all’ambiente, e più rilassante. In realtà non è
stato né l’uno né l’altro, eppur tuttavia, una lettura che ha avuto alcuni
momenti di interesse. Diciamo soprattutto nella parte iniziale. Chiara è sempre
stata attenta ai problemi psicologici dei suoi personaggi, tanto che rimando
sempre a quel libro piccolo ma illuminante le mie personali esperienze nel
campo che è stato “La zona cieca”. Anche qui, il suo personaggio, forse non a
caso omonimo, ha di fronte una psicoterapeuta. Dalla quale va per affrontare
una perdita, e la conseguente consapevolezza di aver fallito. La perdita è quella
del suo matrimonio, quando il suo lui la lascia con una telefonata
durante un viaggio di lavoro. Poco dopo, anche il lavoro, per il quale si era
trasferita in un’altra città, le viene tolto. E Chiara si trova ad essere per
la prima volta sola, in una nuova città, che non conosce bene, e senza lavoro.
Senza punti di riferimento. Mi sembra il minimo che la vita vada in pezzi. Dopo
varie sedute pregresse, che avvengono prima dell’inizio del libro, la
psicoterapeuta le domanda se è disposta a fare un gioco, che riprende il
pensiero pedagogico di Rudolf Steiner: per dieci minuti al giorno, per un mese
dovrà fare una cosa mai fatta prima. L’obiettivo è quello di uscire dai
classici schemi e combattere la paura. E Chiara non si tira indietro, decide di
giocare, dopo tutto quello che sta passando le sembra una cosa semplice da
fare. Nessuna azione eccezionale le viene chiesta, solo di sperimentare quelle
che per lei sono delle novità, come cucinare i pancake, ballare l’hip-hop,
mettersi uno smalto sgargiante, camminare di spalle per la città, ascoltare i
problemi di sua madre; azioni semplici, ma che, poco alla volta, l’aiutano a
cambiare sguardo sul mondo che la circonda e a capire che ricominciare è
necessario. E per ricominciare, giocando in questo modo bizzarro, ogni volta si
mette in discussione, prova ad essere meno egoista, prova ad aprirsi, cerca di
capire di più sé stessa. Aprirsi significa anche condividere il proprio dolore,
non negarlo. Non si vorrebbe mai provarlo, ma se c’è, se lo si affronta, può
portarci qualcosa, può arricchirci. Affrontando i suoi dieci minuti altri,
l’autrice ci fa scoprire anche chi sia, ora, Chiara. Come si sia sempre
affidato al marito che si occupava di lei, in tutto. Senza, la sua vita non c’è
più. Un momento illuminante del percorso e del suo scopo, lo abbiamo quando
Chiara chiede alla psicoterapeuta, accettando il gioco: “Alla fine che cos si
vince? Riavrò la mia vita indietro?” Ovvio che non ottiene risposta. Ovvio (per
noi che capiamo i meccanismi) è che se Chiara gioca bene le sue carte non avrà
indietro la “sua” vita, ma una “nuova” vita. Perché nei suoi dieci minuti
privati, pian piano, capisce che sta passando dal “noi” che fino ad ora l’aveva
bloccata, ad un semplice, banale, fortissimo “io”. E solo dopo aver finalmente
sperimentato l’io Chiara riesce a pensare di nuovo al noi. Grazie a tutte le
nuove esperienze, agli esperimenti provati potrà finalmente dire un grande no e
un grande sì: con sé stessa scopre anche gli altri. Anche se non vi dico che no
e che si siano. La capacità della Gamberale è anche di far seguire alla sua
scrittura il percorso di Chiara. All’inizio, quando è confusa e spaesata, la
scrittura è nervosa e spezzettata. Poi si trasforma in una narrazione calma e
consapevole. Tuttavia, ed è questo il motivo che ci fermiamo a “soli” tre
librini è anche una scrittura che fatica a coinvolgere il lettore. Se ne legge,
si capisce gli accadimenti, ma non si diventa mai partecipi del romanzo. Io
lettore non mi sento Chiara che cammina di spalle (anche se ricordo, e con vera
gioia, quando facevamo il gioco dei ciechi, con Luisa, con Rosa, con Cristina).
Questa scrittura ondivaga, ha fatto balenare l’idea che l’autrice abbia
raccolto brani di suoi mini-racconti e li abbia cuciti una volta trovata l’idea
forte dei “dieci minuti”. Non sono talmente abile nel decifrare le trame altrui
da poter dare una risposta certa. Noto quello che c’è, non quello che ci poteva
essere e non c’è (una maggiore enfasi nel futuro di Chiara, per me, ad
esempio). E sono contento di averne letto.
“Purtroppo e per fortuna, bisogna essere in due a
voler essere in due.” (99)
“Gli altri, quando fanno qualcosa per noi, ci danno
o … ci tolgono un’occasione?” (113)
Massimo Gramellini
& Chiara Gamberale “Avrò cura di te” TEA euro 5
[trama scritta il 22 dicembre 2017, non
ancora pubblicata]
Pur
essendo un libro misto uomo-donna, lo collocherò nell’Universo femminile, che
mi sembra l’impronta di Chiara maggiore, o di maggior spinta, rispetto a quella
di Massimo. Gramellini che non mi dispiaceva leggere a volte su “La Stampa”
(non invece nella nuova veste nel Corriere) o ascoltare da Fazio, ma non riesco
ad entrare nella sua scrittura libraria. Ho letto “L’ultima riga delle favole”
e non mi è piaciuto; ho provato ad interessarmi a “Fai bei sogni”, e niente anche
qui. Confesso che in questa prova l’ho trovato più leggibile, anche se, a
volte, un po’ troppo legato alla parola, all’effetto, al detto e mal
interpretato. Eppur tuttavia, discretamente godibile, anche se facilmente
decrittabile. Gamberale è, al solito, nel buio nero delle crisi esistenziali.
Non sembra aver fatto un passo avanti dal precedente “Per dieci minuti”. È
ancora lì, ad elaborare lutti e cercare di recuperare, a riempirsi di parole,
quasi a sommergerci in modo da non darci diritto di replica. Per questo, lo
ritengo un libro più femminile, per questa preponderanza, alme-no emotiva,
della parte “Chiara”. Il libro è costruito come una specie di epistolario tra
la povera Gioconda-Chiara, con tutti i problemi, passati, presenti e
probabilmente futuri, ed un nomato “Filèmone”, presentatosi come suo Angelo
Custode. Senza entrare nel merito dell’angelicità, del-la vita al di là, della
morte (e magari della reincarnazione), sottolineiamo la scelta de nome che
rimanda alla saga di Filèmone e Bauci, due dei più teneri amanti della
mitologia greca, che per rimanere uniti per sempre vennero prima di morire
trasformati da Zeus in una quercia e un tiglio uniti per il tronco. Ma non ci
meraviglia inoltre, che Filèmone sia un personaggio centrale dell’opera psicologica
di Jung. Perché, in realtà, volendo traslare l’angelicità, Filèmone-Massimo ha
molto dello psicologo, con in più la capacità – volontà – dirazzamento di
intervenire oltre che di ascoltare. La trama a due voci è discretamente
lineare: Gioconda è stata lasciata dal marito Leonardo (certo invenzione poco
felice), non riesce ad elaborare il suo (nuovo) lutto, ed ecco che interviene
come suo contraltare Filèmone, che la striglia, la indirizza, fino alla catarsi
finale cui arriveremo. Perché, nel progredire dello scritto vediamo delinearsi
sempre più chiaramente le figure sia di Gioconda che di Filèmone. Gioconda,
trasferitasi a casa della ormai defunta nonna Gioconda, ne mitizza la vita
vissuta accanto al marito Antonino. Intanto, sotto la spinta dell’angelo, tira
fuori la sua storia. Figlia di una coppia scoppiata quando lei aveva quattro
anni, non si è mai sentita accudita – compresa – cresciuta né dal padre, esimio
ofiologo, né dalla madre, pronta a partire per il Sud America in vista di un
nuovo possibile amore “che dia un senso alla vita vissuta fin qui”. Cresciuta
con i nonni, ribelle senza rivoluzione, fa (quasi) sempre scelte sbagliate
accettando o rifiutando innamorati e amanti. A trentun anni, laureata ed
insegnante di Italiano, incontra Leonardo. Ne nasce una storia d’amore forte,
complessa, piena dei di lui silenzi e delle sue parole. Tuttavia, mai dare per
scontato l’amore, che va rivisto e coccolato ogni giorno. Gioconda e Leonardo
si raffreddano, si allontanano, fino a che lei, quasi senza esserne cosciente,
va a letto con il padre di un suo alunno. Un tradimento? Si potrebbe discutere
e parlarne. Certo Leonardo, scopertolo, intento un processo via mail a Gioconda
e la lascia. Gioconda cerca aiuto in Filèmone, anche dei suoi passi incerti,
del voler tornare con l’Innominato, ma sen-za muovere un dito (commento mio). E
l’Angelo la convince a guardarsi dentro, a non nascondere il proprio Io.
Bellissime le poche righe che Gioconda si (e ci) concede per la sua fuga
all’Isola di Pasqua. Ovvio che quando Gioconda finalmente comincia a camminare
con le proprie gambe, Leonardo si ripresenta, rischiando di far crollare il
fragile castello. Sarà la capacità di non chiudere gli occhi che consentirà
(forse e se lo vorranno) l’inizio di una via nuova sulla vita vecchia. Il tutto
ha per contraltare l’angelo, che ci racconta delle sue vite passate, ed
intuiamo, da interventi fuori testo, che anche lui ha un grande amore,
immutabile, immancabile, eterno. Per costringere Gioconda a guardarsi dentro
senza altre maschere, Filèmone, alla fine, le fa capire che il suo grande amore
era (è) proprio la nonna Gioconda. Ma allora Filèmone è nonno An-tonino, o c’è
una storia diversa che non conosciamo e che conosceremo? Come conosceremo
l’idea (che però è chiara già da diverse pagine prima della fine) di come
Filèmone e Gioconda senior potremmo dare ancora una mano a Gioconda junior. A
parte l’invenzione dell’Angelo, che mi lascia freddo, il libro si legge come un
Fabio Volo al femminile, con qualche tocco di Federica Bosco. E molte frasi
(anche se quelle sotto riportate sono condivisibili) più da Bacio Perugina che
da libro di lettura. Leggerino, incomprensibilmente (o forse molto
comprensibilmente) in testa a classifiche mensili di lettura. Dove ormai mi
sembra chiaro che la popolarità raramente si accoppia ad una riuscita emotiva e
cerebrale completa.
“Dov’è il confine che separa un segreto da
una bugia?” (115)
“Si completa con gli altri solo chi sa
bastare a sé stesso.” (134)
“L’amore perfetto non esiste: quello reale è
la somma di tante imperfezioni. Ogni tradimento è il tentativo di colmare un
vuoto.” (181)
Finalino
Ripeto quanto detto in commento: il co-Gramellini non mi
convince, i “Dieci minuti” mi sembrano una lezione troppo “alla moda” per
essere interessante. Leggete (o rileggete) invece “La zona cieca”.
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