domenica 18 febbraio 2018

Saggiamente tornati - 18 febbraio 2018

Già la scorsa settimana si parla del ritorno, del dolore, e di altro. Ora, in questa settimana in cui c’è anche un’appendice di panico, torno a delle letture sicuramente di livello. Non è forse un caso, come direbbe l’amica Marina, che si parli di saggi e non di romanzi. Tutti oltre la sufficienza, anche di molto. In cui si parla di Istanbul, di Vietnam, del nostro caos attuale, e die rapporti interpersonali, soprattutto con e verso i figli. Una settimana di letture che mi sento di consigliare in blocco (e sottolineo Terzani sotto la spinta del mio amico umbro Roberto).
Francesca Pacini “La mia Istanbul” Ponte Sisto s.p. (prestito di Fako)
[A: 02/05/2017 – I: 24/05/2017 – T: 26/05/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 228; anno 2013]
Sono stato molto indeciso se e quanti gradimenti attribuire a questo libro. Che ho letto con piacere, ma che mi ha rimandato alcune immagini contraddittorie. Perché è un libro ben scritto dove la lettura scivola sul testo con facilità, quasi si fosse cullati dalle onde del Bosforo. Perché è un libro che parla di Istanbul, città che ho sempre nel cuore, dicendo cose che, per chi non conosce la città o la Turchia, sono degne di essere lette. Perché, però, tutto quanto detto ha solo confermato quanto già era nel mio cuore, senza aggiungere nulla né di testa né di pancia. Alla fine sono giunto ad una mediazione, per una valutazione dove “in medio stat virtus”. Un giudizio che parte con il piede giusto, perché non ci si può non fermare alla copertina, e dove molto del libro sta già nel sottotitolo “Viaggio di una donna occidentale attraverso la porta d'Oriente”. Non è un reportage, non è un diario di viaggio, forse un mix, di certo una piccola guida di emozioni per conoscere meglio una città magica. Con gli occhi di una donna non islamica in un mondo che lo è. Capisco, credo di capire, cosa possa essere. Per chi come me, come molti di voi (e chi non c’è stato ci vada, e chi c’è stato ci ritorni), ecco che dietro le parole di Francesca sbucano i dervisci rotanti che danzano nei quartieri alla moda ma anche nella stazione del vecchio Orient Express, ecco che ci imbarchiamo per una gita in Asia con il battello, per poi scendere ed aggirarci passeggiando lungo la riva del Bosforo. Fare un salto al vecchio hamam del centro, fumare un narghilè dietro il vecchio cimitero. Ed al mattino svegliarsi con il canto del muezzin all’alba dietro ai minareti. Come dice l’autrice “Quando viaggi, il bello è vedere il diverso, l’altro da te”. Istanbul è piena di questo altro. Una città in bilico tra Oriente ed Occidente, una frontiera tra il nostro noto e quello che ci si aspetta dall’ignoto. Certo, non è una città facile, non ora con un governo teso ad altro e che rende difficile esprimersi, prendere contatto. Ma Istanbul è lì, nella parte moderna interessante, ma che si può vedere una volta e basta. E le tante atmosfera di un tempo: nel quartiere tradizionale, per vedere gli affreschi di San Salvatore in Chora, nelle stradine intorno alla moschea del Solimano, alle sue casette ancora in legno, alle stradine verso il Corno d’Oro. Non penso entrerò nel merito specifico del libro, che la scrittura è gradevole, anche se, come detto, non mi ha preso abbastanza da rendermela vicina. Ma le immagini, sia del libro sia quelle che mi ha evocato nella testa, quelle sì che possiamo riportarle. Come quella, vicino alla fermata di Kabataş, della Moschea Dolmabahçe che si affaccia direttamente sul Bosforo. Le due anime di Istanbul, l’europea e l’asiatica, la moderna e la tradizionale, si amalgamano e cambiano sé stesse, così che, girando per le strade, incontriamo donne truccate e vestite alla moda con in mano un cocktail alcolico, che incrociano splendide musulmane che indossano con disinvoltura l’hijab. Là dove la tolleranza potrebbe quindi regnare. Là dove, purtroppo, non sarà così, che, come in tutte le religioni, sono gli estremismi a causare i problemi. Lì, ad Istanbul non è questione di Islam o non Islam, è questione dell’estremismo governativo di Erdoğan. Emblema, uno per tutti, Gezi Park e tutto quello che ha portato con sé. Ma noi lasciamo il governo e la polizia, noi torniamo alle moschee affacciate sul Bosforo, al mare azzurro, alle barche sotto il ponte di Galata, ai suoni ed ai colori. Due ultime immagini prima di lasciare Istanbul e Francesca Pacini. Una dolente, che a pagina 80 si cita quella che per alcuni anni è stata una libreria di riferimento per testi islamici in generale, e sufi in particolare. La libreria Nima, lì alla stazione Tiburtina. Ora purtroppo c’è solo un venditore di kebab! Una allegra, per me che mi riporta non ad Istanbul, ma a Damasco. Quando alla scrittrice per la sua ultima cena in uno dei tanti viaggi, il cameriere porta una zuppa di lenticchie, dove lei, come feci io, come avrà fatto Esau, spruzza contenta un limone prima di mangiarla. Sarà contento Proust! Ricordando il memento finale che ci lascia Francesca (“Bisogna vedere delle cose vecchie con occhi nuovi. Invece spesso vediamo cose nuove con occhi vecchi, purtroppo”) vi lascio anch’io, augurandovi un nuovo felice viaggio.
“Chi cerca, chi si mette in viaggio, arriva sempre, qualunque strada percorrerà.” (29)
“La mediazione si trova anche nell’accettazione della diversità, senza volerla per forza integrare.” (63)
“Pasolini: la mia indipendenza, che è la mia forza, implica anche la solitudine, che è la mia debolezza.” (220)
Tiziano Terzani “Pelle di leopardo” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 18/05/2015 – I: 11/09/2017 – T: 22/09/2017] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 456; anno 2000]
Sotto questo titolo “cumulativo” (e sulla cui bellezza tornerò più avanti) sono in realtà presentati due libri, diversi e consequenziali, del mai dimenticato Terzani. Che, confesso, non avevo molto nel cuore ai tempi dei suoi scritti o dei suoi articoli. Anche perché faceva il corrispondente per un giornale tedesco, il “Der Spiegel”. Ma che mi avvinse alla sua scrittura con il bellissimo ed impareggiabile “Un indovino mi disse”. E poi mi avvinse alla sua vita con le sue vicende finali: la strenua lotta sia contro la guerra, di lui da sempre corrispondente di guerra, e la non vincibile lotta con il tumore che, purtroppo, ce l’ha portato via ormai da 13 anni. E sono contento di leggere le sue mirabili pagine, proprio in questi giorni in cui avrebbe festeggiato i suoi 79 anni.
“Pelle di leopardo – Diario vietnamita di un corrispondente di guerra 1972-1973”
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 1-169; anno 1973]
Detto che la scrittura di Terzani, una volta che la si incontra, non la si dimentica più, ho finalmente letto, a più di quarant’anni dalla sua uscita, il primo dei due libri che l’autore dedica al Vietnam Autore insolito e momento insolito. Che Terzani, dopo una giovinezza acuta e strampalata, finalmente nel 1972 riesce a coronare il suo sogno: andare in Asia da corrispondente di un giornale. Le stranezze sono che Tiziano, proveniente da famiglia non ricca, tra sacrifici ed altre amenità, si laurea in Giurisprudenza. Poi fa lavori strani, si sposa con l’amata Angela che lo seguirà per tutta la vita, fino a diventare parte dell’ufficio del personale della Olivetti ai tempi di Paolo Volponi. Aveva già imparato il cinese a New York, vive qualche anno laggiù tra Singapore ed altre asiaticherie (portandosi appresso l’appena nato figlio Folco). Ma l’Olivetti gli sta stretta. Prova per un po’ a lavorare a “Il Giorno” con Giorgio Bocca, senza molti risultati. Fino a che ha questo colpo di fortuna (e di genio): gli viene offerto di fare il corrispondente all’estero del giornale tedesco “Der Spiegel” (Tiziano parla francese, inglese, tedesco, cinese e qualche altra lingua). Lavoro che farà per 25 anni sino al ’97. Forse anche per questo, all’inizio non è particolarmente noto in Italia, fino però ad uscire fuori con la forza delle sue parole. Quelle che scriveva già a 34 anni, quando, iniziando i suoi reportage dal Vietnam non poteva che dire: “non si può parlare, scrivere di questa o di un’altra guerriglia, se non la si va a vedere, se non si è disposti a condividerne i rischi. […] Mi pareva che andare alla guerra fosse necessario per capirla, fosse anche una forma di lealtà nei confronti di chi la combatte.” E tutta la sua opera, di scrittura e di vita, è permeata di questo sentimento: lealtà. Come in questo suo primo scritto, in cui dal suo diario estrapola le avventure significative del suo anno nel Vietnam del Sud. Prova a descrivere con lealtà la vita quotidiana a Saigon, tra una possibile offensiva ai tempi del Tet del ‘72 (il capodanno vietnamita tra fine gennaio ed inizio febbraio) e la firma degli accordi di Parigi nel gennaio del ’73. Ma anche cosa succede a Nord, verso la linea di confine tra i due Vietnam, a Hué ed altre città vicine. E poi anche nel Delta del Mekong. Riuscendo sempre a mantenere un atteggiamento descrittivo e non giudicante. Certo, non può mancare un giudizio implicito, quando si descrive l’insipienza dei comandanti americani sul posto. Mirabile la descrizione di una conferenza stampa e dei “No comment” del generale americano di turno. O lo stesso giudizio sulle malefatte quotidiane dell’esercito sud-vietnamita sia verso chi fosse sospettato di parteggiare per il Nord, sia per gli stessi civili, colpevoli di nulla. In questa parte diaristica poco compaiono delle azioni e delle posizioni sia dell’esercito del Nord sia dei Vietcong, che difficile è per i giornalisti entrare in contatto. Ma con le testimonianze dirette della gente che intervista, in genere contadini e gente del popolo, Terzani riesce a sollevare il velo dei comunicati ufficiali, rivelando le inutili nonché enormi sofferenze del popolo vietnamita durante tutto il conflitto. Ma è anche un bravo giornalista, anche perché conoscendo brandelli di lingua locale riesce a comprendere meglio posizioni ed atteggiamenti. Ed attraverso le sue descrizioni comprendiamo meglio le posizioni sul terreno nella Saigon di quegli anni. Il terribile peso dittatoriale del presidente Thieu, la presenza di una “terza forza”, né pro-americana né pro-comunista che tuttavia non riesce ad esprimersi. Dopo tutta una serie di mesi passati su e giù tra le zone di guerra, solo nel gennaio del ’73 riesce a penetrare nella parte del Delta occupata dalle forze di liberazione. E ne descrive anche qui le vicende quotidiane, con quella bellissima sera di teatro popolare in una città inesistente del Mekong (inesistente perché nasce per la rappresentazione dove convergono molti locali, e viene abbandonata la sera stessa, dopo lo spettacolo). Dopo di che, il governo di Thieu ritiene non gradita la presenza di Terzani, che viene espulso, si ritirerà a Singapore, e riuscirà a tornare solo due anni dopo, come racconta il secondo libro contenuto in questo volume. Corrispondente di guerra, che scrive della guerra perché si riesca ad eliminare le guerre, la scrittura di Terzani è bella, coinvolgente, ti fa sentire lì dove sventolano le bandiere, lì dove cadono le bombe, lì dove la gente che subisce la guerra inutilmente muore. E per chi ha visto, quaranta anni dopo, quelle terre, quelle ferite, non si può che rimanere colpiti dalla bravura e dalla precisione di questo giornalista ancora giovane. Che ci dà, alla fine, tutti i sentimenti della guerra: il soldato americano sfiduciato, il generale americano presupponente, la gerarchia sud-vietnamita inconcludente, la terza forza incapace di esprimersi, il popolo minuto che si occupa del quotidiano, l’avanzata, inesorabile, dell’esercito di liberazione. Veramente un bell’inizio.
“La carta geografica del Sud è ... una specie di pelle di leopardo con delle macchie nere rappresentanti ‘il nemico’ [i.e. i Vietcong] sparse un po’ dovunque, non solo nelle campagne, ma anche vicino alle città … a Saigon, Hué, Da Nang, eccetera.” (117)
“Giai Phong! – La liberazione di Saigon”
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171-440; anno 1976]
Nel secondo libro della duologia vietnamita, vediamo Terzani riuscire, dopo due anni, a tornare a Saigon, proprio nel momento topico della guerra vietnamita. Come dalla lettura del libro precedente, sappiamo che nel 1973, ufficialmente, l’esercito americano lascia il Sud. Ma rimangono ancora le strutture di supporto al governo sud-vietnamita di Thieu. In due anni, Vietcong e Vietminh avanzano dalle campagne, circondano e “liberano” le città. Terzani, in due momenti topici di questo libro, ci dà conto delle due parti primarie della vicenda. Nei tre giorni di fine aprile del 1975, riesce a farci seguire, giorno per giorno, anzi ora per ora, tutto quello che avviene nella città. Le attese, la fuga di Thieu, la nascita di un governo che dovrebbe trattare la resa, la fuga dei corrotti aiutati dagli ultimi elicotteri americani. Ricordo ancora l’emozione provata pochi anni fa nell’entrare nel palazzo presidenziale, vedere il giardino con il primo carro armato entrato in città e lì parcheggiato, salire le scale sino al tetto, dove, dall’eliporto improvvisato, partì il 30 aprile 1975 l’ultimo elicottero americano. Sono i piccoli dettagli che Terzani ci mostra e che ci fanno capire l’insensatezza di anni e anni di battaglie, e l’ironia di un popolo che si voleva diviso e che finalmente si ricongiunge. Finalmente si libera. La cosa migliore di questa parte, è la descrizione del carro armato che ha una piantina per raggiungere il palazzo, visto che a guidarlo sono giovani mai entrati a Saigon. E che si perde, e deve chiedere ad un passante la strada da percorrere. Un tocco magistrale. La seconda parte, invece, è tutta incentrata nei tre mesi successivi. I primi tre mesi della Rivoluzione. Caratterizzati, questi almeno, da alcune parole d’ordine e da alcuni comportamenti che permisero un inizio abbastanza soffice del processo di normalizzazione. I liberatori non usarono repressioni o epurazioni, ma agivano in termini di perdono e pacificazione. I sudisti avevano sbagliato, ma perché consigliati malamente. Quindi, istituendo dal basso momenti assembleari di discussione, di critica ed autocritica, i nordisti, i vietcong, l’esercito di liberazione entrano in simbiosi con i sudisti, con i tanti sostenitori, coscienti o meno, dei “fantocci” che avevano guidato il Sud dal 1954 per venti anni. Campagne rieducative, esempi da seguire e far seguire. Con tutta una escalation studiata ed attuata magistralmente. Dal basso, la rieducazione è breve, perché brevi e poche sono le colpe. Man mano che si sale nella scala gerarchica del potere, che si investono soprattutto i pochi rimasugli dell’esercito sudista, la rieducazione diventa più lunga, anche più dolorosa. Mirabile anche qui la descrizione di quei quadri cui viene detto di prendere provvigioni per almeno un mese, ma la cui rieducazione sarà molto più lunga, comporterà anche la necessità di trovarsi a procurare cibo ed alloggi. Tutto serve alla causa della Rivoluzione, dicono gli epigoni di Lê Ðức Thọ, il negoziatore degli Accordi di Parigi. Terzani ce ne descrive al solito il quadro con una discreta dose di imparzialità, anche se non si può negare un certo grado di partecipazione. Non è un caso che questo libro verrà subito tradotto anche in vietnamita, che verrà propagandato come descrizione occidentale degli avvenimenti, che ne verrà a lungo vietata la vendita negli Stati Uniti. Non è un libro che va oltre quanto promesso. Non può, per ovvie ragioni di tempo, entrare nel merito del processo successivo degli avvenimenti indocinesi. Che dopo questa fase di pacificazione, per sostenere le idee egualitarie, ma anche per far riprendere i mezzi di sostentamento agricolo, andati bellamente a puttane, un sempre più duro sforzo sarà necessario. Un irrigidimento che contraddirà molti dei principi che Terzani ci ha fatto amare in queste pagine. Che entrerà in conflitto con l’Unione Sovietica, con la Cina, occuperà anche la Cambogia di Pol Pot (e questo forse è stato un bene), fino ad avviare, dagli anni ’90 un lungo processo di “terza via” simile a quella cinese, rendendo il Vietnam, ora, uno stato interessante per le prospettive economiche e di sviluppo. Anche se pieno di contraddizioni, come ho potuto constatare “de visu” durante il lungo giro che ne ho fatto. Ma non stiamo parlando di storia, stiamo parlando di libri. E soprattutto di Terzani. Certo, la sua capacità di citare nomi e situazioni e località è di una precisione impressionante, ma che purtroppo ci restituisce poco, a noi che dei nomi locali ne ricordiamo a mala pena tre: Hồ Chí Minh, che però muore nel 1969, Lê Ðức Thọ, il negoziatore sopra ricordato, e Võ Nguyên Giáp, il generale che ha guidato tutta la guerra (e che è morto poco prima che io visitassi il paese alla bella età di 102 anni). Il resto, sono nomi che non rimangono, di cui vediamo le storie che ce ne racconta Terzani. E di cui non entriamo nel merito. Dovete leggerla, dovete entrare in quei tre mesi fatali, là dove il potenziale diventa atto. Là dove si è riusciti, per poco e con tanto sforzo, a rendere fattibile, anche alla fine del XX secolo una rivoluzione che sa di primo Novecento. Inoltre, ed in ogni riga, in ogni piega delle sue pagine, anche quando parla di guerra, anche quando visita il Delta e le città che nascono a nuova vita dopo tante sofferenze, Terzani ci comunica quello di cui tutti i suoi scritti sono soffusi: la guerra è una tragedia, e bisogna fare di tutto per non caderci di nuovo. E lo dico ora quando i burattini americani ed asiatici tendono a cadere ancora ed ancora nelle stesse trappole. Parlare, spiegare, sedersi intorno ad un tavolo, e non aver paura di essere normali. Grazie, sempre e comunque, amico Tiziano.
“Dieci anni di tragedie per nulla.” (228)
Zygmunt Bauman & Ezio Mauro “Babel” Laterza euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/10/2016 – I: 10/12/2017 – T: 13/12/2017] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano – inglese; pagine: 153; anno 2015]
Cominciamo con il giudizio, che questo saggio è un libro composto, è un dialogo tra i due autori, intorno a tematiche interessanti e che sempre sono nella mia testa, negli ultimi anni. Ma come tutti i dialoghi ha un diverso peso nelle parti esposte e sostenute dai due autori. Prima però di entrare in trame specifiche, è bene che dica la mia sensazione. Che gli interventi di Bauman (ora purtroppo scomparso) sono lucidi, solidi, ma anche, al solito (se vedete le mie altre critiche ai suoi scritti) molto sociologici e poco politici: analizzano, in modo anche feroce, la realtà, ma non ci danno (perché credo che non sia questo il mestiere del pensatore polacco) una soluzione, una modalità per operare. Ma la loro solidità merita anche 4 librini. Il contraltare di Mauro, che vorrebbe e dovrebbe essere più politico, invece mi risulta meno convincente ed avvincente, a volte teso anche a tirare acqua al mulino di Repubblica (anche se non vedo niente di sconveniente in questo), ma che portano i librini del giornalista tra il 2 e ½ ed il 3. Il dialogo tra i due pensatori si articola in tre tappe che ripercorrono e affrontano le tematiche del nostro oggi. La crisi della democrazia, la crisi della rappresentanza, la solitudine dell’interconnessione. Sono tre aspetti del mondo che viviamo e che Bauman sintetizza nella sua breve ed affascinante introduzione riportandoci alla “Lotteria di Babilonia” di Borges. Non è un caso che si comincia con uno scrittore, perché poi con gli scrittori si finisce, con quelle due citazioni che riporto sotto di Canetti e di Bulgakov. Ma questo mondo inconoscibile, così come diventa dopo anni ed anni la lotteria di Borges, è quello in cui viviamo. È quello in cui da anni siamo immersi in una crisi che per non angosciarci troppo riteniamo solo economica. Invece nella crisi economica dobbiamo vedere un sintomo del collasso della democrazia come abbiamo tentato di costruirla o ricostruirla dopo la Seconda guerra mondiale. Prima c’era solo il lavoro ed i rapporti sociali che avevano senso, che permettevano lo scambio, e di conseguenza la costruzione, di un mondo, di uno Stato. Poi tutto si è andato monetizzando (ricordo a qualcuno l’assioma di un governante che taglia i fondi alla cultura perché questa non produce, subito, denaro). Si è andata sempre più verso il primato dell’economia. Dove destra e sinistra, che un tempo indicavano due diverse visoni del mondo - l’una più attenta alla libertà d’impresa, l’altra più attenta alla solidarietà sociale - hanno perso significato, determinando quell’apatia politica ben evidenziata dalla crescita dell’astensione a ogni tornata elettorale, da parte di cittadini, che più non credono nella possibilità di modificare le cose. Era anche un mondo dove c’erano disuguaglianze, ben lo sappiamo. Ma erano disuguaglianza tollerate perché in cambio offrivano sicurezza. Che ora non è più di questa parte del mondo. In quel contesto, nel mondo degli Stati nazione, l’Europa ha potuto scrivere la Storia dell’Occidente e l’Occidente la storia del mondo, oggi, dove nel 2050 metà della popolazione occidentale sarà di origine extracomunitaria, bisogna trovare altri motivi ed elementi di compatibilità. Questo ci porta ad essere soli, ad avere la paura di essere soli. Una paura che i social network, i Facebook, sembrano aver eliminato. Ma che invece ha contribuito ancora a deresponsabilizzare l’individuo, a far finta che vedere l’evento su Internet sia parteciparvi, sia capirlo. Qui inserirei due miei commenti esterni. Uno che riprendo da Eco, dove in alcune sue pagine magistrali decostruisce l’uso di Internet come fonte di notizie, perché lì c’è di tutto, ma tutto è inverificato. Quindi è vero ed è anche vero il suo contrario. Il secondo viene da questa mia esperienza recente in quel di Gerusalemme, durante la crisi generata dalle parole di Trump. Ne ho vissuto momenti in diretta, vedendo quello che succedeva. Ne ho visto su Internet, vedendo video che sezionavano l’accaduto, ma proprio per questo ne davano un’immagine parziale. Ne ho letto sui giornali, che, pur allargando il discorso, non riescono a dare la reale sensazioni di cosa c’è e cosa potrebbe accadere. Allontanandomi da Porta Damasco, dove la polizia caricava, vado verso Ben Yehuda, dove turisti circolano, negozi vendono. Ed arrivo al mercato, dove gli arabi, comunque irritati, aprono le loro bancarelle. Quanto si potrebbe dire e dedurre da tutto ciò. Ma io non sono un pensatore, io osservo, e riporto a me ed a voi le mie sensazioni. Dove, tornando al libro, al dialogo ed alla trama, mi accorgo di averne riportato la mia visione. Quello che a me colpisce, che forse sarà diverso da voi, ma sarà utile a discuterne. Sarei tentato, come fanno i nostri due, di mettere ora una profusione di interrogativi, che sono quelli che vengono alla mente, ora, qui, in questo nostro mondo, ed a cui non riusciamo a rispondere. Anche se fare domande è meglio che non farle. Ma voglio solo sottolineare di nuovo quella frasi di Bauman, dove la comunicazione, l’enunciazione del fatto, il dire (o anche il facile “like” su di una frase in rete) sostituisce la comprensione dello stesso avvenimento. Vorrei finire allora riprendendo l’attualizzazione della citazione gramsciana di Bauman sul pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà: “la sfida della modernità è vivere senza illusioni e senza diventare disillusi”. Facciamolo, se possiamo.
“EM: ingaggiarci in qualche battaglia pubblica o restare chiusi in casa ha per noi ormai lo stesso effetto pratico.” (33)
“ZB: [ora] i mezzi giustificano i fini.” (89)
“EM: la costruzione del contesto è ciò che rende comprensibili i fatti.” (94)
“ZB: la comunicazione ha sostituito … la comprensione.” (102)
“EM: avviciniamoci al fuoco, in modo da poter vedere cosa stiamo dicendo.” (124)
“Canetti: in un mondo che foss’anche il più volontariamente cieco, la presenza di persone che insistono tuttavia sulla possibilità del suo cambiamento acquista un’importanza suprema.” (135)
“Bulgakov: tutto può ancora accadere, perché nulla può durare per sempre.” (152)
Massimo Recalcati “Il segreto del figlio” Feltrinelli euro 15
[A: 22/05/2017 – I: 14/12/2017 – T: 16/12/2017] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 120; anno 2017]
Avevo letto di Recalcati alcuni articoli pubblicati su “La Repubblica” e giornali collegati, con un discreto interesse per la relativa chiarezza dell’esposizione. Relativa dovuta quasi sempre ad alcuni passaggi legati alla professione principe dell’autore, cioè la psicanalisi. Spinto dalle novità di maggior successo dell’anno, mi sono quindi dedicato a questo agile (per numero di pagine) volume. Senz’altro interessante ed anche pieno di spunti. Inoltre con un assunto ed una tesi di una linearità unica, seppur poi a tematica viene svolta con perizia e dovizia di citazioni e rimandi. Nei risvolti di copertina si colloca questo libro come terzo elemento del triangolo dedicato ai rapporti familiari. Non ho letto, né credo lo farò, i nodi dedicati al padre ed alla madre. Che credo questo del figlio possa, debba, essere preso per sé, come elemento di discussione sulla natura del figlio (sul suo segreto) e sul rapporto con i genitori. Una situazione complessa, come sappiamo tutti noi che abbiamo miriadi di intrecci che costituiscono la nostra vita (ed a cui dedicai la lettura, di certo più leggera, de “Gli sdraiati” di Michele Serra). Qui l’analisi di Recalcati si colloca su due piani “filiali” antitetici ed esemplificativi. Che servono entrambi ad analizzare i rapporti umani squilibrati tra generanti e generati. Il primo è dedicato ad Edipo. Qui siamo nel centro dell’analisi classica del rapporto filiale. Laio, il padre, avvertito da un oracolo che sarà ucciso dal figlio, ordina al servo di ucciderlo (per evitare di essere sopravanzato dal figlio, allora è meglio il parricidio). Ovvio che il servo di nascosto salva il piccolo e lo manda in un altro regno. Ovvio che, una volta cresciuto, Edipo cerchi le proprie radici. Si imbatte in Laio che non vuole cedere il passo in una strettoia. Altrettanto ovvio che Edipo lo uccida. Poi arriva nel regno senza più re, e decide di sposare la regina Giocasta, che non sa essere sua madre. Dal parricidio all’incesto. Poiché per i greci il fato è qualcosa di immutabile, tutto continua a correre verso il baratro. Il regno è flagellato da guai. Edipo cerca il responsabile, ed alla fine Tiresia gli dice la verità. Edipo, distrutto dal dolore, si acceca per non vedere più le brutture del mondo, e se ne va in esilio (Giocasta nel frattempo si era giustamente uccisa). Tutto questo ben noto schema (che genera in Freud e Lacan memorabili pagine psicoanalitiche) serve comunque a Recalcati per ribadire un percorso del rapporto che stiamo analizzando. Il padre deve donare al figlio gli strumenti per crescere e per sopravanzarlo. Se lo blocca, se lo “uccide” non potrà che subirne conseguenze forti. Nel caso, certo, che il figlio cresca normalmente in un ambiente fertile di stimoli. Il figlio, Edipo, ad un ceto punto dovrà sopravanzare il padre, “ucciderlo”, e dovrà prenderne il posto, “giacere con la madre”. Ma se poi continua ad agire cecando senza sapere, non riconoscendo le sue azioni, non potrà che finire come Edipo, accecato e ramingo. La seconda parte è invece dedicata alla parabola del vangelo di Luca detta del “figlio ritrovato” (o “figliol prodigo”). Il figlio chiede al padre la sua parte di eredità, pur con il padre in vita, perché vuole portare avanti la sua vita fuori dall’ombrello paterno. La ottiene, vive la sua vita, la sperpera, decide di tornare dal padre per chiedere perdono e ospitalità, come fosse l’ultimo dei servi. Ma il padre lo vede da lontano, gli corre incontro, e lo accoglie tra le sue braccia, perché “si era perso, ed ora è stato ritrovato”. Il padre qui non agisce secondo nessuna legge, ma fa un salto quantico, usando quello strumento che è veramente uno strumento divino: il perdono. Quale è allora il messaggio, sia per i padri come Laio e come quella della parabola, e per i figli come Edipo e come il figlio ritrovato? Difficile agire, da padre e da figlio. Difficile non vivere questa dicotomia come una tensione che attanaglierà tutta la vita. D’altra parte, tutti siamo figli ma non tutti siamo padri. E come figli, come quelli citati a lungo, e come altri che andrebbero citati se fossi meglio preparto (come Amleto, come Isacco), ognuno porta in sé un segreto, un modo di vivere, un modo per commettere incruentemente un parricidio e per passare senza consolazione in un perdono. Recalcati dà la sua soluzione al segreto. Che io ritrovo dai miei trascorsi psicanalitici. Il carattere si forma nell’età iniziale della vita, forgiato dall’energia in cui si vive, e che ci viene concessa da chi ci cresce. Il percorso della nostra vita è capire noi stessi, chi siamo, quali sono i lati del nostro carattere, e diventare, coscientemente, quello che siamo sempre stati. Due ultime chicche di questo bel libro. Un parallelo interessante e condivisibile sulle diverse posizioni di Amleto e Edipo. Amleto sa (chi ha ucciso il padre, e tutto il resto del dramma che non vi sto a ripetere) e non agisce; Edipo non sa e agisce. L’altra chicca è collegata al perdono, almeno nel mio immaginario. Si riferisce a quella tecnica giapponese della riparazione degli oggetti rotti con evidenziazione delle rotture stesse con oro e argento. Tecnica chiamata “Kintsugi”, che sottolinea come non si possa ricostruire una cosa che si rompe (un oggetto, un rapporto interpersonale) ma evidenziandone l’imperfezione, forse da una ferita piò nascere una perfezione migliore e diversa. Un’immagine che trovo stupenda. Che sottolineo, e che ribadisco con le frasi che sotto riporto. E che come vedete dal tono si riferiscono tutte al figlio ritrovato. Un caso?
“Ritrovare è riportare alla vita chi si pensava si fosse perso.” (92)
“Quando si perdona un’offesa come quella del tradimento non si perdona perché si è riusciti a dimenticare l’offesa, in quanto si può dimenticare solo se si è riusciti a perdonare.” (97)
“Il figlio giusto non è il figlio del sangue, non è giusto per natura.” (101)
“Diventare quello che si è sempre stati.” (120)
Ormai smaliziati e consapevoli, non potete scordare che questa seconda uscita mensile è dedicata alla cura di qualche malattia. E quale miglior viatico, oggi, che parlare di panico?
Non torno sui dolori pubblici e privati, torno invece sul ritorno (scusate il bisticcio) che oggi tornano anche i miei “italiani d’Argentina” come canterebbe Fossati. Io e loro non siamo certo saggi, ma ne facciamo di viaggi. 

PS: in ricordo di mia madre, pur non essendo un giorno palindromico oggi è una data anagrammatica!

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

FEBBRAIO 2018
La seconda cura dell'anno è dedicata a me ed a tutte le persone che conosco e che ne soffrono (o ne hanno sofferto).

PANICO, ATTACCHI DI

Jack Schaefer                “Il cavaliere della valle solitaria”
Gianrico Carofiglio           “Testimone inconsapevole”
C’è solo una cosa cha fa più paura di credere che stiamo per avere un attacco di panico, ed è avere un attacco di panico. Ovviamente, saperlo ed esserne preoccupati rende ancora più probabile avere un attacco di panico. Chi si trova in questa situazione dovrebbe tenere a portata di mano un flacone di tranquillità letteraria e berne un lungo, lento sorso - leggendo o recitando a voce bassa un brano imparato a memoria - ogni volta che perde la testa perché potrebbe cadere in preda al panico. Fatelo abbastanza spesso, e col tempo vi basterà il titolo per ridurre la frequenza cardiaca. Il romanzo adatto è “Il cavaliere della valle solitaria”.
Shane arriva nella valle a cavallo, vestito di nero. Quando chiede, educatamente, dell’acqua per sé e per il suo cavallo, tutti e tre i membri della famiglia Starrett sono attratti da lui - perché lui emana qualcosa di potente e misterioso. Lo convincono a restare con loro, offrendogli un lavoro come bracciante, anche se è chiaro che l’agricoltura non è il suo mestiere. Ben presto tutti si accorgono che Shane è l’essenza della calma. Uomo di poche parole, ha un forte senso della giustizia e anche se con la sua forza potrebbe facilmente sopraffare un altro uomo, è chiaro che l’aggressività non gli appartiene. Tiene la pistola sotto il cuscino, invece che al cinturone, come tutti gli altri.
La prima cosa che fa quando va a vivere con la famiglia Starrett è prendere l’ascia per tagliare il ceppo nell’aia, una spina nel fianco per Joe Starrett da quando ha disboscato la terra. Il ceppo è grosso - abbastanza per fare da tavolo a una famiglia grande due volte la loro - e mentre Shane lo taglia, il limpido suono dell’acciaio sul legno colpisce il giovane Bob come nessun altro suono prima di allora e lo riempie di calore. In quel momento Shane diventa l’eroe di cui Bob aveva bisogno per crescere “retto come un ragazzo dovrebbe”. A Bob, infatti, era necessario un esempio fuori dal nucleo familiare - qualcuno da poter imitare. Determinato, aggraziato, giusto, con un dolore del quale non sappiamo nulla, un uomo che farà sempre la cosa giusta, Shane è proprio quel mentore - e non solo per Bob, ma anche per suo padre Joe.
Accogliete questo gioiello di uomo, duro e fiero, nel vostro cuore. Il vostro cuore batterà regolare e tranquillo come il canto di quell’ascia contro quel ceppo ostinato. Fate che il panico sia il ceppo che sapete di poter vincere.
Se nonostante questo rimedio, gli attacchi di panico continueranno a molestarvi negli ascensori o per strada, se continuerete a svegliarvi nel cuore della notte con una incontenibile voglia di piangere, se il vostro umore, la mattina, si mostrerà di un grigio topo permanente, allora non lasciate che qualsiasi psichiatra vi accerti una forma acuta di disturbo dell’adattamento incline a una depressione di media severità e vi riempia di psicofarmaci, piuttosto gettatevi sulla letteratura poliziesca e sui legai thriller. La prima avventura di Guido Guerrieri, un avvocato penalista barese che soffre dei vostri stessi sintomi e che a 38 anni ha appena scoperto che le cose finiscono per davvero, vi aiuterà di sicuro ad accettare il fatto che si è sempre rinviati a giudizio dall’ansia, e non ci sono riti abbreviati per la paura o lo smarrimento, si possono solo affrontare giorno per giorno, senza perdere la fiducia che la propria volontà o un incontro casuale o l’empatia con gli altri esseri umani possano farli evaporare.

Bugiardino

Non ho letto, ne credo mi capiterà presto, il libro della frontiera sul cavaliere della valle solitaria (il cui titolo originale era “Shane” come il protagonista, e da cui, ben più noto, fu tratto un film con protagonista Alan Ladd; ma questa è un’altra storia). Ho letto invece, ed ho letto tutto il pubblicato, il libro di Carofiglio. Anzi ne lessi e ne parlai insieme al secondo, in una delle mie prime trame, edita nel lontanissimo novembre 2006. Ve la ripropongo così, essenziale com’era, prima che passassi a commenti lunghi e tormentati. Per chi poi non può farne a meno, inserisco anche una sintesi succinta della storia stessa, che altrimenti nulla si potrebbe capire.
Con Carofiglio, quindi, io ho cominciato leggendo (16/11/20016)
“Testimone inconsapevole” Sellerio 11 euro
Un giallo-non giallo, un ambiente barese ben delineato. Ed un altrettanto ben delineato l’ambiente personale dell’avvocato. Da leggere in sequenza con il secondo. Cosa che ho fatto con
“Ad occhi chiusi” Sellerio 10 euro
Seconda avventura dell’avvocato Guerrieri, forse anche meglio scritta della prima. Qui, al contrario del primo che lascia ombre e punti irrisolti, il mistero si scioglie anche. Ed entrano ed escono personaggi che lasciano tracce visibili. Molto rilassante.
Per tornare, appunto, alla trama di cui stiamo narrando, si legge di Guido Guerrieri, avvocato a Bari, appena entrato in una crisi depressiva scoppiata con la separazione dalla moglie Sara. Il problema psicologico ha anche riflessi sulla vita pratica: paura di utilizzare l'ascensore, attacchi di panico, insonnia... Intanto il lavoro continua ma l'impegno, ormai calato, riemerge solo grazie ad un cliente che ha notevoli pretese e pochi soldi. Abdou Thiam, venditore ambulante senegalese, è stato arrestato per l'accusa di sequestro, omicidio e occultamento del cadavere nei confronti del piccolo Francesco Rubino, un bambino di nove anni che Abdou aveva conosciuto come Ciccio, come era sua abitudine con i clienti della bancarella ambulante, sulle spiagge di Monopoli. Alcuni testimoni, come un barista, di idee razziste, assieme all'imprecisione dell'analisi e degli interrogatori della polizia creano un vero e proprio corpo di prove contro il senegalese che, oltretutto, non ha alibi e cerca di nascondere i suoi commerci di indumenti e accessori dai marchi contraffatti. L'acuto avvocato riesce però, con la sua convincente arringa, che chiarifica il concetto di verosimile riferito alla ricostruzione dei fatti, evidenziandone la grande incertezza, a tirare fuori dai guai Abdou. Nel frattempo, grazie al soddisfacente lavoro compiuto e ai nuovi rapporti con la vicina di casa Margherita, riesce ad uscire dalla crisi psicologica.

Conclusioni

Saltando a piè pari il western, posso confermare che leggere del primo Guerrieri è un balsamo per il panico (altrimenti lo fa venire, insieme ad ansia e sudarella). Eppur tuttavia, un libro da rileggere se ve lo siete scordato.

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