domenica 15 aprile 2018

Sempre meglio al femminile - 15 aprile 2018


Altra settimana con una piccola infornata di gialli, noir, polizieschi e simili. Tutti autori seriali, che continuano a pubblicare le gesta dei loro eroi, quasi costruendone immense giallogonie. In ogni caso, tre donne, tutte vicine o comunque degnamente sufficienti, mentre l’unico maschietto a fatica riesce ad arrivare ad un dignitoso insufficiente. Comunque ecco che ci rituffiamo nelle grandi serie: l’ispettore Lynley di Elizabeth George, Arkady Renko di Martin Cruz Smith, Peter Decker e Rina Lazarus di Faye Kellerman e Hanne Wilhelmsen di Anne Holt.
Elizabeth George “Un piccolo gesto crudele” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015– I: 05/12/2017 – T: 14/12/2017] - &&& ---
[tit. or.: Just One Evil Act; ling. or.: inglese; pagine: 715; anno 2013]
Proseguiamo (dopo ben tre anni di sosta) nella lettura della saga dell’Ispettore Thomas Lynley e del suo contorno di colleghi, amici, amanti, e via discorrendo. Ormai la nostra Elizabeth scrive romanzi ad anni alterni, ed io ho sempre più difficoltà a leggerne in tempo. Ma poco importa che il tempo smussa gli angoli e porta letture più meditate. Il difficile è che, facendo passare più tempo, i suoi scritti tendono ad allungarsi oltre misura, come questo che supera le 700 pagine, senza tuttavia aggiungere tantissimo al nocciolo della storia. Intanto, comincio con la solita piccola tirata d’orecchie ai “titolatori” italiani che trasformano “Solo una cattiva azione (o solo un gesto crudele)” in un “piccolo”. Perché piccolo? Da dove spunta fuori questa “diminutio” della cattiveria di quel gesto, che poi non sappiamo ancora bene alla fine se sia di Angelina, di Taymullah o di Lorenzo. Ma di questo ne riparliamo più avanti. Seconda tirata d’orecchie sul sottotitolo “Un’indagine in Italia per l’ispettore Lynley”. Perché se è vero che parte della vicenda si svolge in Italia, ed in particolare a Lucca, questa è solo una parte del romanzo. Dove inoltre l’ineffabile Lynley svolge sì un ruolo, ma non centralissimo, che tutta la vicenda si basa sui tormenti e sulle prese di posizione (il più delle volte errate) del sergente Barbara Havers. Allora, essendo un romanzone, la nostra Elizabeth, oltre alla storia principale, ci fornisce qualche elemento laterale della saga del “mondo Lynley” e dintorni. Un piccolo cammeo dell’amico St. James, utile a dirimere un problema marginale di struttura di un laboratorio universitario. Un lungo duello a colpi di fioretto, cioè gentile e senza affondare i colpi, almeno all’inizio, tra Lynley e la sua ex-fiamma ed attuale capo Isabelle Ardery (che finalmente metterà un punto fermo a quella storia che da almeno un paio di libri doveva essere già conclusa). L’inizio di una possibile futura storia tra Lynley e Deidre, la simpatica dottoressa veterinaria che abbiamo incontrato 3 libri fa, e che poi è rimasta nel limbo. Ora torna alla ribalta, con una schermaglia sul filo del cuore e della posizione sociale, nonché di qualche punto oscuro nel passato di Deidre. Ricordo infatti che Lynley è anche un Lord e che lavora per passione e non per guadagno. Mentre Deidre è sul lato borghese. Differenze che in Inghilterra si sentono, eccome. L’autrice inoltre inzeppa con altre storie senza sviluppi interessanti ed un po’ fini a sé stessa, come quella della mancata suor Domenica, ed altro che non vale menzionare. Mentre altre storie sopracitate lasciano possibili sbocchi positivi, tutto il resto della trama centrale è ben incartato, direi aggrovigliato, intorno alla (abbastanza) simpatica Barbara. Ricordate, o ve lo dico io, che lei aveva un debole per il pakistano Taymullah, nonché un trasporto emotivo verso la di lui figlia Hadiyyah. Inoltre, nel precedente romanzo, era tornata dal pakistano la madre di Hadiyyah, Angelina. Tutta la vicenda, che si svolge dal novembre al maggio dell’anno successivo, prende il via dalla scomparsa di Angelina con la figlia. Scomparsa legittimata dalla legge in quanto Angelina è la madre, e Taymullah, benché padre, non l’ha mai riconosciuta, né ha fatto test di paternità. Inoltre il pakistano ha già una moglie e due figli, anche loro pakistani, che vivono sempre a Londra, ma da cui non ha divorziato. Certo, dal punto di vista morale è un rapimento, anche perché Angelina scompare senza lasciare tracce. Qui comincia l’odissea negativa di Barbara. Non potendo indagare legalmente come poliziotta, convince l’amico a servirsi di un detective privato. Che ben presto si rivela un losco individuo, che lucra in maniera poco pulita sulla sua professione. E che dice ai nostri due di non aver trovato tracce delle scomparse. Traccheggiando tra il liscio e il brusco, arriviamo ad aprile, quando si scopre che Hadiyyah è stata rapita anche ad Angelina. La quale era fuggita dal suo nuovo amore, Lorenzo, in quel di Lucca. Qui nasce quindi il versante italiano della storia, imperniato sulla simpatica figura dell’ispettore Salvatore Lo Bianco, anche lui nobile tanto da vivere al centro di Lucca nella Torre di famiglia. Ma senza la moglie, da cui ha divorziato, e senza i suoi due figli (inciso: con una caduta di stile letterario, la figlia dell’ispettore si chiama Bianca Lo Bianco; improponibile!). Angelina accusa il paki del rapimento, lui si trasferisce a Lucca per aiutare le ricerche, con Lynley che fa da collegamento (in quanto il nostro parla anche italiano). Barbara rimane a fare stupidaggini a Londra, coinvolgendo, erroneamente, un giornale scandalistico, disubbidendo ai suoi superiori, ma scoprendo che il detective sapeva che Angelina era in Italia, e lo aveva detto al paki. Quando si scopre un biglietto di Taymullah e Hadiyyah di sola andata per il Pakistan, a Barbara cadono almeno quattro o cinque veli. L’amico pakistano, che sta diventando sempre più antipatico, in combutta con il detective aveva fatto rirapire la figlia, per poi presentarsi a Lucca come salvatore della patria. Però il detective intrallazzone aveva sub-appaltato il tutto ad alcuni italiani che fanno casino, rischiando di far fare una brutta fine alla figlia. Questa è tutta una storia nella storia, assolutamente ed inutilmente pesante. Sembra tutto finito con il ritrovamento della piccola. Invece no, perché subito dopo Angelina muore avvelenata. Tutti i sospetti cadono di nuovo sul paki, che ha motivi e mezzi per poterlo fare. Qui si apre tutta una parte poco sostenibile, allacciando i problemi di lavoro di Barbara, le sue delusioni verso Taymullah, il suo affetto per Hadiyyah, le sue stupidaggine con i giornalisti, i tentativi di ricatto e contro-ricatto con il detective inglese. Alla fine, e con molta fatica, sarà proprio Barbara, guardando un video che riprende Angelina e Taymullah alla TV, con tutti gli altri attori sullo sfondo, a risolvere il rebus. Intanto però ci siamo anche dovuti sorbire: le mosse sbagliate di Barbara in tutta Europa, Lynley che non sa che pesci prendere, Lo Bianco che litiga con il suo superiore, ma che alla fine sarà lui a risolvere brillantemente il caso (tra l’altro con un piccolo trasporto amorevole verso Barbara assolutamente inspiegabile). Come detto, alla fine, Barbara riguadagna punti avendo risolto il caso, molti cattivi, ma non tutti, vengono puniti, Taymullah e Hadiyyah si spera che non si facciano più vedere, Lynley, forse, comincia una nuova storia. Vedremo alle prossime puntate (ne sono uscite due in America). Ora direi che basta anche con questa tramona, un po’ troppo lunga, così come il libro. La storia non è sostenibile sempre, e questo non va a favore dell’autrice. Buoni, al solito, alcuni momenti ambientali. Personalmente, ovvio, ho apprezzato Lucca, oggetto di frequentazioni recenti e discretamente soddisfacenti. Mai dimenticare le passeggiate sui bastioni e la cena al ristorante in piazza Anfiteatro. Scusate la lunghezza, ora si passa ad altro.
“A volte non vediamo le persone come sono davvero. Preferiamo credere che siano come le vogliamo vedere noi, perché la verità sarebbe troppo dolorosa.” (223)
Martin Cruz Smith “Tatiana” Repubblica Agenda Noir 4 euro 7,90
[A: 27/07/2015– I: 28/12/2017 – T: 29/12/2017] - && e ½
[tit. or.: Tatiana; ling. or.: inglese; pagine: 283; anno 2013]
Un libro da fine anno, letto nelle more delle mie mansioni infermieristiche tra Balduina e Nomentano. Un libro che mi ripropone a distanza di anni un personaggio interessante, nei suoi inizi, ma che si è un po’ perso per strada. Cruz Smith, agli inizi degli anni ’80, fece un discreto boom editoriale con il suo “Gorky Park” dove mise in campo il poliziotto, allora sovietico, Arkady Renko. Ambientando le sue avventure in una Mosca in ebollizione, ma ancora non disgregata. Ricordo infatti a chi non li avesse presente che i primi tre libri pubblicati tra il 1981 e il 1992 formano una trilogia che culmina con la caduta dell'Unione Sovietica, nel Colpo di Stato dell’agosto del 1991. L'azione di “Gorky Park” si svolge prevalentemente in Unione Sovietica, “Stella polare” è ambientato a bordo di un sovietico peschereccio nel Mare di Bering mentre “Piazza Rossa” si destreggia tra la Germania occidentale e la Russia sovietica dell'era Glasnost. “Havana Bay” è ambientata a Cuba; “Lupo mangia cane” è ambientato nelle aree colpite dal disastro di Chernobyl. Mentre “Il fantasma di Stalin” restituisce Arkady a una Russia ora presieduta da Vladimir Putin, ed è seguito da “Tre stazioni” e “Tatiana” che per ora conclude il ciclo, tutte ancora a Mosca, ad illustrare il degrado attuale della Russia. Il difficile percorso di Cruz Smith è farci vedere come si evolve il personaggio di Arkady, nato culturalmente nella nomenklatura, a fronte anche dei cambiamenti ambientali. Sempre pronto a combattere bugie e corruzioni, anche per lavare l’onta di aver avuto un padre generale e stalinista, dopo la caduta del regime fa anche esperienze in Occidente. Ma anche da queste viene deluso, che ovunque c’è malaffare e corruzione. Così che ritorna stabilmente in Russia, cercando di afre quello che sa fare meglio. In questo, da “Lupo mangia cane”, aiutato da Zhenya, un orfano di Chernobyl con problemi di socializzazione, conosciuto per caso da Arkady che diverrà, nonostante problemi quasi insormontabili, il suo miglior amico ed una sorta di padre putativo. Ultimo elemento distintivo è anche la presenza, per alcune puntate, di donne cui Arkady si lega, almeno temporaneamente. Così abbiamo Irina, per le prime tre uscite, poi per altre tre la dottoressa Kazka. Ma niente è stabile in questi anni turbolenti. Così che questo ultimo romanzo si apre ancora una volta sulle ultime miserie putiniane: mafiosi che muoiono e giornalisti scomodi che “si suicidano”. Mentre quindi Arkady ed il suo aiutante Orlov stanno con gli occhi aperti per vedere se si scatena qualche lotta di mafia in seguito alla morte, violenta, del mafioso Grigorenko, una giornalista, Tatiana Petrovna, autrice di articoli scomodi per tutti, casca dal balcone di casa sua. Suicidio o omicidio? Benché non coinvolto direttamente, essendo Tatiana amica di amici, Arkady cerca di capirne di più, scoprendo ben presto che il corpo è sparito, e poi cremato. Tra l’altro, Tatiana era in possesso di un taccuino di un interprete pentalingue che aveva fatto da tramite in una riunione poco chiara a Kaliningrad. Anche l’interprete muore. E Arkady scopre che la riunione era presieduta proprio da Grigorenko. Senza molto mordente, seguiamo allora il figlio del boss che cerca di impadronirsi del taccuino, Arkady che non ne capisce un acca, mentre Zhenya, in rotta con il padre putativo, comincia ad avere dei barlumi. Aiutato da Lotte, una sua coetanea e l’unica che è riuscita a batterlo agli scacchi. Mentre Zhenya e Lotte, faticosamente, e pericolosamente, arrivano a decifrare il tutto, dando ad Arkady elementi per incastrare il figlio del boss, dei cinesi mafiosi essi stessi, nonché qualche intrallazzone del Ministero della Difesa russa, Arkady sposta il suo raggio investigativo a Kaliningrad. Dove, scavando nei misteri locali, scopre che Tatiana è ancora viva, che la “suicidata” è la sorella, che ci sono appunto trame mafioso-istituzionali da sventare. Cosa che fa operando al meglio, anche se non entro nel come e nei perché. Né in chi c’è e chi no. Ovvio, dato il “tipo” Arkady che finisca anche a letto con Tatiana, mentre nasce una interessante simpatia tra Zhenya e Lotte. Vedremo se sfocerà in qualcosa di meglio. Che questo libro, appunto, vale lo spazio di una vacanza natalizia. Ma che ha due meriti collaterali, anche se dal libro poco dipendenti. Il primo è di portare alla ribalta l’exclave di Kaliningrad, cioè di una parte di territorio di uno stato sovrano che giace all'esterno dei confini della nazione-madre. Nella fattispecie poi, Kaliningrad non è altro che la vecchia Köningsberg, quella che diede i natali, in epoca prussiana, al grande Immanuel Kant. L’altro merito è che, parlandone amichevolmente, è nata l’idea di organizzare un viaggio tra quelle zone, magari puntando anche a Smolensk e San Pietroburgo. E sapete che quando si parla di viaggi, il vostro lettore è sempre in prima linea. Vedremo, anche se sarà difficile.
“- Tu non sei un detective e nemmeno un investigatore. – Sono un poeta, il che è più o meno la stessa cosa.” (146)
Faye Kellerman “Kippur – Il giorno dell’espiazione” Repubblica AgendaNoir 15 euro 7,90 (in realtà, scontato a 4,75 euro)
[A: 03/10/2015 – I: 13/01/2018 – T: 17/01/2018] - &&& -
[tit. or.: Day of Atonement; ling. or.: inglese; pagine: 410; anno 1991]
Non intendo replicare la (mia) introduzione al primo libro di Faye Kellerman di cui scrissi un paio di anni fa, se non per riprendere alcune temi e correggere imprecisioni. Faye non è mia coetanea, come scrissi, ma ha un annetto di più, essendo del luglio del 1952. Ma è vero che a circa 35 anni comincia a scrivere la saga di questi detective – investigatori ebrei ortodossi che vivono a Los Angeles e sono ben inseriti quanto meno nella cultura americana, anche se vi permangono mantenendo i loro riti e, tendenzialmente, il loro modo di vivere. Due anni fa parlai del primo libro della serie, in termini giustamente e concordemente elogiativi. Un tentativo onesto di dar vita ad una descrizione inusuale del mondo americano. Questa seconda lettura (che tuttavia è il quarto libro della serie) ribadisce alcuni punti interessanti, anche se a volte è lenta, e fuori contesto (giallo). Intanto, nei due libri “saltati” i due protagonisti della serie, Peter Decker e Rina Lazarus, sono sempre più fidanzati ed alla fine sposati, tanto che questo quarto libro inizia con la loro luna di miele. Peter ha una figlia dal suo precedente matrimonio, Cindy, che mi si dice entrerà meglio nella serie più avanti (ho scoperto che alla fine sono circa 25 i libri prodotti da Faye su questo tema). Rina ha due figli, Sammy e Jacob, dal suo primo matrimonio (il primo marito è morto per un tumore al cervello), ed è un’ebrea ortodossa (così come l’autrice). Ho inoltre scoperto, nelle more del libro, la differenza tra ebreo ortodosso (quelli che seguono più strettamente e si attengono con maggior fedeltà alle leggi della Torah scritta e di quella orale, ricevute, secondo la tradizione ebraica, da Mosè direttamente da Dio sul monte Sinai) e la corrente (molto americana) dell’ebraismo conservativo (spesso tradotto con conservatore, con un termine inappropriato) dove le leggi orali devono essere aggiornate al momento attuale in cui viviamo (una sorta di ebraismo riformato). Mi scuso della parentesi ebraica, ma la religione è una delle componenti fondamentali della serie, che spesso ruota proprio intorno a temi religiosi. Come questo libro, appunto, che giustamente in inglese si chiama “Giorno dell’espiazione” o, in termini ebraici, “Yom Kippur”. Non solamente “Kippur” come nell’edizione italiana, che tendenzialmente non vuole dire nulla. Perché Rina e Peter, per la loro luna di miele, decidono di andare a trovare la famiglia allargata di Rina a New York (i due vivono a Los Angeles) anche perché coincide con il “Rosh haShana”, il capodanno religioso ebraico, primo dei 10 giorni di pentimento, durante i quali l’ebreo esamina il proprio anno passato per individuare i peccati commessi, e culmina appunto con lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, quando, pentiti, si viene redenti dai peccati. A New York, Peter ha un primo grande stravolgimento: scopre, durante il “Seder”, la cena di capodanno, che una stretta amica della famiglia Lazarus, Frida Levine, non è altro che la sua madre biologica, che lo abbandonò in fasce e lo diede in adozione. Per questo, anche se adottato da una famiglia cattolica, essendo l’ebraismo matrilineare, Peter è ebreo a tutti gli effetti, e non un convertito. Conosce quindi i suoi fratellastri Ezra, Shimon e Jonathan (costui pecora nera, in quanto conservativo e non ortodosso). Ovviamente, sia per non essere lui in imbarazzo, sia per non sbugiardare la madre Frida davanti ai parenti, entrambi tacciono di questa relazione, anche se il libro è pieno di pagine su questo tema, e sul tema dell’abbandono, ed altri accidenti minori (quello che rende un po’ meno vivace il libro stesso). Secondo e più importante accadimento, Noam, il secondo genito di Ezra, scappa di casa, insieme ad un mascalzone psicopatico amante dei coltelli di nome Hersh. Tutta la prima parte è dedicata alla ricerca di Noam all’interno della comunità ebraica newyorchese, dove Faye ci introduce in tutta una serie di ritualità ebraiche locali. Nella seconda, una volta scoperta la fuga di Noam e Hersh a Los Angeles, è invece dedicata alla ricerca dei due da parte di Peter e Rina, tornati a casa. Salto tutta una serie di passaggi, poco rilevanti (e purtroppo anch’essi discretamente pallosi), per arrivare all’epilogo. Che Hersh, senza soldi, rapina, con o senza Noam, gay isolati, arrivando anche ad ucciderli e sfigurarli con i coltelli. In base alla conoscenza di Peter del territorio, lui e Rina arriveranno a scovarli, anche se, durante la caccia, il loro rapporto è spesso messo in crisi dal protettivismo di Peter e dall’indipendenza di Rina. Come già ci aspettiamo dal titolo, alla fine tutto si condenserà nello “Yom Kippur”, dove, visto che avete molta immaginazione, potete indovinare cosa accadrà e come. Alla fine, c’è poco di giallo, di nero o di thriller, e molto di religione e rapporti umani. Non che sia un peccato, ma la resa finale è un filo inferiore alle attese.
Anne Holt “Quota 1222” Einaudi euro 13
[A: 01/11/2016 – I: 16/02/2018 – T: 18/02/2018] - &&& -
[tit. or.: 1222; ling. or.: norvegese; pagine: 354; anno 2007]
Ottavo capitolo della saga che la scrittrice norvegese Anne Holt dedica al suo personaggio principe, Hanne Wilhelmsen. Pur avendoli letti quasi tutti (ho saltato un paio di romanzi molto precedenti), ed avendo letto anche la saga parallela dedicata ai detective Vik&Stubø, mi sono perso, nelle more, il capitolo in cui la nostra Hanne viene colpita da una pallottola alla spina dorsale che la costringe da quel momento in poi su di una sedia a rotelle. So di averne letto, ma ho scordato quando. In ogni caso, ormai è assodata la disabilità di Hanne, e qui, in un romanzo interessante anche se con qualche caduta (di stile, ah ah), viene imbastita una trama interessante. Come per far fare un salto all’indietro nelle ormai avanzate tecniche poliziesche, e per fare in modo che la nostra disabile possa muoversi (ah ah, di nuovo) nelle indagini, la scrittrice imbastisce una trama molto “teatrale”. Hanne si sta recando da Oslo a Bergen per un consulto sui suoi problemi motori. Non volendo prendere l’aereo, per evitare imbarazzi, decide di usare il treno. È un inverno da paura, ed il treno viene coinvolto in un incidente ferroviario, quando raggiunge quota 1222, nella cittadina di Finse. Tutti i quasi duecento passeggeri vengono allora accolti da un albergo locale e dalle sue dependance. Bloccati dall’uragano Olga, sono costretti ad aspettare il salvataggio. E nelle more, cominciano a morire delle persone. Prima il macchinista per lo scontro, e ci può stare. Poi un passeggero per infarto. Infine, due preti, o meglio due ecclesiastici, che i luterani norvegesi sono un po’ particolari. Il primo con un colpo di pistola, il secondo con un ghiacciolo affilato. Nell’andamento claustrofobico dell’isolamento forzato, Hanne, riconosciuta da un dottore come poliziotta, viene coinvolta nell’imbastire un’indagine. Che sarà molto complicata proprio per la situazione estrema che si ritrovano ad affrontare, nonché per alcuni elementi che concorrono a complicare ulteriormente il tutto. C’è una carrozza misteriosa attaccata la treno che forse porta un personaggio famoso o forse un personaggio pericoloso, visto che è guardata a vista da gente armata. Ci sono due (forse) curdi che guardano, controllano, e non socializzano. C’è il giovane Adrian, quindicenne in fuga solitaria, che prima si attacca ad Hanne, poi trova meglio unirsi in comunella con Veronika, una ventiquattrenne molto dark e molto stramba. C’è infine un volto televisivo (giornalista? Capopopolo? Altro?) molto islamofoba, salutista e soprattutto desiderosa di prendere lei in mano la situazione, non avendone però capacità, ma solo carisma mediatico (e questa volta non basta). A Finse, invece, ci sono Grieg, che ha coordinato i soccorsi e che diventa l’aiutante preferito di Hanne, e Berit, la direttrice dell’albergo, energica e molto organizzata. In tutto questo Hanne, per seguire il filo delle morti violente, non può che affidarsi al ragionamento, all’osservazione, ed anche a domande che, qui e là, affiorano mentre la situazione (metereologica) continua a precipitare. La capacità dell’autrice è di restituirci l’atmosfera di chiusura che si respira nell’albergo, le tensioni dovute all’aumentare del maltempo, ed alla comprensione, di tutti, che “c’è un assassino tra noi”. Quello che per Hanne risulta molto strano, tra l’altro, è che il primo morto, Cato, era anche molto conosciuto. Quasi che tutti, prima o poi, hanno avuto a che fare con lui. Non solo passeggeri del treno, ma anche Grieg e Berit, nonché Roar, il secondo morto. Certo, questi era anche lui un prete, ed avevano (almeno così capiamo) trascorsi comuni. Capiamo anche che Roar viene ucciso perché, come dice ad Hanne, ha capito chi ha ucciso Cato. Sarà soltanto risalendo ad una vicenda di una decina di anni prima che anche Hanne ha l’illuminazione. In un bel finale, quando finalmente arrivano i soccorsi, e tutti vogliono tornare a casa, che Hanne, scenograficamente alla Maigret, ricapitola gli avvenimenti e svela, ai presenti ed a noi, chi ha fatto cosa, come e perché. Ecco, mentre tutta la costruzione della trama interna all’albergo isolato, in un crescendo di tensione, ha un suo fascino, lo svelamento l’ho trovato un po’ moscio, quasi appiccicato, e chi ne legge mi saprà dire. Come un po’ messi a caso, accenni vari alla vita altra di Hanne, a Nefis che l’aspetta, alla bambina ed alle sue vicende private. Vedremo come si evolverà nel futuro. Per ora, continua ad essere una buona lettura, e, ripeto, una interessante costruzione “anti-tecnologica”.
Terza trama di aprile, e per tirarci un po’ su un allegato di malizie “scandalose” per sorridere e rimanere allegri.
Mi scuso anticipatamente di qualche mancanza di presenza, ma da un lato l’allestimento campagnolo prende più tempo e spazio di quanto pensavo all’inizio. Dall’altro, come i miei più vicini sodali sanno, si avvicina il momento del mio viaggio celebrativo ed augurale. Per cui sono costretto a lasciarvi senza altri commenti per almeno due settimane. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

APRILE 2018
Per questo aprile effervescente eccoci ad una serie di libri “scandalosi”.

COMPRESSE EFFERVESCENTI PER BRIVIDI DA RELAZIONI SCANDALOSE

Libri citati
Pierre Choderlos de Laclos       “Le relazioni pericolose”
Vladimir Nabokov                    “Lolita”
Marguerite Duras                    “L’amante”

Pierre Choderlos de Laclos “Le relazioni pericolose”
È uno dei capolavori della letteratura francese del XVIII secolo nonché uno dei più famosi e fortunati romanzi epistolari di tutti i tempi. Tutt’altro che datato, “Le relazioni pericolose” fa ancora venire i brividi per l’attualità di alcune sue tematiche. I brividi di passioni pericolose diventano brividi di paura al pensiero di quanto facilmente la seduzione possa trasformarsi da “ars amatoria” in arma di distruzione di massa. E quello che accade in questo romanzo in cui nessuno si salva dalle spietate e subdole macchinazioni ordite dal visconte Valmont e dalla marchesa Merteuil. I due perfidi libertini, astute anime nere che pianificano diaboliche mosse come strategie di guerra, agiscono con la destrezza di esperti burattinai, muovendo con i fili di una seduzione fatale la giovane e ingenua Cécile, l’appassionato Danceny e la romantica madame de Tourvel, manovrandone con destrezza a proprio vantaggio insicurezze, debolezze e pulsioni. Il fine unico di questa messinscena è appagare la propria vanità, dimostrando attraverso giochi erotici e intellettuali il potere di manipolare le persone. Il secolo dell’Illuminismo sta volgendo al termine, i lumi cominciano ad affievolirsi, la ragione ha perso il suo lume trasformandosi in esercizio di malefica persuasione e l’intelletto lascia il posto all’astuzia, perversa forma di plagio che cerca di soggiogare anche l’amore. Il libertino non è più un anticonformista, ma il licenzioso e dissoluto sostenitore di una condotta immorale che si traduce nell’esercizio di una perversa e narcisistica volontà di dominio. Dietro la maschera di nobili aristocratici, la marchesa e il visconte si dilettano a compiere misfatti terribili in nome della propria libertà di divertirsi. Siamo nel 1782 e la Rivoluzione francese è alle porte: voleranno teste e cadranno maschere, presto i lumi si spegneranno definitivamente, i cuori si infiammeranno di Romanticismo e l’amore, sofferto e disperato, trionferà. Ma non nel romanzo di Choderlos de Laclos dove l’amore viene sconfitto e mortificato anche se i malvagi vengono puniti, feriti là dove volevano trionfare, vittime di un delirio di onnipotenza che li conduce all’autodistruzione. Valmont muore ma, cosa più atroce, solo dopo aver perso l’amore, lui che pensava di esserne immune, mentre la marchesa perde la sua rispettabilità. Così, da romanzo incentrato su “liaisons amoureuses”, “Le relazioni pericolose” diventa un drammatico e amaro atto d’accusa contro cinismo, ipocrisia e vanità.
Come tutte le storie in cui passione e seduzione si mescolane senza veli e freni, mostrando fatti e misfatti sotto le lenzuola anche “Le relazioni pericolose” fu considerato all’epoca empio e scandaloso. Scritto con uno stile raffinato ed elegante, non c’è nulla di pruriginoso in questa sottilissima indagine sui meccanismi delle emozioni umane. Se vi state chiedendo dove siano i brividi promessi, è presto detto. In questa storia dove si parla d’amore dalla prima all’ultima pagina nessuno ama veramente ma tutti vengono ingannati e tutti si ingannano in un perverso gioco erotico. Come dichiara il frontespizio del romanzo, si tratta di “lettere raccolte da una società e pubblicate per l’istruzione di qualche altra” e, infatti, quello che ancora oggi “Le relazioni pericolose” ha da dire, mette i brividi. Di eros, ma anche di paura al pensiero di come l’amore possa diventare un pericolosissimo strumento di potere e manipolazione. I libertini oggi sono fuori moda, ma la vanità di una società che ruota intorno alla promozione della propria immagine rischia sempre di trasformare la seduzione in un gioco mistificatorio per mostrare la capacità di dominare e di vincere, sempre, anche in amore. Tutto sommar fa meno male un colpo di frustino sul sedere dato da Mr Grey nelle “Cinquanta sfumature” che le menzogne di tanti visconti e marchese in borghese.      “Le relazioni pericolose” è indicato per i soggetti a rischio di influenza. Influenza negativa, ovvero chi è particolarmente sensibile al potere ammaliatore di seduttori seriali. L’incanto della prosa di Choderlos de Laclos svela tutta la forza mistificatoria della parola, aumentando le difese immunitarie in chi, assetato d’amore e attenzioni, è afflitto da uno stato confusionale che gli impedisce di discernere verità e bugie. Avviluppando con la sua trama teatrale, il romanzo stimola la creazione di anticorpi utili a contrastare il rischio di essere imbambolati e raggirati, mettendo in guardia dalle “liaisons dangereuses”.
La sua formula epistolare lo rende particolarmente tollerato dai lettori amanti del gossip. Leggendo il carteggio tra il visconte e la marchesa, l’impressione è quella di impicciarsi di fatti altrui e, così, tra fremiti di curiosità pettegola e di piacere sensuale, si rabbrividisce scoprendo le falsità, gli inganni, le invidie e le cattiverie che possono nascondersi dietro l’attrazione.
In caso la seduzione non fosse mai stata la vostra arma vincente, la lettura vi garantirà un rapido sollievo unito alla piacevole sensazione di essere una persona onesta e pulita.
Per un’eventuale terapia cinematografica sostitutiva, si può ricorrere a “Le relazioni pericolose” di Stephen Frears con John Malkovich, Glenn Close, Michelle Pfeiffer, Uma Thurman e Keanu Reeves per una trasposizione piuttosto fedele anche se un po’ accademica. In alternativa, “Valmont” di Milos Forman con Annette Bening e Colin Firth è una versione più originale che si concede anche qualche libertà.
Vladimir Nabokov “Lolita”
Pubblicato nel 1955 da una casa editrice erotica francese, “Lolita” ha letteralmente e letterariamente travolto il pubblico diventando subito un best seller. A sconvolgere, e stuzzicare, i lettori è stata la scelta di raccontare la relazione molto pericolosa e piuttosto morbosa tra un annoiato professore universitario e una dodicenne smaliziata e provocante. L’impatto del romanzo è stato tale che non solo ha rafforzato lo stereotipo dell’uomo maturo che perde la testa per una ragazzina (la sua figliastra, per giunta), ma la parola “Lolita” è diventata sinonimo di adolescenti con la tendenza ad attirare l’attenzione di uomini generalmente più grandi con una precoce e ambigua carica erotica fatta di malizia e innocenza. L’incipit ci catapulta subite al nocciolo della questione: “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia”. Come un pensiero che s’insinua nella mente (per poi scendere verso i lombi) e non l’abbandona più, la dodicenne diventa l’ossessione di Humbert Humbert, trasformandone la vita in un inseguimento folle per le strade degli Stati Uniti nel tentativo di afferrare l’inafferrabile, quella luce, quel fuoco fatuo che lo porterà dritto nel buio di una prigione, oltre che nell’oscurità dell’animo umano. Dolores è il vero nome di Lolita, ragazzina spregiudicata, ribelle, noiosa viziata, insensibile, egoista, bella, sfuggente ed esasperatamente monella. Perdonate il gioco di parole, ma da quando il professore la vede per la prima volta, sono “dolores de panza”: per possederla si spinge, senza troppe remore, oltre i limiti dell’abiezione umana, arrivando alla pedofilia, all’incesto e all’omicidio. Humbert rievoca la sua delirante storia dalla cella della prigione dove è richiuso per aver assassinato l’uomo che gli ha portate via la sua Lolita. Mentre aspetta di essere giustiziato, invece che tacere, almeno per pudore, racconta la sua ossessione cercando perfino di accattivarsi la simpatia del lettore, giustificando in chiave psicanalitica la sua passione malata. Ma il lettore non deve lasciarsi manipolare dai ripetuti tentativi del protagonista di nobilitare la sua perversione, Humbert è colto e astuto e il rischio è di diventare suoi complici. Non vi lasciate intenerire perché non è affatto pentito: “In fondo io potrei anche accertare di essere messo in carcere per aver violentato una ragazza ma non per aver ucciso l’uomo che me l’ha portata via. Quelle quello che ho fatto è stato giusto”. A rendere spaventoso e potente il romanzo di Vladimir Nabokov è la scelta di non ricorrere a parole o dettagli osceni per raccontare questa relazione erotica e perversa. Il suo stile è elegante, allude, evoca senza mai descrivere. Come già per “Le relazioni pericolose”, anche se in maniera diversa, ci ritroviamo scossi da fremiti che hanno a che fare con la paura più che con l’eros. A spaventare è ancora il pericoloso fascino che la parola e la seduzione esercitano sull’animo umano, fascinazione che possiamo provare sulla nostra pelle durante la lettura di “Lolita”. Nabokov, infatti, è un principe del male, un mago, un genio perché irretisce il lettore con il suo stile, lo tiene incollato alle pagine, voglioso di ascoltare le sue parole in uno stato di eccitazione, trasformando così il disumano protagonista, il depravato letterario per eccellenza, in un affabulatore capace di incantare con le parole, attirando nella sua ragnatela, invischiando nella sua torbida storia, coinvolgendo a tal punto con la sua sfacciata confessione da spingere quasi ad assolverlo. Humbert parla divinamente (perché Nabokov scrive divinamente) e si corre il rischio di perdonargli tutto. Diverso, ma altrettanto perverso, è il potere seduttivo di Lolita. Lei è una “ninfetta”, ovvero una di quelle “elette creature” “comprese tra i confini dei nove e i quattordici anni che rivelano a certi ammaliati viaggiatori la propria vera natura che non è umana, ma di ninfa, cioè demoniaca”. Riesce diabolicamente a impadronirsi della mente di Humbert con la possessione erotica, esercitando il suo precoce potere sessuale. Non c’è traccia d’amore in questo romanzo, ma solo ossessione, e non si palpita di passione né di altro piacere se non quello dell’illecito e del proibito.
Se assunta nelle giuste dosi e con mente ben disposta, la scrittura di Nabokov aiuta a contrastare i rischi della seduzione verbale e sessuale (la cura si può affiancare, per affinità, a una somministrazione delle “Relazioni pericolose”). Se ne prescrive una lettura approfondita a tutti quegli uomini che rischiano di essere contagiati dal fascino perverso delle ninfette, ma anche a tutte le potenziali ninfette che giocano con la propria carica seduttiva stuzzicando il piacere altrui. Se il titolo del romanzo è diventato sinonimo di ragazzine precoci e maliziose con la tendenza a sedurre uomini più grandi, vuol dire che la malattia è piuttosto diffusa. Il mondo è pieno di Lolite, ma anche di Humbert, perciò è bene immunizzarsi per evitare un eventuale contagio.
Come coadiuvante della cura, sarebbe opportuno procurarsi la versione cinematografica di Stanley Kubrick. Come lo scrittore russo, che partecipò alla sceneggiatura, anche il regista ha lavorato sull’erotismo soprattutto per sottrazione, per allusioni ed elisioni, riuscendo a stuzzicare morbosamente la curiosità dello spettatore senza mai scadere nella volgarità. Basta un piede mosso con ben studiata nonchalance per trasformare la giovane Lolita (nel film più grandina per evitare problemi con la censura) in una maga Circe minorenne. James Mason è Humbert, Sue Lyon è la sua ossessione mentre uno straordinario Peter Sellers è l’uomo che gliela porta via.
Un consiglio: un’efficace compressa per brividi di relazioni scandalose è “L’amante” di Marguerite Duras. Quando fu pubblicato nel 1984 fece scandalo per il linguaggio forte e la cruda veridicità della trama che racconta il legame d’amore e sesso tra un’adolescente e un uomo maturo, un’appassionata storia d’amore che sfida le convenzioni. Ambientato nell’Indocina degli anni Trenta e fortemente autobiografico, il capolavoro delia scrittrice francese è una cura intensa, forte e sconvolgente con un persistente retrogusto dolce e malinconico.

Commenti

Non ho letto il primo, pur avendo visto il film, quindi non ne parlo. “Lolita” invece rappresenta uno dei miei due punti neri: uno dei due libri che ho iniziato e non sono riuscito a terminare. Mi ha annoiato dopo poche pagine. Chissà se quando ne leggerò (e quando vi dirò l’altro libro abbandonato). Mentre ho letto, e leggerò ancora di Marguerite Duras.
Marguerite Duras “L'amante” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 18 settembre 2011]
La scrittura è la solita, difficile andata su e giù per la lingua, che a volte mi lascia indietro. Ma il libro è bello, intenso, in alcuni punti folgorante. Ho sempre un rapporto difficile con la scrittrice e non sempre ne sono riuscito ad apprezzare scritti (come l’ultimo recensito su Occhi blu…). Qui in definitiva però mi è piaciuta, soprattutto per lo sforzo autobiografico di ricostruire, più di cinquanta anni dopo, una vicenda di formazione della giovane Marguerite. Siamo intorno agli anni 30, in Indocina, e lì, sulle rive del Mekong sboccia l’amore proibito tra la quindicenne francese ed il ricco e trentenne cinese. Amore proibito dalle convenzioni, dall’età dei protagonisti, osteggiato dalle due famiglie, inviso alla società coloniale che comunque non accetta relazioni tra asiatici ed europei. Il racconto, tutto in prima persona, senza dialoghi, va su e giù tra le vicende, tra le piccole cose della vita, ma non è solo un racconto d’amore o sull’amore. Perché è un racconto sulla vita della giovane francese sperduta nella landa indocinese. E dove la Duras racconta i piccoli e grandi drammi della sua vita: l'odio per il fratello maggiore, il rapporto conflittuale con la madre e l'omosessualità latente della stessa Duras nei confronti dell'amica Heléne. Sono folgoranti alcuni momenti (il primo traghetto sul fiume, alcune scene d’amore con il bel cinesino, il cappello da uomo in testa a Marguerite, il ritorno in Francia, la morte senza riappacificazione con la madre). E molto spesso non sono le vicende ad essere narrate, ma il modo in cui la scrittrice le vive, il modo in cui le racconta ed è sul filo dell’immaginazione che la Duras ritrova sé stessa a 16 anni. Ed è forte e duro il modo in cui esce fuori il rapporto con la madre. Ah quanto sarebbe stato bello, utile dirsi tutto in faccia, magari urlando, invece di andare avanti tra tutte le cose non dette. Ma detto di questi punti a favore, rimane questo modo di uscire dal narrato, di non concludere, di saltare qua e là nel tempo e nello spazio, senza in realtà volere (riuscire) a chiudere tutti i discorsi aperti. È qui che la scrittura si fa difficile, è qui che, a volte, perdo un po’ il filo e non riesco ad esprimere un giudizio totalmente positivo sul libro. Ma è stato utile leggerlo (ed anche veloce, che il racconto non tocca le 100 pagine). Questo, sì, un classico del Novecento (e niente a che vedere con l’orrendo film che poi se ne è tratto).
“Sono come voglio apparire, anche bella se gli altri lo vogliono, o carina … insomma posso diventare come gli altri vogliono che sia.” (19)
“Fin dai primi giorni [del nostro amore], sapendo che è impossibile un avvenire in comune, eviteremo di parlare dell’avvenire.” (43)

Finalino

Ovvio che il termine scandaloso l’ho anche io usato in termini impropri, che nulla ha di scandalo, soprattutto il libro della Duras. Ripeto, di Nabokov ho letto altro, e con piacere. Ma della grande scrittrice francese leggo e leggerò ancora.


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