domenica 14 ottobre 2018

La Francia è avanti - 14 ottobre 2018


Almeno in questa settimana, ove un Simenon d’annata (e non di Maigret) sbaraglia il campo di gran lunga. C’è un libro di autore poco noto, Luke Rhinehart, che ha qualche velleità di buona riuscita, mentre, i classici, come David Grossman o Kazuo Ishiguro, si posizionano ben lontano nella lista dei miei gradimenti.
Luke Rhinehart “L’uomo dei dadi” Marcos y Marcos euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 02/09/2016 – I: 03/06/2018 – T: 07/06/2018] - &&&--
[tit. or.: The Dice Man; ling. or.: inglese; pagine: 682; anno 1971]
Un libro di culto della cultura “underground” americana degli anni Settanta, che non conoscevo, che mi ha sorpreso in alcune parti per la freschezza dell’inventiva, ma che, in altre, si guarda un po’ troppo l’ombelico, cercando sempre qualcosa per “épater le bourgeois” come direbbero i francesi. Intanto di culto è anche l’autore, il cui vero nome è George Cockcroft, scrittore americano di ormai 85 anni. Dopo la laurea a 24 anni, il matrimonio a 26, il PhD a 32, inizia ad insegnare alla Columbia University (a Manhattan). Anche nell’insegnamento dimostra uno spiccato ecclettismo, che oltre a parlare di scrittura americana, mescola i suoi corsi con puntate su altre culture. Noti i suoi corsi sullo Zen e sulla letteratura europea. Ed anche nei suoi corsi, a volte, decide l’andamento degli stessi, o i libri di cui parlare, con un tiro di dadi. Da questa idea bislacca, nasce un primo abbozzo di possibile romanzo basato proprio sui dadi, che porta con sé in una lunga vacanza a Majorca con la famiglia. Qui, entra in contatto con un editor londinese alle prime armi, che si innamora del manoscritto, spinge George a rifinirlo e completarlo, e, nei primi anni Settanta, lo pubblica. Dopo l’enorme successo, George, a 45 anni, si ritira in una fattoria nello stato di New York, dove vive da 40 anni. E da dove, in ogni caso continua saltuariamente a pubblicare. Ed a fare scherzi “stupidi”, come quando nel 2012, annunciò, falsamente, la propria morte. Prima di entrare nello spirito del denso librone, cito ancora che la BBC lo ha indicato come “Uno dei 50 libri più influenti del XX secolo” e “The Telegraph” lo ha collocato come uno dei “50 libri di culto degli ultimi cento anni”. Il libro, in realtà, non è riassumibile in una trama coerente, almeno non nel suo sviluppo complessivo. È scritto in maniera fiammeggiante, dove si passa dalla prima alla terza persona. Ci sono (finti) estratti di testi ritenuti autorevoli o sacri. Riproposizioni di registrazioni audio. Verbali di polizia e interventi in stile dottorale (da psichiatra, da avvocato). Insomma, un po’ un guazzabuglio. O meglio, un caleidoscopio. L’idea centrale, che il nostro riesce a sostenere per quasi tutte le quasi settecento pagine, è l’idea di far guidare le azioni umane dal lancio di uno o più dadi. Il libro nasce come autobiografia di Luke Rhinehart, stimato psichiatra newyorkese, al quale un giorno viene fuori l’idea fulminante. Elenca sei possibili azioni e decide quale eseguire in base al lancio di un dado. Dalla riflessione su questa prima iniziativa, nasce tutta la sua teoria della “Religione del Dado”, cioè del progredire del comportamento umano seguendo i capricci del Dio a sei facce. Certo che è sempre un uomo, quello che lancia il dado, che elenca le possibili varianti. Ma è anche vero che, quando si entra completamente nell’aleatoricismo, il decidente si fa più ardito, e comincia ad inserire anche possibilità che non sono al massimo del suo piacere o delle sue volontà positive. Come dire, quando il caso entra nella tua vita, è “il caso”, altrimenti sarebbe tutto deterministico. Da queste premesse George-Luke tira fuori questo suo mondo futuro casualmente determinato, dove una delle varianti più spesso prese in considerazioni è quella dei rapporti sessuali. Devo corteggiare quella donna? Stuprarla? Fare l’amore in 27 posizioni diverse del kamasutra? Essere sottomesso? Essere volgare? Andare con persone del mio stesso sesso? Gustose pagine rasenti la comicità riguardano gli andamenti apodittici di questi rapporti. Ma l’intento non è fare pornografia, ma rappresentare una possibile variante del mondo. Una variante in cui, pian pianino, l’uso del dado diventa una vera e propria religione, una setta, una variabile impazzita. Che mette in crisi i rapporti sociali. Che stravolge i rapporti personali. Quando una variante del dado ordina a Luke di tacere durante un’intervista si assiste ad un momento di estraniazione totale. Come quando il lanciatore di dadi decide di cambiare ogni dieci minuti la propria personalità. La finalità ultima dello scrittore è quella di mettere in crisi i “valori occidentali”, facendone uscire fuori tutta l’irragionevolezza. Una grossa fetta è poi dedicata, come ovvio, alla critica delle modalità psicoanalitiche tradizionali, tese ad uniformare l’uomo ad un comportamento ragionevole. Mentre il dado dà spazio a tutti gli “io” presenti nella molteplicità di ognuno. Sfaccettature che vengono represse dall’io benpensante, ma che sarebbe “rivoluzionario” far uscire allo scoperto. Dirompente, anche pericoloso. Con una china finale che potrebbe far rotolare Luke, i suoi sodali, e tutto il mondo in baratri che vedranno purtroppo la luce trenta anni dopo. La bellezza del libro, e della scrittura, è che riesce a far sembrare logica la scelta, e coerenti le conseguenze. Tipica americanata, quella di far diventare tutto una religione, di monetizzarla, di parlarne in televisione. La pecca è che alla fine si incarta un po’, come se non riuscisse più a tirarsi fuori … dai dadi. Ma d’altra parte, potrebbe essere stato un ulteriore lancio dei dadi che impone all’autore di finire la scrittura, senza una fine reale, magari scomparendo. Magari decidendo che per 30 anni non parlerà più in pubblico dei dadi. Anche se faticoso, capisco sia che ne è valsa la pena leggerne, sia come abbia fatto a diventare un libro di culto. Sia, infine, perché sia stato spesso messo all’indice, censurato, a volte completamente bandito. Eppure, ogni tanto, un bel lancio dei dadi non ci starebbe male…
“Credi di aver trovato la vetta assoluta … sei un caso classico … l’uomo che si gratifica non con quello che realizza ma con quello che sogna di realizzare.” (86)
“Successo e fallimento significano soltanto soddisfazione e frustrazione del desiderio.” (191)
Georges Simenon “Tre camere a Manhattan” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 16/12/2016 – I: 08/06/2018 – T: 11/06/2018] - &&&& -
[tit. or.: Trois chambres a Manhattan; ling. or.: francese; pagine: 190; anno 1946]
Ho inframmezzato la lettura dell’opus maigrettiano con questo agile volume che mi aveva solleticato durante la lettura dei dati biografici di Simenon. Siamo nel 1946, Simenon è “fuggito” dalla Francia per il clima che lo circondava (sospetti e malumori), è riparato oltre oceano, dove vivrà 13 lunghi anni. L’anno prima è riparato in Canada, accompagnato dalla moglie Tigy, dal figlio Marc ed in seguito dalla sempre fedele cameriera-amante Boule. Pur dal rifugio quebecois, per contatti di lavoro, ovvio che sia spesso a New York. Ed ovvio che abbia bisogno di aiuto nella lingua, motivo per cui ingaggia come segretaria bilingue Denyse Ouimet (nata il 14 maggio 1920, quindi un toro, e di 17 anni più giovane dello scrittore). Un incontro che sarà, come sappiamo decisivo nella vita di Simenon. Ben presto (come spesso accade a quasi tutte le donne che incrociano la sua via) diverrà la sua amante, poi la sua compagnia, nel 1949 gli darà un altro figlio (Jean) e l’anno seguente, per non incorrere nelle severe leggi americane sulle relazioni matrimoniali, divorzia da Tigy e sposa Denyse. Che, come sappiamo, nel 1953 partorisce Marie-Jo, che tornerà in Europa con lui, che nel 1959 partorisce il terzo figlio con lui, Pierre, e che seguiremo poi nel resto dell’opera completa di Maigret. Intanto, l’incontro per lui, sembra fatato. Non tanto per tutto quanto succederà dopo, che nel ’46 ancora non può prevedere. Ma per quell’aura di novità e di magia che Denyse porta nella sua vita. Laddove, il rapporto con Tigy si consumava quasi nell’indifferenza. Come spesso accade ai grandi scrittori, ecco che, dalla sua vicenda privata, nasce un libro, un’ode quasi, a New York, a Denyse, ma anche, e qui non possiamo mai sottovalutare lo smisurato ego di Simenon, a sé stesso ed al suo modo di vivere. Con gli occhi di chi ha letto della “Grande Mela” e che la sta conoscendo a poco a poco, Simenon si traveste nei panni di François Combe, attore spiantato, lasciato dalla moglie per un giovane gigolò, e che sta tentando di riciclarsi oltre oceano, con quella rete di contatti che un attore, un dì famoso, non può non avere. Ma l’abbondono della moglie lascia François senza voglia di lottare, tanto che si accontenta di piccole parti radiofoniche, che vive in una camera di Manhattan, addirittura senza telefono. Che si abbandona a lunghe passeggiate notturne, entrando e uscendo dai tutti quei locali, aperti 24/7, bevendo e fumando. In uno di questi, casualmente, quasi senza volerlo, comincia a parlare con una signorina, Kay, spiantata, lasciata fuori casa da una coinquilina altrettanto “fuori di testa”. Ma Kay ha una storia, dietro di sé. E mentre François racconta la sua, con una discreta dose di onestà, Kay ci lascia brandelli della sua vita, un po’ reali ed un po’ fantastici. Ha vissuto qua e là per l’Europa, è stata sposata all’ambasciatore ungherese a Parigi, con cui ha una figlia, è andata via (ma come? Perché? Non ne sapremo mai realmente abbastanza). Ha vissuto (e forse vive) di espedienti. Ma (e qui, oltre ad altro che forse non sappiamo e non ci interessa) conosce bene le due lingue, come Denyse. Seppur giovane ha una sensualità che colpisce François, come Denyse colpisce Georges. In questo clima che qualcuno ha giustamente definito “hopperiano” si consuma lo srotolamento del loro rapporto. Dopo poco Kay va a vivere da François, tanto che lui comincia a non poterne fare a meno. Tanto che è la stessa Kay che gli dà la forza di riprendere a combattere per tirarsi fuori dalle secche inaridite della non realizzazione. Ma Kay è sempre sfuggente, non si capisce se ami François o voglia solo sfruttarlo. La prova decisiva, per entrambi, avviene quando Kay è chiamata dall’ex per una malattia della figlia e lascia solo François per un periodo. Tornerà? Era anche questa una nuova bugia del “personaggio Kay”? François, nelle more, decide di scopare di nuovo con altre donne. Georges non si smentisce mai. Ma sarà proprio il ritorno di Kay, che consente a Simenon di fare la sua dichiarazione d’amore alla bella, ma anche di affermare, sulla carta e per sempre nella vita: “non mi tirerò indietro mai di fronte ad una notte d’amore, anche se ti amo e ti amerò sempre”. Certo quel sempre è un po’ ballerino, ma in effetti Georges amerà a lungo Denyse. Pur continuando a scopare a destra e a manca. È un bellissimo libro, forse in alcune parti irrisolto, ma che ci dà la piena misura dell’aderenza, se ce ne fosse una controprova, dell’opera alla vita di Simenon. E ci dà una descrizione della New York notturna, che solo un francese appena arrivato ci poteva dare: bar fumosi, caffè lenti, alcool a profusione, tanto da ubriacarsi. Con Kay che si accende sigarette in continuazione. Con un plot che sembra già un film, anche se il film sarà realizzato solo venti anni dopo, con la regia di Marcel Carné, il ruolo di Kay interpretato da Annie Girardot ed una stupenda colonna sonora scritta ed interpretata da Mal Waldron e Martial Solal. Sono contento che le ricerche biografiche di Simenon mi hanno portato a questa lettura. Che sono pronto a consigliare.
“Se non capiva lei, chi altri avrebbe potuto capire?” (73)
“[salendo sul treno per andare via, Kay gli dice] questa non è una partenza, ma un arrivo.” (149)
“Invece di cercare, di brancolare, di irrigidirsi, … ora lui diceva… senza vergogna: ‘Accetto’. Accettava tutto. Il loro amore e ciò che da esso poteva venire. Accettava Kay così com’era.” (179)
David Grossman “Che tu sia per me il coltello” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 25/03/2016 – I: 10/07/2018 – T: 20/07/2018] - && --
[titolo: Shetehi Li HaSakin; lingua: ebraico; pagine: 330; anno: 1998]
Ho sempre una grossa difficoltà con Grossman, quasi un rapporto di amore e odio. Perché sono in sintonia con le sue prese politiche pubbliche (e mangiammo a Gerusalemme nel locale preferito da lui e Amos Oz, il Tmol Shilshom, dietro Ben Yehuda), ritengo che sappia di certo maneggiare la scrittura, ordendo trame complicate nella stesura e nella realizzazione, eppur tuttavia le sue opere non mi coinvolgono quasi mai (forse ad eccezione di “Qualcuno con cui correre”), anzi le trovo sempre di difficile lettura. Come questa, eccezionalmente lenta nel dipanarsi temporale, cosa per me inusuale. e con molte difficoltà ad andare avanti, a raggiungere la fine, ed a sentirmi in sintonia. Per cui il mio voto composito prende un libro per la scrittura, un libro per motivi altri di cui andrò narrando, ed un doppio meno per il piacere del testo e del suo sviluppo. Come sa chi di Grossman ha letto, già il titolo è un omaggio letterario ed un riferimento. Preso da una frase delle lettere che si scambiarono a suo tempo Kafka e Milena (sulla cui storia un giorno ci sarebbe da tornare). Dove il grande praghese chiede che l’amore di Milena sia il coltello con cui aprire e scarnificare tutte le complicanze del proprio animo. Partendo da qui, David costruisce il “suo” romanzo epistolare, tra Yair e Myriam. O forse tra Myriam e Myriam stessa, anche se tutta la prima parte è costruita sulle lettere di Yair. Che un giorno vede Myriam in una qualche manifestazione pubblica (credo di studenti e professori) e rimane incantato da un gesto della donna. Un gesto che nota lui solo, e che da quello parte per coinvolgere la donna in un rapporto epistolare “alla lontana”, dove ognuno ha il diritto-dovere di aprirsi, di confessare all’altro le sue più segrete cose. Leggendo le parole di Yair, queste illuminano la complessità del personaggio maschile (scusate il piccolo nascosto gioco di parole, dato che proprio Yair significa “luce, illuminazione”). Inciso: mi viene anche in mente ora che Yair era il nome di battaglia di un sionista che combatté negli anni Trenta nell’Irgun, per poi staccarsi e fondare una sua “banda”, cadendo a 35 anni sotto i colpi della polizia britannica. Un personaggio maschile, si diceva, che cerca di affascinare con le sue trame, con le sue pillole di vita l’altro polo del romanzo. Yair è un condensato di tutto quanto possa essere “maschile” nell’immaginario comune (introverso da giovane, solipsista, autoproclamatosi brutto e poco affascinante, sempre pronto a fare il cascamorto con le donne, senza spesso molto successo, sposato, padre non sempre felice, fedifrago, e fondamentalmente, molto pieno di sé). Leggiamo le sue confessioni, i modi con cui cerca di scardinare l’universo “Myriam”, e lo si fa con molta fatica, senza coinvolgimento. Io, anche, con un po’ di fastidio. Solo quando Myriam viene lei in prima persona, quando vediamo le sue lettere, capiamo il suo mondo, da come traspariva in controluce dalle parole di Yair, che il libro fa uno scatto in avanti. È Myriam invero il motore principe delle idee, mi verrebbe da dire positive, ma forse solo costruttive. Capiamo i suoi drammi di donna, le sue amicizie, i suoi amori, il dolore del figlio autistico. Capiamo come dentro abbia tanto di più di quanto possa avere Yair, e che, forse, Yair è servito solo a darle un grimaldello per scardinare un mondo troppo chiuso, troppo compresso. Sebbene ognuno con la propria vita sociale distinta, non potrà non essere che alla fine, per complesse casualità, i due si incontrano, si scontrano, e, fortunatamente, Grossman non ci dice come proseguirà nel futuro. In fondo poco ci importa. Si capisce che, se Yair si lasciasse trascinare da Myriam, potrebbe scaturire altro, ma non credo possa succedere. Io, tifo per Myriam, sin dalle prime righe. Questo è quanto per giustificare il libro dedicato alla scrittura (Grossman riesce, senza mai entrare direttamente nella descrizione, ma per cenni e rimandi, a farci vedere ed immaginare chi siano Yair e Myriam) ed il doppio meno dedicato alla trama. Rimane il mio rimando personale, che mi è balzato prepotentemente agli occhi dopo le prime lettere di Yair. Che ripensavo al me stesso quindicenne, al suo lungo (nella memoria, ma in fondo durò solo otto mesi) amore epistolare con la bella friulana di un incontro estivo-tortoretano. Già allora velleità scrittrici mi balzavano alla penna. Ricordo che avrei voluto prendere le lettere di … beh chiamiamola Tiziana (nome di fantasia) e riunirle in un romanzo ad una via. Sì, per fare in modo che, leggendone da una parte sola, si potesse vedere, immaginare, il mondo del rapporto a due. Avevo anche un titolo al libro, che avrei chiamato “Amanti sotto il cielo, perplessi” (in questo drogato da mio cugino Paolo il cinefilo e dal suo ardore verso il film che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel ’68, “Artisti sotto la tenda del circo, perplessi” di Alexander Kluge). Tuttavia, alla fine, proprio questi ricordi personali fan sì che Grossman rimanga ancora tra gli autori che non mi dispiace leggere.
Kazuo Ishiguro “Il gigante sepolto” Einaudi euro 13
[A: 15/01/2018 – I: 21/07/2018 – T: 27/07/2018] - & +
[tit. or.: The Buried Giant; ling. or.: inglese; pagine: 320; anno 2015]
Continuo a leggere, abbastanza in modo ravvicinato, i libri dell’ultimo premio Nobel per la letteratura, saltando a piè pari tutte le possibili polemiche e concentrandomi sui testi. Continuo tuttavia a non amare in modo particolare gli scritti dell’autore nippo-inglese. Certo, il primo, “Quel che resta del giorno”, aveva un suo impatto, ed una mia valenza per la parte “decisionale” così ben evidenziata. Questo gigante seppellito (il participio meno usato di seppellire ma che rende forse meglio la nozione di “tumulato” che ci vuol mandare l’autore) è di certo un momento importante della vita di ognuno. Perché Kazuo ci parla della memoria, che per una serie di vicissitudini in questo romanzo è per l’appunto sepolta, e delle sue gesta verso di noi. Di come, a volte, possa essere utile scordare, di come, a volte, possa essere troppo pesante ricordare tutto (ed in questo caso io cito sempre il meraviglioso “Ireneo Funes” di Borges). Con quella domanda che sottace molta parte del libro: se ricordassimo tutto quello che, volenti o nolenti, abbiamo scordato, potrebbe essere che cambi il nostro atteggiamento verso gli altri? È quello che con insistenza interiore si chiedono Axl e Beatrice: se ricordassimo tutto, ci vorremmo ancora bene? Ma questo “gioco” intorno alla memoria, ed alla scomparsa dei ricordi, è immerso, nel romanzo, in tutto un castello di altro, che, pur maneggiato con maestria dall’autore, non è certo atto a suscitare in me partecipazione ed immedesimazione. Perché la favola di Ishiguro prende le mosse nelle nebbie della storia inglese, o sassone o britanna. Risalendo ai tempi “magici” di re Artù, ed immergendo il tutto in un sapore di scrittura “d’epoca”. Con gli orchi, i draghi, le credenze popolari (tutti elementi che non facilitano la mia lettura, lontano come sono dalle scritture magiche). Toccando e coinvolgendo elementi pseudo-storici. Ora non sappiamo se Artù, signore della guerra, sia stato un personaggio storico, o solo un immaginario creato prima da Goffredo di Monmouth e poi reso immortale dagli scritti di Christian de Troyes. Di certo, intorno al VI secolo ci fu un condottiero che guidò i britanni alla conquista di un grande territorio, che oltre all’isola inglese, coinvolgeva probabilmente Norvegia e forse Islanda. Un condottiero che sconfisse il nemico storico dei britanni, i feroci sassoni, costringendoli alla resa. Ma che ebbe anche afflati di lungimiranza regnante, cercando di trovare i modi di una pace, possibile anche se non probabile (tant’è che dopo quindici secoli, britanni, sassoni, gallesi, irlandesi e compagnia cantante non è che siano proprio di un’amicizia ferrea). Qui vediamo due anziani britanni, Axl e Beatrice, avvolti nella nebbia del respiro di un drago che fa perdere a tutti la memoria, ricordare brandelli della loro vita. Per questo, decidono di andare a ritrovare il loro figlio di cui non hanno più ricordi. Incominciano un viaggio quasi iniziatico, dove saranno coinvolti in molte avventure. Incontreranno il cavaliere Wistan, un sassone in cerca di vendetta per il suo popolo. Il giovane Edwin, marchiato dal morso di un drago, e che per questo è capace di ritrovarne le tracce, ed a cui viene predetto un futuro di gloria ed onori. Il vecchio ser Galvano, forse cugino di Artù, e da questi incaricato di mantenere in vita i draghi che cancellano la memoria. Ci saranno vecchie abbandonate, bambini in fuga ed in cerca dei loro parenti, barcaioli che riecheggiano il vecchio Caronte. Ci saranno piccoli disvelamenti, che spesso le persone non sono quello che palesano essere ad un primo sguardo. Intuiamo, anche, tra le righe, che Axl poteva essere un britanno di rango, sodale di Galvano, autore di editti di pace, che però vengono disattesi. Motivo per cui si allontana dall’agone pubblico, rintanandosi nel privato con la sua Beatrice. Sapremo anche la storia di quasi tutti i protagonisti, compreso il figlio perduto. Ma due soltanto, alla fine, saranno i temi che ci avvincono: l’amore, veramente intenso, tra Axl e Beatrice, e quella memoria, quei ricordi che abbiamo perso (per colpa del drago, per colpa dell’età). E quella domanda iniziale: ricordare o dimenticare? O forse, meglio ancora, sopire per perdonare. Se queste domande, e le figure dei due anziani, sono elementi forti, il resto è talmente annegato nel mondo “alla Conan” che ho fatto fatica a leggerne, che ho faticato a finire, che fatico ancora adesso a riportare. Indubbia, la grande capacità di Ishiguro di usare tanti registri di scrittura, di essere capace di descrizioni paesaggistiche che ci fanno figurare bene in mente cosa possa essere la Britannia del tempo (e che forse risulta ancora più vivida essendo appena tornato da una Scozia che la ricorda da vicino). Ma continua ad essere una scrittura per me difficile e che non mi prende. Vedremo se si tornerà a leggere del “giovane” Kazuo (in fondo ha sempre un anno meno di me).
Seconda settimana ed allora godiamoci una bella lettura sulla perversione di essere troppo pronti a dare giudizi sui comportamenti altrui. Magari rimanere sempre al di qua del dubbio.
E poi continuare… ma non a viaggiare come il grande Lucio. Continuare a badare alla malata che sta, per fortuna sua, a metà del percorso. Mentre i viaggi languono, i capelli imbiancano e qualcosa latita. 
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2018
Anche questo mese sembra dedicato a qualcosa che, a volte, è forse troppo vicino, è forse troppo presente. Ma spesso, ed io con lui, anche molto lontano, quasi che giudizi non vengano mai dati.

PRONTO A DARE GIUDIZI, ESSERE TROPPO

Bernhard Schlink            “A voce alta”
Ben Rice                       “Pobby e Dingan”
Soprattutto da giovani, siamo tentati di formulare giudizi immediati e sicuri sugli altri e dirli in giro. Valutare, pronunciarsi, applicare etichette - queste cose, a una mente immatura, possono sembrare un sinonimo di forza e fiducia. Ma avere delle opinioni non autorizza a esprimere verdetti - soprattutto se si misura una cosa o una persona sulla base di una sola qualità o di un solo attributo. Una persona troppo pronta a giudicare insisterà, per esempio, sul fatto che tutti i criminali sono persone orribili, che tutte le persone schizzinose a tavola non sono brave a letto, che tutti gli adolescenti sono ingenui e, anche loro, troppo sentenziosi (e su quest’ultimo punto hanno ragione).
Per stroncare la vostra tendenza a esprimere giudizi, vi raccomandiamo “A voce alta” di Bernard Schlink, un complesso racconto di senso di colpa collegato al nazismo, vergogna privata e orrore retrospettivo, un romanzo che affronta il problema di come le generazioni del dopoguerra dovrebbero rapportarsi all’Olocausto e a chi è stato coinvolto nelle sue atrocità. Michael Berg ha appena quindici anni quando inizia una relazione con una bigliettaia di tram di trentasei anni, Hana. I loro appuntamenti, durante i quali spesso fanno il bagno insieme - un riferimento al bisogno di Lady Macbeth di lavare via i peccati del passato - spesso coinvolgono dei libri, perché ad Hana piace che Michael glieli legga (l’Odissea in greco, Guerra e pace), e noi approviamo con tutto il cuore. Solo qualche anno dopo, quando Michael assisterà come studente di legge a un processo per crimini di guerra, la riconoscerà in uno dei volti sul banco degli accusati. Il suo primo amore, una volta, era una guardiana delle SS, complice della morte di centinaia di donne. E ha anche un altro segreto, del quale si vergogna ancora di più.
Michael passa la vita a cercare di venire a patti con quello che ha fatto Hana - e con quello che ha fatto a lui. Mentre lei prova rimorso, e si lascia perfino accollare maggiori responsabilità di quante ne abbia avuto in effetti, la decisione di Michael di non rispondere alle sue lettere dal carcere la fa soffrire. Schlink, in questo modo, getta il lettore nella mischia delle implicazioni etiche. Vi lascerete commuovere dal dolore di Hana o continuerete a condannarla per il suo crimine? È questo il vostro dilemma. Ci auguriamo che questo romanzo vi faccia capire come avere delle opinioni forti non comporti necessariamente il dovere di formulare un giudizio.
Se non avete stomaco per un simile dilemma etico, avete a disposizione una cura più blanda. Se esiste un romanzo - breve, in questo caso - in grado di convincervi a spegnere il fuoco dei vostri responsi, questo è senz’altro Pobby e Dingan, l’esordio narrativo di Ben Rice. Kellyanne, sorella minore di Ashmol, il narratore, ha due amici immaginari, Pobby e Dingan. Come ci si aspetterebbe da ogni fratello maggiore che si rispetti - soprattutto se cresciuto nella dura comunità di minatori di opale di Lightning Ridge, Australia - Ashmol non ha tempo per certe bambinate. Che fareste voi, quando sono anni che vi chiedono di apparecchiare anche per Pobby e Dingan, e vi dicono che non potete andare in piscina perché, con Pobby e Dingan seduti dietro, non c’è spazio anche per voi?
Alla fine del romanzo vi risponderete che sì, il tempo lo trovereste. Perché quando Kellyanne annuncia che Pobby e Dingan sono morti, e soffre tanto da finire in ospedale, Ashmol fa una cosa meravigliosa: va in giro per la città a mettere avvisi con cui offre una ricompensa a chi riuscirà a trovare gli amici della sorella («Descrizione: immaginari. Tranquilli»). Da quel momento, anche voi sarete tra quelli che credono alle fantasie della bambina non tra quelli che fingono di piangere e ridacchiano.
Siate persone aperte. In tutti c’è un po’ di bontà, di cattiveria, di follia e di tristezza, e non dovete perdonare ogni difetto o credere a ogni cosa per essere a vostro agio con una persona. Vale anche per voi stessi. Se per esempio, quando cercate di imparare qualcosa di nuovo, avete la tendenza a ritenervi senza speranza, cominciate da lì ad abituarvi a non esprimere giudizi.

Bugiardino

Devo dire che, dopo aver visto il film, la lettura del libro conferma la bellezza delle idee alla base della scrittura del premio Nobel, ma anche la mia difficoltà a leggerne.
Bernhard Schlink “A voce alta” Garzanti euro 9,90
[tramato il 29 giugno 2014]
Ultimamente, nella mia fornita biblioteca, stanno entrando alcuni libri da cui sono stati tratti film (+ o -) famosi. Ho sempre pensato che queste due forme espressive siano disgiunte, e da giudicare nella loro specificità. Ciò nonostante, quando capitano punti di intersezione è anche interessante annotare come, queste due espressioni, muovano diverse sensazioni, a fronte di una materia omologa. Tutto questo panegirico per introdurre il bel libro di Schlink, e ricordarne l’interessante film che ne fu tratto nel 2008, dal titolo “The reader” con Ralph Fiennes e Kate Winslet. E se nel film esce fuori prepotentemente la figura di Winslet – Hanna, tanto che prenderà l’Oscar, il libro tutto in diversa soggettiva, ne fa si uscire la problematica, ma anche i problemi generali dei tedeschi verso l’Olocausto. Comunque cominciamo con la solita tirata d’orecchi agli editor italiani che l’hanno ribattezzato “A voce alta”, dopo che in tutto il mondo il libro è intitolato come nell’originale tedesco, “Il lettore”. Perché si legge a voce alta? Ma non è la voce, il punto. È proprio l’azione di leggere. Venendo al libro, ha una sua struttura tripartita molto ben scandita. La prima parte è l’innamoramento e poi la storia d’amore tra Michael e Hanna. Lui sedici anni, lei qualche cosa in più di trenta. Lui va scuola, si sente male, lei lo aiuta. Comincia così prima una frequentazione. Poi sempre qualcosa in più. Fino ad una bella storia d’amore. Certo, è soprattutto Michael che è preso da Hanna. Ma è ben descritto il loro prendersi e litigare (meglio che nel film). Il tempo passa, Michael cresce, ed Hanna ad un certo punto sparisce. Prima però, c’è tutto il tempo che il nostro ragazzo passerà a leggere libri ad alta voce alla sua bella. Stacco sulla seconda parte. Il ragazzo cresce, fa legge all’Università. E per un seminario partecipa da uditore ad un processo. Che coinvolge Hanna ed altre donne accusate di essere aguzzine di un lager durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui esce fuori la capacità giuridica dell’autore, anche lui avvocato, che ci fa partecipi del processo. Ma tutto dalla prospettiva di Michael che si interroga: perché Hanna fece quello che fece nel lager? Perché non si difende dalle accuse, molto labili, che le vengono mosse? Durante un insight sulla sua vicenda, il nostro capisce: Hanna non sa leggere. E questa “vergogna” è più forte della volontà di essere assolta. Michael, pur nolente, capisce e rispetta questa espiazione. Ed Hanna viene condannata all’ergastolo. Nella terza parte, vediamo il nostro cresciuto, poi sposato, divorziato, sempre problematico con le donne. Al fine l’unico legame che gli resta è proprio con Hanna. E comincia ad inviarle cassette con le sue letture. Fino alla grazia che dopo 18 anni riceve l’ergastolana. Michael finalmente la va a trovare. Scambi di sguardi. Possibilità di amicizia in tarda età. Ma Hanna rimane legata alla sua storia, e prima di uscire dalla prigione, si impicca. Prima di lasciarci Michael esaudisce l’ultimo desiderio della sua vecchia amante, devolvendo i denari di lei per un’associazione che si occupa di analfabeti. La seconda parte della storia, devo dire che è meglio resa nel film, dove lo scandire delle immagini, e delle letture di Michael, viene meglio in video che in scrittura. Quindi dire che tra libro e film c’è un sostanziale pareggio. Quello che esce più forte nel libro è forse la domanda (o le domande) sull’Olocausto. Quanti cittadini “normali” hanno fatto cose “anormali” in quegli anni? Esce forte quella banalità del male di cui parlava la Arendt nel suo bellissimo libro sul processo ad Eichmann (ma perché viene citato il poeta Auden dal nostro scrittore? C’è forse qualche poesia che mi sfugge?). E ci tormenta fino in fondo la domanda su quanto la vergogna di non saper leggere sia prevalente sul bisogno di espiazione di Hanna. Dov’è nasce il confine tra i due? Merito di Schlink di porre queste domande, e di porle dall’interno della Germania. Un ottimo libro, che narrando altro ci pone queste domande e ci riporta sempre lì, al conflitto tra obbedienza e follia. Consiglio a tutti la lettura (anche e soprattutto chi non ha visto il film).
“Quand’ero ragazzo, io mi sentivo sempre o troppo sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace, insignificante e indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto dovesse riuscirmi. Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi difficoltà. Ma il minimo insuccesso bastava per convincermi della mia indegnità.” (57)
“Siccome la verità di ciò che si dice, è ciò che si fa, si può anche fare a meno di dire.” (143)

Conclusioni

Entrando nel merito, il lettore è sicuramente un libro (ed un film) che pone mille domande. Forse non sui giudizi precoci, ma sicuramente sulle implicazioni etiche delle cattiverie, dell’espiazione e del dolore.

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