Già la scorsa settimana si parla
del ritorno, del dolore, e di altro. Ora, in questa settimana in cui c’è anche
un’appendice di panico, torno a delle letture sicuramente di livello. Non è
forse un caso, come direbbe l’amica Marina, che si parli di saggi e non di
romanzi. Tutti oltre la sufficienza, anche di molto. In cui si parla di
Istanbul, di Vietnam, del nostro caos attuale, e die rapporti interpersonali,
soprattutto con e verso i figli. Una settimana di letture che mi sento di
consigliare in blocco (e sottolineo Terzani sotto la spinta del mio amico umbro
Roberto).
Francesca Pacini “La mia Istanbul” Ponte Sisto s.p. (prestito di Fako)
[A: 02/05/2017 – I: 24/05/2017 – T: 26/05/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 228;
anno 2013]
Sono stato molto
indeciso se e quanti gradimenti attribuire a questo libro. Che ho letto con
piacere, ma che mi ha rimandato alcune immagini contraddittorie. Perché è un
libro ben scritto dove la lettura scivola sul testo con facilità, quasi si
fosse cullati dalle onde del Bosforo. Perché è un libro che parla di Istanbul,
città che ho sempre nel cuore, dicendo cose che, per chi non conosce la città o
la Turchia, sono degne di essere lette. Perché, però, tutto quanto detto ha
solo confermato quanto già era nel mio cuore, senza aggiungere nulla né di
testa né di pancia. Alla fine sono giunto ad una mediazione, per una
valutazione dove “in medio stat virtus”. Un giudizio che parte con il piede
giusto, perché non ci si può non fermare alla copertina, e dove molto del libro
sta già nel sottotitolo “Viaggio di una donna occidentale attraverso la porta
d'Oriente”. Non è un reportage, non è un diario di viaggio, forse un mix, di
certo una piccola guida di emozioni per conoscere meglio una città magica. Con
gli occhi di una donna non islamica in un mondo che lo è. Capisco, credo di
capire, cosa possa essere. Per chi come me, come molti di voi (e chi non c’è
stato ci vada, e chi c’è stato ci ritorni), ecco che dietro le parole di
Francesca sbucano i dervisci rotanti che danzano nei quartieri alla moda ma
anche nella stazione del vecchio Orient Express, ecco che ci imbarchiamo per
una gita in Asia con il battello, per poi scendere ed aggirarci passeggiando lungo
la riva del Bosforo. Fare un salto al vecchio hamam del centro, fumare un
narghilè dietro il vecchio cimitero. Ed al mattino svegliarsi con il canto del
muezzin all’alba dietro ai minareti. Come dice l’autrice “Quando viaggi, il
bello è vedere il diverso, l’altro da te”. Istanbul è piena di questo altro.
Una città in bilico tra Oriente ed Occidente, una frontiera tra il nostro noto
e quello che ci si aspetta dall’ignoto. Certo, non è una città facile, non ora
con un governo teso ad altro e che rende difficile esprimersi, prendere
contatto. Ma Istanbul è lì, nella parte moderna interessante, ma che si può
vedere una volta e basta. E le tante atmosfera di un tempo: nel quartiere
tradizionale, per vedere gli affreschi di San Salvatore in Chora, nelle
stradine intorno alla moschea del Solimano, alle sue casette ancora in legno,
alle stradine verso il Corno d’Oro. Non penso entrerò nel merito specifico del
libro, che la scrittura è gradevole, anche se, come detto, non mi ha preso
abbastanza da rendermela vicina. Ma le immagini, sia del libro sia quelle che
mi ha evocato nella testa, quelle sì che possiamo riportarle. Come quella,
vicino alla fermata di Kabataş, della Moschea Dolmabahçe che si affaccia
direttamente sul Bosforo. Le due anime di Istanbul, l’europea e l’asiatica, la
moderna e la tradizionale, si amalgamano e cambiano sé stesse, così che,
girando per le strade, incontriamo donne truccate e vestite alla moda con in
mano un cocktail alcolico, che incrociano splendide musulmane che indossano con
disinvoltura l’hijab. Là dove la tolleranza potrebbe quindi regnare. Là dove,
purtroppo, non sarà così, che, come in tutte le religioni, sono gli estremismi
a causare i problemi. Lì, ad Istanbul non è questione di Islam o non Islam, è
questione dell’estremismo governativo di Erdoğan. Emblema, uno per tutti, Gezi
Park e tutto quello che ha portato con sé. Ma noi lasciamo il governo e la
polizia, noi torniamo alle moschee affacciate sul Bosforo, al mare azzurro,
alle barche sotto il ponte di Galata, ai suoni ed ai colori. Due ultime
immagini prima di lasciare Istanbul e Francesca Pacini. Una dolente, che a
pagina 80 si cita quella che per alcuni anni è stata una libreria di
riferimento per testi islamici in generale, e sufi in particolare. La libreria
Nima, lì alla stazione Tiburtina. Ora purtroppo c’è solo un venditore di kebab!
Una allegra, per me che mi riporta non ad Istanbul, ma a Damasco. Quando alla
scrittrice per la sua ultima cena in uno dei tanti viaggi, il cameriere porta
una zuppa di
lenticchie, dove lei, come feci io, come avrà fatto Esau, spruzza contenta un
limone prima di mangiarla. Sarà contento Proust! Ricordando il memento finale
che ci lascia Francesca (“Bisogna vedere delle cose vecchie con occhi
nuovi. Invece spesso vediamo cose nuove con occhi vecchi, purtroppo”) vi lascio
anch’io, augurandovi un nuovo felice viaggio.
“Chi cerca, chi si mette in viaggio, arriva sempre,
qualunque strada percorrerà.” (29)
“La mediazione si trova anche nell’accettazione
della diversità, senza volerla per forza integrare.” (63)
“Pasolini: la mia indipendenza, che è la mia forza,
implica anche la solitudine, che è la mia debolezza.” (220)
Tiziano Terzani “Pelle di leopardo” TEA euro 10 (in realtà, scontato a
8,50 euro)
[A: 18/05/2015 – I: 11/09/2017 – T: 22/09/2017] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 456;
anno 2000]
Sotto
questo titolo “cumulativo” (e sulla cui bellezza tornerò più avanti) sono in
realtà presentati due libri, diversi e consequenziali, del mai dimenticato
Terzani. Che, confesso, non avevo molto nel cuore ai tempi dei suoi scritti o
dei suoi articoli. Anche perché faceva il corrispondente per un giornale
tedesco, il “Der Spiegel”. Ma che mi avvinse alla sua scrittura con il
bellissimo ed impareggiabile “Un indovino mi disse”. E poi mi avvinse alla sua
vita con le sue vicende finali: la strenua lotta sia contro la guerra, di lui
da sempre corrispondente di guerra, e la non vincibile lotta con il tumore che,
purtroppo, ce l’ha portato via ormai da 13 anni. E sono contento di leggere le
sue mirabili pagine, proprio in questi giorni in cui avrebbe festeggiato i suoi
79 anni.
“Pelle di leopardo – Diario vietnamita di
un corrispondente di guerra 1972-1973”
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 1-169; anno 1973]
Detto
che la scrittura di Terzani, una volta che la si incontra, non la si dimentica
più, ho finalmente letto, a più di quarant’anni dalla sua uscita, il primo dei
due libri che l’autore dedica al Vietnam Autore insolito e momento insolito.
Che Terzani, dopo una giovinezza acuta e strampalata, finalmente nel 1972
riesce a coronare il suo sogno: andare in Asia da corrispondente di un
giornale. Le stranezze sono che Tiziano, proveniente da famiglia non ricca, tra
sacrifici ed altre amenità, si laurea in Giurisprudenza. Poi fa lavori strani,
si sposa con l’amata Angela che lo seguirà per tutta la vita, fino a diventare
parte dell’ufficio del personale della Olivetti ai tempi di Paolo Volponi.
Aveva già imparato il cinese a New York, vive qualche anno laggiù tra Singapore
ed altre asiaticherie (portandosi appresso l’appena nato figlio Folco). Ma
l’Olivetti gli sta stretta. Prova per un po’ a lavorare a “Il Giorno” con Giorgio
Bocca, senza molti risultati. Fino a che ha questo colpo di fortuna (e di
genio): gli viene offerto di fare il corrispondente all’estero del giornale
tedesco “Der Spiegel” (Tiziano parla francese, inglese, tedesco, cinese e
qualche altra lingua). Lavoro che farà per 25 anni sino al ’97. Forse anche per
questo, all’inizio non è particolarmente noto in Italia, fino però ad uscire
fuori con la forza delle sue parole. Quelle che scriveva già a 34 anni, quando,
iniziando i suoi reportage dal Vietnam non poteva che dire: “non si può
parlare, scrivere di questa o di un’altra guerriglia, se non la si va a vedere,
se non si è disposti a condividerne i rischi. […] Mi pareva che andare alla
guerra fosse necessario per capirla, fosse anche una forma di lealtà nei confronti
di chi la combatte.” E tutta la sua opera, di scrittura e di vita, è permeata
di questo sentimento: lealtà. Come in questo suo primo scritto, in cui dal suo
diario estrapola le avventure significative del suo anno nel Vietnam del Sud.
Prova a descrivere con lealtà la vita quotidiana a Saigon, tra una possibile
offensiva ai tempi del Tet del ‘72 (il capodanno vietnamita tra fine gennaio ed
inizio febbraio) e la firma degli accordi di Parigi nel gennaio del ’73. Ma
anche cosa succede a Nord, verso la linea di confine tra i due Vietnam, a Hué
ed altre città vicine. E poi anche nel Delta del Mekong. Riuscendo sempre a
mantenere un atteggiamento descrittivo e non giudicante. Certo, non può mancare
un giudizio implicito, quando si descrive l’insipienza dei comandanti americani
sul posto. Mirabile la descrizione di una conferenza stampa e dei “No comment”
del generale americano di turno. O lo stesso giudizio sulle malefatte
quotidiane dell’esercito sud-vietnamita sia verso chi fosse sospettato di
parteggiare per il Nord, sia per gli stessi civili, colpevoli di nulla. In
questa parte diaristica poco compaiono delle azioni e delle posizioni sia
dell’esercito del Nord sia dei Vietcong, che difficile è per i giornalisti
entrare in contatto. Ma con le testimonianze dirette della gente che
intervista, in genere contadini e gente del popolo, Terzani riesce a sollevare
il velo dei comunicati ufficiali, rivelando le inutili nonché enormi sofferenze
del popolo vietnamita durante tutto il conflitto. Ma è anche un bravo giornalista,
anche perché conoscendo brandelli di lingua locale riesce a comprendere meglio
posizioni ed atteggiamenti. Ed attraverso le sue descrizioni comprendiamo
meglio le posizioni sul terreno nella Saigon di quegli anni. Il terribile peso
dittatoriale del presidente Thieu, la presenza di una “terza forza”, né
pro-americana né pro-comunista che tuttavia non riesce ad esprimersi. Dopo
tutta una serie di mesi passati su e giù tra le zone di guerra, solo nel
gennaio del ’73 riesce a penetrare nella parte del Delta occupata dalle forze
di liberazione. E ne descrive anche qui le vicende quotidiane, con quella
bellissima sera di teatro popolare in una città inesistente del Mekong
(inesistente perché nasce per la rappresentazione dove convergono molti locali,
e viene abbandonata la sera stessa, dopo lo spettacolo). Dopo di che, il
governo di Thieu ritiene non gradita la presenza di Terzani, che viene espulso,
si ritirerà a Singapore, e riuscirà a tornare solo due anni dopo, come racconta
il secondo libro contenuto in questo volume. Corrispondente di guerra, che
scrive della guerra perché si riesca ad eliminare le guerre, la scrittura di Terzani
è bella, coinvolgente, ti fa sentire lì dove sventolano le bandiere, lì dove
cadono le bombe, lì dove la gente che subisce la guerra inutilmente muore. E
per chi ha visto, quaranta anni dopo, quelle terre, quelle ferite, non si può
che rimanere colpiti dalla bravura e dalla precisione di questo giornalista
ancora giovane. Che ci dà, alla fine, tutti i sentimenti della guerra: il
soldato americano sfiduciato, il generale americano presupponente, la gerarchia
sud-vietnamita inconcludente, la terza forza incapace di esprimersi, il popolo
minuto che si occupa del quotidiano, l’avanzata, inesorabile, dell’esercito di
liberazione. Veramente un bell’inizio.
“La carta geografica del Sud è ... una
specie di pelle di leopardo con delle macchie nere rappresentanti ‘il nemico’
[i.e. i Vietcong] sparse un po’ dovunque, non solo nelle campagne, ma anche
vicino alle città … a Saigon, Hué, Da Nang, eccetera.” (117)
“Giai Phong! – La liberazione di Saigon”
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171-440; anno 1976]
Nel
secondo libro della duologia vietnamita, vediamo Terzani riuscire, dopo due
anni, a tornare a Saigon, proprio nel momento topico della guerra vietnamita.
Come dalla lettura del libro precedente, sappiamo che nel 1973, ufficialmente,
l’esercito americano lascia il Sud. Ma rimangono ancora le strutture di
supporto al governo sud-vietnamita di Thieu. In due anni, Vietcong e Vietminh
avanzano dalle campagne, circondano e “liberano” le città. Terzani, in due
momenti topici di questo libro, ci dà conto delle due parti primarie della
vicenda. Nei tre giorni di fine aprile del 1975, riesce a farci seguire, giorno
per giorno, anzi ora per ora, tutto quello che avviene nella città. Le attese,
la fuga di Thieu, la nascita di un governo che dovrebbe trattare la resa, la
fuga dei corrotti aiutati dagli ultimi elicotteri americani. Ricordo ancora
l’emozione provata pochi anni fa nell’entrare nel palazzo presidenziale, vedere
il giardino con il primo carro armato entrato in città e lì parcheggiato,
salire le scale sino al tetto, dove, dall’eliporto improvvisato, partì il 30
aprile 1975 l’ultimo elicottero americano. Sono i piccoli dettagli che Terzani
ci mostra e che ci fanno capire l’insensatezza di anni e anni di battaglie, e
l’ironia di un popolo che si voleva diviso e che finalmente si ricongiunge.
Finalmente si libera. La cosa migliore di questa parte, è la descrizione del
carro armato che ha una piantina per raggiungere il palazzo, visto che a
guidarlo sono giovani mai entrati a Saigon. E che si perde, e deve chiedere ad
un passante la strada da percorrere. Un tocco magistrale. La seconda parte,
invece, è tutta incentrata nei tre mesi successivi. I primi tre mesi della
Rivoluzione. Caratterizzati, questi almeno, da alcune parole d’ordine e da
alcuni comportamenti che permisero un inizio abbastanza soffice del processo di
normalizzazione. I liberatori non usarono repressioni o epurazioni, ma agivano
in termini di perdono e pacificazione. I sudisti avevano sbagliato, ma perché
consigliati malamente. Quindi, istituendo dal basso momenti assembleari di
discussione, di critica ed autocritica, i nordisti, i vietcong, l’esercito di
liberazione entrano in simbiosi con i sudisti, con i tanti sostenitori,
coscienti o meno, dei “fantocci” che avevano guidato il Sud dal 1954 per venti
anni. Campagne rieducative, esempi da seguire e far seguire. Con tutta una
escalation studiata ed attuata magistralmente. Dal basso, la rieducazione è
breve, perché brevi e poche sono le colpe. Man mano che si sale nella scala
gerarchica del potere, che si investono soprattutto i pochi rimasugli
dell’esercito sudista, la rieducazione diventa più lunga, anche più dolorosa.
Mirabile anche qui la descrizione di quei quadri cui viene detto di prendere
provvigioni per almeno un mese, ma la cui rieducazione sarà molto più lunga,
comporterà anche la necessità di trovarsi a procurare cibo ed alloggi. Tutto
serve alla causa della Rivoluzione, dicono gli epigoni di Lê Ðức Thọ, il
negoziatore degli Accordi di Parigi. Terzani ce ne descrive al solito il quadro
con una discreta dose di imparzialità, anche se non si può negare un certo
grado di partecipazione. Non è un caso che questo libro verrà subito tradotto
anche in vietnamita, che verrà propagandato come descrizione occidentale degli
avvenimenti, che ne verrà a lungo vietata la vendita negli Stati Uniti. Non è
un libro che va oltre quanto promesso. Non può, per ovvie ragioni di tempo,
entrare nel merito del processo successivo degli avvenimenti indocinesi. Che
dopo questa fase di pacificazione, per sostenere le idee egualitarie, ma anche
per far riprendere i mezzi di sostentamento agricolo, andati bellamente a
puttane, un sempre più duro sforzo sarà necessario. Un irrigidimento che
contraddirà molti dei principi che Terzani ci ha fatto amare in queste pagine.
Che entrerà in conflitto con l’Unione Sovietica, con la Cina, occuperà anche la
Cambogia di Pol Pot (e questo forse è stato un bene), fino ad avviare, dagli
anni ’90 un lungo processo di “terza via” simile a quella cinese, rendendo il
Vietnam, ora, uno stato interessante per le prospettive economiche e di
sviluppo. Anche se pieno di contraddizioni, come ho potuto constatare “de visu”
durante il lungo giro che ne ho fatto. Ma non stiamo parlando di storia, stiamo
parlando di libri. E soprattutto di Terzani. Certo, la sua capacità di citare
nomi e situazioni e località è di una precisione impressionante, ma che
purtroppo ci restituisce poco, a noi che dei nomi locali ne ricordiamo a mala
pena tre: Hồ Chí Minh, che però muore nel 1969, Lê Ðức Thọ, il negoziatore
sopra ricordato, e Võ Nguyên Giáp, il generale che ha guidato tutta la guerra
(e che è morto poco prima che io visitassi il paese alla bella età di 102
anni). Il resto, sono nomi che non rimangono, di cui vediamo le storie che ce
ne racconta Terzani. E di cui non entriamo nel merito. Dovete leggerla, dovete
entrare in quei tre mesi fatali, là dove il potenziale diventa atto. Là dove si
è riusciti, per poco e con tanto sforzo, a rendere fattibile, anche alla fine
del XX secolo una rivoluzione che sa di primo Novecento. Inoltre, ed in ogni
riga, in ogni piega delle sue pagine, anche quando parla di guerra, anche
quando visita il Delta e le città che nascono a nuova vita dopo tante
sofferenze, Terzani ci comunica quello di cui tutti i suoi scritti sono
soffusi: la guerra è una tragedia, e bisogna fare di tutto per non caderci di
nuovo. E lo dico ora quando i burattini americani ed asiatici tendono a cadere
ancora ed ancora nelle stesse trappole. Parlare, spiegare, sedersi intorno ad
un tavolo, e non aver paura di essere normali. Grazie, sempre e comunque, amico
Tiziano.
“Dieci anni di tragedie per nulla.” (228)
Zygmunt Bauman & Ezio Mauro “Babel” Laterza euro 10 (in realtà,
scontato a 7,50 euro)
[A: 04/10/2016 – I: 10/12/2017 – T: 13/12/2017] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano – inglese; pagine: 153;
anno 2015]
Cominciamo
con il giudizio, che questo saggio è un libro composto, è un dialogo tra i due
autori, intorno a tematiche interessanti e che sempre sono nella mia testa,
negli ultimi anni. Ma come tutti i dialoghi ha un diverso peso nelle parti
esposte e sostenute dai due autori. Prima però di entrare in trame specifiche,
è bene che dica la mia sensazione. Che gli interventi di Bauman (ora purtroppo
scomparso) sono lucidi, solidi, ma anche, al solito (se vedete le mie altre
critiche ai suoi scritti) molto sociologici e poco politici: analizzano, in
modo anche feroce, la realtà, ma non ci danno (perché credo che non sia questo
il mestiere del pensatore polacco) una soluzione, una modalità per operare. Ma
la loro solidità merita anche 4 librini. Il contraltare di Mauro, che vorrebbe
e dovrebbe essere più politico, invece mi risulta meno convincente ed
avvincente, a volte teso anche a tirare acqua al mulino di Repubblica (anche se
non vedo niente di sconveniente in questo), ma che portano i librini del
giornalista tra il 2 e ½ ed il 3. Il dialogo tra i due pensatori si articola in
tre tappe che ripercorrono e affrontano le tematiche del nostro oggi. La crisi
della democrazia, la crisi della rappresentanza, la solitudine
dell’interconnessione. Sono tre aspetti del mondo che viviamo e che Bauman
sintetizza nella sua breve ed affascinante introduzione riportandoci alla
“Lotteria di Babilonia” di Borges. Non è un caso che si comincia con uno
scrittore, perché poi con gli scrittori si finisce, con quelle due citazioni
che riporto sotto di Canetti e di Bulgakov. Ma questo mondo inconoscibile, così
come diventa dopo anni ed anni la lotteria di Borges, è quello in cui viviamo.
È quello in cui da anni siamo immersi in una crisi che per non angosciarci
troppo riteniamo solo economica. Invece nella crisi economica dobbiamo vedere
un sintomo del collasso della democrazia come abbiamo tentato di costruirla o
ricostruirla dopo la Seconda guerra mondiale. Prima c’era solo il lavoro ed i
rapporti sociali che avevano senso, che permettevano lo scambio, e di
conseguenza la costruzione, di un mondo, di uno Stato. Poi tutto si è andato
monetizzando (ricordo a qualcuno l’assioma di un governante che taglia i fondi
alla cultura perché questa non produce, subito, denaro). Si è andata sempre più
verso il primato dell’economia. Dove destra e sinistra, che un tempo indicavano
due diverse visoni del mondo - l’una più attenta alla libertà d’impresa,
l’altra più attenta alla solidarietà sociale - hanno perso significato,
determinando quell’apatia politica ben evidenziata dalla crescita dell’astensione
a ogni tornata elettorale, da parte di cittadini, che più non credono nella
possibilità di modificare le cose. Era anche un mondo dove c’erano
disuguaglianze, ben lo sappiamo. Ma erano disuguaglianza tollerate perché in
cambio offrivano sicurezza. Che ora non è più di questa parte del mondo. In
quel contesto, nel mondo degli Stati nazione, l’Europa ha potuto scrivere la
Storia dell’Occidente e l’Occidente la storia del mondo, oggi, dove nel 2050
metà della popolazione occidentale sarà di origine extracomunitaria, bisogna
trovare altri motivi ed elementi di compatibilità. Questo ci porta ad essere
soli, ad avere la paura di essere soli. Una paura che i social network, i
Facebook, sembrano aver eliminato. Ma che invece ha contribuito ancora a
deresponsabilizzare l’individuo, a far finta che vedere l’evento su Internet
sia parteciparvi, sia capirlo. Qui inserirei due miei commenti esterni. Uno che
riprendo da Eco, dove in alcune sue pagine magistrali decostruisce l’uso di
Internet come fonte di notizie, perché lì c’è di tutto, ma tutto è
inverificato. Quindi è vero ed è anche vero il suo contrario. Il secondo viene
da questa mia esperienza recente in quel di Gerusalemme, durante la crisi
generata dalle parole di Trump. Ne ho vissuto momenti in diretta, vedendo
quello che succedeva. Ne ho visto su Internet, vedendo video che sezionavano
l’accaduto, ma proprio per questo ne davano un’immagine parziale. Ne ho letto
sui giornali, che, pur allargando il discorso, non riescono a dare la reale
sensazioni di cosa c’è e cosa potrebbe accadere. Allontanandomi da Porta
Damasco, dove la polizia caricava, vado verso Ben Yehuda, dove turisti
circolano, negozi vendono. Ed arrivo al mercato, dove gli arabi, comunque
irritati, aprono le loro bancarelle. Quanto si potrebbe dire e dedurre da tutto
ciò. Ma io non sono un pensatore, io osservo, e riporto a me ed a voi le mie
sensazioni. Dove, tornando al libro, al dialogo ed alla trama, mi accorgo di
averne riportato la mia visione. Quello che a me colpisce, che forse sarà
diverso da voi, ma sarà utile a discuterne. Sarei tentato, come fanno i nostri
due, di mettere ora una profusione di interrogativi, che sono quelli che
vengono alla mente, ora, qui, in questo nostro mondo, ed a cui non riusciamo a
rispondere. Anche se fare domande è meglio che non farle. Ma voglio solo
sottolineare di nuovo quella frasi di Bauman, dove la comunicazione,
l’enunciazione del fatto, il dire (o anche il facile “like” su di una frase in
rete) sostituisce la comprensione dello stesso avvenimento. Vorrei finire
allora riprendendo l’attualizzazione della citazione gramsciana di Bauman sul
pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà: “la sfida della
modernità è vivere senza illusioni e senza diventare disillusi”. Facciamolo, se
possiamo.
“EM: ingaggiarci in qualche battaglia
pubblica o restare chiusi in casa ha per noi ormai lo stesso effetto pratico.”
(33)
“ZB: [ora] i mezzi giustificano i fini.”
(89)
“EM: la costruzione del contesto è ciò che
rende comprensibili i fatti.” (94)
“ZB: la comunicazione ha sostituito … la
comprensione.” (102)
“EM: avviciniamoci al fuoco, in modo da
poter vedere cosa stiamo dicendo.” (124)
“Canetti: in un mondo che foss’anche il più
volontariamente cieco, la presenza di persone che insistono tuttavia sulla
possibilità del suo cambiamento acquista un’importanza suprema.” (135)
“Bulgakov: tutto può ancora accadere, perché
nulla può durare per sempre.” (152)
Massimo Recalcati “Il segreto del figlio” Feltrinelli euro 15
[A: 22/05/2017 – I: 14/12/2017 – T: 16/12/2017] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 120;
anno 2017]
Avevo
letto di Recalcati alcuni articoli pubblicati su “La Repubblica” e giornali
collegati, con un discreto interesse per la relativa chiarezza
dell’esposizione. Relativa dovuta quasi sempre ad alcuni passaggi legati alla
professione principe dell’autore, cioè la psicanalisi. Spinto dalle novità di
maggior successo dell’anno, mi sono quindi dedicato a questo agile (per numero
di pagine) volume. Senz’altro interessante ed anche pieno di spunti. Inoltre
con un assunto ed una tesi di una linearità unica, seppur poi a tematica viene
svolta con perizia e dovizia di citazioni e rimandi. Nei risvolti di copertina
si colloca questo libro come terzo elemento del triangolo dedicato ai rapporti
familiari. Non ho letto, né credo lo farò, i nodi dedicati al padre ed alla
madre. Che credo questo del figlio possa, debba, essere preso per sé, come
elemento di discussione sulla natura del figlio (sul suo segreto) e sul
rapporto con i genitori. Una situazione complessa, come sappiamo tutti noi che
abbiamo miriadi di intrecci che costituiscono la nostra vita (ed a cui dedicai
la lettura, di certo più leggera, de “Gli sdraiati” di Michele Serra). Qui
l’analisi di Recalcati si colloca su due piani “filiali” antitetici ed
esemplificativi. Che servono entrambi ad analizzare i rapporti umani
squilibrati tra generanti e generati. Il primo è dedicato ad Edipo. Qui siamo
nel centro dell’analisi classica del rapporto filiale. Laio, il padre,
avvertito da un oracolo che sarà ucciso dal figlio, ordina al servo di
ucciderlo (per evitare di essere sopravanzato dal figlio, allora è meglio il
parricidio). Ovvio che il servo di nascosto salva il piccolo e lo manda in un
altro regno. Ovvio che, una volta cresciuto, Edipo cerchi le proprie radici. Si
imbatte in Laio che non vuole cedere il passo in una strettoia. Altrettanto
ovvio che Edipo lo uccida. Poi arriva nel regno senza più re, e decide di
sposare la regina Giocasta, che non sa essere sua madre. Dal parricidio
all’incesto. Poiché per i greci il fato è qualcosa di immutabile, tutto
continua a correre verso il baratro. Il regno è flagellato da guai. Edipo cerca
il responsabile, ed alla fine Tiresia gli dice la verità. Edipo, distrutto dal
dolore, si acceca per non vedere più le brutture del mondo, e se ne va in
esilio (Giocasta nel frattempo si era giustamente uccisa). Tutto questo ben
noto schema (che genera in Freud e Lacan memorabili pagine psicoanalitiche)
serve comunque a Recalcati per ribadire un percorso del rapporto che stiamo
analizzando. Il padre deve donare al figlio gli strumenti per crescere e per
sopravanzarlo. Se lo blocca, se lo “uccide” non potrà che subirne conseguenze
forti. Nel caso, certo, che il figlio cresca normalmente in un ambiente fertile
di stimoli. Il figlio, Edipo, ad un ceto punto dovrà sopravanzare il padre,
“ucciderlo”, e dovrà prenderne il posto, “giacere con la madre”. Ma se poi
continua ad agire cecando senza sapere, non riconoscendo le sue azioni, non
potrà che finire come Edipo, accecato e ramingo. La seconda parte è invece
dedicata alla parabola del vangelo di Luca detta del “figlio ritrovato” (o
“figliol prodigo”). Il figlio chiede al padre la sua parte di eredità, pur con
il padre in vita, perché vuole portare avanti la sua vita fuori dall’ombrello
paterno. La ottiene, vive la sua vita, la sperpera, decide di tornare dal padre
per chiedere perdono e ospitalità, come fosse l’ultimo dei servi. Ma il padre
lo vede da lontano, gli corre incontro, e lo accoglie tra le sue braccia,
perché “si era perso, ed ora è stato ritrovato”. Il padre qui non agisce
secondo nessuna legge, ma fa un salto quantico, usando quello strumento che è
veramente uno strumento divino: il perdono. Quale è allora il messaggio, sia
per i padri come Laio e come quella della parabola, e per i figli come Edipo e
come il figlio ritrovato? Difficile agire, da padre e da figlio. Difficile non
vivere questa dicotomia come una tensione che attanaglierà tutta la vita.
D’altra parte, tutti siamo figli ma non tutti siamo padri. E come figli, come
quelli citati a lungo, e come altri che andrebbero citati se fossi meglio
preparto (come Amleto, come Isacco), ognuno porta in sé un segreto, un modo di
vivere, un modo per commettere incruentemente un parricidio e per passare senza
consolazione in un perdono. Recalcati dà la sua soluzione al segreto. Che io
ritrovo dai miei trascorsi psicanalitici. Il carattere si forma nell’età
iniziale della vita, forgiato dall’energia in cui si vive, e che ci viene
concessa da chi ci cresce. Il percorso della nostra vita è capire noi stessi,
chi siamo, quali sono i lati del nostro carattere, e diventare, coscientemente,
quello che siamo sempre stati. Due ultime chicche di questo bel libro. Un
parallelo interessante e condivisibile sulle diverse posizioni di Amleto e
Edipo. Amleto sa (chi ha ucciso il padre, e tutto il resto del dramma che non
vi sto a ripetere) e non agisce; Edipo non sa e agisce. L’altra chicca è
collegata al perdono, almeno nel mio immaginario. Si riferisce a quella tecnica
giapponese della riparazione degli oggetti rotti con evidenziazione delle
rotture stesse con oro e argento. Tecnica chiamata “Kintsugi”, che sottolinea
come non si possa ricostruire una cosa che si rompe (un oggetto, un rapporto
interpersonale) ma evidenziandone l’imperfezione, forse da una ferita piò
nascere una perfezione migliore e diversa. Un’immagine che trovo stupenda. Che
sottolineo, e che ribadisco con le frasi che sotto riporto. E che come vedete
dal tono si riferiscono tutte al figlio ritrovato. Un caso?
“Ritrovare è riportare alla vita chi si
pensava si fosse perso.” (92)
“Quando si perdona un’offesa come quella del
tradimento non si perdona perché si è riusciti a dimenticare l’offesa, in
quanto si può dimenticare solo se si è riusciti a perdonare.” (97)
“Il figlio giusto non è il figlio del
sangue, non è giusto per natura.” (101)
“Diventare quello che si è sempre stati.”
(120)
Ormai smaliziati e consapevoli,
non potete scordare che questa seconda uscita mensile è dedicata alla cura di
qualche malattia. E quale miglior viatico, oggi, che parlare di panico?
Non torno sui dolori pubblici e
privati, torno invece sul ritorno (scusate il bisticcio) che oggi tornano anche
i miei “italiani d’Argentina” come canterebbe Fossati. Io e loro non siamo
certo saggi, ma ne facciamo di viaggi.
PS: in ricordo di mia madre, pur
non essendo un giorno palindromico oggi è una data anagrammatica!
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2018
La seconda cura dell'anno è dedicata a me
ed a tutte le persone che conosco e che ne soffrono (o ne hanno sofferto).
PANICO, ATTACCHI DI
Jack
Schaefer “Il cavaliere della
valle solitaria”
Gianrico
Carofiglio “Testimone
inconsapevole”
C’è
solo una cosa cha fa più paura di credere che stiamo per avere un attacco di
panico, ed è avere un attacco di panico. Ovviamente, saperlo ed esserne
preoccupati rende ancora più probabile avere un attacco di panico. Chi si trova
in questa situazione dovrebbe tenere a portata di mano un flacone di
tranquillità letteraria e berne un lungo, lento sorso - leggendo o recitando a
voce bassa un brano imparato a memoria - ogni volta che perde la testa perché
potrebbe cadere in preda al panico. Fatelo abbastanza spesso, e col tempo vi
basterà il titolo per ridurre la frequenza cardiaca. Il romanzo adatto è “Il
cavaliere della valle solitaria”.
Shane
arriva nella valle a cavallo, vestito di nero. Quando chiede, educatamente,
dell’acqua per sé e per il suo cavallo, tutti e tre i membri della famiglia
Starrett sono attratti da lui - perché lui emana qualcosa di potente e
misterioso. Lo convincono a restare con loro, offrendogli un lavoro come bracciante,
anche se è chiaro che l’agricoltura non è il suo mestiere. Ben presto tutti si
accorgono che Shane è l’essenza della calma. Uomo di poche parole, ha un forte
senso della giustizia e anche se con la sua forza potrebbe facilmente
sopraffare un altro uomo, è chiaro che l’aggressività non gli appartiene. Tiene
la pistola sotto il cuscino, invece che al cinturone, come tutti gli altri.
La
prima cosa che fa quando va a vivere con la famiglia Starrett è prendere
l’ascia per tagliare il ceppo nell’aia, una spina nel fianco per Joe Starrett
da quando ha disboscato la terra. Il ceppo è grosso - abbastanza per fare da
tavolo a una famiglia grande due volte la loro - e mentre Shane lo taglia, il
limpido suono dell’acciaio sul legno colpisce il giovane Bob come nessun altro
suono prima di allora e lo riempie di calore. In quel momento Shane diventa
l’eroe di cui Bob aveva bisogno per crescere “retto come un ragazzo dovrebbe”.
A Bob, infatti, era necessario un esempio fuori dal nucleo familiare - qualcuno
da poter imitare. Determinato, aggraziato, giusto, con un dolore del quale non
sappiamo nulla, un uomo che farà sempre la cosa giusta, Shane è proprio quel
mentore - e non solo per Bob, ma anche per suo padre Joe.
Accogliete
questo gioiello di uomo, duro e fiero, nel vostro cuore. Il vostro cuore
batterà regolare e tranquillo come il canto di quell’ascia contro quel ceppo
ostinato. Fate che il panico sia il ceppo che sapete di poter vincere.
Se
nonostante questo rimedio, gli attacchi di panico continueranno a molestarvi
negli ascensori o per strada, se continuerete a svegliarvi nel cuore della
notte con una incontenibile voglia di piangere, se il vostro umore, la mattina,
si mostrerà di un grigio topo permanente, allora non lasciate che qualsiasi
psichiatra vi accerti una forma acuta di disturbo dell’adattamento incline a
una depressione di media severità e vi riempia di psicofarmaci, piuttosto
gettatevi sulla letteratura poliziesca e sui legai thriller. La prima avventura
di Guido Guerrieri, un avvocato penalista barese che soffre dei vostri stessi
sintomi e che a 38 anni ha appena scoperto che le cose finiscono per davvero,
vi aiuterà di sicuro ad accettare il fatto che si è sempre rinviati a giudizio
dall’ansia, e non ci sono riti abbreviati per la paura o lo smarrimento, si
possono solo affrontare giorno per giorno, senza perdere la fiducia che la
propria volontà o un incontro casuale o l’empatia con gli altri esseri umani
possano farli evaporare.
Bugiardino
Non ho letto, ne credo mi
capiterà presto, il libro della frontiera sul cavaliere della valle solitaria
(il cui titolo originale era “Shane” come il protagonista, e da cui, ben più
noto, fu tratto un film con protagonista Alan Ladd; ma questa è un’altra
storia). Ho letto invece, ed ho letto tutto il pubblicato, il libro di
Carofiglio. Anzi ne lessi e ne parlai insieme al secondo, in una delle mie
prime trame, edita nel lontanissimo novembre 2006. Ve la ripropongo così,
essenziale com’era, prima che passassi a commenti lunghi e tormentati. Per chi
poi non può farne a meno, inserisco anche una sintesi succinta della storia
stessa, che altrimenti nulla si potrebbe capire.
Con Carofiglio, quindi, io ho cominciato leggendo
(16/11/20016)
“Testimone
inconsapevole” Sellerio 11 euro
Un giallo-non giallo, un ambiente barese ben delineato. Ed un
altrettanto ben delineato l’ambiente personale dell’avvocato. Da leggere in
sequenza con il secondo. Cosa che ho fatto con
“Ad occhi chiusi”
Sellerio 10 euro
Seconda avventura dell’avvocato Guerrieri, forse anche meglio
scritta della prima. Qui, al contrario del primo che lascia ombre e punti
irrisolti, il mistero si scioglie anche. Ed entrano ed escono personaggi che
lasciano tracce visibili. Molto rilassante.
Per tornare, appunto, alla trama di cui stiamo narrando, si
legge di Guido Guerrieri, avvocato a Bari, appena entrato in una crisi
depressiva scoppiata con la separazione dalla moglie Sara. Il problema
psicologico ha anche riflessi sulla vita pratica: paura di utilizzare
l'ascensore, attacchi di panico, insonnia... Intanto il lavoro continua ma
l'impegno, ormai calato, riemerge solo grazie ad un cliente che ha notevoli
pretese e pochi soldi. Abdou Thiam, venditore ambulante senegalese, è stato
arrestato per l'accusa di sequestro, omicidio e occultamento del cadavere nei
confronti del piccolo Francesco Rubino, un bambino di nove anni che Abdou aveva
conosciuto come Ciccio, come era sua abitudine con i clienti della bancarella
ambulante, sulle spiagge di Monopoli. Alcuni testimoni, come un barista, di
idee razziste, assieme all'imprecisione dell'analisi e degli interrogatori
della polizia creano un vero e proprio corpo di prove contro il senegalese che,
oltretutto, non ha alibi e cerca di nascondere i suoi commerci di indumenti e
accessori dai marchi contraffatti. L'acuto avvocato riesce però, con la sua
convincente arringa, che chiarifica il concetto di verosimile riferito alla
ricostruzione dei fatti, evidenziandone la grande incertezza, a tirare fuori
dai guai Abdou. Nel frattempo, grazie al soddisfacente lavoro compiuto e ai
nuovi rapporti con la vicina di casa Margherita, riesce ad uscire dalla crisi
psicologica.
Conclusioni
Saltando a piè pari il western,
posso confermare che leggere del primo Guerrieri è un balsamo per il panico
(altrimenti lo fa venire, insieme ad ansia e sudarella). Eppur tuttavia, un
libro da rileggere se ve lo siete scordato.
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