domenica 8 aprile 2018

Maigret 9 - 08 aprile 18


Come dicevo l’ultimo Maigret inviato, ecco che questa volta passano ben 7 mesi tra le due scritture. Tuttavia i mesi non sono passati invano, per la mia scrittura su Maigret, che da questo ultimo volume “all american”, ho aggiunto uno specchietto finale ad ogni trama dove riporto il luogo dell’azione, i personaggi e i tempi del romanzo. Un lavoro di ricerca che mi ha divertito e che spero sia utile a voi lettori. Per questo libro che risale nei giudizi assestandosi ad un buon livello generale, dove leggete anche le note biografiche, per conoscere meglio l’autore ed il protagonista.
[A: 13/07/2015 – I: 15/12/2017 – T: 26/12/2017] - &&&&
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 789; anno 2015]
Un volume di Maigret tutto americano. Anzi, tutto scritto nella fattoria della Roccia Ombra di Lakeville. Cinque scritti interpuntati da altri scritti non-Maigret, e dalla gravidanza e poi nascita dell’unica figlia di Simenon, Marie-Jo. Rispetto al precedente volume, anch’esso “lakevilliano” questo non è proprio uniforme, che Simenon affronta una serie di temi, a lui cari “a prescindere”. Nell’ordine, l’invecchiamento e la pensione, la giustizia, il rapporto con le donne, il rapporto con i bambini, l’empatia con le vittime. Sono temi che Simenon ha nel cuore, si sente, e la resa è migliore delle precedenti uscite.
Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Maigret e l'uomo della panchina
11 – 19 settembre 1952
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Gennaio 1953
Maigret ha paura
20 – 27 marzo 1953
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
3 luglio 1953
Maigret si sbaglia
24 – 31 agosto 1953
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
16 novembre 1953
Maigret a scuola
1 – 8 dicembre 1953
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
13 marzo 1954
Maigret e la giovane morta
11 – 18 gennaio 1954
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
11 giugno 1954
[tit. or.: Maigret et l'homme du banc; ling. or.: francese; pagine: 11–171 (160); anno 1953]
Simenon è tornato ormai in America, nella routinaria vita tra Lakeville con la nuova famiglia, e la vicina casa con la prima moglie ed il figlio maggiore. Un periodo di relativa calma, dove il nostro continua ad alternare gli scritti “Maigret” a quelli che considera puri e duri. Calma che è interrotta, ma ancora non lo sa, dalla nuova gravidanza di Denise. Quindi in settembre, con la solita settimana che dedica alla scrittura dei gialli, sforna un nuovo episodio di Maigret. Al solito, tuttavia, oltre ad un’idea (quasi) nuova, si accompagna con elementi o ripresi da precedenti uscite o mescolati un po’ alla rinfusa, dato che ogni tanto fa anche lui confusione con nomi ed altro. Tra l’altro, secondo me, questo uomo della panchina si colloca quasi a metà strada tra le sue produzioni, che c’è poco del giallo in quanto tale e molto di atmosfera e di riflessione. In particolare sulla vita che una vorrebbe vivere se potesse, sull’impossibilità di praticarla, soprattutto in presenza di elementi negativi. La storia, in realtà, è discretamente lineare, si svolge in un ristretto circolo spaziale (poche centinaia di metri intorno a Boulevard Saint-Martin) e nel solito breve spazio temporale (l’inchiesta dura realmente dal 19 al 23 ottobre, anche se la fine finale si avrà solo più in là nel tempo). Proprio il 19 ottobre (casualmente il compleanno di mia madre) viene trovato morto il signor Thouret. Pugnalato. In poche pagine e pochi tratti, Simenon ci fa entrare nel suo mistero: perché il magazziniere Thouret passeggiava in Boulevard Saint-Martin in un’ora in cui avrebbe dovuto lavorare da Kaplan e Zanin, l’ufficio che lo aveva in forze da 25 anni? Perché Thouret aveva le scarpe gialle invece di quelle nere con cui era uscito di casa? Maigret vede subito che la famiglia Thouret è problematica: la moglie invidiosa delle sorelle che hanno mariti che lavorano in ferrovia, figlia finto ribelle, con giovane e balordo amante. Soprattutto, Maigret scopre che Kaplan e Zanin ha chiuso da anni, che Thouret ha continuato a far finta con la moglie di lavorare, che dopo un periodo di poca fortuna ha cominciato ad avere molti soldi, che spesso stava seduto su di una panchina sempre lì sul Boulevard, che frequentava un uomo dalla faccia buffa. Infine scopre che Thouret aveva affittato una stanza da Mariette Gibon, una tenutaria di stanza ad ore (capite a me), dove si incontrava con la sua amante Antoinette. Simenon cerca un po’ di imbrogliare le carte, facendoci credere che Albert, l’amante di Monique la figlia di Thouret, abbia una parte nella di lui morte. Anche perché Monique era l’unica della famiglia che conosceva la doppia vita del padre, e Albert aveva a volte frequentato la casa della signora Mariette. Ma i due volevano solo soldi per fuggire in Sud America, accumulando menzogne su stupidaggini. Anche Mariette, ed il suo mantenuto Marco, sapevano dei soldi di Thouret, tanto che Maigret posiziona il fido Lapointe a controllare i movimenti della casa. Ma da dove venivano i soldi? Alla fine, arrestando l’uomo dalla faccia buffa, che non è altro che Jef Schrameck detto Fred il Clown, ex-acrobata di circo, dedicatosi poi a furti in appartamenti e negozietti (inciso da Fred il Clown rimando la mente a “Maigret e la stangona” dove c’era invece Fred il triste). Thouret, in realtà, faceva il palo individuando dove, come e quando effettuare il colpo. Jef esegue e divide i soldi. Peccato che a Jef servano solo per perdere ai cavalli, mentre a Thouret servono per costruirsi la vita che avrebbe voluto. Lontano dalla moglie e dalla figlia, insieme alla dolce Antoinette. Peccato che chi cerca di fuggire utilizzando menzogne, per Simenon fa sempre una fine poco consona, non riuscendo a godere i frutti delle sue attività non dichiarate. Tra l’altro, Thouret aveva poco senso pratico, che i soldi rapinati li teneva in stanza, dove sapevano che erano lì, sopra l’armadio: la figlia Monique, il di lei amante Albert, la di lui amante Antoinette, la tenutaria Mariette, il di lei amante Marco, e la prostituta Arlette. Uno di loro commissiona la cattiva azione. Uno di loro la esegue. Chi, come e non vi dico perché, dato che è il solo ovvio, lo lascio agli appassionati lettori del corpus maigrettiano. Io torno su alcuni punti accennati. Il primo è l’utilizzo di materiale di tutta la sua produzione precedente. Infatti, questo uomo dalla panchina deve molto sia ad uno dei primi romanzi, “Il defunto signor Gallet”, sia ad un racconto di 7 anni prima. Come in Gallet, abbiamo i protagonisti che non hanno il lavoro che crede la famiglia, abbiamo una moglie non in sintonia, abbiamo la prole (lì il figlio, qui la figlia) che vuole andare via, andare verso il Sud (della Francia in Gallet, dell’America in Thouret). Nel racconto del 1946 (“Non si uccidono i poveri diavoli”) abbiamo alter coincidenze: i due uomini (Thouret e Tremblet) hanno una seconda casa, nella quale allevano canarini, nella quale ricevono l’amante, e dove ci sono molti libri che possono leggere in pace, e vestiti di colori diversi da quelli che usano abitualmente. Mi sembra abbastanza per pensare ad un riciclo intelligente. Altre tre “chicche” finali: una serie di avvenimenti, collegano pedinamenti ed altro alla stazione della Metro di Saint-Martin. Una stazione curiosa, aperta nel 1931, ma chiusa nel 1939 (e poi mai riaperta) perché troppo oneroso mantenere tante stazioni in periodi di guerra. Stazione che negli anni Cinquanta veniva anche utilizzata come rifugio per i senza tetto. La seconda è la sbadataggine di Maigret e, come sempre, il ricordo di altre storie. Nei primi capitoli Maigret ci dice che Mariette ha tre affittuarie, quelle che “esercitano il mestiere”. Poi, durante il romanzo, ne nomina quattro: Lucile, Yvette, Olga e Arlette. Tra l’altro è propria quest’ultima che svela alcuni elementi che consentono a Maigret di capire. Per proteggerla le mette a disposizione Lapointe, come per ricordare che lo stesso ispettore, in “Maigret al Picratt’s” si era innamorato di una certa Arlette… Infine, ogni tanto butta qua e là indizi che ci permettono di costruire poi tutto il “mondo Maigret” come se fosse realmente un mondo coeso ed unico. Si cita un’indagine iniziata da una visita al dentista della signora Maigret (e si riferisce a “L’amica della signora Maigret”), si nominano i ranch del Texas (da “Maigret va dal coroner”), si entra nella biografia del nostro commissario (parla della figlia avuta e morto dopo pochi giorni, parla del suo essere orfano di madre). Insomma, un romanzo esemplare della produzione di Simenon, con i suoi alti ed i suoi bassi. Con l’empatia del commissario verso le persone che non hanno vita facile, e che fanno scelte sbagliate. Con la disperazione con cui l’autore guarda il mondo dal suo osservatorio americano. Ci resterà ancora un anno o poco più, ma già si sentono le avvisaglie dell’inquietudine.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi, Juvisy-sur-Orge
Louis Thouret, circa 50 anni, ex-magazziniere, sposato, una figlia, vittima
Émilie Thouret, moglie di Louis
Monique Thouret, 22 anni, loro figlia, impiegata
Albert Jorisse, 19 anni, fidanzato di Monique
Jef Schramek, detto "Fred le Clown", 63 anni, scassinatore
Mariette Gibon, circa 50 anni, locataria di Thouret
Marco, circa 30 anni, amante di Mariette Gibon
5 gg.
19 – 23 ottobre
[tit. or.: Maigret a peur; ling. or.: francese; pagine: 175 – 327 (152); anno 1953]
La scrittura di questo 42° romanzo di Maigret segue di circa un mese un avvenimento importante nella vita dello scrittore: il 23 febbraio, infatti, nella clinica Sharon di Lakeville nasce Marie Georges, detta Marie-Jo. La figlia di Georges e Denyse sarà battezzata pochi giorni dopo avendo come madrina l’attrice francese Jacqueline Pagnol. Nonostante questo, l’atmosfera della scrittura di Simenon invece rimane più cupa. Negli States si comincia a respirare un’aria che Simenon conosce bene e non apprezza. Quella delle persecuzioni per motivi politici, che dopo pochi mesi giungeranno al culmine (ma ne riparleremo allora). I suoi romanzi, gialli o meno, ne risentono. Sembra quasi che lo scrittore pensi comunque ai suoi grandi temi, e su quelli costruisca le trame dei suoi lavori. Qui, in particolare, Maigret si trova in vario modo a riflettere, pur nel contesto giallo, intorno alla vera colpevolezza dell’uomo che commette un atto contro la legge, alla legittimità della giustizia, ma anche alla difficoltà ed alla paura di invecchiare, legate allo spauracchio (di sicuro per Maigret, ma velatamente anche di Simenon) di andare in pensione. Siamo in un aprile piovoso, e l’azione si situa in Vandea, e precisamente a Fontenay-le-Comte. Vandea che Simenon ben conosce, avendoci trascorso un paio d’anni nel periodo 1940-41, scrivendoci 7 romanzi, ma avendone un ricordo negativo sull’amicizia e la disponibilità dei locali. Tanto che se ricordate vi fa passare un anno a Maigret quando entrò, ma non sappiamo perché, in rotta con il suo capo, e che descrive in “Maigret e la casa del giudice” del ’40. Episodio che in un’autocitazione Simenon ci rammenta nel primo capitolo. Qui però siamo a Fontenay, dove abita il suo vecchio sodale Julien Chabot, magistrato. Di ritorno da un congresso a Bordeaux, Maigret decide di andarlo a trovare. E si trova immerso in una inchiesta complicata. Ci sono tre morti, tutti con la stessa tecnica: un colpo con un tubo in faccia. Prima viene ucciso, in casa, Robert de Courçon, parente povero e mantenuto della famiglia dei possidenti della zona, i Vernoux de Courçon. Poi la signora Gibon, ostetrica che fece nascere Alain, il figlio del capostipite della famiglia Hubert. Infine il povero Gobillard, un ubriacone senza arte né parte. Anche quest’ultimo con Alain nelle vicinanze. Alain che compare sempre n prossimità, fisica o morale, delle tre vittime. Alain che studiò medicina senza laurearsi e che si dedica a ricerche sugli alienati mentali, per poter impiegare del tempo dei suoi inutili 36 anni. Maigret si accorge subito che la cittadina è spaccata in due: da una parte i notabili, legati da vincoli familiari con le vittime, e che comprende anche il suo amico Chabot. Dall’altra il popolo che pensa i primi cercare di coprirsi le spalle a vicenda. Maigret nei tre giorni che passa in città è coinvolto, suo malgrado, nell’inchiesta, ed ha subito modo di vedere come lo Chabot della sua giovinezza non è questo magistrato invecchiato, impaurito, celibe e con madre anziana. Qui partono tutte le riflessioni sulla vecchiaia, su come se Chabot è diventato così, forse anche Maigret, senza saperlo, è anche lui invecchiato, indurito, inasprito dalla vita. Il secondo elemento di riflessione e tristezza per Maigret è il ritrovare antiche amicizie, e trovarle diverse, anzi, come dice nel capitolo 7, forse si era sbagliato. Spesso è così, come quando incontra Malik ne “La collera di Maigret”. Solo uno sarà amico presente e costante, il dottor Pardon, un amico a metà tra il confidente ed il consigliere. Non riescono a risollevarlo neanche un paio di telefonate alla moglie. Il clima triste della storia è aumentato dal fatto che per tutto il tempo cade sulla città una pioggia fredda, insistente che bagna tutto e tutti. Tuttavia Maigret non si tira indietro, fumando la sua pipa segue i suoi ragionamenti, soprattutto cercando di capire la personalità del giovane Alain. Che scopre avere un’amante, la ventenne Louise Sabati. Ma scopre anche che è geloso e violento. Sebbene tutti gli indizi convergano su di lui, Maigret ne intuisce l’innocenza (nei delitti), ma non riesce a salvarlo dai suoi demoni. Timoroso che sia messa in piazza la sua relazione con Louise, Alain si suicida. Ma ormai Maigret ha fatto breccia nel cerchio dei notabili, ne intuisce le debolezze, soprattutto frequentando la casa dei Vernoux de Courçon, vedendo Hubert tiranneggiato dalla moglie, e dalle altre donne di casa. In una domenica piovosa, i nodi vengono al pettine, anche perché Maigret ci fa notare che solo il primo crimine è stato commesso sotto l’impeto dell’ira. Gli altri sono serviti a mascherare, a coprire, a costruire falsi indizi. Quindi certo Maigret indaga, ma non è lui il titolare dell’inchiesta, anche se sono le sue riflessioni che portano alla soluzione del caso. Ma ormai Maigret sale sul treno per Parigi, dove ritrova il sole. E soprattutto la moglie che lo consola: Chabot è invecchiato perché non si è sposato. Mitico finale! Per Simenon, il passare del tempo è sopportabile solo in compagnia. Magari anche utili trasporti sessuali, che non gli mancarono mai. Come sempre altri rimandi sono presenti, velati o palesi. Come la tristezza della domenica, già approfondita in “Il mio amico Maigret” o l’utilizzo di scatole per conservare tesori. Qui le lettere d’amore tra Alain e Louise, ne “Il cane giallo” le conchiglie di Emma. Per i puristi della lingua, notiamo che Simenon sta assorbendo un po’ di cultura anglosassone, quando chiama i libretti di propaganda di un personaggio minore non con il termine francese “brochure de propagande” ma con il termine anglofono “pamphlet”. Un'altra piccola chicca è dedicata al bridge: ne “La balera da due soldi” Maigret gioca a bridge, qui si rifiuta dicendo di non saper giocare ma fa l’angolista per apprezzare il modo di approcciare la vita di Hubert.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Fontenay-le-Comte
Alain Vernoux de Courçon, 36 anni, medico che non esercita, sposato senza figli, suicida
Hubert Vernoux, poi diventato Vernoux de Courçon dopo il matrimonio, 67 anni, sposato, padre di Alain
Robert de Courçon, 73 anni, cognato di Hubert, celibe, prima vittima
Julien Chabot, circa 60 anni, amico di Maigret, giudice istruttore
Louise Sabati, 22 anni, amante di Alain
Émile Chalus, maestro di scuola
3 gg.
aprile
[tit. or.: Maigret se trompe; ling. or.: francese; pagine: 331 – 483 (152); anno 1953]
Non succede molto in questi cinque mesi dal precedente romanzo. Almeno molto nella vita di Simenon. È nata Marie-Jo e lui si gode i primi mesi della sua prima figlia. Inoltre in luglio, con tutta la famiglia, lato Denyse, passa le sue vacanze a Edgartown, sull’isola di Martha's Vineyard, nell’Harbourview Hotel. Intanto segue in modo appassionato il dibattito sulla condanna e poi sull’esecuzione dei coniugi Rosenberg. Comincia a sentire in America un clima teso e di persecuzione, che non ricordava nel Vecchio Continente. Anzi vede che in Europa si prepara un boom economico aiutato da un clima che, da lontano, gli sembra stimolante. Mette quindi mano a questo nuovo romanzo, anche qui mescolando i suoi temi preferiti. Non torna molto sulla tristezza del precedente, ma in questo fa fulcro sul rapporto con l’altro sesso. Possiamo ben vedere che il professor Gouin, luminare della chirurgia, è un alter ego di Simenon stesso, e quasi un doppio di Maigret. Ricordiamo in fatti che nelle finte memorie, Maigret dice di aver passato due anni a medicina, prima che problemi familiari lo costringessero a trovare un lavoro sicuro in Polizia. E Maigret si domanda se, avendo proseguito gli studi, sarebbe potuto diventare come il professore. Un dotto luminare, altero e alieno da contatti umani, bravissimo ma freddo, anche se poi cura gratuitamente i meno abbienti. Sul lato Simenon, il professore è invece un collezionatore di avventure femminili. Il sesso lo distende e lo distrae, ma non vi partecipa quasi mai con la testa. Non dirà mai che ama qualcuna delle donne con cui va a letto, sia le compagnie occasionali, sia la moglie, sia l’amante stabile. Un po’ come il nostro scrittore, che passa di letto in letto, quasi fosse un esercizio da palestra. Ma torniamo al testo, per indicare un primo elemento di nascosto messaggio. Il titolo. In nessuna parte del testo Maigret dice di essersi sbagliato, ma noi sappiamo che spesso, quando ricapitola le vicende, lui dice la frase fatidica “Si je ne me trompe pas…” cioè “Se non mi sbaglio...”. Qui vediamo che agisce come se pensasse il professore autore dell’omicidio al centro della scena, per poi indicare, correttamente l’autrice in una delle sei donne del libro. Anzi, cinque, visto che una è la morta. La morta, uccisa con un colpo di pistola, è l’amante di Gouin, una ex-prostituta da lui salvata con una difficile operazione al cervello. E che, in modo naturale, passa al ruolo di amante. Tanto che Gouin la sistema in un appartamento dove vive con la moglie. Louise, anzi Lulu, è ben riconoscente della sistemazione ottenuta. Ma vive male nell’appartamento di lusso di avenue Carnot, e non rinuncia a frequentare il suo amante, con cui forse vorrebbe andare a vivere se avesse soldi, il sassofonista Pierre Eyraud detto Pierrot. La morte di Lulu avviene proprio il giorno in cui svela a Pierrot di essere incinta e di dover decidere se tenere o meno il bambino. Gravidanza che Gouin aveva intuito, da medico qual è, e che aveva comunicato alla moglie. Pierrot aveva incontrato Lulu poco prima della di lei morte, ma Maigret è ben convinto che non sia il colpevole, cosa che ben presto riesce a provare. Infatti il colpevole non può essere che uno dello stabile, visto che nessun altro estraneo è entrato o uscito dal palazzo. Certo, è poco probabile che sia stata la donna di casa, Désirée Brault, né tanto meno la portiera Madame Cornet. Ma, oltre al professore, possono aver commesso l’omicidio la moglie Germaine, la cognata Antoinette o la sua segretaria Lucile. A lungo si aggira nei meandri delle piccole acquisizioni di informazioni, ma più che altro per conoscere meglio gli attori del dramma. Incontra presto Germaine, che è la prima a svelargli i misteri di casa Gouin, nonché le motivazioni di infatuazione professionale che l’hanno portata da semplice infermiera a diventare moglie del professore. Va a trovare sul lavoro la bibliotecaria Antoinette, che la sera dell’assassinio era presente nel palazzo in visita alla sorella, visto che non c’era il professore, verso cui lei non nasconde una profonda avversione, soprattutto per il modo in cui tratta le donne. Infine, si presenta a casa di Lucile, per scoprirne l’infatuazione intellettuale verso Gouin. Lei, segretaria ed amante occasionale, è sempre presente con lui nelle operazioni chirurgiche, nel lavoro quotidiano. Né è praticamente un personal helping in tutte le faccende. Solo nel penultimo capitolo, però, Maigret si decide a confrontarsi con Gouin, ed assistiamo, per quasi due capitoli, ad un confronto intellettuale di due esseri simili eppur diversi. Nella schermaglia verbale, Maigret capisce chi sia Gouin, come si muova nel mondo, e come sia fuori dai suoi schemi mentali pensare di uccidere la povera Lulu. Sembra perfetto Gouin, ma alla fine scopriamo il suo grande “difetto”: ha paura di restare solo, anzi di morire solo. Per questo si circonda di tante donne che, affascinate dal suo carisma, non lo lasceranno nel momento del bisogno. E come detto, Maigret alla fine non si sbaglia, e punta il dito sulla persona giusta. Dicevo, romanzo di donne, perché sono loro che costellano la scena con la loro presenza. C’è come detto Louise Fillon, detta Lulu: ex-prostituta, che cerca la sicurezza economica in Gouin, senza amarlo, visto che il suo cuore è per Pierrot. Qui abbiamo il contrasto sociale, altro elemento del romanzo: Lulu vive in Avenue Carnot, ma starebbe altrettanto bene là da dove nasce, tra Barbés, in cui ha vissuto, e il quartiere de la Chapelle, dove suona Pierrot. Poi c’è Germaine Gouin, anche lei venuta dal basso, e sebbene non sia molto altro che una specie di tappezzeria nella vita del professore, è ben intenzionata a mantenere il suo ruolo sociale, a conservare i suoi privilegi. E c’è Antoinette, la sorella, l’unica a resistere al fascino del professore, che anzi odia ed evita di frequentare. È anche fondamentalmente misandrica (che sarebbe il contrario di misogino), con un odio combinato alla volontà di aiutare la sorella a mantenere le sue posizioni. Infine, come ultima possibile colpevole, c’è Lucile, l’assistente tuttofare del professore, verso cui ha una passione più per la funzione che per l’uomo, anche se è disposta a qualsiasi azione affinché Gouin possa continuare ad essere Gouin. Ed infatti Gouin nella sua lucidità ne dà un ritratto fulmineo: “Lucile sarebbe disposta a d’amare qualsiasi persona, purché sia celebre”. Nella galleria delle donne del romanzo non possiamo non citare anche Désirée Brault: un personaggio spesso incontrato da Maigret nelle sue inchieste, con una storia simile a Lulu di prostituzione e borseggio, ma senza aver trovato vie d’uscita. Quindi ora fa la donna ad ore, diventando un contraltare di Lulu. Ciò di come Lulu sarebbe potuta diventare, dura e cinica, se non avesse incontrato Gouin. Detto del romanzo e dei personaggi, lasciamoci ora qualche righe per delle considerazioni stilistiche e contenutistiche. Mentre in genere è sempre dall’occhio di Maigret che vediamo lo svolgersi del romanzo, nel capitolo 2 quest’occhio è passato ai suoi collaboratori, vediamo cioè l’azione svolgersi dal punto di vista di Janvier e di Lucas. Secondo elemento è la voluta non rilettura del testo, che Simenon scrive e fa stampare. Lasciando a volte elementi poco chiari (ne abbiamo già parlato) o vere e proprie sviste, come nel capitolo 4, dove manda Janvier a fare la guardia nell’appartamento di Lulu, e poi telefona allo stesso appartamento da casa, dicendo che vi si era installato Lapointe. Inoltre poi, c’è la continua contrapposizione tra il mondo alto, di Avenue Carnot, della vita del professore, dell’Ospedale di fama, con quello basso del musicista Pierrot, della casa di Désirée, del quartiere di Barbés. Infine, un elemento che andiamo a rimarcare qui è la confessione che Simenon fa per conto di Maigret. Quasi come elemento scaramantico, se in un’inchiesta comincia a bere qualcosa, rimane fedele a quel tipo di bevanda per tutta l’inchiesta. Qui, infatti, comincia con l’acquavite, e lì rimane fedele, anche quando avrebbe voglia di una buona birra. Ma se la maggior parte delle inchieste sono in realtà “inchieste alla birra” (citata 207 volte nei 75 romanzi), ci sono inchieste “al calvados” (come abbiamo visto in “Maigret e la vecchia signora”), inchieste “al vino bianco” (come in “Maigret e l’affittacamere”), inchieste “al pernod” (come il “Maigret e la stangona”), per non dimenticare quelle “al whisky” (specialmente a quelle americane come “Maigret, Lognon e i gangster”). Insomma, anche qui siamo riusciti a trovare tanti elementi di scrittura. Simenon è senza dubbio una miniera (quasi) senza fondo.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (XVII e XVIII arr.)
Étienne Gouin, 62 anni, professore di chirurgia all'università sposato, senza figli
Germaine Gouin, nata Ollivier, 45 anni, moglie del professore, già infermiera
Antoinette Ollivier, 50 anni, sorella di Germaine, bibliotecaria
Pierre Eyraud, detto "Pierrot", 29 anni, musicista di musette
Louise Filon, detta "Lulu", 26 anni, amante di Gouin e di Eyraud, 26 anni, ex-prostituta, vittima
Lucile Decaux, 36 anni, assistente di Gouin
Désirée Brault, 50-60 anni, domestica, vecchia conoscenza della polizia
2 gg.
novembre
[tit. or.: Maigret à l’école; ling. or.: francese; pagine: 487 – 634 (147); anno 1954]
La seconda metà del 1953 trascorre senza particolari scosse in quel di Lakeville. Simenon e le sue famiglie sono lì, intenti alle attività quotidiane, Georges alterna le sue scritture tra romanzi alti e romanzi con Maigret, i figli crescono, Tigy con Marc e Denyse con John e Marie-Jo. Ma in Simenon cresce l’ansia della vita americana che si va guastando, ne sente la cattiva strada dopo essere stato tre giorni ad Harvard, ospite di un seminario sul romanzo contemporaneo. Cominciano a maturare idee e decisioni che presto arriveranno a mosse drastiche (presto nel senso di Simenon, che, a parte quando si tratta di donne, non è certo un fulmine di guerra). In questo clima matura il terzo romanzo di idee piuttosto che di polizia. Abbiamo finito da poco quello dedicato all’invecchiamento, poi quello dedicato alle donne. Ora abbiamo un nuovo argomento a doppio taglio: i ragazzi. Perché se da un lato Simenon è circondato da figli (e si domanda, comincia a domandarsi come trattarli), dall’altro Maigret non ne ha avuto (a parte una bambina morta dopo pochi giorni). Abbiamo quindi un romanzo pieno di ragazzi, ed anche di ricordi del Maigret ragazzo, che in loro, nei loro comportamenti, nell’atmosfera della cittadina di Saint-André-sur-Mer, vicino a La Rochelle, ritrova, ricorda, ripensa alla sua infanzia. Due giorni di inchiesta primaverile (come il 38% delle sue inchieste), che inizia al solito al Quai des Orfevres (dove iniziano il 28% dei romanzi di Maigret), per poi spostarsi verso il mare. Sia per l’empatia che Maigret prova per il maestro Gastin che chiede il suo aiuto, sia perché ha voglia di ostriche e vino bianco. Avrà successo sul primo fronte, mentre sarà uno scacco totale per le ostriche. Mentre lasciamo perdere ostriche ed altri piatti che si offre nel soggiorno in Charente (anche se non posso dimenticare il coniglio al vino bianco di Louis Paumelle o l’agnello con i fagioli del dottor Bresselles), ritorniamo sulla storia e sui suoi sviluppi. Nel paesino charentois muore la vecchia Léonie, una megera mal voluta da tutti e che a tutti vuole male. Era l’ex-postina, talmente odiosa che, una volta morta, trovano cassetti di lettere non consegnate, che lei le leggeva e si faceva i fatti di tutta la città. Ma Léonie era comunque una della città, mentre il maestro Gastin viene da fuori, non solo è capitato, o mandato lì, in esilio dalla natia Courbevoie (dove passai alcuni dei migliori momenti della mia giovinezza), poiché la moglie lo tradiva con un maggiorente del posto, ed una vola scoperta la tresca, vengono emarginati e spostati. Ed è appunto su Gastin che si appuntano i sospetti del paese, che, secondo la confessione del giovane Marcel, esce dalla rimessa dove è nascosto un fucile simile a quello che ha colpito Léonie. Tra l’altro, un fucile che hanno molti ragazzi della cittadina, utilizzato per far finta di cacciare uccelli e topi. Maigret deve penetrare su due fronti le resistenze paesane: quella degli adulti, che lo vedono corpo estraneo, e che fanno fronte comune contro Gastin, e quello dei ragazzi, dove nascono e prosperano amori ed odi profondi e difficili da scalzare. Al centro c’è anche Jean-Paul, il figlio del maestro Gastin, che sarebbe il primo della classe, se non fosse il figlio del maestro, che, per non fare favoritismi, lo colloca sempre al secondo posto, dietro a quel Marcel la cui testimonianza lo inchioda. Jean-Paul lo riporta all’infanzia, quando anche lui, Maigret, era emarginato in quanto figlio del maggiordomo del castello. C’è una specie di rapporto asimmetrico a tre, con appunto Jean-Paul, il supposto primo della classe ma isolato in come detto, Marcel, che sarebbe secondo ma prende sempre voti migliori, e Joseph Rateau, scapestrato amico di Marcel, quello che va male a scuola ma è autore di tutti gli scherzi. Come quello di gettare gatti morti a casa di Léonie, e poi fuggire, ed essere investito da una motocicletta. Incidente che fa venire in mente al padre, sempre a corto di soldi, con l’aiuto del dottore del paese, di chiedere un risarcimento anche spropositato rispetto all’accaduto. Per fare ciò Joseph deve stare a casa più del dovuto, con Marcel che lo va a trovare, e con entrambi, come tutti i ragazzi, insofferenti all’immobilità. E Léonie lo vede camminare anzi tempo, e minaccia il padre di denunciarlo. C’è Jean-Paul con la sua carabina e con il padre Gastin che potrebbe averlo preso, c’è Marcel che potrebbe aver visto Gastin o Rateau con il fucile in mano, c’è Joseph che potrebbe aver sparato in aria o potrebbe aver coperto il padre che sparava in aria. Certo il colpo mortale per Léonie è sicuramente casuale, che con una carabina giocattolo è difficile colpire Léonie in un occhio a più di 30 metri di distanza. Nei due giorni a Saint-André-sur-Mer, immerso nelle sue rimembranze infantili, riesce ad indirizzare la locale tenenza di polizia sulla giusta strada, per poi tornare alla sua primavera parigina, ed alla signora Maigret. Alcune ulteriori note di costruzione e di velocità e di ricordi. Il romanzo si apre al Quai des Orfevres con la descrizione della Sala d’attesa, sala che compare nel 28% dei romanzi di Maigret. Abbiamo poi altri incroci con i precedenti romanzi (ricordo che Simenon impiega una settimana per scrivere i suoi Maigret, ed è facile che peschi nel cappello delle sue memorie). C’è il ponte di Aiguillon, che viene citato anche ne “La casa del giudice”, c’è la storia del portafoglio rubato simile a quella narrata in “Maigret e la stangona”, c’è il racconto di Marcel in veste di chierichetto che rimanda immediatamente a “Il caso Saint-Fiacre”, c’è un cane giallo che Maigret incontra nel primo capitolo, e come allora non ripensare a “Il cane giallo” (scritto più di 20 anni prima). Infine, nel sesto capitolo c’è la descrizione di un giornalista che importuna Maigret, che riprende in modo pedissequo la descrizione di sé stesso che Simenon fornisce ne “Le memorie di Maigret”. Come cominciate a vedere, andando avanti nel “corpus maigrettiano”, aumentano coincidenze e rimandi. E siamo solo al 44° romanzo!
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi, Saint-André-sur-Mer (vicino a La Rochelle)
Marcel Sellier, Jean-Paul Gastin e Joseph Rateau, scolari di circa 12 anni
Léonie Birard, 66 anni, postina in pensione, nubile, vittima
Joseph Gastin, maestro di scuola e segretario del sindaco, sposato, un figlio (Jean-Paul)
Marcellin Rateau, macellaio, un figlio (Joseph)
Daniélou, tenente della gendarmeria
Thérèse, circa 30 anni, cameriera dell'hotel
3 gg.
primavera
[tit. or.: Maigret et la jeune morte; ling. or.: francese; pagine: 637–789 (152); anno 1954]
Qui abbiamo una piccola stranezza nel lavoro di Simenon, che tra il precedente romanzo di Maigret (scritto nel dicembre del ’53) e questo (redatto nel gennaio del ’54) scrive solo di Maigret. Simenon, come detto, sta rintanato a Lakeville, rimuginando come portare avanti sé stesso e la sua famiglia (o le sue?). producendo una serie di romanzi che fissano alcuni punti chiave del “maigrettismo”, come abbiamo visto. Qui, invece di darsi ad elementi esterni, a recriminazioni sulla vecchiaia (e Simenon ha superato già i 50 anni), sulle donne e così via, pensa di dedicarsi al suo commissario, presentandolo in una delle sue più tipiche esibizioni. Che non solo l’andamento della storia è punteggiato dalle caratteristiche salienti di Maigret (attenzione ai particolari, ricerca della personalità della vittima prima che di quella dei colpevoli, ricostruzione finale meticolosa e a volte “sherlockiana”), ma anche da quel carattere ironico del personaggio che ben risalta nel confronto con l’ispettore Lognon, qui alla sua seconda delle tre apparizioni. Altro elemento che accumuna questi scritti americani è che in ben tre Maigret si trova a confronto con giovane ragazze di nome Louise (qui, in “Maigret ha paura” c’è Louise Sabati, in “Maigret si sbaglia” c’è Louise Fillon, e la moglie di Maigret si chiama Louise…). Per cominciare, vediamo che la storia si svolge in marzo, un po’ piovoso, ma che preannuncia già la primavera piena. Tanto che Maigret, che sappiamo utilizzare la stessa bevanda per tutta l’inchiesta, qui comincia con bere un pernod (mentre pensa agli sviluppi del caso in quel di Nizza) ed al pernod rimane legato per tutto il romanzo. Un’inchiesta di tre giorni per scoprire chi sia la giovane morta trovata in Place Vintmille (un po’ sopra la Gare Saint-Lazare, verso rue de Clichy) e chi e come l’abbia uccisa. Quasi per caso, avendo finito una precedente inchiesta, che non ci riguarda, prima di tornare a casa, risponde al telefono ad una chiamata della Centrale di Polizia, e si imbatte nel cadavere. Dove già era pronto il triste Lognon, che è un poliziotto disciplinato, cui Maigret chiede di continuare ad investigare sul caso in parallelo, che si troverà quasi sempre un passo avanti a Maigret. Ma Lognon non ha l’empatia del nostro commissario, ed all’ultimo gradino inciampa, proprio perché non ha capito la personalità della morta, di questa giovane, silenziosa, e molto poco fortunata Louise Laboine. Louise è figlia di tal Germaine, che dopo una vita errabonda, porta avanti la sua magra esistenza giocando ai Casinò di Nizza, quel tanto che le serve per tirare avanti. Il padre è un tale Julius Van Cram, che scopriremo essere un truffatore internazionale, che sparisce ben presto dalla vita di Germaine e Louise. Ricostruiamo allora, seguendo gli indizi che Maigret scopre a poco a poco, la vita di Louise. Perché scoprendo gli indizi, vediamo come Maigret si cali “nella pelle” della morta. Louise, scontenta della vita con la madre, a 16 anni fugge da Nizza per andare a Parigi. Sul treno incontra e fa amicizia con Jeanine che, mossa a pietà, la fa abitare, visto che Louise è senza dimora, con lei ma di nascosto. Jeanine però ha altre mire, vuole sfondare, mentre Louise si accontenta di vivere la sua piccola vita. Dopo 6 mesi, Jeanine si allontana, Louise è cacciata di casa, ma ritrova l’amica e va a vivere con lei in rue de Ponthieu (un po’ sopra gli Champs-Elysées). Vi resteranno un paio d’anni, quando Jeanine, ormai stufa dell’ignavia di Louise, fugge senza lasciar traccia. Per un po’ Louise resiste ma deve lasciare anche questa casa, e si sposta a rue d’Aboukir. È ottobre, lavora in un magazzino, ma quando schiaffeggia il suo superiore che le vuole mettere le mani addosso, è licenziata. Senza molti soldi, deve cercare un nuovo alloggio, che trova in gennaio in rue de Clichy. In febbraio, leggendo i giornali, scopre che la sua “amica” Jeanine fa la bella vita con tal Marco, trovandosi spesso la sera da Chez Maxim. Per riprendere contatto, va dalla sarta Irène, si fa prestare un abito da sera, ma non trova Jeanine nel locale. In marzo tutto precipita: lei non ha più un soldo, e la sua affittuaria la caccia, sul giornale scopre che Jeanine da la sua festa di fidanzamento al “Romèo”, affitta di nuovo un abito da sera, e cerca di contattare Jeanine. Si installa in un bar a rue Caumartin (vicino alla Galèrie Lafayette), e mentre beve tre grog per tirarsi su, telefona a più riprese a Jeanine. Finalmente, all’uscita del locale le parla, Jeanine la caccia, ma le dice che c’è una lettera per lei al Pickwick’s-Bar, dietro l’Arc de Triomphe. Una lettera lasciatale da un americano che però deve tornare in patria. Scopriremo poi, nel resoconto finale che ne farà Maigret, che è una lettera del padre, che le indica come venire in possesso di una refurtiva la sua ultima truffa. Ultima perché, ormai malato, sta per morire in carcere. Il barista del bar è una vecchia conoscenza di Maigret, già dedito a truffe e piccolo cabotaggio del crimine. Avendo letto la lettera, escogita insieme ad un suo compare un modo per sostituirsi a Louise e rubarle i soldi. Ma la carta d’identità di Louise è dentro la borsetta di Louise. Una piccola pochette, che per non essere persa, ha una lunga catenella attorcigliata al braccio di Louise. Vi lascio immaginare il seguito. L’empatia di Maigret e la professionalità “ottusa” di Lognon, si confrontano proprio al bar. Lognon, come al solito, arriva prima, sente la storia del barista che gli parla di Louise, del “martini” che beve, e dell’americano che si era allontanato verso Bruxelles. Dove Lognon si reca subito in treno. Mentre Maigret, arrivato al “martini”, capisce che c’è del falso. Per come aveva ricostruito empaticamente la vita di Louise, il “martini” è fuori contesto. Quindi qualcuno, Louise o il barista, mente. Un divertente finale ironico, con Lognon che trona mestamente a casa dalla moglie bisbetica, sul treno da Bruxelles. Oltre a notare il largo quadrilatero in cui svolge la storia, riprendo un altro elemento, oltre all’empatia, di particolare spicco per cui questa mi risulta essere uno dei migliori romanzi di Maigret. La descrizione accurata del sottobosco del malaffare parigino, e di coloro anche che, pur non di malaffare, vivono “alla giornata”. I duri che Maigret debella nel primo capitolo, la gente dei bar, Jeanine che cerca di arrampicarsi socialmente usando la sua bellezza, Louise che non si fa usare, preferendo farsi continuamente licenziare, e tanti altri che si aggirano tra il Commissariato e la Centrale di Polizia. Finisco con una annotazione culinaria importante: qui è la seconda volta che Maigret si offre una zuppa di cipolle, la prima avendola gustata in “Firmato Picpus”. Ebbene, stando alle ricerche con-testuali, queste sono le uniche due zuppe di cipolle di tutti e 75 i romanzi. E pensare che ipotizzavo fosse uno dei piatti più menzionati
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi
Louise Laboine, 20 anni, nubile, senza professione, vittima
Ispettore Lognon, detto "Malgracieux"
Ispettore Janvier
Jeanne Santoni, detta Jeannine, nata Armenieu, 22 anni, sposa di Marco Santoni, rappresentante di vermouth italiano in Francia
Germaine Laboine, circa 60 anni, madre della vittima, vive a Monte Carlo dove è conosciuta come Lili
Julius Van Cram, olandese, padre di Louise, conosciuto anche con i nomi di Hans Ziegler, Ernst Marek, John Donley, Joey Hogan e Jean Lemke
Albert Falconi, barman corso, noto alla polizia
Mme Crêmieux, 65-70 anni, affittuaria
3 gg.
marzo
Dato inoltre che è la seconda trama di aprile, vi allieto anche con una piccola dose di libri legati alla paternità.
Nuove mete chiamano ad antichi viaggi, ma questa volta sarà solo una escursione personale di riposo e di pensieri. Tanti. Mentre il vostro umile scribacchino incasella appuntamenti e visite per rendere accogliente anche la campagna. Un pensiero a tutti in questo aprile che comincia a rischiarare.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2018
Spesso mi sono interrogato sul tema della paternità, e sui rapporti genitori-figli. Il caso vuole che proprio ora ne esca fuori un commento. Che vi lascio leggere attentamente.

PATERNITÀ

Cormac McCarthy           “La strada”
Carlo Collodi                   “Pinocchio”
L’aspetto migliore dell’essere padri è la possibilità di vivere di nuovo la propria infanzia - proprio mentre si precipita in una nuova fase della maturità, sia come padre che come partner. Vi dà l’opportunità di trasmettere le vostre passioni e tutto ciò che avete imparato, ma anche responsabilità enormi, che possono cambiare il vostro rapporto con il partner in modi che non vi piacciono - e talvolta questo risentimento viene sfogato sul bambino. Se la paternità vi mette a disagio, o volete rafforzare un legame padre-figlio che forse è stato danneggiato da questo genere di transfert emotivo, vi proponiamo l’equivalente narrativo di un manuale di comportamento per padri, lo straziante ma stupefacente “La strada” di Cormac McCarthy.
Il presupposto della vicenda è più tetro di quanto qualsiasi vita - ce lo auguriamo - potrebbe mai essere: a seguito di un evento catastrofico, l’esatta natura del quale i superstiti possono solo cercare di immaginare, l’America - e forse anche il resto del mondo - è ridotta a una terra desolata. La cenere oscura il sole. Le città sono bruciate, gli alberi sono morti. Su questa terra “sterile, silenziosa, senza Dio” un uomo e suo figlio (che noi conosciamo solo come “l’uomo” e “il ragazzo”, come si addice a un mondo senza colore e di scarsissima umanità) seguono la strada verso sud, dove sperano di trovare un po’ di calore e aumentare così le loro possibilità di sopravvivenza. Lungo la strada cercano di trovare un poco di sonno in notti lunghe, buie e “più fredde di quanto abbiano mai sperimentato”, recuperano tutto il cibo che possono -dai funghi selvatici a qualche occasionale scatoletta - e sono sotto la costante minaccia dei “cattivi”, uomini sporchi e terrificanti, che si spostano in branchi, indossane maschere e tute protettive, brandiscono mazze e tubi metallici, e saccheggiano e uccidono come animali.
Il mondo non potrebbe essere più spoglio di qualsiasi bellezza. Il ragazzo, spesso, ha tanta paura che non riesce nemmeno a correre quando il padre glielo ordina. È mezzo morto di fame, ha nostalgia della madre, di un compagno di gioco, per non parlare dei normali piaceri dell’infanzia - i giocattoli, lo sport, l’erba, una torta - che ormai ha dimenticato. A un certo punto il padre trova una lattina di Coca-Cola in un distributore automatico che qualcuno ha aperto con un piede di porco e dice al ragazzo di berla tutta, e lentamente. “E perché non potrò berne mai più, non è vero?” domanda il ragazzo. E così, per mezzo di una lattina di Coca-Cola, accusiamo fino in fondo il colpo della perdita di un universo che non tornerà più.
Ma dal punto di vista emotivo è un mondo ricco. Perché qui, dopo che si è stati defraudati di tutto, si rivela nella sua forma più pura e primordiale lo straordinario amore che esiste tra un padre e un figlio, in cui l’unica cosa che conta è fare in modo che per il ragazzo vada “tutto bene”. Se il figlio morisse, l’uomo sa che vorrà morire anche lui. Cos’è l’essenza della paternità se non la speranza per la prossima generazione?
Il romanzo ci lascia con questa nota di speranza - un ingrediente essenziale per la vita. Celebrate la vostra paternità, allora, e lungo la strada abituatevi all’assoluta onestà che esiste tra questi due personaggi. Guardate la loro fiducia reciproca, il bisogno del figlio di sapere che il padre manterrà sempre la sua promessa, e non lo lascerà mai, e gli dirà sempre la verità se gliela chiede - tranne, forse, di fronte alla morte. Guardate il bisogno del ragazzo di essere rassicurato che loro sono i “buoni” che “portano il fuoco”. Se garantirete onestà, amore, alcuni saldi principi morali e una presenza affidabile, non potrete sbagliare. Non fatela troppo complicata: dovete solo amare i vostri figli e comunicare con loro con onestà.
Ma la più tenera rappresentazione del sentimento di paternità in letteratura proviene curiosamente da un paese matriarcale per eccellenza e porta il nome di Mastro Geppetto. È anche un esempio di adozione al rovescio: l’adozione di un padre da parte di un figlio, anzi da parte di un pezzo di legno che piangeva e rideva come un bambino. Il pezzo di legno in questione fu infatti recuperato da Mastro Ciliegia che lo regalò a Mastro Geppetto per il suo sogno circense di farne un burattino. Iniziò così quel giorno una lunga schermaglia affettiva tra un falegname e una marionetta. La loro sarà una vicenda di candele steariche, di panni smessi, di fughe e disubbidienze. Il racconto “di una casa che non esiste, ma che si lascia inventare”, ha scritto Giorgio Manganelli, com’è la casa di Mastro Geppetto, con il disegno di un caminetto e di un fuoco acceso con “una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo” incisi sul muro.
La ricerca del padre è uno dei temi universali della letteratura di tutti i tempi. L’antichità la riassunse principalmente in due ipotesi: la prima tragica, quella di Edipo; l’altra elegiaca, quella di Telemaco. Il padre si può uccidere o al contrario si può partire per trovarlo. Così inizia l’Odissea, con un figlio che si mette in mare.
Ma anche la storia di Pinocchio la si può leggere come una Telemachia. È, lo ripetiamo, la più bella e commovente storia di paternità che sia stata scritta, una paternità non decisa dal sangue, e dunque adottiva. Pinocchio è un “senza madre” nato in inverno, uno sradicato come lo sono tutti i pezzi di legno da catasta strappati da un albero. Dopo una serie di prove e di naufragi ritroverà l’uomo che si è preso cura di lui nella pancia di un pescecane, alla luce di una candela “infilata in una bottiglia di cristallo verde”. Se lo caricherà sulle spalle, come un Enea con il suo vecchio Anchise, e si getterà a nuoto verso la riva.

Bugiardino

Pinocchio l’ho letto, riletto, visto e rivisto. Così come credo abbiate fatto voi. Per questo non ci torno sopra, dedicando tutto lo spazio ad uno dei libri che meno mi hanno convinto di McCarthy.
Cormac McCarthy “La strada” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[tramata il 16 febbraio 2014]
Confesso immediatamente e senza ombra di dubbio: questo libro non mi è piaciuto. Pur riconoscendo al solito la bella scrittura di McCarthy, la sua capacità descrittiva (nei suoi libri, quando descrive paesaggi, mi fa immediatamente volare dentro la pagina, chiedendomi come si possa essere così abili nel tratteggiare luoghi anche desolati), questo libro non mi ha per nulla coinvolto. Purtroppo siamo lontani da quelli che considero i suoi momenti migliori. Quando la sua prosa spazia nelle ampie praterie americane, magari selvagge, magari piene di cow-boy. Quando parla di quelle vite vissute ai margini, spesso anche oltre i margini stessi. Le cattiverie, le piccolezze. Il quotidiano essere lontano da quei punti focali che noi qui vediamo nell’America. I suoi personaggi non si muovono a New York, a Los Angeles, a Las Vegas, a Chicago, a Boston, e neanche nelle lande della Florida. I suoi eroi stanno dalle parti dei monti del Vermont, del Montana, delle pianure tra Texas e Arizona. Insomma sono altrove. Ma sto divagando, per rimpiangere quello che in questo libro non c’è. Anche perché quello che c’è non mi ha coinvolto. Sarà che ho un discreto passato di cultore della fantascienza in tutte le sue forme (e qui si potrebbe aprire un bel dibattito su questa forma espressiva, cara alla mia giovinezza, e sulla forma “poliziesco di attualità” che sta cullandomi in questi anni; anzi sulla forma in generale di letteratura popolare, se vogliamo essere dotti, nel senso in cui la descriveva Gramsci in uno dei suoi quaderni dal carcere), ma il plot di McCarthy è tipico di quella che viene battezzata come “fantascienza post-apocalittica”. Ora senza scomodare le pietre miliari di questo genere (come “L’ultimo uomo” di Mary Wollstonecraft Shelley, “La macchina del tempo” di H. G. Wells o “La peste scarlatta” di Jack London), basterebbe pensare a “Io sono leggenda” di Richard Matheson del 1954 esempio preclaro di come si può scrivere di orrori dopo una “fine del mondo”. Qui abbiamo solo un tale con il figlio che si aggirano per una terra forse devastata ma non si sa (e non si saprà) da cosa. Che cercano di andare verso un fantomatico mare, emblema di una qualche speranza. E ne assistiamo agli incontri con altri derelitti. Le lotte. Le fughe. Le città senza vita, dove si cerca disperatamente qualcosa da mangiare. E si mangia di tutto. Tanto che non ci meraviglia la nascita di un cannibalismo orrorifico. McCarthy mette qua e là spunti sempre più crudi della degradazione possibile degli altri, mentre i nostri due cercano di mantenersi al di qua di un certo modo di essere. Non a caso il bambino continua a chiedere a più riprese al padre se loro sono i buoni e se continueranno ad esserlo. Con qualche flash-back assistiamo anche alla presa di coscienza della madre del piccolo, al suo “andare fuori di testa” e lasciare soli i due (si sarà uccisa? avrà cercato altre vie? Chissà, di certo sappiamo solo che ora non c’è più). I due troveranno il mare, ma non la speranza. Troveranno altri derelitti, forse buoni quanto loro. E finalmente anche il padre potrà mollare e morire. Lasciando al piccolo l’eredità di continuare a vivere nel mondo devastato. Così ci vuole comunicare allora il nostro scrittore? Che di fronte a crisi estreme i comportamenti umani sono impredicibili? Che i mostri sono dentro di noi? Che non c’è speranza? Non lo so. Ma so che non esce fuori da questo romanzo. Che passa di orrore in orrore sino alla sua naturale fine. Forse McCarthy ha cercato di usare dei registri per ribadire quanto dice in altri suoi (e migliori) scritti, sulla solitudine umana, sulla cattiveria interna ad ognuno di noi. Continuo ad essere perplesso. E continua a preferire chi coscientemente e volutamente usa questo tipo di scrittura, con risultati per me più interessanti. Come, e qui finisco le citazioni, in “Un cantico per Leibowitz” di Walter M. Miller in cui dopo il crollo dell’umanità, i sopravvissuti a poco a poco recuperano le conoscenze perdute, ricostruiscono, ricominciano a vivere, fino a ricadere di nuovo negli errori del passato ed a scatenare una nuova guerra nucleare devastante. Questa sì senza speranza. Aspettiamo di leggere di meglio dal nostro texano.

Conclusioni

Dato che tanto ho parlato dell’americano, non torno qui se lo scritto aderisca o meno all’assunto. Perché qui invece voglio sottolineare come invece Collodi è un punto fondamentale dell’assunzione di paternità. Che è uno stato mentale, oltre che, a volte, accidentalmente, biologico.


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