Almeno
in questa settimana, ove un Simenon d’annata (e non di Maigret) sbaraglia il
campo di gran lunga. C’è un libro di autore poco noto, Luke Rhinehart, che ha
qualche velleità di buona riuscita, mentre, i classici, come David Grossman o
Kazuo Ishiguro, si posizionano ben lontano nella lista dei miei gradimenti.
Luke Rhinehart “L’uomo dei dadi” Marcos y Marcos euro 12 (in realtà,
scontato a 10,20 euro)
[A: 02/09/2016 – I: 03/06/2018 – T: 07/06/2018] - &&&--
[tit. or.: The Dice Man; ling. or.: inglese; pagine: 682;
anno 1971]
Un
libro di culto della cultura “underground” americana degli anni Settanta, che
non conoscevo, che mi ha sorpreso in alcune parti per la freschezza
dell’inventiva, ma che, in altre, si guarda un po’ troppo l’ombelico, cercando
sempre qualcosa per “épater le bourgeois” come direbbero i francesi. Intanto di
culto è anche l’autore, il cui vero nome è George Cockcroft, scrittore
americano di ormai 85 anni. Dopo la laurea a 24 anni, il matrimonio a 26, il
PhD a 32, inizia ad insegnare alla Columbia University (a Manhattan). Anche
nell’insegnamento dimostra uno spiccato ecclettismo, che oltre a parlare di
scrittura americana, mescola i suoi corsi con puntate su altre culture. Noti i
suoi corsi sullo Zen e sulla letteratura europea. Ed anche nei suoi corsi, a
volte, decide l’andamento degli stessi, o i libri di cui parlare, con un tiro
di dadi. Da questa idea bislacca, nasce un primo abbozzo di possibile romanzo
basato proprio sui dadi, che porta con sé in una lunga vacanza a Majorca con la
famiglia. Qui, entra in contatto con un editor londinese alle prime armi, che
si innamora del manoscritto, spinge George a rifinirlo e completarlo, e, nei
primi anni Settanta, lo pubblica. Dopo l’enorme successo, George, a 45 anni, si
ritira in una fattoria nello stato di New York, dove vive da 40 anni. E da
dove, in ogni caso continua saltuariamente a pubblicare. Ed a fare scherzi “stupidi”,
come quando nel 2012, annunciò, falsamente, la propria morte. Prima di entrare
nello spirito del denso librone, cito ancora che la BBC lo ha indicato come
“Uno dei 50 libri più influenti del XX secolo” e “The Telegraph” lo ha
collocato come uno dei “50 libri di culto degli ultimi cento anni”. Il libro,
in realtà, non è riassumibile in una trama coerente, almeno non nel suo
sviluppo complessivo. È scritto in maniera fiammeggiante, dove si passa dalla
prima alla terza persona. Ci sono (finti) estratti di testi ritenuti autorevoli
o sacri. Riproposizioni di registrazioni audio. Verbali di polizia e interventi
in stile dottorale (da psichiatra, da avvocato). Insomma, un po’ un
guazzabuglio. O meglio, un caleidoscopio. L’idea centrale, che il nostro riesce
a sostenere per quasi tutte le quasi settecento pagine, è l’idea di far guidare
le azioni umane dal lancio di uno o più dadi. Il libro nasce come autobiografia
di Luke Rhinehart, stimato psichiatra newyorkese, al quale un giorno viene
fuori l’idea fulminante. Elenca sei possibili azioni e decide quale eseguire in
base al lancio di un dado. Dalla riflessione su questa prima iniziativa, nasce
tutta la sua teoria della “Religione del Dado”, cioè del progredire del
comportamento umano seguendo i capricci del Dio a sei facce. Certo che è sempre
un uomo, quello che lancia il dado, che elenca le possibili varianti. Ma è
anche vero che, quando si entra completamente nell’aleatoricismo, il decidente
si fa più ardito, e comincia ad inserire anche possibilità che non sono al
massimo del suo piacere o delle sue volontà positive. Come dire, quando il caso
entra nella tua vita, è “il caso”, altrimenti sarebbe tutto deterministico. Da
queste premesse George-Luke tira fuori questo suo mondo futuro casualmente
determinato, dove una delle varianti più spesso prese in considerazioni è
quella dei rapporti sessuali. Devo corteggiare quella donna? Stuprarla? Fare
l’amore in 27 posizioni diverse del kamasutra? Essere sottomesso? Essere
volgare? Andare con persone del mio stesso sesso? Gustose pagine rasenti la
comicità riguardano gli andamenti apodittici di questi rapporti. Ma l’intento
non è fare pornografia, ma rappresentare una possibile variante del mondo. Una
variante in cui, pian pianino, l’uso del dado diventa una vera e propria religione,
una setta, una variabile impazzita. Che mette in crisi i rapporti sociali. Che
stravolge i rapporti personali. Quando una variante del dado ordina a Luke di
tacere durante un’intervista si assiste ad un momento di estraniazione totale.
Come quando il lanciatore di dadi decide di cambiare ogni dieci minuti la
propria personalità. La finalità ultima dello scrittore è quella di mettere in
crisi i “valori occidentali”, facendone uscire fuori tutta l’irragionevolezza.
Una grossa fetta è poi dedicata, come ovvio, alla critica delle modalità
psicoanalitiche tradizionali, tese ad uniformare l’uomo ad un comportamento
ragionevole. Mentre il dado dà spazio a tutti gli “io” presenti nella
molteplicità di ognuno. Sfaccettature che vengono represse dall’io benpensante,
ma che sarebbe “rivoluzionario” far uscire allo scoperto. Dirompente, anche
pericoloso. Con una china finale che potrebbe far rotolare Luke, i suoi sodali,
e tutto il mondo in baratri che vedranno purtroppo la luce trenta anni dopo. La
bellezza del libro, e della scrittura, è che riesce a far sembrare logica la
scelta, e coerenti le conseguenze. Tipica americanata, quella di far diventare
tutto una religione, di monetizzarla, di parlarne in televisione. La pecca è
che alla fine si incarta un po’, come se non riuscisse più a tirarsi fuori …
dai dadi. Ma d’altra parte, potrebbe essere stato un ulteriore lancio dei dadi
che impone all’autore di finire la scrittura, senza una fine reale, magari
scomparendo. Magari decidendo che per 30 anni non parlerà più in pubblico dei
dadi. Anche se faticoso, capisco sia che ne è valsa la pena leggerne, sia come
abbia fatto a diventare un libro di culto. Sia, infine, perché sia stato spesso
messo all’indice, censurato, a volte completamente bandito. Eppure, ogni tanto,
un bel lancio dei dadi non ci starebbe male…
“Credi di aver trovato la vetta assoluta …
sei un caso classico … l’uomo che si gratifica non con quello che realizza ma
con quello che sogna di realizzare.” (86)
“Successo e fallimento significano soltanto soddisfazione
e frustrazione del desiderio.” (191)
Georges
Simenon “Tre camere a Manhattan” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A:
16/12/2016 – I: 08/06/2018 – T: 11/06/2018] - &&&& -
[tit.
or.: Trois chambres a Manhattan; ling. or.: francese;
pagine: 190; anno 1946]
Ho inframmezzato la lettura dell’opus
maigrettiano con questo agile volume che mi aveva solleticato durante la
lettura dei dati biografici di Simenon. Siamo nel 1946, Simenon è “fuggito” dalla
Francia per il clima che lo circondava (sospetti e malumori), è riparato oltre
oceano, dove vivrà 13 lunghi anni. L’anno prima è riparato in Canada,
accompagnato dalla moglie Tigy, dal figlio Marc ed in seguito dalla sempre
fedele cameriera-amante Boule. Pur dal rifugio quebecois, per contatti di
lavoro, ovvio che sia spesso a New York. Ed ovvio che abbia bisogno di aiuto
nella lingua, motivo per cui ingaggia come segretaria bilingue Denyse Ouimet
(nata il 14 maggio 1920, quindi un toro, e di 17 anni più giovane dello
scrittore). Un incontro che sarà, come sappiamo decisivo nella vita di Simenon.
Ben presto (come spesso accade a quasi tutte le donne che incrociano la sua
via) diverrà la sua amante, poi la sua compagnia, nel 1949 gli darà un altro
figlio (Jean) e l’anno seguente, per non incorrere nelle severe leggi americane
sulle relazioni matrimoniali, divorzia da Tigy e sposa Denyse. Che, come
sappiamo, nel 1953 partorisce Marie-Jo, che tornerà in Europa con lui, che nel
1959 partorisce il terzo figlio con lui, Pierre, e che seguiremo poi nel resto
dell’opera completa di Maigret. Intanto, l’incontro per lui, sembra fatato. Non
tanto per tutto quanto succederà dopo, che nel ’46 ancora non può prevedere. Ma
per quell’aura di novità e di magia che Denyse porta nella sua vita. Laddove,
il rapporto con Tigy si consumava quasi nell’indifferenza. Come spesso accade
ai grandi scrittori, ecco che, dalla sua vicenda privata, nasce un libro,
un’ode quasi, a New York, a Denyse, ma anche, e qui non possiamo mai sottovalutare
lo smisurato ego di Simenon, a sé stesso ed al suo modo di vivere. Con gli
occhi di chi ha letto della “Grande Mela” e che la sta conoscendo a poco a
poco, Simenon si traveste nei panni di François Combe, attore spiantato,
lasciato dalla moglie per un giovane gigolò, e che sta tentando di riciclarsi
oltre oceano, con quella rete di contatti che un attore, un dì famoso, non può
non avere. Ma l’abbondono della moglie lascia François senza voglia di lottare,
tanto che si accontenta di piccole parti radiofoniche, che vive in una camera
di Manhattan, addirittura senza telefono. Che si abbandona a lunghe passeggiate
notturne, entrando e uscendo dai tutti quei locali, aperti 24/7, bevendo e
fumando. In uno di questi, casualmente, quasi senza volerlo, comincia a parlare
con una signorina, Kay, spiantata, lasciata fuori casa da una coinquilina
altrettanto “fuori di testa”. Ma Kay ha una storia, dietro di sé. E mentre
François racconta la sua, con una discreta dose di onestà, Kay ci lascia
brandelli della sua vita, un po’ reali ed un po’ fantastici. Ha vissuto qua e
là per l’Europa, è stata sposata all’ambasciatore ungherese a Parigi, con cui
ha una figlia, è andata via (ma come? Perché? Non ne sapremo mai realmente
abbastanza). Ha vissuto (e forse vive) di espedienti. Ma (e qui, oltre ad altro
che forse non sappiamo e non ci interessa) conosce bene le due lingue, come
Denyse. Seppur giovane ha una sensualità che colpisce François, come Denyse
colpisce Georges. In questo clima che qualcuno ha giustamente definito
“hopperiano” si consuma lo srotolamento del loro rapporto. Dopo poco Kay va a
vivere da François, tanto che lui comincia a non poterne fare a meno. Tanto che
è la stessa Kay che gli dà la forza di riprendere a combattere per tirarsi
fuori dalle secche inaridite della non realizzazione. Ma Kay è sempre
sfuggente, non si capisce se ami François o voglia solo sfruttarlo. La prova
decisiva, per entrambi, avviene quando Kay è chiamata dall’ex per una malattia
della figlia e lascia solo François per un periodo. Tornerà? Era anche questa
una nuova bugia del “personaggio Kay”? François, nelle more, decide di scopare
di nuovo con altre donne. Georges non si smentisce mai. Ma sarà proprio il
ritorno di Kay, che consente a Simenon di fare la sua dichiarazione d’amore
alla bella, ma anche di affermare, sulla carta e per sempre nella vita: “non mi
tirerò indietro mai di fronte ad una notte d’amore, anche se ti amo e ti amerò
sempre”. Certo quel sempre è un po’ ballerino, ma in effetti Georges amerà a
lungo Denyse. Pur continuando a scopare a destra e a manca. È un bellissimo
libro, forse in alcune parti irrisolto, ma che ci dà la piena misura
dell’aderenza, se ce ne fosse una controprova, dell’opera alla vita di Simenon.
E ci dà una descrizione della New York notturna, che solo un francese appena
arrivato ci poteva dare: bar fumosi, caffè lenti, alcool a profusione, tanto da
ubriacarsi. Con Kay che si accende sigarette in continuazione. Con un plot che
sembra già un film, anche se il film sarà realizzato solo venti anni dopo, con
la regia di Marcel Carné, il ruolo di Kay interpretato da Annie Girardot ed una
stupenda colonna sonora scritta ed interpretata da Mal Waldron e Martial Solal.
Sono contento che le ricerche biografiche di Simenon mi hanno portato a questa
lettura. Che sono pronto a consigliare.
“Se
non capiva lei, chi altri avrebbe potuto capire?” (73)
“[salendo
sul treno per andare via, Kay gli dice] questa non è una partenza, ma un
arrivo.” (149)
“Invece
di cercare, di brancolare, di irrigidirsi, … ora lui diceva… senza vergogna:
‘Accetto’. Accettava tutto. Il loro amore e ciò che da esso poteva venire.
Accettava Kay così com’era.” (179)
David Grossman “Che tu sia per me il coltello” Mondadori euro 12 (in
realtà, scontato a 9 euro)
[A: 25/03/2016 – I: 10/07/2018 – T: 20/07/2018] - &&
--
[titolo: Shetehi Li HaSakin; lingua: ebraico; pagine: 330;
anno: 1998]
Ho
sempre una grossa difficoltà con Grossman, quasi un rapporto di amore e odio.
Perché sono in sintonia con le sue prese politiche pubbliche (e mangiammo a
Gerusalemme nel locale preferito da lui e Amos Oz, il Tmol Shilshom, dietro Ben
Yehuda), ritengo che sappia di certo maneggiare la scrittura, ordendo trame
complicate nella stesura e nella realizzazione, eppur tuttavia le sue opere non
mi coinvolgono quasi mai (forse ad eccezione di “Qualcuno con cui correre”),
anzi le trovo sempre di difficile lettura. Come questa, eccezionalmente lenta
nel dipanarsi temporale, cosa per me inusuale. e con molte difficoltà ad andare
avanti, a raggiungere la fine, ed a sentirmi in sintonia. Per cui il mio voto
composito prende un libro per la scrittura, un libro per motivi altri di cui
andrò narrando, ed un doppio meno per il piacere del testo e del suo sviluppo. Come
sa chi di Grossman ha letto, già il titolo è un omaggio letterario ed un
riferimento. Preso da una frase delle lettere che si scambiarono a suo tempo
Kafka e Milena (sulla cui storia un giorno ci sarebbe da tornare). Dove il
grande praghese chiede che l’amore di Milena sia il coltello con cui aprire e
scarnificare tutte le complicanze del proprio animo. Partendo da qui, David
costruisce il “suo” romanzo epistolare, tra Yair e Myriam. O forse tra Myriam e
Myriam stessa, anche se tutta la prima parte è costruita sulle lettere di Yair.
Che un giorno vede Myriam in una qualche manifestazione pubblica (credo di
studenti e professori) e rimane incantato da un gesto della donna. Un gesto che
nota lui solo, e che da quello parte per coinvolgere la donna in un rapporto
epistolare “alla lontana”, dove ognuno ha il diritto-dovere di aprirsi, di
confessare all’altro le sue più segrete cose. Leggendo le parole di Yair, queste
illuminano la complessità del personaggio maschile (scusate il piccolo nascosto
gioco di parole, dato che proprio Yair significa “luce, illuminazione”).
Inciso: mi viene anche in mente ora che Yair era il nome di battaglia di un
sionista che combatté negli anni Trenta nell’Irgun, per poi staccarsi e fondare
una sua “banda”, cadendo a 35 anni sotto i colpi della polizia britannica. Un
personaggio maschile, si diceva, che cerca di affascinare con le sue trame, con
le sue pillole di vita l’altro polo del romanzo. Yair è un condensato di tutto
quanto possa essere “maschile” nell’immaginario comune (introverso da giovane,
solipsista, autoproclamatosi brutto e poco affascinante, sempre pronto a fare
il cascamorto con le donne, senza spesso molto successo, sposato, padre non
sempre felice, fedifrago, e fondamentalmente, molto pieno di sé). Leggiamo le
sue confessioni, i modi con cui cerca di scardinare l’universo “Myriam”, e lo
si fa con molta fatica, senza coinvolgimento. Io, anche, con un po’ di
fastidio. Solo quando Myriam viene lei in prima persona, quando vediamo le sue
lettere, capiamo il suo mondo, da come traspariva in controluce dalle parole di
Yair, che il libro fa uno scatto in avanti. È Myriam invero il motore principe
delle idee, mi verrebbe da dire positive, ma forse solo costruttive. Capiamo i
suoi drammi di donna, le sue amicizie, i suoi amori, il dolore del figlio
autistico. Capiamo come dentro abbia tanto di più di quanto possa avere Yair, e
che, forse, Yair è servito solo a darle un grimaldello per scardinare un mondo
troppo chiuso, troppo compresso. Sebbene ognuno con la propria vita sociale
distinta, non potrà non essere che alla fine, per complesse casualità, i due si
incontrano, si scontrano, e, fortunatamente, Grossman non ci dice come
proseguirà nel futuro. In fondo poco ci importa. Si capisce che, se Yair si
lasciasse trascinare da Myriam, potrebbe scaturire altro, ma non credo possa
succedere. Io, tifo per Myriam, sin dalle prime righe. Questo è quanto per
giustificare il libro dedicato alla scrittura (Grossman riesce, senza mai
entrare direttamente nella descrizione, ma per cenni e rimandi, a farci vedere
ed immaginare chi siano Yair e Myriam) ed il doppio meno dedicato alla trama.
Rimane il mio rimando personale, che mi è balzato prepotentemente agli occhi
dopo le prime lettere di Yair. Che ripensavo al me stesso quindicenne, al suo
lungo (nella memoria, ma in fondo durò solo otto mesi) amore epistolare con la
bella friulana di un incontro estivo-tortoretano. Già allora velleità
scrittrici mi balzavano alla penna. Ricordo che avrei voluto prendere le
lettere di … beh chiamiamola Tiziana (nome di fantasia) e riunirle in un
romanzo ad una via. Sì, per fare in modo che, leggendone da una parte sola, si
potesse vedere, immaginare, il mondo del rapporto a due. Avevo anche un titolo
al libro, che avrei chiamato “Amanti sotto il cielo, perplessi” (in questo
drogato da mio cugino Paolo il cinefilo e dal suo ardore verso il film che
vinse il Leone d’Oro a Venezia nel ’68, “Artisti sotto la tenda del circo,
perplessi” di Alexander Kluge). Tuttavia, alla fine, proprio questi ricordi
personali fan sì che Grossman rimanga ancora tra gli autori che non mi dispiace
leggere.
Kazuo Ishiguro “Il gigante sepolto” Einaudi euro 13
[A: 15/01/2018 – I: 21/07/2018
– T: 27/07/2018] - & +
[tit. or.: The Buried Giant; ling. or.: inglese; pagine: 320; anno 2015]
Continuo
a leggere, abbastanza in modo ravvicinato, i libri dell’ultimo premio Nobel per
la letteratura, saltando a piè pari tutte le possibili polemiche e
concentrandomi sui testi. Continuo tuttavia a non amare in modo particolare gli
scritti dell’autore nippo-inglese. Certo, il primo, “Quel che resta del
giorno”, aveva un suo impatto, ed una mia valenza per la parte “decisionale”
così ben evidenziata. Questo gigante seppellito (il participio meno usato di
seppellire ma che rende forse meglio la nozione di “tumulato” che ci vuol
mandare l’autore) è di certo un momento importante della vita di ognuno. Perché
Kazuo ci parla della memoria, che per una serie di vicissitudini in questo
romanzo è per l’appunto sepolta, e delle sue gesta verso di noi. Di come, a
volte, possa essere utile scordare, di come, a volte, possa essere troppo
pesante ricordare tutto (ed in questo caso io cito sempre il meraviglioso
“Ireneo Funes” di Borges). Con quella domanda che sottace molta parte del
libro: se ricordassimo tutto quello che, volenti o nolenti, abbiamo scordato,
potrebbe essere che cambi il nostro atteggiamento verso gli altri? È quello che
con insistenza interiore si chiedono Axl e Beatrice: se ricordassimo tutto, ci
vorremmo ancora bene? Ma questo “gioco” intorno alla memoria, ed alla scomparsa
dei ricordi, è immerso, nel romanzo, in tutto un castello di altro, che, pur
maneggiato con maestria dall’autore, non è certo atto a suscitare in me
partecipazione ed immedesimazione. Perché la favola di Ishiguro prende le mosse
nelle nebbie della storia inglese, o sassone o britanna. Risalendo ai tempi
“magici” di re Artù, ed immergendo il tutto in un sapore di scrittura
“d’epoca”. Con gli orchi, i draghi, le credenze popolari (tutti elementi che
non facilitano la mia lettura, lontano come sono dalle scritture magiche).
Toccando e coinvolgendo elementi pseudo-storici. Ora non sappiamo se Artù,
signore della guerra, sia stato un personaggio storico, o solo un immaginario
creato prima da Goffredo di Monmouth e poi reso immortale dagli scritti di
Christian de Troyes. Di certo, intorno al VI secolo ci fu un condottiero che
guidò i britanni alla conquista di un grande territorio, che oltre all’isola
inglese, coinvolgeva probabilmente Norvegia e forse Islanda. Un condottiero che
sconfisse il nemico storico dei britanni, i feroci sassoni, costringendoli alla
resa. Ma che ebbe anche afflati di lungimiranza regnante, cercando di trovare i
modi di una pace, possibile anche se non probabile (tant’è che dopo quindici
secoli, britanni, sassoni, gallesi, irlandesi e compagnia cantante non è che
siano proprio di un’amicizia ferrea). Qui vediamo due anziani britanni, Axl e
Beatrice, avvolti nella nebbia del respiro di un drago che fa perdere a tutti
la memoria, ricordare brandelli della loro vita. Per questo, decidono di andare
a ritrovare il loro figlio di cui non hanno più ricordi. Incominciano un
viaggio quasi iniziatico, dove saranno coinvolti in molte avventure.
Incontreranno il cavaliere Wistan, un sassone in cerca di vendetta per il suo
popolo. Il giovane Edwin, marchiato dal morso di un drago, e che per questo è capace
di ritrovarne le tracce, ed a cui viene predetto un futuro di gloria ed onori. Il
vecchio ser Galvano, forse cugino di Artù, e da questi incaricato di mantenere
in vita i draghi che cancellano la memoria. Ci saranno vecchie abbandonate,
bambini in fuga ed in cerca dei loro parenti, barcaioli che riecheggiano il
vecchio Caronte. Ci saranno piccoli disvelamenti, che spesso le persone non
sono quello che palesano essere ad un primo sguardo. Intuiamo, anche, tra le
righe, che Axl poteva essere un britanno di rango, sodale di Galvano, autore di
editti di pace, che però vengono disattesi. Motivo per cui si allontana
dall’agone pubblico, rintanandosi nel privato con la sua Beatrice. Sapremo
anche la storia di quasi tutti i protagonisti, compreso il figlio perduto. Ma
due soltanto, alla fine, saranno i temi che ci avvincono: l’amore, veramente
intenso, tra Axl e Beatrice, e quella memoria, quei ricordi che abbiamo perso
(per colpa del drago, per colpa dell’età). E quella domanda iniziale: ricordare
o dimenticare? O forse, meglio ancora, sopire per perdonare. Se queste domande,
e le figure dei due anziani, sono elementi forti, il resto è talmente annegato
nel mondo “alla Conan” che ho fatto fatica a leggerne, che ho faticato a
finire, che fatico ancora adesso a riportare. Indubbia, la grande capacità di
Ishiguro di usare tanti registri di scrittura, di essere capace di descrizioni
paesaggistiche che ci fanno figurare bene in mente cosa possa essere la
Britannia del tempo (e che forse risulta ancora più vivida essendo appena
tornato da una Scozia che la ricorda da vicino). Ma continua ad essere una
scrittura per me difficile e che non mi prende. Vedremo se si tornerà a leggere
del “giovane” Kazuo (in fondo ha sempre un anno meno di me).
Seconda
settimana ed allora godiamoci una bella lettura sulla perversione di essere
troppo pronti a dare giudizi sui comportamenti altrui. Magari rimanere sempre
al di qua del dubbio.
E
poi continuare… ma non a viaggiare come il grande Lucio. Continuare a badare
alla malata che sta, per fortuna sua, a metà del percorso. Mentre i viaggi
languono, i capelli imbiancano e qualcosa latita.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2018
Anche questo mese sembra dedicato
a qualcosa che, a volte, è forse troppo vicino, è forse troppo presente. Ma
spesso, ed io con lui, anche molto lontano, quasi che giudizi non vengano mai
dati.
PRONTO A DARE GIUDIZI, ESSERE TROPPO
Bernhard
Schlink “A voce alta”
Ben
Rice “Pobby e Dingan”
Soprattutto
da giovani, siamo tentati di formulare giudizi immediati e sicuri sugli altri e
dirli in giro. Valutare, pronunciarsi, applicare etichette - queste cose, a una
mente immatura, possono sembrare un sinonimo di forza e fiducia. Ma avere delle
opinioni non autorizza a esprimere verdetti - soprattutto se si misura una cosa
o una persona sulla base di una sola qualità o di un solo attributo. Una
persona troppo pronta a giudicare insisterà, per esempio, sul fatto che tutti i
criminali sono persone orribili, che tutte le persone schizzinose a tavola non
sono brave a letto, che tutti gli adolescenti sono ingenui e, anche loro,
troppo sentenziosi (e su quest’ultimo punto hanno ragione).
Per
stroncare la vostra tendenza a esprimere giudizi, vi raccomandiamo “A voce
alta” di Bernard Schlink, un complesso racconto di senso di colpa collegato al
nazismo, vergogna privata e orrore retrospettivo, un romanzo che affronta il
problema di come le generazioni del dopoguerra dovrebbero rapportarsi
all’Olocausto e a chi è stato coinvolto nelle sue atrocità. Michael Berg ha
appena quindici anni quando inizia una relazione con una bigliettaia di tram di
trentasei anni, Hana. I loro appuntamenti, durante i quali spesso fanno il
bagno insieme - un riferimento al bisogno di Lady Macbeth di lavare via i
peccati del passato - spesso coinvolgono dei libri, perché ad Hana piace che
Michael glieli legga (l’Odissea in greco, Guerra e pace), e noi approviamo con
tutto il cuore. Solo qualche anno dopo, quando Michael assisterà come studente
di legge a un processo per crimini di guerra, la riconoscerà in uno dei volti
sul banco degli accusati. Il suo primo amore, una volta, era una guardiana
delle SS, complice della morte di centinaia di donne. E ha anche un altro segreto,
del quale si vergogna ancora di più.
Michael
passa la vita a cercare di venire a patti con quello che ha fatto Hana - e con
quello che ha fatto a lui. Mentre lei prova rimorso, e si lascia perfino
accollare maggiori responsabilità di quante ne abbia avuto in effetti, la
decisione di Michael di non rispondere alle sue lettere dal carcere la fa
soffrire. Schlink, in questo modo, getta il lettore nella mischia delle
implicazioni etiche. Vi lascerete commuovere dal dolore di Hana o continuerete
a condannarla per il suo crimine? È questo il vostro dilemma. Ci auguriamo che
questo romanzo vi faccia capire come avere delle opinioni forti non comporti
necessariamente il dovere di formulare un giudizio.
Se
non avete stomaco per un simile dilemma etico, avete a disposizione una cura
più blanda. Se esiste un romanzo - breve, in questo caso - in grado di
convincervi a spegnere il fuoco dei vostri responsi, questo è senz’altro Pobby
e Dingan, l’esordio narrativo di Ben Rice. Kellyanne, sorella minore di Ashmol,
il narratore, ha due amici immaginari, Pobby e Dingan. Come ci si aspetterebbe
da ogni fratello maggiore che si rispetti - soprattutto se cresciuto nella dura
comunità di minatori di opale di Lightning Ridge, Australia - Ashmol non ha
tempo per certe bambinate. Che fareste voi, quando sono anni che vi chiedono di
apparecchiare anche per Pobby e Dingan, e vi dicono che non potete andare in
piscina perché, con Pobby e Dingan seduti dietro, non c’è spazio anche per voi?
Alla
fine del romanzo vi risponderete che sì, il tempo lo trovereste. Perché quando
Kellyanne annuncia che Pobby e Dingan sono morti, e soffre tanto da finire in
ospedale, Ashmol fa una cosa meravigliosa: va in giro per la città a mettere
avvisi con cui offre una ricompensa a chi riuscirà a trovare gli amici della
sorella («Descrizione: immaginari. Tranquilli»). Da quel momento, anche voi sarete
tra quelli che credono alle fantasie della bambina non tra quelli che fingono
di piangere e ridacchiano.
Siate
persone aperte. In tutti c’è un po’ di bontà, di cattiveria, di follia e di
tristezza, e non dovete perdonare ogni difetto o credere a ogni cosa per essere
a vostro agio con una persona. Vale anche per voi stessi. Se per esempio,
quando cercate di imparare qualcosa di nuovo, avete la tendenza a ritenervi
senza speranza, cominciate da lì ad abituarvi a non esprimere giudizi.
Bugiardino
Devo dire che, dopo aver visto il
film, la lettura del libro conferma la bellezza delle idee alla base della
scrittura del premio Nobel, ma anche la mia difficoltà a leggerne.
Bernhard Schlink “A voce alta” Garzanti euro 9,90
[tramato il 29 giugno 2014]
Ultimamente,
nella mia fornita biblioteca, stanno entrando alcuni libri da cui sono stati
tratti film (+ o -) famosi. Ho sempre pensato che queste due forme espressive
siano disgiunte, e da giudicare nella loro specificità. Ciò nonostante, quando
capitano punti di intersezione è anche interessante annotare come, queste due
espressioni, muovano diverse sensazioni, a fronte di una materia omologa. Tutto
questo panegirico per introdurre il bel libro di Schlink, e ricordarne
l’interessante film che ne fu tratto nel 2008, dal titolo “The reader” con Ralph
Fiennes e Kate Winslet. E se nel film esce fuori prepotentemente la figura di
Winslet – Hanna, tanto che prenderà l’Oscar, il libro tutto in diversa
soggettiva, ne fa si uscire la problematica, ma anche i problemi generali dei
tedeschi verso l’Olocausto. Comunque cominciamo con la solita tirata d’orecchi
agli editor italiani che l’hanno ribattezzato “A voce alta”, dopo che in tutto
il mondo il libro è intitolato come nell’originale tedesco, “Il lettore”.
Perché si legge a voce alta? Ma non è la voce, il punto. È proprio l’azione di
leggere. Venendo al libro, ha una sua struttura tripartita molto ben scandita.
La prima parte è l’innamoramento e poi la storia d’amore tra Michael e Hanna.
Lui sedici anni, lei qualche cosa in più di trenta. Lui va scuola, si sente
male, lei lo aiuta. Comincia così prima una frequentazione. Poi sempre qualcosa
in più. Fino ad una bella storia d’amore. Certo, è soprattutto Michael che è
preso da Hanna. Ma è ben descritto il loro prendersi e litigare (meglio che nel
film). Il tempo passa, Michael cresce, ed Hanna ad un certo punto sparisce.
Prima però, c’è tutto il tempo che il nostro ragazzo passerà a leggere libri ad
alta voce alla sua bella. Stacco sulla seconda parte. Il ragazzo cresce, fa
legge all’Università. E per un seminario partecipa da uditore ad un processo.
Che coinvolge Hanna ed altre donne accusate di essere aguzzine di un lager
durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui esce fuori la capacità giuridica
dell’autore, anche lui avvocato, che ci fa partecipi del processo. Ma tutto
dalla prospettiva di Michael che si interroga: perché Hanna fece quello che
fece nel lager? Perché non si difende dalle accuse, molto labili, che le vengono
mosse? Durante un insight sulla sua vicenda, il nostro capisce: Hanna non sa
leggere. E questa “vergogna” è più forte della volontà di essere assolta.
Michael, pur nolente, capisce e rispetta questa espiazione. Ed Hanna viene
condannata all’ergastolo. Nella terza parte, vediamo il nostro cresciuto, poi sposato,
divorziato, sempre problematico con le donne. Al fine l’unico legame che gli
resta è proprio con Hanna. E comincia ad inviarle cassette con le sue letture. Fino
alla grazia che dopo 18 anni riceve l’ergastolana. Michael finalmente la va a
trovare. Scambi di sguardi. Possibilità di amicizia in tarda età. Ma Hanna
rimane legata alla sua storia, e prima di uscire dalla prigione, si impicca.
Prima di lasciarci Michael esaudisce l’ultimo desiderio della sua vecchia
amante, devolvendo i denari di lei per un’associazione che si occupa di
analfabeti. La seconda parte della storia, devo dire che è meglio resa nel
film, dove lo scandire delle immagini, e delle letture di Michael, viene meglio
in video che in scrittura. Quindi dire che tra libro e film c’è un sostanziale
pareggio. Quello che esce più forte nel libro è forse la domanda (o le domande)
sull’Olocausto. Quanti cittadini “normali” hanno fatto cose “anormali” in
quegli anni? Esce forte quella banalità del male di cui parlava la Arendt nel
suo bellissimo libro sul processo ad Eichmann (ma perché viene citato il poeta
Auden dal nostro scrittore? C’è forse qualche poesia che mi sfugge?). E ci
tormenta fino in fondo la domanda su quanto la vergogna di non saper leggere
sia prevalente sul bisogno di espiazione di Hanna. Dov’è nasce il confine tra i
due? Merito di Schlink di porre queste domande, e di porle dall’interno della
Germania. Un ottimo libro, che narrando altro ci pone queste domande e ci
riporta sempre lì, al conflitto tra obbedienza e follia. Consiglio a tutti la
lettura (anche e soprattutto chi non ha visto il film).
“Quand’ero ragazzo, io mi sentivo sempre o
troppo sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace,
insignificante e indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto
dovesse riuscirmi. Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi
difficoltà. Ma il minimo insuccesso bastava per convincermi della mia
indegnità.” (57)
“Siccome la verità di ciò che si dice, è ciò
che si fa, si può anche fare a meno di dire.” (143)
Conclusioni
Entrando nel merito, il lettore è
sicuramente un libro (ed un film) che pone mille domande. Forse non sui giudizi
precoci, ma sicuramente sulle implicazioni etiche delle cattiverie, dell’espiazione
e del dolore.
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