Come dicevo l’ultimo Maigret
inviato, ecco che questa volta passano ben 7 mesi tra le due scritture.
Tuttavia i mesi non sono passati invano, per la mia scrittura su Maigret, che
da questo ultimo volume “all american”, ho aggiunto uno specchietto finale ad
ogni trama dove riporto il luogo dell’azione, i personaggi e i tempi del
romanzo. Un lavoro di ricerca che mi ha divertito e che spero sia utile a voi
lettori. Per questo libro che risale nei giudizi assestandosi ad un buon
livello generale, dove leggete anche le note biografiche, per conoscere meglio
l’autore ed il protagonista.
[A:
13/07/2015 – I: 15/12/2017 – T: 26/12/2017] - &&&&
[tit.
or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese;
pagine: 789; anno 2015]
Un volume di Maigret tutto americano. Anzi,
tutto scritto nella fattoria della Roccia Ombra di Lakeville. Cinque scritti
interpuntati da altri scritti non-Maigret, e dalla gravidanza e poi nascita
dell’unica figlia di Simenon, Marie-Jo. Rispetto al precedente volume,
anch’esso “lakevilliano” questo non è proprio uniforme, che Simenon affronta
una serie di temi, a lui cari “a prescindere”. Nell’ordine, l’invecchiamento e
la pensione, la giustizia, il rapporto con le donne, il rapporto con i bambini,
l’empatia con le vittime. Sono temi che Simenon ha nel cuore, si sente, e la
resa è migliore delle precedenti uscite.
Titolo
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Scritto
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Uscito
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Data
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Luogo
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||
Maigret e l'uomo della
panchina
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11 – 19 settembre 1952
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Scritto a Shadow Rock Farm,
Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
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Gennaio 1953
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Maigret ha paura
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20 – 27 marzo 1953
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Scritto a Shadow Rock Farm,
Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
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3 luglio 1953
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Maigret si sbaglia
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24 – 31 agosto 1953
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Scritto a Shadow Rock Farm,
Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
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16 novembre 1953
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Maigret a scuola
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1 – 8 dicembre 1953
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Scritto a Shadow Rock Farm,
Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
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13 marzo 1954
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Maigret e la giovane morta
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11 – 18 gennaio 1954
|
Scritto a Shadow Rock Farm,
Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
|
11 giugno 1954
|
[tit.
or.: Maigret et l'homme du banc; ling. or.: francese;
pagine: 11–171 (160); anno 1953]
Simenon è tornato ormai in America, nella
routinaria vita tra Lakeville con la nuova famiglia, e la vicina casa con la
prima moglie ed il figlio maggiore. Un periodo di relativa calma, dove il
nostro continua ad alternare gli scritti “Maigret” a quelli che considera puri
e duri. Calma che è interrotta, ma ancora non lo sa, dalla nuova gravidanza di
Denise. Quindi in settembre, con la solita settimana che dedica alla scrittura
dei gialli, sforna un nuovo episodio di Maigret. Al solito, tuttavia, oltre ad
un’idea (quasi) nuova, si accompagna con elementi o ripresi da precedenti
uscite o mescolati un po’ alla rinfusa, dato che ogni tanto fa anche lui
confusione con nomi ed altro. Tra l’altro, secondo me, questo uomo della
panchina si colloca quasi a metà strada tra le sue produzioni, che c’è poco del
giallo in quanto tale e molto di atmosfera e di riflessione. In particolare
sulla vita che una vorrebbe vivere se potesse, sull’impossibilità di
praticarla, soprattutto in presenza di elementi negativi. La storia, in realtà,
è discretamente lineare, si svolge in un ristretto circolo spaziale (poche
centinaia di metri intorno a Boulevard Saint-Martin) e nel solito breve spazio
temporale (l’inchiesta dura realmente dal 19 al 23 ottobre, anche se la fine
finale si avrà solo più in là nel tempo). Proprio il 19 ottobre (casualmente il
compleanno di mia madre) viene trovato morto il signor Thouret. Pugnalato. In
poche pagine e pochi tratti, Simenon ci fa entrare nel suo mistero: perché il
magazziniere Thouret passeggiava in Boulevard Saint-Martin in un’ora in cui
avrebbe dovuto lavorare da Kaplan e Zanin, l’ufficio che lo aveva in forze da
25 anni? Perché Thouret aveva le scarpe gialle invece di quelle nere con cui
era uscito di casa? Maigret vede subito che la famiglia Thouret è problematica:
la moglie invidiosa delle sorelle che hanno mariti che lavorano in ferrovia,
figlia finto ribelle, con giovane e balordo amante. Soprattutto, Maigret scopre
che Kaplan e Zanin ha chiuso da anni, che Thouret ha continuato a far finta con
la moglie di lavorare, che dopo un periodo di poca fortuna ha cominciato ad
avere molti soldi, che spesso stava seduto su di una panchina sempre lì sul
Boulevard, che frequentava un uomo dalla faccia buffa. Infine scopre che
Thouret aveva affittato una stanza da Mariette Gibon, una tenutaria di stanza
ad ore (capite a me), dove si incontrava con la sua amante Antoinette. Simenon
cerca un po’ di imbrogliare le carte, facendoci credere che Albert, l’amante di
Monique la figlia di Thouret, abbia una parte nella di lui morte. Anche perché
Monique era l’unica della famiglia che conosceva la doppia vita del padre, e
Albert aveva a volte frequentato la casa della signora Mariette. Ma i due
volevano solo soldi per fuggire in Sud America, accumulando menzogne su stupidaggini.
Anche Mariette, ed il suo mantenuto Marco, sapevano dei soldi di Thouret, tanto
che Maigret posiziona il fido Lapointe a controllare i movimenti della casa. Ma
da dove venivano i soldi? Alla fine, arrestando l’uomo dalla faccia buffa, che
non è altro che Jef Schrameck detto Fred il Clown, ex-acrobata di circo,
dedicatosi poi a furti in appartamenti e negozietti (inciso da Fred il Clown
rimando la mente a “Maigret e la stangona” dove c’era invece Fred il triste).
Thouret, in realtà, faceva il palo individuando dove, come e quando effettuare
il colpo. Jef esegue e divide i soldi. Peccato che a Jef servano solo per
perdere ai cavalli, mentre a Thouret servono per costruirsi la vita che avrebbe
voluto. Lontano dalla moglie e dalla figlia, insieme alla dolce Antoinette.
Peccato che chi cerca di fuggire utilizzando menzogne, per Simenon fa sempre
una fine poco consona, non riuscendo a godere i frutti delle sue attività non
dichiarate. Tra l’altro, Thouret aveva poco senso pratico, che i soldi rapinati
li teneva in stanza, dove sapevano che erano lì, sopra l’armadio: la figlia
Monique, il di lei amante Albert, la di lui amante Antoinette, la tenutaria
Mariette, il di lei amante Marco, e la prostituta Arlette. Uno di loro
commissiona la cattiva azione. Uno di loro la esegue. Chi, come e non vi dico
perché, dato che è il solo ovvio, lo lascio agli appassionati lettori del
corpus maigrettiano. Io torno su alcuni punti accennati. Il primo è l’utilizzo
di materiale di tutta la sua produzione precedente. Infatti, questo uomo dalla
panchina deve molto sia ad uno dei primi romanzi, “Il defunto signor Gallet”,
sia ad un racconto di 7 anni prima. Come in Gallet, abbiamo i protagonisti che
non hanno il lavoro che crede la famiglia, abbiamo una moglie non in sintonia,
abbiamo la prole (lì il figlio, qui la figlia) che vuole andare via, andare
verso il Sud (della Francia in Gallet, dell’America in Thouret). Nel racconto
del 1946 (“Non si uccidono i poveri diavoli”) abbiamo alter coincidenze: i due
uomini (Thouret e Tremblet) hanno una seconda casa, nella quale allevano
canarini, nella quale ricevono l’amante, e dove ci sono molti libri che possono
leggere in pace, e vestiti di colori diversi da quelli che usano abitualmente.
Mi sembra abbastanza per pensare ad un riciclo intelligente. Altre tre
“chicche” finali: una serie di avvenimenti, collegano pedinamenti ed altro alla
stazione della Metro di Saint-Martin. Una stazione curiosa, aperta nel 1931, ma
chiusa nel 1939 (e poi mai riaperta) perché troppo oneroso mantenere tante
stazioni in periodi di guerra. Stazione che negli anni Cinquanta veniva anche
utilizzata come rifugio per i senza tetto. La seconda è la sbadataggine di
Maigret e, come sempre, il ricordo di altre storie. Nei primi capitoli Maigret
ci dice che Mariette ha tre affittuarie, quelle che “esercitano il mestiere”.
Poi, durante il romanzo, ne nomina quattro: Lucile, Yvette, Olga e Arlette. Tra
l’altro è propria quest’ultima che svela alcuni elementi che consentono a
Maigret di capire. Per proteggerla le mette a disposizione Lapointe, come per
ricordare che lo stesso ispettore, in “Maigret al Picratt’s” si era innamorato
di una certa Arlette… Infine, ogni tanto butta qua e là indizi che ci
permettono di costruire poi tutto il “mondo Maigret” come se fosse realmente un
mondo coeso ed unico. Si cita un’indagine iniziata da una visita al dentista
della signora Maigret (e si riferisce a “L’amica della signora Maigret”), si
nominano i ranch del Texas (da “Maigret va dal coroner”), si entra nella
biografia del nostro commissario (parla della figlia avuta e morto dopo pochi
giorni, parla del suo essere orfano di madre). Insomma, un romanzo esemplare
della produzione di Simenon, con i suoi alti ed i suoi bassi. Con l’empatia del
commissario verso le persone che non hanno vita facile, e che fanno scelte
sbagliate. Con la disperazione con cui l’autore guarda il mondo dal suo
osservatorio americano. Ci resterà ancora un anno o poco più, ma già si sentono
le avvisaglie dell’inquietudine.
Dove
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Protagonista
|
Altri
interpreti
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Durata
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Tempo
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Parigi, Juvisy-sur-Orge
|
Louis
Thouret, circa 50 anni,
ex-magazziniere, sposato, una figlia, vittima
|
Émilie
Thouret, moglie di Louis
Monique
Thouret, 22 anni, loro
figlia, impiegata
Albert
Jorisse, 19 anni,
fidanzato di Monique
Jef
Schramek, detto "Fred
le Clown", 63 anni, scassinatore
Mariette
Gibon, circa 50 anni,
locataria di Thouret
Marco, circa 30 anni, amante di Mariette Gibon
|
5 gg.
|
19 – 23 ottobre
|
[tit.
or.: Maigret a peur; ling. or.: francese;
pagine: 175 – 327 (152);
anno 1953]
La scrittura di questo 42° romanzo di Maigret
segue di circa un mese un avvenimento importante nella vita dello scrittore: il
23 febbraio, infatti, nella clinica Sharon di Lakeville nasce Marie Georges,
detta Marie-Jo. La figlia di Georges e Denyse sarà battezzata pochi giorni dopo
avendo come madrina l’attrice francese Jacqueline Pagnol. Nonostante questo,
l’atmosfera della scrittura di Simenon invece rimane più cupa. Negli States si
comincia a respirare un’aria che Simenon conosce bene e non apprezza. Quella
delle persecuzioni per motivi politici, che dopo pochi mesi giungeranno al
culmine (ma ne riparleremo allora). I suoi romanzi, gialli o meno, ne
risentono. Sembra quasi che lo scrittore pensi comunque ai suoi grandi temi, e
su quelli costruisca le trame dei suoi lavori. Qui, in particolare, Maigret si
trova in vario modo a riflettere, pur nel contesto giallo, intorno alla vera
colpevolezza dell’uomo che commette un atto contro la legge, alla legittimità
della giustizia, ma anche alla difficoltà ed alla paura di invecchiare, legate
allo spauracchio (di sicuro per Maigret, ma velatamente anche di Simenon) di
andare in pensione. Siamo in un aprile piovoso, e l’azione si situa in Vandea,
e precisamente a Fontenay-le-Comte. Vandea che Simenon ben conosce, avendoci
trascorso un paio d’anni nel periodo 1940-41, scrivendoci 7 romanzi, ma
avendone un ricordo negativo sull’amicizia e la disponibilità dei locali. Tanto
che se ricordate vi fa passare un anno a Maigret quando entrò, ma non sappiamo
perché, in rotta con il suo capo, e che descrive in “Maigret e la casa del
giudice” del ’40. Episodio che in un’autocitazione Simenon ci rammenta nel
primo capitolo. Qui però siamo a Fontenay, dove abita il suo vecchio sodale
Julien Chabot, magistrato. Di ritorno da un congresso a Bordeaux, Maigret
decide di andarlo a trovare. E si trova immerso in una inchiesta complicata. Ci
sono tre morti, tutti con la stessa tecnica: un colpo con un tubo in faccia.
Prima viene ucciso, in casa, Robert de Courçon, parente povero e mantenuto
della famiglia dei possidenti della zona, i Vernoux de Courçon. Poi la signora
Gibon, ostetrica che fece nascere Alain, il figlio del capostipite della
famiglia Hubert. Infine il povero Gobillard, un ubriacone senza arte né parte.
Anche quest’ultimo con Alain nelle vicinanze. Alain che compare sempre n
prossimità, fisica o morale, delle tre vittime. Alain che studiò medicina senza
laurearsi e che si dedica a ricerche sugli alienati mentali, per poter
impiegare del tempo dei suoi inutili 36 anni. Maigret si accorge subito che la
cittadina è spaccata in due: da una parte i notabili, legati da vincoli
familiari con le vittime, e che comprende anche il suo amico Chabot. Dall’altra
il popolo che pensa i primi cercare di coprirsi le spalle a vicenda. Maigret nei
tre giorni che passa in città è coinvolto, suo malgrado, nell’inchiesta, ed ha
subito modo di vedere come lo Chabot della sua giovinezza non è questo
magistrato invecchiato, impaurito, celibe e con madre anziana. Qui partono
tutte le riflessioni sulla vecchiaia, su come se Chabot è diventato così, forse
anche Maigret, senza saperlo, è anche lui invecchiato, indurito, inasprito
dalla vita. Il secondo elemento di riflessione e tristezza per Maigret è il
ritrovare antiche amicizie, e trovarle diverse, anzi, come dice nel capitolo 7,
forse si era sbagliato. Spesso è così, come quando incontra Malik ne “La
collera di Maigret”. Solo uno sarà amico presente e costante, il dottor Pardon,
un amico a metà tra il confidente ed il consigliere. Non riescono a risollevarlo
neanche un paio di telefonate alla moglie. Il clima triste della storia è
aumentato dal fatto che per tutto il tempo cade sulla città una pioggia fredda,
insistente che bagna tutto e tutti. Tuttavia Maigret non si tira indietro,
fumando la sua pipa segue i suoi ragionamenti, soprattutto cercando di capire
la personalità del giovane Alain. Che scopre avere un’amante, la ventenne
Louise Sabati. Ma scopre anche che è geloso e violento. Sebbene tutti gli
indizi convergano su di lui, Maigret ne intuisce l’innocenza (nei delitti), ma
non riesce a salvarlo dai suoi demoni. Timoroso che sia messa in piazza la sua
relazione con Louise, Alain si suicida. Ma ormai Maigret ha fatto breccia nel
cerchio dei notabili, ne intuisce le debolezze, soprattutto frequentando la
casa dei Vernoux de Courçon, vedendo Hubert tiranneggiato dalla moglie, e dalle
altre donne di casa. In una domenica piovosa, i nodi vengono al pettine, anche
perché Maigret ci fa notare che solo il primo crimine è stato commesso sotto
l’impeto dell’ira. Gli altri sono serviti a mascherare, a coprire, a costruire
falsi indizi. Quindi certo Maigret indaga, ma non è lui il titolare
dell’inchiesta, anche se sono le sue riflessioni che portano alla soluzione del
caso. Ma ormai Maigret sale sul treno per Parigi, dove ritrova il sole. E
soprattutto la moglie che lo consola: Chabot è invecchiato perché non si è
sposato. Mitico finale! Per Simenon, il passare del tempo è sopportabile solo
in compagnia. Magari anche utili trasporti sessuali, che non gli mancarono mai.
Come sempre altri rimandi sono presenti, velati o palesi. Come la tristezza
della domenica, già approfondita in “Il mio amico Maigret” o l’utilizzo di
scatole per conservare tesori. Qui le lettere d’amore tra Alain e Louise, ne
“Il cane giallo” le conchiglie di Emma. Per i puristi della lingua, notiamo che
Simenon sta assorbendo un po’ di cultura anglosassone, quando chiama i libretti
di propaganda di un personaggio minore non con il termine francese “brochure de
propagande” ma con il termine anglofono “pamphlet”. Un'altra piccola chicca è
dedicata al bridge: ne “La balera da due soldi” Maigret gioca a bridge, qui si
rifiuta dicendo di non saper giocare ma fa l’angolista per apprezzare il modo
di approcciare la vita di Hubert.
Dove
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Protagonista
|
Altri
interpreti
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Durata
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Tempo
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Fontenay-le-Comte
|
Alain
Vernoux de Courçon, 36
anni, medico che non esercita, sposato senza figli, suicida
|
Hubert
Vernoux, poi diventato
Vernoux de Courçon dopo il matrimonio, 67 anni, sposato, padre di Alain
Robert
de Courçon, 73 anni,
cognato di Hubert, celibe, prima vittima
Julien
Chabot, circa 60 anni,
amico di Maigret, giudice istruttore
Louise
Sabati, 22 anni, amante di
Alain
Émile
Chalus, maestro di scuola
|
3 gg.
|
aprile
|
[tit.
or.: Maigret se trompe; ling. or.: francese;
pagine: 331 – 483 (152);
anno 1953]
Non succede molto in questi cinque mesi dal
precedente romanzo. Almeno molto nella vita di Simenon. È nata Marie-Jo e lui
si gode i primi mesi della sua prima figlia. Inoltre in luglio, con tutta la
famiglia, lato Denyse, passa le sue vacanze a Edgartown, sull’isola di Martha's
Vineyard, nell’Harbourview Hotel. Intanto segue in modo appassionato il
dibattito sulla condanna e poi sull’esecuzione dei coniugi Rosenberg. Comincia
a sentire in America un clima teso e di persecuzione, che non ricordava nel
Vecchio Continente. Anzi vede che in Europa si prepara un boom economico
aiutato da un clima che, da lontano, gli sembra stimolante. Mette quindi mano a
questo nuovo romanzo, anche qui mescolando i suoi temi preferiti. Non torna
molto sulla tristezza del precedente, ma in questo fa fulcro sul rapporto con
l’altro sesso. Possiamo ben vedere che il professor Gouin, luminare della
chirurgia, è un alter ego di Simenon stesso, e quasi un doppio di Maigret.
Ricordiamo in fatti che nelle finte memorie, Maigret dice di aver passato due
anni a medicina, prima che problemi familiari lo costringessero a trovare un
lavoro sicuro in Polizia. E Maigret si domanda se, avendo proseguito gli studi,
sarebbe potuto diventare come il professore. Un dotto luminare, altero e alieno
da contatti umani, bravissimo ma freddo, anche se poi cura gratuitamente i meno
abbienti. Sul lato Simenon, il professore è invece un collezionatore di
avventure femminili. Il sesso lo distende e lo distrae, ma non vi partecipa
quasi mai con la testa. Non dirà mai che ama qualcuna delle donne con cui va a
letto, sia le compagnie occasionali, sia la moglie, sia l’amante stabile. Un
po’ come il nostro scrittore, che passa di letto in letto, quasi fosse un esercizio
da palestra. Ma torniamo al testo, per indicare un primo elemento di nascosto
messaggio. Il titolo. In nessuna parte del testo Maigret dice di essersi
sbagliato, ma noi sappiamo che spesso, quando ricapitola le vicende, lui dice
la frase fatidica “Si je ne me trompe pas…” cioè “Se non mi sbaglio...”. Qui
vediamo che agisce come se pensasse il professore autore dell’omicidio al
centro della scena, per poi indicare, correttamente l’autrice in una delle sei
donne del libro. Anzi, cinque, visto che una è la morta. La morta, uccisa con
un colpo di pistola, è l’amante di Gouin, una ex-prostituta da lui salvata con
una difficile operazione al cervello. E che, in modo naturale, passa al ruolo
di amante. Tanto che Gouin la sistema in un appartamento dove vive con la
moglie. Louise, anzi Lulu, è ben riconoscente della sistemazione ottenuta. Ma
vive male nell’appartamento di lusso di avenue Carnot, e non rinuncia a
frequentare il suo amante, con cui forse vorrebbe andare a vivere se avesse
soldi, il sassofonista Pierre Eyraud detto Pierrot. La morte di Lulu avviene
proprio il giorno in cui svela a Pierrot di essere incinta e di dover decidere
se tenere o meno il bambino. Gravidanza che Gouin aveva intuito, da medico qual
è, e che aveva comunicato alla moglie. Pierrot aveva incontrato Lulu poco prima
della di lei morte, ma Maigret è ben convinto che non sia il colpevole, cosa
che ben presto riesce a provare. Infatti il colpevole non può essere che uno
dello stabile, visto che nessun altro estraneo è entrato o uscito dal palazzo.
Certo, è poco probabile che sia stata la donna di casa, Désirée Brault, né
tanto meno la portiera Madame Cornet. Ma, oltre al professore, possono aver
commesso l’omicidio la moglie Germaine, la cognata Antoinette o la sua
segretaria Lucile. A lungo si aggira nei meandri delle piccole acquisizioni di
informazioni, ma più che altro per conoscere meglio gli attori del dramma.
Incontra presto Germaine, che è la prima a svelargli i misteri di casa Gouin,
nonché le motivazioni di infatuazione professionale che l’hanno portata da
semplice infermiera a diventare moglie del professore. Va a trovare sul lavoro
la bibliotecaria Antoinette, che la sera dell’assassinio era presente nel
palazzo in visita alla sorella, visto che non c’era il professore, verso cui
lei non nasconde una profonda avversione, soprattutto per il modo in cui tratta
le donne. Infine, si presenta a casa di Lucile, per scoprirne l’infatuazione
intellettuale verso Gouin. Lei, segretaria ed amante occasionale, è sempre
presente con lui nelle operazioni chirurgiche, nel lavoro quotidiano. Né è
praticamente un personal helping in tutte le faccende. Solo nel penultimo
capitolo, però, Maigret si decide a confrontarsi con Gouin, ed assistiamo, per
quasi due capitoli, ad un confronto intellettuale di due esseri simili eppur
diversi. Nella schermaglia verbale, Maigret capisce chi sia Gouin, come si
muova nel mondo, e come sia fuori dai suoi schemi mentali pensare di uccidere
la povera Lulu. Sembra perfetto Gouin, ma alla fine scopriamo il suo grande
“difetto”: ha paura di restare solo, anzi di morire solo. Per questo si
circonda di tante donne che, affascinate dal suo carisma, non lo lasceranno nel
momento del bisogno. E come detto, Maigret alla fine non si sbaglia, e punta il
dito sulla persona giusta. Dicevo, romanzo di donne, perché sono loro che
costellano la scena con la loro presenza. C’è come detto Louise Fillon, detta
Lulu: ex-prostituta, che cerca la sicurezza economica in Gouin, senza amarlo,
visto che il suo cuore è per Pierrot. Qui abbiamo il contrasto sociale, altro
elemento del romanzo: Lulu vive in Avenue Carnot, ma starebbe altrettanto bene
là da dove nasce, tra Barbés, in cui ha vissuto, e il quartiere de la Chapelle,
dove suona Pierrot. Poi c’è Germaine Gouin, anche lei venuta dal basso, e
sebbene non sia molto altro che una specie di tappezzeria nella vita del
professore, è ben intenzionata a mantenere il suo ruolo sociale, a conservare i
suoi privilegi. E c’è Antoinette, la sorella, l’unica a resistere al fascino
del professore, che anzi odia ed evita di frequentare. È anche fondamentalmente
misandrica (che sarebbe il contrario di misogino), con un odio combinato alla
volontà di aiutare la sorella a mantenere le sue posizioni. Infine, come ultima
possibile colpevole, c’è Lucile, l’assistente tuttofare del professore, verso
cui ha una passione più per la funzione che per l’uomo, anche se è disposta a
qualsiasi azione affinché Gouin possa continuare ad essere Gouin. Ed infatti
Gouin nella sua lucidità ne dà un ritratto fulmineo: “Lucile sarebbe disposta a
d’amare qualsiasi persona, purché sia celebre”. Nella galleria delle donne del
romanzo non possiamo non citare anche Désirée Brault: un personaggio spesso
incontrato da Maigret nelle sue inchieste, con una storia simile a Lulu di prostituzione
e borseggio, ma senza aver trovato vie d’uscita. Quindi ora fa la donna ad ore,
diventando un contraltare di Lulu. Ciò di come Lulu sarebbe potuta diventare,
dura e cinica, se non avesse incontrato Gouin. Detto del romanzo e dei
personaggi, lasciamoci ora qualche righe per delle considerazioni stilistiche e
contenutistiche. Mentre in genere è sempre dall’occhio di Maigret che vediamo
lo svolgersi del romanzo, nel capitolo 2 quest’occhio è passato ai suoi
collaboratori, vediamo cioè l’azione svolgersi dal punto di vista di Janvier e
di Lucas. Secondo elemento è la voluta non rilettura del testo, che Simenon
scrive e fa stampare. Lasciando a volte elementi poco chiari (ne abbiamo già
parlato) o vere e proprie sviste, come nel capitolo 4, dove manda Janvier a
fare la guardia nell’appartamento di Lulu, e poi telefona allo stesso
appartamento da casa, dicendo che vi si era installato Lapointe. Inoltre poi,
c’è la continua contrapposizione tra il mondo alto, di Avenue Carnot, della
vita del professore, dell’Ospedale di fama, con quello basso del musicista
Pierrot, della casa di Désirée, del quartiere di Barbés. Infine, un elemento
che andiamo a rimarcare qui è la confessione che Simenon fa per conto di
Maigret. Quasi come elemento scaramantico, se in un’inchiesta comincia a bere
qualcosa, rimane fedele a quel tipo di bevanda per tutta l’inchiesta. Qui,
infatti, comincia con l’acquavite, e lì rimane fedele, anche quando avrebbe
voglia di una buona birra. Ma se la maggior parte delle inchieste sono in
realtà “inchieste alla birra” (citata 207 volte nei 75 romanzi), ci sono
inchieste “al calvados” (come abbiamo visto in “Maigret e la vecchia signora”),
inchieste “al vino bianco” (come in “Maigret e l’affittacamere”), inchieste “al
pernod” (come il “Maigret e la stangona”), per non dimenticare quelle “al
whisky” (specialmente a quelle americane come “Maigret, Lognon e i gangster”).
Insomma, anche qui siamo riusciti a trovare tanti elementi di scrittura.
Simenon è senza dubbio una miniera (quasi) senza fondo.
Dove
|
Protagonista
|
Altri
interpreti
|
Durata
|
Tempo
|
Parigi (XVII e XVIII arr.)
|
Étienne
Gouin, 62 anni, professore
di chirurgia all'università sposato, senza figli
|
Germaine
Gouin, nata Ollivier, 45
anni, moglie del professore, già infermiera
Antoinette
Ollivier, 50 anni, sorella
di Germaine, bibliotecaria
Pierre
Eyraud, detto
"Pierrot", 29 anni, musicista di musette
Louise
Filon, detta
"Lulu", 26 anni, amante di Gouin e di Eyraud, 26 anni,
ex-prostituta, vittima
Lucile
Decaux, 36 anni,
assistente di Gouin
Désirée
Brault, 50-60 anni,
domestica, vecchia conoscenza della polizia
|
2 gg.
|
novembre
|
[tit.
or.: Maigret à l’école; ling. or.: francese;
pagine: 487 – 634 (147);
anno 1954]
La seconda metà del 1953 trascorre senza
particolari scosse in quel di Lakeville. Simenon e le sue famiglie sono lì,
intenti alle attività quotidiane, Georges alterna le sue scritture tra romanzi
alti e romanzi con Maigret, i figli crescono, Tigy con Marc e Denyse con John e
Marie-Jo. Ma in Simenon cresce l’ansia della vita americana che si va
guastando, ne sente la cattiva strada dopo essere stato tre giorni ad Harvard,
ospite di un seminario sul romanzo contemporaneo. Cominciano a maturare idee e
decisioni che presto arriveranno a mosse drastiche (presto nel senso di
Simenon, che, a parte quando si tratta di donne, non è certo un fulmine di
guerra). In questo clima matura il terzo romanzo di idee piuttosto che di
polizia. Abbiamo finito da poco quello dedicato all’invecchiamento, poi quello
dedicato alle donne. Ora abbiamo un nuovo argomento a doppio taglio: i ragazzi.
Perché se da un lato Simenon è circondato da figli (e si domanda, comincia a
domandarsi come trattarli), dall’altro Maigret non ne ha avuto (a parte una
bambina morta dopo pochi giorni). Abbiamo quindi un romanzo pieno di ragazzi,
ed anche di ricordi del Maigret ragazzo, che in loro, nei loro comportamenti,
nell’atmosfera della cittadina di Saint-André-sur-Mer, vicino a La Rochelle,
ritrova, ricorda, ripensa alla sua infanzia. Due giorni di inchiesta
primaverile (come il 38% delle sue inchieste), che inizia al solito al Quai des
Orfevres (dove iniziano il 28% dei romanzi di Maigret), per poi spostarsi verso
il mare. Sia per l’empatia che Maigret prova per il maestro Gastin che chiede
il suo aiuto, sia perché ha voglia di ostriche e vino bianco. Avrà successo sul
primo fronte, mentre sarà uno scacco totale per le ostriche. Mentre lasciamo
perdere ostriche ed altri piatti che si offre nel soggiorno in Charente (anche
se non posso dimenticare il coniglio al vino bianco di Louis Paumelle o
l’agnello con i fagioli del dottor Bresselles), ritorniamo sulla storia e sui
suoi sviluppi. Nel paesino charentois muore la vecchia Léonie, una megera mal
voluta da tutti e che a tutti vuole male. Era l’ex-postina, talmente odiosa
che, una volta morta, trovano cassetti di lettere non consegnate, che lei le
leggeva e si faceva i fatti di tutta la città. Ma Léonie era comunque una della
città, mentre il maestro Gastin viene da fuori, non solo è capitato, o mandato
lì, in esilio dalla natia Courbevoie (dove passai alcuni dei migliori momenti
della mia giovinezza), poiché la moglie lo tradiva con un maggiorente del
posto, ed una vola scoperta la tresca, vengono emarginati e spostati. Ed è
appunto su Gastin che si appuntano i sospetti del paese, che, secondo la
confessione del giovane Marcel, esce dalla rimessa dove è nascosto un fucile
simile a quello che ha colpito Léonie. Tra l’altro, un fucile che hanno molti
ragazzi della cittadina, utilizzato per far finta di cacciare uccelli e topi.
Maigret deve penetrare su due fronti le resistenze paesane: quella degli
adulti, che lo vedono corpo estraneo, e che fanno fronte comune contro Gastin,
e quello dei ragazzi, dove nascono e prosperano amori ed odi profondi e
difficili da scalzare. Al centro c’è anche Jean-Paul, il figlio del maestro
Gastin, che sarebbe il primo della classe, se non fosse il figlio del maestro,
che, per non fare favoritismi, lo colloca sempre al secondo posto, dietro a
quel Marcel la cui testimonianza lo inchioda. Jean-Paul lo riporta
all’infanzia, quando anche lui, Maigret, era emarginato in quanto figlio del
maggiordomo del castello. C’è una specie di rapporto asimmetrico a tre, con
appunto Jean-Paul, il supposto primo della classe ma isolato in come detto,
Marcel, che sarebbe secondo ma prende sempre voti migliori, e Joseph Rateau,
scapestrato amico di Marcel, quello che va male a scuola ma è autore di tutti
gli scherzi. Come quello di gettare gatti morti a casa di Léonie, e poi
fuggire, ed essere investito da una motocicletta. Incidente che fa venire in
mente al padre, sempre a corto di soldi, con l’aiuto del dottore del paese, di
chiedere un risarcimento anche spropositato rispetto all’accaduto. Per fare ciò
Joseph deve stare a casa più del dovuto, con Marcel che lo va a trovare, e con
entrambi, come tutti i ragazzi, insofferenti all’immobilità. E Léonie lo vede
camminare anzi tempo, e minaccia il padre di denunciarlo. C’è Jean-Paul con la
sua carabina e con il padre Gastin che potrebbe averlo preso, c’è Marcel che
potrebbe aver visto Gastin o Rateau con il fucile in mano, c’è Joseph che
potrebbe aver sparato in aria o potrebbe aver coperto il padre che sparava in
aria. Certo il colpo mortale per Léonie è sicuramente casuale, che con una
carabina giocattolo è difficile colpire Léonie in un occhio a più di 30 metri
di distanza. Nei due giorni a Saint-André-sur-Mer, immerso nelle sue
rimembranze infantili, riesce ad indirizzare la locale tenenza di polizia sulla
giusta strada, per poi tornare alla sua primavera parigina, ed alla signora
Maigret. Alcune ulteriori note di costruzione e di velocità e di ricordi. Il
romanzo si apre al Quai des Orfevres con la descrizione della Sala d’attesa,
sala che compare nel 28% dei romanzi di Maigret. Abbiamo poi altri incroci con
i precedenti romanzi (ricordo che Simenon impiega una settimana per scrivere i
suoi Maigret, ed è facile che peschi nel cappello delle sue memorie). C’è il
ponte di Aiguillon, che viene citato anche ne “La casa del giudice”, c’è la
storia del portafoglio rubato simile a quella narrata in “Maigret e la
stangona”, c’è il racconto di Marcel in veste di chierichetto che rimanda
immediatamente a “Il caso Saint-Fiacre”, c’è un cane giallo che Maigret incontra
nel primo capitolo, e come allora non ripensare a “Il cane giallo” (scritto più
di 20 anni prima). Infine, nel sesto capitolo c’è la descrizione di un
giornalista che importuna Maigret, che riprende in modo pedissequo la
descrizione di sé stesso che Simenon fornisce ne “Le memorie di Maigret”. Come
cominciate a vedere, andando avanti nel “corpus maigrettiano”, aumentano
coincidenze e rimandi. E siamo solo al 44° romanzo!
Dove
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Protagonista
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Altri
interpreti
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Durata
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Tempo
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Parigi, Saint-André-sur-Mer (vicino a La
Rochelle)
|
Marcel
Sellier, Jean-Paul Gastin e Joseph Rateau, scolari di circa 12
anni
|
Léonie
Birard, 66 anni, postina
in pensione, nubile, vittima
Joseph
Gastin, maestro di scuola
e segretario del sindaco, sposato, un figlio (Jean-Paul)
Marcellin
Rateau, macellaio, un
figlio (Joseph)
Daniélou, tenente della gendarmeria
Thérèse, circa 30 anni, cameriera dell'hotel
|
3 gg.
|
primavera
|
[tit.
or.: Maigret et la jeune morte; ling. or.: francese;
pagine: 637–789 (152); anno 1954]
Qui abbiamo una piccola stranezza nel lavoro
di Simenon, che tra il precedente romanzo di Maigret (scritto nel dicembre del
’53) e questo (redatto nel gennaio del ’54) scrive solo di Maigret. Simenon,
come detto, sta rintanato a Lakeville, rimuginando come portare avanti sé
stesso e la sua famiglia (o le sue?). producendo una serie di romanzi che
fissano alcuni punti chiave del “maigrettismo”, come abbiamo visto. Qui, invece
di darsi ad elementi esterni, a recriminazioni sulla vecchiaia (e Simenon ha
superato già i 50 anni), sulle donne e così via, pensa di dedicarsi al suo
commissario, presentandolo in una delle sue più tipiche esibizioni. Che non
solo l’andamento della storia è punteggiato dalle caratteristiche salienti di
Maigret (attenzione ai particolari, ricerca della personalità della vittima
prima che di quella dei colpevoli, ricostruzione finale meticolosa e a volte
“sherlockiana”), ma anche da quel carattere ironico del personaggio che ben
risalta nel confronto con l’ispettore Lognon, qui alla sua seconda delle tre
apparizioni. Altro elemento che accumuna questi scritti americani è che in ben
tre Maigret si trova a confronto con giovane ragazze di nome Louise (qui, in
“Maigret ha paura” c’è Louise Sabati, in “Maigret si sbaglia” c’è Louise
Fillon, e la moglie di Maigret si chiama Louise…). Per cominciare, vediamo che
la storia si svolge in marzo, un po’ piovoso, ma che preannuncia già la
primavera piena. Tanto che Maigret, che sappiamo utilizzare la stessa bevanda
per tutta l’inchiesta, qui comincia con bere un pernod (mentre pensa agli
sviluppi del caso in quel di Nizza) ed al pernod rimane legato per tutto il
romanzo. Un’inchiesta di tre giorni per scoprire chi sia la giovane morta
trovata in Place Vintmille (un po’ sopra la Gare Saint-Lazare, verso rue de
Clichy) e chi e come l’abbia uccisa. Quasi per caso, avendo finito una
precedente inchiesta, che non ci riguarda, prima di tornare a casa, risponde al
telefono ad una chiamata della Centrale di Polizia, e si imbatte nel cadavere.
Dove già era pronto il triste Lognon, che è un poliziotto disciplinato, cui
Maigret chiede di continuare ad investigare sul caso in parallelo, che si
troverà quasi sempre un passo avanti a Maigret. Ma Lognon non ha l’empatia del
nostro commissario, ed all’ultimo gradino inciampa, proprio perché non ha
capito la personalità della morta, di questa giovane, silenziosa, e molto poco
fortunata Louise Laboine. Louise è figlia di tal Germaine, che dopo una vita
errabonda, porta avanti la sua magra esistenza giocando ai Casinò di Nizza,
quel tanto che le serve per tirare avanti. Il padre è un tale Julius Van Cram,
che scopriremo essere un truffatore internazionale, che sparisce ben presto
dalla vita di Germaine e Louise. Ricostruiamo allora, seguendo gli indizi che
Maigret scopre a poco a poco, la vita di Louise. Perché scoprendo gli indizi,
vediamo come Maigret si cali “nella pelle” della morta. Louise, scontenta della
vita con la madre, a 16 anni fugge da Nizza per andare a Parigi. Sul treno
incontra e fa amicizia con Jeanine che, mossa a pietà, la fa abitare, visto che
Louise è senza dimora, con lei ma di nascosto. Jeanine però ha altre mire,
vuole sfondare, mentre Louise si accontenta di vivere la sua piccola vita. Dopo
6 mesi, Jeanine si allontana, Louise è cacciata di casa, ma ritrova l’amica e
va a vivere con lei in rue de Ponthieu (un po’ sopra gli Champs-Elysées). Vi
resteranno un paio d’anni, quando Jeanine, ormai stufa dell’ignavia di Louise,
fugge senza lasciar traccia. Per un po’ Louise resiste ma deve lasciare anche
questa casa, e si sposta a rue d’Aboukir. È ottobre, lavora in un magazzino, ma
quando schiaffeggia il suo superiore che le vuole mettere le mani addosso, è
licenziata. Senza molti soldi, deve cercare un nuovo alloggio, che trova in
gennaio in rue de Clichy. In febbraio, leggendo i giornali, scopre che la sua
“amica” Jeanine fa la bella vita con tal Marco, trovandosi spesso la sera da
Chez Maxim. Per riprendere contatto, va dalla sarta Irène, si fa prestare un
abito da sera, ma non trova Jeanine nel locale. In marzo tutto precipita: lei
non ha più un soldo, e la sua affittuaria la caccia, sul giornale scopre che
Jeanine da la sua festa di fidanzamento al “Romèo”, affitta di nuovo un abito
da sera, e cerca di contattare Jeanine. Si installa in un bar a rue Caumartin
(vicino alla Galèrie Lafayette), e mentre beve tre grog per tirarsi su,
telefona a più riprese a Jeanine. Finalmente, all’uscita del locale le parla,
Jeanine la caccia, ma le dice che c’è una lettera per lei al Pickwick’s-Bar,
dietro l’Arc de Triomphe. Una lettera lasciatale da un americano che però deve
tornare in patria. Scopriremo poi, nel resoconto finale che ne farà Maigret,
che è una lettera del padre, che le indica come venire in possesso di una
refurtiva la sua ultima truffa. Ultima perché, ormai malato, sta per morire in
carcere. Il barista del bar è una vecchia conoscenza di Maigret, già dedito a
truffe e piccolo cabotaggio del crimine. Avendo letto la lettera, escogita
insieme ad un suo compare un modo per sostituirsi a Louise e rubarle i soldi. Ma
la carta d’identità di Louise è dentro la borsetta di Louise. Una piccola
pochette, che per non essere persa, ha una lunga catenella attorcigliata al
braccio di Louise. Vi lascio immaginare il seguito. L’empatia di Maigret e la
professionalità “ottusa” di Lognon, si confrontano proprio al bar. Lognon, come
al solito, arriva prima, sente la storia del barista che gli parla di Louise,
del “martini” che beve, e dell’americano che si era allontanato verso
Bruxelles. Dove Lognon si reca subito in treno. Mentre Maigret, arrivato al
“martini”, capisce che c’è del falso. Per come aveva ricostruito empaticamente
la vita di Louise, il “martini” è fuori contesto. Quindi qualcuno, Louise o il
barista, mente. Un divertente finale ironico, con Lognon che trona mestamente a
casa dalla moglie bisbetica, sul treno da Bruxelles. Oltre a notare il largo
quadrilatero in cui svolge la storia, riprendo un altro elemento, oltre
all’empatia, di particolare spicco per cui questa mi risulta essere uno dei
migliori romanzi di Maigret. La descrizione accurata del sottobosco del
malaffare parigino, e di coloro anche che, pur non di malaffare, vivono “alla
giornata”. I duri che Maigret debella nel primo capitolo, la gente dei bar,
Jeanine che cerca di arrampicarsi socialmente usando la sua bellezza, Louise
che non si fa usare, preferendo farsi continuamente licenziare, e tanti altri
che si aggirano tra il Commissariato e la Centrale di Polizia. Finisco con una
annotazione culinaria importante: qui è la seconda volta che Maigret si offre una
zuppa di cipolle, la prima avendola gustata in “Firmato Picpus”. Ebbene, stando
alle ricerche con-testuali, queste sono le uniche due zuppe di cipolle di tutti
e 75 i romanzi. E pensare che ipotizzavo fosse uno dei piatti più menzionati
Dove
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Protagonista
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Altri
interpreti
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Durata
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Tempo
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Parigi
|
Louise
Laboine, 20 anni, nubile,
senza professione, vittima
|
Ispettore
Lognon, detto
"Malgracieux"
Ispettore
Janvier
Jeanne
Santoni, detta Jeannine,
nata Armenieu, 22 anni, sposa di Marco Santoni, rappresentante di vermouth
italiano in Francia
Germaine
Laboine, circa 60 anni,
madre della vittima, vive a Monte Carlo dove è conosciuta come Lili
Julius
Van Cram, olandese, padre
di Louise, conosciuto anche con i nomi di Hans Ziegler, Ernst Marek, John
Donley, Joey Hogan e Jean Lemke
Albert
Falconi, barman corso,
noto alla polizia
Mme
Crêmieux, 65-70 anni,
affittuaria
|
3 gg.
|
marzo
|
Dato
inoltre che è la seconda trama di aprile, vi allieto anche con una piccola dose
di libri legati alla paternità.
Nuove
mete chiamano ad antichi viaggi, ma questa volta sarà solo una escursione
personale di riposo e di pensieri. Tanti. Mentre il vostro umile scribacchino
incasella appuntamenti e visite per rendere accogliente anche la campagna. Un pensiero
a tutti in questo aprile che comincia a rischiarare.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
APRILE 2018
Spesso mi sono interrogato sul
tema della paternità, e sui rapporti genitori-figli. Il caso vuole che proprio
ora ne esca fuori un commento. Che vi lascio leggere attentamente.
PATERNITÀ
Cormac
McCarthy “La strada”
Carlo
Collodi “Pinocchio”
L’aspetto
migliore dell’essere padri è la possibilità di vivere di nuovo la propria
infanzia - proprio mentre si precipita in una nuova fase della maturità, sia
come padre che come partner. Vi dà l’opportunità di trasmettere le vostre
passioni e tutto ciò che avete imparato, ma anche responsabilità enormi, che
possono cambiare il vostro rapporto con il partner in modi che non vi piacciono
- e talvolta questo risentimento viene sfogato sul bambino. Se la paternità vi
mette a disagio, o volete rafforzare un legame padre-figlio che forse è stato
danneggiato da questo genere di transfert emotivo, vi proponiamo l’equivalente
narrativo di un manuale di comportamento per padri, lo straziante ma
stupefacente “La strada” di Cormac McCarthy.
Il
presupposto della vicenda è più tetro di quanto qualsiasi vita - ce lo
auguriamo - potrebbe mai essere: a seguito di un evento catastrofico, l’esatta
natura del quale i superstiti possono solo cercare di immaginare, l’America - e
forse anche il resto del mondo - è ridotta a una terra desolata. La cenere
oscura il sole. Le città sono bruciate, gli alberi sono morti. Su questa terra
“sterile, silenziosa, senza Dio” un uomo e suo figlio (che noi conosciamo solo
come “l’uomo” e “il ragazzo”, come si addice a un mondo senza colore e di
scarsissima umanità) seguono la strada verso sud, dove sperano di trovare un
po’ di calore e aumentare così le loro possibilità di sopravvivenza. Lungo la
strada cercano di trovare un poco di sonno in notti lunghe, buie e “più fredde
di quanto abbiano mai sperimentato”, recuperano tutto il cibo che possono -dai
funghi selvatici a qualche occasionale scatoletta - e sono sotto la costante
minaccia dei “cattivi”, uomini sporchi e terrificanti, che si spostano in
branchi, indossane maschere e tute protettive, brandiscono mazze e tubi
metallici, e saccheggiano e uccidono come animali.
Il
mondo non potrebbe essere più spoglio di qualsiasi bellezza. Il ragazzo,
spesso, ha tanta paura che non riesce nemmeno a correre quando il padre glielo
ordina. È mezzo morto di fame, ha nostalgia della madre, di un compagno di
gioco, per non parlare dei normali piaceri dell’infanzia - i giocattoli, lo
sport, l’erba, una torta - che ormai ha dimenticato. A un certo punto il padre
trova una lattina di Coca-Cola in un distributore automatico che qualcuno ha
aperto con un piede di porco e dice al ragazzo di berla tutta, e lentamente. “E
perché non potrò berne mai più, non è vero?” domanda il ragazzo. E così, per
mezzo di una lattina di Coca-Cola, accusiamo fino in fondo il colpo della
perdita di un universo che non tornerà più.
Ma
dal punto di vista emotivo è un mondo ricco. Perché qui, dopo che si è stati
defraudati di tutto, si rivela nella sua forma più pura e primordiale lo
straordinario amore che esiste tra un padre e un figlio, in cui l’unica cosa
che conta è fare in modo che per il ragazzo vada “tutto bene”. Se il figlio
morisse, l’uomo sa che vorrà morire anche lui. Cos’è l’essenza della paternità
se non la speranza per la prossima generazione?
Il
romanzo ci lascia con questa nota di speranza - un ingrediente essenziale per
la vita. Celebrate la vostra paternità, allora, e lungo la strada abituatevi
all’assoluta onestà che esiste tra questi due personaggi. Guardate la loro
fiducia reciproca, il bisogno del figlio di sapere che il padre manterrà sempre
la sua promessa, e non lo lascerà mai, e gli dirà sempre la verità se gliela
chiede - tranne, forse, di fronte alla morte. Guardate il bisogno del ragazzo
di essere rassicurato che loro sono i “buoni” che “portano il fuoco”. Se
garantirete onestà, amore, alcuni saldi principi morali e una presenza
affidabile, non potrete sbagliare. Non fatela troppo complicata: dovete solo
amare i vostri figli e comunicare con loro con onestà.
Ma
la più tenera rappresentazione del sentimento di paternità in letteratura
proviene curiosamente da un paese matriarcale per eccellenza e porta il nome di
Mastro Geppetto. È anche un esempio di adozione al rovescio: l’adozione di un
padre da parte di un figlio, anzi da parte di un pezzo di legno che piangeva e
rideva come un bambino. Il pezzo di legno in questione fu infatti recuperato da
Mastro Ciliegia che lo regalò a Mastro Geppetto per il suo sogno circense di
farne un burattino. Iniziò così quel giorno una lunga schermaglia affettiva tra
un falegname e una marionetta. La loro sarà una vicenda di candele steariche,
di panni smessi, di fughe e disubbidienze. Il racconto “di una casa che non
esiste, ma che si lascia inventare”, ha scritto Giorgio Manganelli, com’è la
casa di Mastro Geppetto, con il disegno di un caminetto e di un fuoco acceso
con “una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo”
incisi sul muro.
La
ricerca del padre è uno dei temi universali della letteratura di tutti i tempi.
L’antichità la riassunse principalmente in due ipotesi: la prima tragica,
quella di Edipo; l’altra elegiaca, quella di Telemaco. Il padre si può uccidere
o al contrario si può partire per trovarlo. Così inizia l’Odissea, con un
figlio che si mette in mare.
Ma
anche la storia di Pinocchio la si può leggere come una Telemachia. È, lo
ripetiamo, la più bella e commovente storia di paternità che sia stata scritta,
una paternità non decisa dal sangue, e dunque adottiva. Pinocchio è un “senza
madre” nato in inverno, uno sradicato come lo sono tutti i pezzi di legno da
catasta strappati da un albero. Dopo una serie di prove e di naufragi ritroverà
l’uomo che si è preso cura di lui nella pancia di un pescecane, alla luce di
una candela “infilata in una bottiglia di cristallo verde”. Se lo caricherà
sulle spalle, come un Enea con il suo vecchio Anchise, e si getterà a nuoto
verso la riva.
Bugiardino
Pinocchio l’ho letto, riletto,
visto e rivisto. Così come credo abbiate fatto voi. Per questo non ci torno
sopra, dedicando tutto lo spazio ad uno dei libri che meno mi hanno convinto di
McCarthy.
Cormac McCarthy “La strada” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9
euro)
[tramata
il 16 febbraio 2014]
Confesso
immediatamente e senza ombra di dubbio: questo libro non mi è piaciuto. Pur
riconoscendo al solito la bella scrittura di McCarthy, la sua capacità
descrittiva (nei suoi libri, quando descrive paesaggi, mi fa immediatamente
volare dentro la pagina, chiedendomi come si possa essere così abili nel
tratteggiare luoghi anche desolati), questo libro non mi ha per nulla
coinvolto. Purtroppo siamo lontani da quelli che considero i suoi momenti
migliori. Quando la sua prosa spazia nelle ampie praterie americane, magari
selvagge, magari piene di cow-boy. Quando parla di quelle vite vissute ai
margini, spesso anche oltre i margini stessi. Le cattiverie, le piccolezze. Il
quotidiano essere lontano da quei punti focali che noi qui vediamo
nell’America. I suoi personaggi non si muovono a New York, a Los Angeles, a Las
Vegas, a Chicago, a Boston, e neanche nelle lande della Florida. I suoi eroi
stanno dalle parti dei monti del Vermont, del Montana, delle pianure tra Texas
e Arizona. Insomma sono altrove. Ma sto divagando, per rimpiangere quello che in
questo libro non c’è. Anche perché quello che c’è non mi ha coinvolto. Sarà che
ho un discreto passato di cultore della fantascienza in tutte le sue forme (e
qui si potrebbe aprire un bel dibattito su questa forma espressiva, cara alla
mia giovinezza, e sulla forma “poliziesco di attualità” che sta cullandomi in
questi anni; anzi sulla forma in generale di letteratura popolare, se vogliamo
essere dotti, nel senso in cui la descriveva Gramsci in uno dei suoi quaderni
dal carcere), ma il plot di McCarthy è tipico di quella che viene battezzata
come “fantascienza post-apocalittica”. Ora senza scomodare le pietre miliari di
questo genere (come “L’ultimo uomo” di Mary Wollstonecraft Shelley, “La
macchina del tempo” di H. G. Wells o “La peste scarlatta” di Jack London),
basterebbe pensare a “Io sono leggenda” di Richard Matheson del 1954 esempio
preclaro di come si può scrivere di orrori dopo una “fine del mondo”. Qui
abbiamo solo un tale con il figlio che si aggirano per una terra forse
devastata ma non si sa (e non si saprà) da cosa. Che cercano di andare verso un
fantomatico mare, emblema di una qualche speranza. E ne assistiamo agli
incontri con altri derelitti. Le lotte. Le fughe. Le città senza vita, dove si
cerca disperatamente qualcosa da mangiare. E si mangia di tutto. Tanto che non
ci meraviglia la nascita di un cannibalismo orrorifico. McCarthy mette qua e là
spunti sempre più crudi della degradazione possibile degli altri, mentre i
nostri due cercano di mantenersi al di qua di un certo modo di essere. Non a
caso il bambino continua a chiedere a più riprese al padre se loro sono i buoni
e se continueranno ad esserlo. Con qualche flash-back assistiamo anche alla
presa di coscienza della madre del piccolo, al suo “andare fuori di testa” e
lasciare soli i due (si sarà uccisa? avrà cercato altre vie? Chissà, di certo
sappiamo solo che ora non c’è più). I due troveranno il mare, ma non la
speranza. Troveranno altri derelitti, forse buoni quanto loro. E finalmente
anche il padre potrà mollare e morire. Lasciando al piccolo l’eredità di
continuare a vivere nel mondo devastato. Così ci vuole comunicare allora il
nostro scrittore? Che di fronte a crisi estreme i comportamenti umani sono
impredicibili? Che i mostri sono dentro di noi? Che non c’è speranza? Non lo
so. Ma so che non esce fuori da questo romanzo. Che passa di orrore in orrore
sino alla sua naturale fine. Forse McCarthy ha cercato di usare dei registri
per ribadire quanto dice in altri suoi (e migliori) scritti, sulla solitudine
umana, sulla cattiveria interna ad ognuno di noi. Continuo ad essere perplesso.
E continua a preferire chi coscientemente e volutamente usa questo tipo di
scrittura, con risultati per me più interessanti. Come, e qui finisco le
citazioni, in “Un cantico per Leibowitz” di Walter M. Miller in cui dopo il
crollo dell’umanità, i sopravvissuti a poco a poco recuperano le conoscenze
perdute, ricostruiscono, ricominciano a vivere, fino a ricadere di nuovo negli
errori del passato ed a scatenare una nuova guerra nucleare devastante. Questa sì
senza speranza. Aspettiamo di leggere di meglio dal nostro texano.
Conclusioni
Dato che tanto ho parlato
dell’americano, non torno qui se lo scritto aderisca o meno all’assunto. Perché
qui invece voglio sottolineare come invece Collodi è un punto fondamentale
dell’assunzione di paternità. Che è uno stato mentale, oltre che, a volte,
accidentalmente, biologico.
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