Sia perché trattiamo di quattro
libri usciti nelle varie collane del “noir” italiano di Repubblica, sia perché
da una prima “quasi” sufficienza, i giudizi vanno in calando, sia infine, ma
non se parli ora, per tutte le disavventure che questo mese ci sta portando.
Rimane di certo una simpatia per Simi che aspetto ad altre prove, una curiosità
per possibili riscatti di Ervas, anche se con molti punti interrogativi, ed una
sostanziale indifferenza verso altri scritti di D’amaro.
E con una piccola premessa: come
spesso dopo viaggi avventurosi, altri si aggiungono a queste mie mail
periodiche. Se hanno piacere resteranno, se si stufano, basta dirlo, e
rimarranno soltanto nelle mail dei viaggi (da cui nessuno le toglierà mai).
Giampaolo Simi “Cosa resta di noi” Repubblica Italia Noir 28 euro 7,90
[A: 06/12/2016 – I: 08/03/2018 – T: 10/03/2018] - &&&-----
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 236;
anno 2015]
Per
buona parte della lettura questo libro mi lasciava perplesso. Come storia, poco
“noir”, come nelle prime 150 pagine, è interessante, ma non fa scattare molle
particolari. L’ultima parte la fa piombare direttamente nelle atmosfere del
mitico Scerby, tanto che non sono meravigliato che abbia, per l’appunto, vinto
il Premio Scerbanenco 2015. Alla fine, a lettura ultimata, posso dire di essere
ancora perplesso. Infatti, la storia in sé è ben divisa in due parti di cui
certo la prima fa da traino al lancio della seconda, ma che, a parte l’episodio
che la tinge di nero, poteva continuare ad essere una pallida storia d’amore e
di corna nella riviera versiliese. Abbiamo il lui, narratore in prima persona,
Edo, bagnino tuttofare dei bagni Antaura (stabilimento esistente a Viareggio,
ma qui preso solo come “location” dell’azione). Ad un certo punto della sua
storia, si innamora, ricambiato, della figlia del padrone, la bella Guia. Più
giovane, di bel mondo, tendenzialmente scrittrice, ma anche giornalista, PR, ed
altro. Matrimonio d’amore, che naviga bene sull’orlo delle frequentazioni
viareggino-romane. Fino a che i due si mettono in testa di avere un figlio.
Purtroppo, azoospermia (anche se non totale) e fibromi rendono difficile il
processo, motivo per cui i due si imbarcano in lunghe sedute ospedaliere ed
altre diavolerie ginecologiche, senza però che si vada avanti di un passo.
Ovvio che la coppia entri in una crisi latente, che culmina nella decisione di
abbandonare il processo. Contemporaneamente a questa decisione avvengono due
fatti importanti: Edo, come direttore dei bagni, decide di avviare una
ristrutturazione per la nuova stagione, e Guia termina un libro dedicato alla
lotta per avere un figlio. Edo conosce così la responsabile del cotto da posa,
Anna, quarantenne “abbastanza…”. Cioè abbastanza simpatica, abbastanza brava,
abbastanza avvenente. Si infioretta così un balletto tra il dire e il fare, in
cui Edo non fa un passo più lungo di mezza gamba, eppure entra nelle simpatie
di Anna. Che ha una storia dura alle spalle, e neanche tanto alle spalle. Si
accompagnava con tal Gianni Giorgi in arte Giangi, un comico da strapazzo che
imperversa per i lidi toscani come molti comici d’avanspettacolo. Che ha un
paio di macchiette interessanti (tipo alcune da Zelig minore), che gli danno un
minimo di risonanza. Peccato che sia anche alcolista e manesco. La prima tara
lo porta a cadere con un tonfo quando avrebbe potuto avere successo, la seconda
lo porta in un rapporto conflittuale con Anna. Che lo lascia, ma che lui non
molla, continuando a perseguitarla. Sull’altro versante, il libro di Guia sulla
non-nascita del bambino viene cestinato dall’editore, facendo piombare la donna
in una depressione profonda: no libro, no bimbi, cosa c’è nella vita? Anche la
lontananza tra Edo e Guia non favorisce la distensione ed il ricomporre il loro
stato di crisi. Anzi lo esaspera, con Guia che tenta di tutto, imbarcandosi in
mille sterili rivoli, ed Edo che invece sembra tirarsene fuori, provato dalle
difficoltà della convivenza e senza una reale via di sbocco. Il punto di svolta
si ha il 14 febbraio (casualmente San Valentino): ormai esasperato da Guia, Edo
cede e scopa con Anna, mentre esce incontra Giangi che sopraggiunge, il giorno
dopo Anna è scomparsa. Da qui nasce la seconda parte falsamente noir, anche se
come detto con atmosfere alla Scerby. È ovvio, anche se nessuno sembra dirlo,
che è stato Giangi. Ma come? Ed il corpo? L’interesse di Simi è invece su
altro: le ripercussioni su Edo, quelle su Edo e Guia, quelle sui media (Giangi
colpevole o innocente in tutte le trasmissioni TV?). Edo cerca di tirarsi
fuori, ma Guia invece si tira e lo tira dentro. Con tutta una serie di note
stonate che noi avevamo visto a pagina due, e che Edo vede a pagina 200. C’è
tutta la parabola mediatica che sembra interessare Simi: Giangi sulla polvere,
poi di nuovo sull’altare, Guia che lo intervista, Giangi che torna sulle scene,
Guia che ne diventa l’amante, Edo che si allontana, una scena “finto madre” con
faccia a faccia tra Giangi e Edo, l’ultimo spettacolo, irritantemente inutile,
di Giangi. Finalmente, e ce n’è voluto, Edo capisce che è meglio andarsene. Non
sappiamo dove evolverà la sua vita ora che fa il tuttofare su di uno yacht
lontano dalla Versilia. Né diciamo, anche se sappiamo, cosa sarà di Guia, di
Giangi, del libro di Guia su Giangi, ed altre vicende in minore. Quello che
sappiamo, o pensiamo di sapere, o ipotizziamo, e che nessuno troverà Anna, e
nessuno sarà incolpato della morte. Per riuscire in questo finale interessante,
Simi ha un bel “coup de theatre”, che è realmente il punto nero forte del
libro. Se non avesse avuto questa idea, che sicuramente non vi dico, sarebbe
caduto molto in basso. Così diventa un libro strano eppur interessante, palloso
nella prima parte, intrigante nel finale. Io finisco con il rimanere ancora
perplesso, sulle scelte di Repubblica e sulla scrittura di Simi. Ma ho letto di
molto peggio. Quindi va bene così.
Fulvio Ervas “Finché c’è prosecco c’è speranza” Repubblica Italia Noir 24
euro 7,90
[A: 09/11/2016 – I: 11/03/2018 – T: 14/03/2018] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 252;
anno 2010]
Quando
lessi il titolo per la prima volta provai una immediata simpatia per questo
libro. Purtroppo non ricambiata dal libro stesso, ora che l’ho finalmente
letto. Non che Ervas non abbia delle frecce al suo arco, ma il libro è il
quarto episodio basato sulle gesta di un simpatico ispettore di padre iraniano
e madre italica, l’ispettore Stucky. Questo poteva essere un atout, se non che
Ervas non ci facilita il compito, facendo finta che noi si sappia tutto
dell’ispettore e del suo mondo, partendo in quarta con la storia ed i suoi
contorni. Purtroppo noi si sa poco, e solo a fatica riusciamo a districarci nel
mondo di Stucky. Dove abbiamo, almeno così ho ricostruito io, una poliziotta
veneziana, tal Teresa, che si accompagna con lui, condividendone dei momenti
molto, ma molto intimi, uno zio iraniano che vende tappeti, due sorelle, Sandra
e Veronica, affiatate nel mettere in difficoltà il nostro, cercando anche di
circuirne la virtù (e forse riuscendoci, ma sul fatto cala presto un velo
discreto). Dall’altro lato, quello pubblico, abbiamo la Questura di Treviso,
con il commissario Leonardi, prossimo alla pensione e che cerca in ogni modo di
percorre i sentieri meno impervi, scansando qualsiasi pericolo, soprattutto se
le vicende si avvicinano troppo alla politica ed altre “magagne”, e gli
appuntati Landrulli, sempre alle calcagna di Stucky e Spreafico, che invece fa
da palo per il commissario. Tutto questo mondo pieno di tic e di cose che
dovremmo sapere se avessimo letto i primi tre libri. Ma non lo abbiamo fatto,
ed il ritmo della lettura ne risente. Secondo elemento che fa mal digerire il
piatto, o meglio il bicchiere di prosecco, è quell’intercalare, dopo qualche
capitolo, con un paio di pagine in corsivo, dove, mentre si dipana la vicenda,
il matto del paese, anche se proprio matto non è, solo forse un po’ rintronato
dal troppo bere, tal Isacco, ci narra le vicende di vita di una serie di
paesani, tutti morti di cancro. Ora, è pur carina e ben scritta questa specie
di “Spoon River trevigiana”, ma a me rompeva anch’essa il ritmo di lettura,
facendo perdere il filo, che, anche se non complicato, aveva del suo. Che ovvio
tutto gira intorno al prosecco. Dove abbiamo un primo morto, suicida, il conte
Ancillotto, grande produttore di bollicine, nonché gaudente imperituro. Vissuto
a lungo in Sud America, dove fece amicizia anche con Secondo, l’oste del paese.
Poi tornato sui declivi della Valdobbiadene, a fare la bella vita ed a produrre
vino. Il conte si suicida al cimitero, con accanto una bottiglia (anzi un
“mathusalem”) di champagne. Mentre indaga sul conte, parlando con la domestica
Adele, con il prete Don Anselmo (uno che si faceva consegnare tutte le armi
fucili e pistole dei vari valligiani, perché amante della pace), con Francesca,
una escort con la quale si accompagnava spesso nell’ultimo periodo, avviene il
secondo fatto delittuoso: l’ingegner Speggiorin, direttore del cementifico di
zona, viene freddato con tre colpi di pistola mentre torna a casa in bicicletta.
Pistola che ben presto si scopre essere stata in possesso del conte, e che il
conte stesso aveva depositato nelle mani del prete. Tra un bicchiere e l’altro
di bollicine, il nostro ispettore scopre altre stranezze del conte: una
querelle lunga e senza per ora nessun vincitore, con la Confraternita del
Valdobbiadene, sul modo più puro di produrre le bollicine, attraverso lieviti
selezionati, ma anche osteggiando l’inquinante cementificio. Un afflato
ecologico. Poi l’arrivo dell’erede del conte, una cilena che in patria coltiva
anche lei vini, ma che viene nelle terre del conte propugnando bellicosamente
di espiantare le vigne per produrre banane. Tra una passata in osteria, una
visita di Elena, un battibecco con le sorelle vicine di casa, Stucky accumula
domande ma non risposte. Anche questo poi scopriamo, proveniente dai precedenti
episodi: l’ispettore in ogni indagine scrive domande su domande in fogli di
carta, cui ogni tanto riesce a dare risposte. Formando così due mucchi sul suo
tavolo: le domande ancora senza risposte e le domande risolte. Divertente
chicca investigativa. Ervas cerca di mettere molta carne al fuoco, cerca di
imbrogliare le carte, mettendo in mezzo il conte come malato, Isacco come longa
mano del conte stesso, l’ingegnere con amante moglie di un politico di grido
(cosa che mette in agitazione il commissario), la scomparsa di Francesca, le
mattane dell’erede, la ritrosia di Adele. Ma è tutto un po’ troppo per questo
prosecco speranzoso. Di certo Stucky troverà il modo di spiegare tutti i
passaggi, ma resta la vicenda un po’ troppo sospesa. Con quel modo di porgere
la pagina quasi a voler ammiccare ogni tre capoversi al lettore, con battute,
riflessioni, giri vari. Alla fine un prodotto leggerino, scritto da una mano
che sa usare le parole, e che a volte fa delle riflessioni anche interessanti
(o collegamenti con musiche, libri, odori, piatti e vini). Ma a me ha
disturbato troppo la non linearità del romanzo, e quelle pagine in corsivo che
poco aggiungono (anche se a volte quel poco serve). Non so, riprendo le righe
di partenza: sembrava un prodotto ilare-noir, ma non si sviluppa bene in
nessuno dei due sensi. Ed è un peccato.
Fulvio Ervas “Si fa presto a dire Adriatico” Repubblica Agenda Noir 20 euro
7,90
[A: 29/11/2015 – I: 14/03/2018 – T: 16/03/2018] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 267;
anno 2013]
Passiamo
subito ad un altro Ervas, con gli stessi problemi del primo. Anche perché, se
quello era il quarto, questo è il sesto. Ed il nostro pur bravo scrivano non
riesce a tenere le fila. Forse si pensa che noi leggiamo tutti i libri in
sequenza (e può capitare). Ma se non succede, e ci sono situazioni che
ignoriamo, la scorrevolezza del testo ne risente. Per cui, di certo, ritroviamo
il buon ispettore Stucky, sempre insidiato benevolmente dalle sorelle di Vicolo
Dotti, ma ormai passato dall’invaghimento trevisan-veneziano con la bella
Teresa, ad un impegno più duraturo con tal Elena (forse uscita fuori nel quinto
ed ignorato episodio), dotata perfino di figlio in odore di ribellione, tal
Michelangelo. Per sfuggire agli strali di Sandra e Veronica, il nostro pensa
bene di regalarsi una bella villeggiatura (in fondo l’azione si svolge tra fine
luglio ed agosto) magari in quel di Croazia. Qui, abbiamo due begli intarsi
personali. Il primo riguarda il cane che Stucky decide di adottare, essendone
morto il precedente proprietario. Poco ci meraviglia il fatto che tale cane si
chiami Argo. Secondo, nell’andar in cerca di luoghi villeggiabili, girando
isole e coste croate sulla sua inseparabile moto Morini, e con Argo caricato in
uno zaino a spalla (nonostante gli ormai 14 chili di peso…), come non far
risuonare corde antiche nel momento di passaggio per l’isola di Hvar. Una
vacanza di quarant’anni fa, piena di attese e di promesse (in fondo si era sui
25, e la vita, più o meno, sorrideva lunga e moderatamente felice), con la mia
fidanzata d’allora, ma sempre, beh forse direi spesso, con il solido amico
Luciano vicino (e con tutte le sue vicissitudini, che essendo sue e non mie ho
il dovere di tacere). Stucky, ed Argo, al fine, trovano pur un bel campeggio in
rive croate, per di più, come spesso da quelle parti, un campeggio naturista.
Sarebbero potute nascere scene pruderose, e quasi ci si poteva imbarcarne in
una, laddove Stucky incontra la veterinaria Ajda, che quasi quasi, ma poi, sul
più bello, qualcuno cerca di massacrare a bastonate Argo, e Ajda si dedica al
cane e non all’uomo. Ma questa è una delle tante storie incastonate nella
Storia, come quella di foto di donna nuda inserita nella buca delle lettere, di
lettere d’amore scritte sui vagoni ferroviari, di ricerche su Internet e di
giochi di ruolo collegati (peccato che siano gialli per ispettori di polizia,
si prega di sorridere alla battuta). Che anche qui la storia narrata seguendo
l’ispettore, vede, da un certo punto in poi, inserirsi una voce altra, in soggettiva,
che racconta vicende varie, che abbiamo di certo prima il sospetto poi la
certezza, si intreccino con il resto. Qui, abbiamo tal Ugo Boscolo detto Sele,
ex-pescatore di Chioggia, che narra la sua storia in soggettiva. Il fallimento
da pescatore quando l’Adriatico comincia a perdere pesci, gli anni da
skipper/capitano di yacht da turisti, con una ciurma dei suoi sodali
chioggiotti, l’ammirazione per Gabriele D’Annunzio, il passaggio dal turismo
all’assalto di barca, soprattutto di turisti danarosi (e russi). Ma come nel
precedente, la storia in corsivo mal si amalgama con il resto, ha un respiro,
un’andatura narrativa diversa, e questo diverso passo non favorisce la
fruibilità del romanzo. Dove invece seguiamo con più agio le avventure di
Stucky nel campeggio, la scoperta di un cadavere, l’intervento della polizia
croata, corrotta tanto quanto molte polizie al mondo, la fuga del principale
sospettato, tra l’altro vecchia conoscenza del nostro, e tutta la serie di
avventure “da inchiesta” che dovrebbero far alimentare il lato poliziesco della
vicenda. Purtroppo Ervas nel suo modo di narrare, scelta personale e quindi
rispettabile anche quando non condivisibile, lascia tutto girare tra l’ironico
ed il serio. Stucky vede, capisce, si aggira, utilizza il vecchio contatto di
Teresa per avere informazioni, si districa tra tutti i nomi e soprannomi dei
lidi veneti. Riuscendo anche ad avere, alla fine, un rapporto discreto con il
capo poliziotto croato, molto simile a lui in qualche impostazione, anche se
sull’altra sponda dell’Adriatico. Il dramma, che alla fine scopriamo, è che,
nelle scorrerie dei Boscolo, oltre ai soldi, erano finiti nelle loro mani carte
compromettenti, scatenando una guerra tra bande, con una lunga scia di morti.
Non vi vado a scardinare il finale, anche se Stucky avrà il suo momento di
“gloria”, ma dovrà tornare verso le natie sponde trevigiane in macchina,
essendo anche lui ferito come Argo. Insomma, qualche buono spunto, qualche
idea, qualche riciclaggio di situazioni già sentite, senza uno spunto veramente
ironico, veramente coinvolgente. Anche se non mi ha convinto fino in fondo,
invidio sempre (bonariamente) chi sa maneggiare le parole per pagine e pagine.
“In questura la comparsa di Argo provocò
reazioni … caustiche: ‘Argo sembra il nome di un elettrodomestico’.” (13)
Armando D’Amaro “La controbanda” Repubblica Italia Noir 31 euro 7,90
[A: 02/01/2017 – I: 17/05/2018 – T: 19/05/2018] - &&
--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 123;
anno 2007]
Veloce
ed indolore questo nuovo libro della collana sul Noir italiano di Repubblica,
quello che si muove di regione in regione, toccando qui la Liguria. In una
storia ambientata tra Genova e Calice Ligure. Che tra l’altro è la città
d’origine dell’autore, che mi aveva incuriosito, come potrebbe insegnarmi il
mio amico Ennio, con quel nome anagrammatico per aumento del cognome. Ma
nonostante qualche premessa esterna al libro (il nome, l’età stessa
dell’autore, l’abbondono dell’attività forense per la scrittura, l’opera
meritoria dei Fratelli Frilli che da Genova continuano a sfornare piccole perle
di lettura) la resa finale è stata molto meno brillante. Intanto perché questa
è la seconda storia che ha per protagonista il maresciallo Corradi, e come
tutte le seconde storie, l’autore rimando a qualche passo della prima lasciando
noi poveri lettori con qualche puntino di sospensione. Certo, dal punto di
vista del marketing ha senso, così chi vuole colmare quei puntini va alla
ricerca del resto della produzione dell’autore. Noi, che siamo molto
antipatici, ribadiamo soltanto la scarsa considerazione che in questi casi si
ha del lettore. È anche un libro che scorre veloce, con quel doppio ottavo che
ne costituisce l’edizione tipografica (per i più “colti” un “in ottavo” sono un
blocco di 16 pagine, il doppio “ottavo in ottavo” sono 8 per 16 cioè 128). Ma
scorre senza lasciare segni. Non ci appassioniamo alle vicende del maresciallo,
che succhia bastoncini di liquirizia avendo smesso di fumare, ma che quando è
nel vivo dell’indagine, non fa altro che chiedere sigarette a destra e manca.
Non ci coinvolge Iolanda, che non è la nonna del Corsaro nero, ma una signorina
divorziata che chiede al buon Isidoro 8questo il nome del maresciallo) di
accompagnarla a Calice per una esumazione dovuta ad una ristrutturazione del
cimitero. Avvenimenti che si svolgono i primi di febbraio, in concomitanza con
la ricorrenza di un eccidio perpetrato da una banda di Repubblichini di Salò
(la cosiddetta “controbanda” del titolo). Qui D’Amaro cerca di far salire il
tono del racconto, ingarbugliando un po’ le acque. C’è un fascista della banda
che pare sia innamorato di una signorina del posto, c’è un traditore del posto
che dovrebbe guidare i fascisti in una azione contro i partigiani ma che si fa
male e non può. Ma i fascisti trovano comunque qualcuno che li aiuta. Poi c’è
un cadavere in più nella tomba della zia di Iolanda. Chi sarà mai? Il fascista
che amava la zia e che tornò 20 anni prima in paese, proprio per il funerale
della vegliarda? Il famoso Tarzan scomparso? Dopo qualche indagine cui
assistiamo senza partecipazione si scopre che è un fratello della morta, senza
nessun interesse per la vicenda. Vicenda che l’autore cerca di condire con un
po’ di sesso tra Iolanda ed Isidoro che ci fa piacere per loro ma che anche qui
aggiunge poco pathos alla vicenda. Una suspense che si cerca di alimentare con
la comparsa di un ragazzo che sembra sapere qualcosa delle vicende di sessanta
anni prima, ma che, prima di poterle narrare al maresciallo, viene ucciso. Ora
finalmente sembra che ci si cali in una atmosfera da “noir”, ma saranno le
poche pagine, sarà che l’autore ha poche frecce al suo arco, veniamo subito
alla luce con la scoperta di un anziano che poco esce dai boschi, che fa vita
ritirata, ma che nel lungo faccia a faccia con Corradi tira fuori le fila di
questo breve romanzo. Era lui il ragazzo che sostituì Tarzan per guidare i
fascisti, era lui che cercava nei boschi il tesoro di Tarzan (che i fascisti
l’avevano pagato e bene ma che Tarzan nascose e morì prima di goderne). Era lui
che con l’aiuto del guardiano del cimitero ritrovò il tesoro. Ma il guardiano
voleva darlo agli eredi dei partigiani, motivo per cui il solitario cattivo
decide di far fuori anche lui. E quando il giovane Alberto gli prospetta la
nuova situazione, con il maresciallo che ha anche lui compreso tutto, il
vecchio fa fuori anche Alberto. Nell’incontro finale con Corradi, poi, cerca di
uccidere il maresciallo, riuscendo solo a ferirlo gravemente, che le forze
buone dell’ordine, su suggerimento di Iolanda, hanno capito ed arrivano in
tempo per portarlo all’ospedale. Corradi si salva, D’Amaro scrive altre storie,
e probabilmente Iolanda e Isidoro avranno la loro storia. Tutto senza né
coinvolgimento né altro. Peccato. Rimangono alcuni accenni dell’entroterra
savonese, che mi coinvolgono solo nel ricordo di mia nonna la marchesa Paola
Bianca Torriglia di Varazze. Prova deboluccia che non lascia altri segni.
Seconda
trama, ed allora anche un piccolo consiglio aggiuntivo dei libri per curare
malattie, anche se ad ora servirebbero di più libri per curare traumi.
Benché
infine nell'ultima trama abbia stilato anatemi contro la sfortuna, non dico
certo che il viaggio scozzese sia stato tutto rose e fiori, tra forature e
sparizioni. Ma anche qui, siamo sempre dei ragazzi fortunati, anche perché il
mio gruppo di “highlander” è stato fantastico.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
LUGLIO 2018
Bah, le libropeute parlano di
cure e malattie; io mi astengo e provo solo a commentare.
PREMESTRUALE, SINDROME
Vi
fanno male le gambe. Vi vengono i brividi. Meglio fare piano. Qualcosa di
troppo impegnativo potrebbe ridurvi in lacrime. Oggi restate sotto il piumone
con la borsa dell’acqua calda e un buon romanzo per ragazze: il miglior
analgesico del mondo.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUEI CERTI
GIORNI
Isabel
Allende “La casa degli
spiriti”
Thomas
Bernhard “Perturbamento”
Luciano
Bianciardi “La vita agra”
Truman
Capote “A sangue freddo”
Arthur
Conan Doyle “Uno studio in rosso”
Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide”
Helen Fielding “Che pasticcio, Bridget Jones”
Yu
Hua “Cronache di
un venditore di sangue”
Anna
Maria Ortese “L’Iguana”
Giovanni
Verga “I Malavoglia”
Bugiardino
A parte Truman Capote, che prima
o poi leggerò, e Bridget Jones che riposa sugli scaffali in attesa di aver
voglia di leggerne, nel mazzo di questi libri anti-sindrome, solo il cinese e
Anna Maria Ortese rimangono fuori dai giochi. Gli altri se ne lesse anche e
soprattutto prima di queste scorribande letterarie. Dal Verga compulsato sui
banchi del liceo, alla Allende dei primi anni ’90, dagli scarsi ricordi, forse
anche annebbiati, di Bianciardi e del duro Bernhard, alle ultime riletture dei
primi anni 2000 di Conan Doyle. Rimane il solo Eugenides di cui ne parliamo
sotto.
Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide” Mondadori euro 10 (in realtà,
scontato a 9,50 euro)
[tramato
il 26 giugno 2016]
Ho
sempre confuso nella mia mente aneuronica questo libro con il sicuramente
diverso “Picnic ad Hanging Rock”. Errore a posteriori grossolano, visti i
diversi scrittori (Eugenides vs. Joan Lindsay) e la diversa ambientazione
(America vs. Australia) e la diversa situazione di fondo (suicidio vs.
sparizione). Ma sappiamo che la mente fa brutti scherzi, e solo dopo essere
stato convinto dalle mie mentori libresche Ella & Susan, a comprare e
leggere questo libro, finalmente ho sciolto la confusione. Anche se non so dire
se avrei preferito rimanere nell’ignoranza. Comunque, ora posso anche dire che
questo libro di Eugenides, il secondo che leggo da lui scritto, anche se è poi
il primo che ha realizzato nella sua non prolifica vita letteraria, non mi è
piaciuto particolarmente. Mi è scivolato via, pagina dopo pagina, mentre
cercavo di afferrarne il senso ed i modi. Senza riuscire a decifrare bene né
gli uni né gli altri. Se infatti “Middlesex”, dopo un inizio a bassa
carburazione, era andato avanti scorrendo e risultando alla fine di una normale
piacevolezza, queste vergini suicide mi hanno creato non poche difficoltà. E
tuttavia, cominciamo con le note positive, o comunque innovative, che questo
romanzo di più di venti anni fa portava con sé. Innanzi tutto, la trovata di
presentarsi come uno scritto collettivo. In tutto il romanzo l’io narrante
diventa un noi narratori, con la sotto-trovata poi di non dire mai chi siano
questi noi. Certo capiamo che ne possano far parte Trip, Tim, Chase e David, ma
la voce narrante rimane un collettivo che, a distanza di anni dai fatti, ne
narra, e, forse, cerca di capirne di più di quanto se capisse al tempo. Secondo
ed ultimo elemento la presentazione della vita claustrofobica di un quartiere
periferico di Detroit (tra l’altro città natale dell’autore, figlio di un
immigrato greco, come si intuisce dal cognome, e che riempie questa periferia
di altri immigrati, soprattutto italiani), con le casette che immaginiamo come
nei film, a schiera su dei viali con alberi e verde. Casette con garage, con
del verde intorno. E pur tuttavia senza nessuna reale interazione tra i vari
abitanti. Quasi che ci si guardi come da dentro delle provette di laboratorio,
ognuno preso dal suo esperimento di vita, senza poter interagire con le vite
altrui. In questo mondo senza molta gioia s’inserisce la vita, e la morte,
delle ragazze Lisbon. Sono cinque sorelle, accudite e/o oppresse da un padre
insegnante di matematica (che brutta fine) ma soprattutto da una madre bigotta
ed inflessibile (inciso, resa benissimo sullo schermo del film diretto da Sofia
Coppola, dalla bravissima Kathleen Turner). Una madre incapace (nei pochi
interventi che la vedono in primo piano) di accompagnare le cinque figlie nell’adolescenza.
Il dramma comincia con il suicidio della più piccola Cecilia, e si conclude un
anno dopo con il patto sucida, purtroppo riuscito, delle altre quattro. Cecilia
si getta dal secondo piano della casa. E nella ricorrenza del primo
anniversario della morte, Bonnie si impicca, Mary mette la testa nel forno,
Therese si imbottisce di sonniferi e Lux si uccide con il monossido di carbonio
della macchina paterna. Tutto il libro scorre fra queste morti, con la voce
narrante che cerca di capire prima i motivi di Cecilia. Che restano misteriosi,
e vengono tralasciati per cercare invece di entrare in contatto con le altre
sorelle Lisbon. Sorelle che sembrano poter uscire dalla cupa atmosfera materna,
finché, ad una festa, Lux si attarda con Trip, fanno l’amore, lei torna a casa
tardi, e scoppia di tutto. La madre le reclude in casa, le ritira da scuola, il
padre si licenzia. Inizia una corsa verso la dannazione, che i narratori
descrivono, che cercano di fermare, senza mai capirne motivi, senza mai trovare
il modo di intervenire o di far intervenire qualcuno. Sembra allucinante (e
forse lo è) che in un paese “civile” in nome delle libertà personali, nessun
servizio civile intervenga nella vita della famiglia Lisbon. Eugenides porta
tutto alle estreme conseguenze, come detto. Ma anche lui non spiega, non
interpreta. Narra, fa forse trasparire elementi di comprensione, tutto però
diluito nella melassa che pervade questa inutile vita americana di provincia.
Le ragazze muoiono, i Lisbon spariscono (e poi sapremo che divorziano), i
narratori continuano da venti anni a porsi domande senza risposte. Il tutto con
una rappresentazione dello squallore quotidiano che rende la vita inutile di
essere vissuta. Quasi a dire che forse hanno fatto bene le sorelle a scegliere
il momento di andarsene. Insomma, meglio il film, più movimentato, anche se
meno straniante del libro. Libro, dove ringraziamo Eugenides di averci fatto
dono di uno zeugma[1]
dantesco a pagina 93 (“se ne andò indossando il suo turbamento ed il suo
cappotto”).
“La vita è una perdita di tempo.” (150)
Conclusioni
Ripeto quanto detto all'inizio,
da bravo ometto non parlo di sindromi pre o post mestruali. Ne sapete molto
meglio voi. Io non sono convinto della scelta di questo mese, ma vado avanti,
come un carabiniere (nei secoli fedele).
[1]
Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due
complementi o due costrutti diversi, dei quali uno solo propriamente gli si
adatterebbe: per es. “Parlare e lacrimar vedrai insieme” (Dante), dove vedrai
si adatta solo a lacrimare e non a parlare.